Anzitutto, ti ringrazio molto per i fruttuosi spunti di riflessione che mi hai offerto.
Introdurre una cosa nella coscienza, evidentemente, significa lasciare che questa presieda alla coscienza, che sia la coscienza irriflessa stessa e la coinvolga senza misteri nella sua medesimezza: quando ho letto «introdurre tale opacità nella coscienza», infatti, sono maledettamente rimasto invischiato in un dilemma epistemologico prima che ontologico; guardavo ancora la coscienza farsi altra dalla cosa. Ma se la cosa è introdotta nel limbo dell'irriflesso senza esserne una tonalità particolare -perché la coscienza sfugge intimamente al proprio in-sé; allora la coscienza non è più la sua assunzione d'essere -qual è-, ma è precisamente quell'essere che non si è determinata ad essere da sé e che ha passivamente ricevuto -senza poterne prendere le distanze, perché lo è. La passività diviene cifra dell'esistenza per-sé, e tutto cade nel nulla: è la rivincita dell'in-sé sul per-sé; la coscienza è invasata dalle cose, semplicemente muore; «si oscura». Il per-sé ridotto alla propria compressione d'essere non esiste più essendo ciò che non è e non essendo ciò che è -ciò che si chiama l'e-vasione della coscienza da sé-, ma "infinitamente" si contrae, si raddensa per cogliersi come ciò che è ciò che è, dove richiamante e richiamato non si sfuggono più ma si affondano l'uno dentro l'altro; un essere massiccio. Del resto, se la compressione d'essere -espressione antropomorfa dell'inseità- cessasse la propria impossibile cessazione, l'in-sé sarebbe una compressione d'essere finita: vale a dire che la fagocitazione infinita del richiamato da parte del richiamante lascerebbe un germe di nulla in-sé, il richiamato che non è stato fagocitato perché il richiamante potesse costituirsi in quanto altro dal richiamato, ci sarebbe un ritiro al di là di un nulla; tutte le infinite fagocitazioni precedenti si assottiglierebbero in trasparenza, perché il richiamante non sarebbe più sé, avrebbe preso le distanze da sé, si sarebbe fatto rapporto con sé nell'atto di rifiuto del richiamato; il che è inconcepibile presso l'in-sé. Perché, se una compressione d'essere finita esiste, e quindi esiste una compressione d'essere invalidata nel proprio essere, ebbene, tal è la coscienza. Ecco spiegato l'«inventario»: semplicemente l'in-sé ci appare nella sua densità infinita, e così anche l'«infinito».
A proposito dell'«infinità», soltanto non comprendo perché parli di ragioni quantitative.
«(oltre che per motivi quantitavi)»
La "quantità" non è già una de-terminazione del per-sé rispetto all'in-sé? Non eccede il «nucleo istantaneo» della coscienza, di cui ci stiamo occupando? Mi dirai che per la coscienza «esistere e porsi sono una sola e medesima cosa», ma non è prima opportuno fare uno studio di questa posizione nella sua condizione non-posizionale? Dal momento che le speculazioni precedenti non concernevano che questo, la quantità, almeno ai miei occhi, dovrebbe essere tagliata fuori. Tutte le ragioni dei nostri giudizi ipotetici restano nel seno del cogito preriflessivo.
Introdurre una cosa nella coscienza, evidentemente, significa lasciare che questa presieda alla coscienza, che sia la coscienza irriflessa stessa e la coinvolga senza misteri nella sua medesimezza: quando ho letto «introdurre tale opacità nella coscienza», infatti, sono maledettamente rimasto invischiato in un dilemma epistemologico prima che ontologico; guardavo ancora la coscienza farsi altra dalla cosa. Ma se la cosa è introdotta nel limbo dell'irriflesso senza esserne una tonalità particolare -perché la coscienza sfugge intimamente al proprio in-sé; allora la coscienza non è più la sua assunzione d'essere -qual è-, ma è precisamente quell'essere che non si è determinata ad essere da sé e che ha passivamente ricevuto -senza poterne prendere le distanze, perché lo è. La passività diviene cifra dell'esistenza per-sé, e tutto cade nel nulla: è la rivincita dell'in-sé sul per-sé; la coscienza è invasata dalle cose, semplicemente muore; «si oscura». Il per-sé ridotto alla propria compressione d'essere non esiste più essendo ciò che non è e non essendo ciò che è -ciò che si chiama l'e-vasione della coscienza da sé-, ma "infinitamente" si contrae, si raddensa per cogliersi come ciò che è ciò che è, dove richiamante e richiamato non si sfuggono più ma si affondano l'uno dentro l'altro; un essere massiccio. Del resto, se la compressione d'essere -espressione antropomorfa dell'inseità- cessasse la propria impossibile cessazione, l'in-sé sarebbe una compressione d'essere finita: vale a dire che la fagocitazione infinita del richiamato da parte del richiamante lascerebbe un germe di nulla in-sé, il richiamato che non è stato fagocitato perché il richiamante potesse costituirsi in quanto altro dal richiamato, ci sarebbe un ritiro al di là di un nulla; tutte le infinite fagocitazioni precedenti si assottiglierebbero in trasparenza, perché il richiamante non sarebbe più sé, avrebbe preso le distanze da sé, si sarebbe fatto rapporto con sé nell'atto di rifiuto del richiamato; il che è inconcepibile presso l'in-sé. Perché, se una compressione d'essere finita esiste, e quindi esiste una compressione d'essere invalidata nel proprio essere, ebbene, tal è la coscienza. Ecco spiegato l'«inventario»: semplicemente l'in-sé ci appare nella sua densità infinita, e così anche l'«infinito».
A proposito dell'«infinità», soltanto non comprendo perché parli di ragioni quantitative.
«(oltre che per motivi quantitavi)»
La "quantità" non è già una de-terminazione del per-sé rispetto all'in-sé? Non eccede il «nucleo istantaneo» della coscienza, di cui ci stiamo occupando? Mi dirai che per la coscienza «esistere e porsi sono una sola e medesima cosa», ma non è prima opportuno fare uno studio di questa posizione nella sua condizione non-posizionale? Dal momento che le speculazioni precedenti non concernevano che questo, la quantità, almeno ai miei occhi, dovrebbe essere tagliata fuori. Tutte le ragioni dei nostri giudizi ipotetici restano nel seno del cogito preriflessivo.