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Messaggi - Koba

#1
Racconti Inediti / Vita nova
18 Maggio 2025, 17:18:29 PM
Siamo prigionieri. Cambiano le forme, resta la condanna all'ergastolo.
È davvero impossibile fuggire dalla vita? Si chiedeva la studentessa giapponese di Dazai-san. Sì, è impossibile.
Ma allora, cosa stiamo facendo? Qual è lo scopo di tutta questa sofferenza? Di tutta questa impotenza?
Ci deve essere una via, un sentiero che forse non abbiamo ancora intrapreso. Che è sempre stato lì, davanti ai nostri occhi, e proprio per questo invisibile.
È l'alba, poche ore ancora e sarò al lavoro. Poi la solita giornata convulsa. Chissà se anche oggi accadrà qualcosa che mi farà dire: sì, le persone sono creature incomprensibili! E sono violente!
Se il destino della razza umana è la prigione di ferro, che cosa possiamo fare?
La prima cosa è tenere ferma questa verità: i custodi di questo carcere, anche se sembrano gentili, vogliono solo piegarci, al punto che nemmeno in sogno sia ammessa l'idea di un'altra vita. Non sanno veramente di essere delle guardie, e proprio per questo il loro operato è straordinariamente efficace. Non sono demoni, sono solo persone comuni, mediamente ambiziose, convinte che questo mondo sia l'unico possibile. E che in quanto tale vada conservato, perseguito, ulteriormente espanso, nei secoli dei secoli.
E tenendo ferma questa piccola verità siamo costretti a concludere, con amarezza, che non ci può essere alcuna riconciliazione, per quanto ciascuno di noi la desideri. Le persone che ti circondano svolgono, quasi sempre, il ruolo di custodi. Non puoi essere sincero con loro. E non puoi nemmeno scontrarti apertamente perché non capirebbero il senso della tua opposizione. Per loro infatti non esiste altra realtà. Sono convinti che al di là della recinzione della prigione ci sia solo il vuoto. Amano le loro celle. Amano i loro piaceri, che sono incoraggiati a consumare dai discorsi che, di continuo, ci attraversano.
Non ci si può salvare restando nel loro labirinto.
Quindi, prima fase: abbandono di una vita.
Uscire di casa, un giorno, d'istinto, quasi senza niente. Uno zaino con i documenti e poco altro.
Andarsene da qui. Ma verso dove? Non si può fare come da bambini quando ci si affidava all'antica saggezza delle rocce: si lasciava che la direzione del proprio cammino fosse determinata dai sassi. Indicazioni segrete che la nostra immaginazione non ancora corrotta sapeva cogliere nelle loro forme apparentemente indistinte. Il nostro intuito è ormai sordo ai messaggi che ci vengono dal regno minerale. E le cose non vanno meglio con le piante e i funghi: non possono più aiutarci, seppure sembrino protendersi verso di noi, come a volerci confortare, attirati dalle nostre pene.
Siamo soli. Sono solo.
Decido allora di seguire le tracce di qualcuno venuto prima di me, che è stato ferito dalla vita, dalla carne, e che ha scelto di essere un pellegrino.
Ora mi trovo in una grande città, costruita ai piedi della catena montuosa che taglia in due la nazione. Da qui, lungo una linea che collega santuari, monasteri, e minuscole chiesette, posso arrivare fino al mare. Come se il mare fosse la meta... L'acqua? La sabbia? Non lo so, ma è pur sempre un indizio.
Esco di casa e in pochi minuti sono all'interno della Cattedrale, nella speranza di riconoscere, tra le statue di santi e martiri, la raffigurazione del mistico vagabondo che sto cercando. Non so chi sia ma sono sicuro che da secoli sia in attesa che io lo riconosca e che lo accolga, così che possa rivivere, attraverso il mio spirito, la folle avventura della ricerca di un Dio.
Prendo posto in uno degli ultimi banchi e mi guardo attorno.
La mia attenzione però è attirata da una ragazza. L'ho già vista. Anche lei è qua nella cattedrale per delle ragioni sue, segrete. I riti non la riguardano. La preghiera è un modo fin troppo semplice di concedersi una tregua. No, lei ha il rigore di chi si è lasciata tutto alle spalle e vede davanti a sé solo una solitudine sterminata.
Di giorno la si vede girare con dei sacchetti pieni di cianfrusaglie. Sono i suoi pochi averi? Non ha una casa?
Immagino all'improvviso che sarebbe stupendo morire insieme. Percorrere i mille chilometri di sentieri che ci separano dal mare per poi, finalmente, lasciarci trascinare dalle onde.
Che cosa ci racconteremmo durante il viaggio? Di cosa parleremmo?
#2
Racconti Inediti / Il testamento
04 Maggio 2025, 11:35:01 AM
La notizia della morte di mio zio, un ex gesuita, mi fu comunicata ai primi di marzo dall'avvocato che aveva ricevuto l'incarico di consegnarmi il suo lascito testamentario. Nessuno dei miei familiari si era preso la briga di avvertirmi della sua fine. La cosa non mi sorprese: tutti in realtà si vergognavano di lui. All'inizio, da giovane missionario, vanto della famiglia, poi, in seguito, a causa della scomunica, l'innominabile.
Il giorno dopo mi recai nello studio dell'avvocato che, stranamente, aveva sede in uno dei quartieri più periferici della città, quasi a ridosso delle autostrade.
Sulla sua scrivania c'era una piccola cassa di legno scuro. Mi fece firmare alcune carte e me la consegnò. Mi disse che era sigillata e che per aprirla sarebbe stato necessario forzarla.
A casa, dopo alcuni tentativi con un cacciavite, riuscii a sollevare la parte superiore. Iniziai a esaminarne il contenuto.
C'erano delle fotografie. Alcune facevano parte della stessa sequenza che ritraeva gli scontri etnici del '94, ai tempi della sua missione in Africa: un uomo armato di machete che ne rincorre un altro. Poi, nell'istantanea successiva, lo colpisce, oppure l'inseguito scivola, non si capisce bene. Infine nell'ultima foto si vede l'arma conficcata  nella testa della vittima, ancora impugnata dall'assassino.
Nella prima inquadratura si nota una cosa, che è forse la ragione per cui lo zio le ha conservate: i due uomini sono molto simili. Età, altezza, corporatura, anche i vestiti sono quasi identici. Indistinguibili, eppure appartenenti ad una differente etnia – cosa che ha segnato il loro assurdo incontro.
Altre foto: il reparto pediatrico di un ospedale fatiscente; dei cacciatori sorridenti con i piedi sul cadavere del loro trofeo: un vecchio leone; una ragazzina che in strada tiene per mano un uomo sulla cinquantina e sembra accompagnarlo all'interno di un motel.
Sotto le foto c'era un taccuino nero. Lo aprii. Era il suo diario. La prima pagina era datata settembre dell'anno precedente. L'ultima, due giorni prima della sua morte.
Ecco il contenuto dell'ultimo brano:

"... il Dio dell'amore esiste, ed è per questo che possiamo scrivere di Lui – e in realtà, per un paio di millenni, non abbiamo fatto altro: mettendo insieme tutto ecco una biblioteca vastissima, come una grande metropoli, un immenso labirinto, che parla solo di Lui – ma sarebbe tempo sprecato invocarlo, perché non è il nostro Dio, non è il Dio della nostra specie, non può sentire le nostre preghiere.
Queste le conclusioni a cui sono arrivato: indubitabilmente esiste, il nostro intuito non si sbaglia. Ma non può ascoltarci. Forse è in attesa delle sue creature, che verranno tra qualche milione di anni. O forse si sono già estinte in epoche remote, chissà, magari proprio per mano di homo sapiens, e Lui è rimasto a ricordo di una possibilità che la natura ha già consumato. Insieme agli infiniti orribili tentativi evolutivi, forse c'è stata anche quella di un animale angelico.
Il nostro vero Dio invece è il Dio della morte. Non il Diavolo, né l'Anticristo. Nessuna divinità malvagia, oscura. Ma un Dio capace di accogliere il desiderio inconscio della nostra specie: il desiderio della fine. Niente più orrori. Niente più supplizi. Solo la pace del nulla, l'abbandono, il sollievo di vedere le civiltà umane – edificate tutte, senza eccezioni, sul dolore delle vittime – finalmente scomparire per sempre. Senza lasciare traccia.
Le accuse di satanismo che mi sono state rivolte dai miei nemici di Roma sono ridicole, del tutto infondate.
Ho solo deciso di aprire gli occhi. A quel punto non potevo continuare a trattenere la nostalgia per un Dio che non ci appartiene.
Ho iniziato allora a pregare il nostro vero Dio. Tutto è diventato più chiaro, più sensato. Il nostro compito, di sacerdoti, non è quello di illudere i fedeli su un'improbabile vita eterna, ma quello di accompagnarli verso la propria morte mostrando loro che non c'è nulla di cui temere, che ci attende finalmente la pace. La vera pace!
Proprio oggi, ancora una volta, ho ripensato a quel mio vecchio compagno di studi della Gregoriana. Lui, argentino, poco prima di entrare nell'Ordine, all'ultimo anno di liceo, come tanti ragazzi pensava fosse suo dovere opporsi, in qualche modo, alla dittatura militare. Aveva così partecipato all'occupazione della propria scuola. Lì, la sera tenevano delle riunioni, discutevano. Niente di particolarmente sovversivo. Fino al giorno in cui fece irruzione l'esercito, che arrestò tutti. Proprio quella sera lui arrivò in ritardo: la sua salvezza. Di quei ragazzi, dei suoi amici, non si è saputo più nulla per trent'anni. Poi, alla fine, la verità è venuta fuori: erano stati portati in una base militare, caricati su un aereo e poi gettati nell'oceano in volo da cinque mila metri di altezza.
Questa è l'immagine che ha dominato la sua vita.
Nella storia, miliardi di individui dominati da immagini simili, di puro orrore.
Che Dio, il nostro vero Dio, ci liberi da questo flagello, strappandoci via, compassionevolmente, dalla vita!"

Oltre al taccuino e alle fotografie c'era un orologio, un coltellino e due piccole statuine in legno: forse rappresentavano delle divinità della foresta che lo zio, ormai impazzito, credeva fossero manifestazioni storiche di quello che lui diceva essere il vero Dio degli uomini.
Rimisi tutto nella cassa, andai in giardino, scavai una buca e la sotterrai.


[Con questo breve racconto si chiude la mia partecipazione al forum: buona fortuna a tutti]
#3
Racconti Inediti / Il sabotatore
25 Aprile 2025, 15:39:17 PM
Una sera di febbraio il giovane Kobayashi, impiegato presso una delle maggiori agenzie di pompe funebri della città, viene avvicinato in un bar da uno sconosciuto. Questi, fingendo di volerlo abbordare per ragioni sessuali non chiare, gli posa davanti un dossier con le istruzioni per la sua missione: il progetto Vita Nova è cominciato, l'Organizzazione ha dato il via alle operazioni.
Kobayashi trasecola, pensa che il tizio sia pazzo.
"Ricordati l'addestramento", gli dice il tizio, che si presenta come agente Gregory.
"Quale addestramento?"
"Beh, forse non sapevi che si trattava di addestramento. A volte lo fanno: preparano un agente senza che lui se ne accorga. In questo caso la copertura è perfetta, il problema è però farlo passare da dormiente ad agente operativo. Alcuni infatti quando vengono svegliati si rifiutano di credere alla verità, e cioè che tutta la propria vita sia stata solo una gigantesca e perfetta copertura."
"Ma quale copertura! Quale addestramento!"
"Quale addestramento? Pensaci bene: qualche anno fa, per esempio, non hai forse seguito un corso di jujitsu?"
"Sì, e allora? Volevo imparare a difendermi."
"Siamo stati noi a spingerti a farlo. Attraverso stimolazioni segrete e ambigue ti abbiamo guidato fino a quella palestra. Bada bene, non a un corso qualunque, ma uno di quelli tenuti da uno dei nostri."
"Maestro Chang è uno dei vostri?"
"Naturalmente."

Tutte le scelte significative che Kobayashi ha fatto nella sua vita, se attentamente analizzate, ne rivelano l'origine occulta: la mano dell'Organizzazione.
Ora, superato lo shock grazie ad un numero imprecisato di drink, Kobayashi apre il dossier: la sua missione consisterà nel minuzioso sabotaggio di ogni aspetto della vita lavorativa e sociale.
Il sabotatore perfetto è colui che apparentemente accetta di buon grado le forme servili e deprimenti della realtà, con il sorriso e i modi cordiali del bravo cittadino, ma nello stesso tempo è inflessibile fino al sacrificio estremo nella distruzione di quei processi che, per quanto apparentemente irrilevanti, risultano invece disumani e distruttivi per la salute mentale delle persone, in quanto ideati da individui senza anima che, bisogna riconoscerlo, per ragioni misteriose di ordine metafisico o demoniaco si sono trovati spesso a tessere i fili della storia universale.
Sono loro, autentici costruttori di mondi infernali, i veri nemici di tutto ciò che è umano. I mondi della schiavitù antica e moderna, i mondi dell'asservimento nel lavoro, i mondi degli eserciti, dell'addestramento all'omicidio di massa. Demiurghi corrotti che hanno plasmato la materia viva per creare luoghi di supplizio, dove la demenza ha la meglio sulla ragione, la morte sulla vita.
Lo scopo dell'opera del sabotatore è puramente artistico e spirituale e, nelle migliori delle ipotesi, manifesta un carattere di tipo epidemico: dare forma ad una rivelazione che contagi più persone possibili. Ma di per sé, già il solo fatto della bellezza del gesto, è sufficiente.
A seguire, le istruzioni operative. Così si chiude il dossier.

Kobayashi rimane quindi in attesa. Continua a fare le stesse cose, così come negli ultimi cinque anni: si alza al mattino, si prepara, va al lavoro. In agenzia accoglie i clienti che vogliono sistemare per tempo il proprio corpo dopo la morte, mostra loro le opzioni a disposizione: dalla cremazione alla mummificazione fino alla putrefazione secca garantita da bare tecnologiche che mantengono l'interno asciutto e ventilato, impedendo che i batteri facciano scempio del cadavere.
Poi, dopo il lavoro, si ferma al solito bar per bere qualcosa. Quindi torna a casa, cucina, e se non è particolarmente ubriaco, riprende la lettura della "Trilogia di Von Gunten", il fantasy che Robert Walser non avrebbe mai scritto, non fosse stato per l'insistenza del suo stesso protagonista, convinto che formazione (volume 1) e apprendistato (volume 2) non bastassero: serviva un'opera definitiva, di taglio fantascientifico, espressione del suo carattere ingegnoso e utopistico. Walser non fece in tempo a tradurre il sogno del giovane Jacob. Per questo, allo scadere del copyright, nel 2027, un oscuro scrittore si è fatto carico di questo delirio, con risultati controversi: per alcuni critici uno scempio, per altri un esempio brillante dell'applicazione della teoria jazz alla letteratura.

Finalmente, un giorno, ecco le istruzioni: sostituire le copie del best seller del momento, "Le lacrime e i canti", con copie alterate, opportunamente sovversive. La vicenda sentimentale dell'originale trasformata, nelle ultime trenta pagine, in un crescendo di ribellione, violenza e distruzione.
Almeno, così Kobayashi interpreta una conversazione avuta nello stesso locale in cui qualche sera prima ha incontrato l'agente Gregory. Altrimenti per quale ragione questa sconosciuta, che non può che essere Gregory stesso, camuffato da giovane donna in tailleur, sta deridendo apertamente quel romanzo, rivolgendosi a lui come se si conoscessero e lasciando una copia del libro sul bancone prima di scomparire?
È chiaro ciò che l'Organizzazione gli sta chiedendo e Kobayashi, ora al quarto gin tonic, ne apprezza il rigore: destabilizzare la mente di studentesse romantiche e pendolari assonnati in un crescendo inquieto di caos, come se il rifiuto del mondo si fosse per due terzi del racconto mimetizzato e solo nella parte finale, ormai conquistata la fiducia del lettore, si mostrasse apertamente.
Ordina un bicchiere di whisky con dell'acqua ghiacciata a parte, per festeggiare l'epifania appena avvenuta, beve tutto d'un fiato, e corre a casa.
Il piano prevede l'acquisto di almeno 30 copie del romanzo, la modifica di ciascuna copia con il blocco di pagine riscritte, e la sostituzione di quelle originali negli scaffali della libreria della città con queste.
Kobayashi si rende conto che la pericolosità dell'operazione non sta tanto nel dover forzare nottetempo l'ingresso della libreria, quanto nella modifica del testo del romanzo. Come ogni iniziato dell'Organizzazione sa per istinto che il vero pericolo è la scrittura: non c'è modo infatti di sapere, penna alla mano, cosa salterà fuori. Nessuno ha il controllo di questa faccenda. Cosa accadrebbe se anziché spingere il lettore a sovvertire l'ordine costituito, il suo finale risultasse in realtà ancora più sdolcinato di quello originale, rivelando così il proprio vero carattere: quello di un servo che ha fede solo nei buoni propositi?
"No, ma che dico... Ma quale finale sdolcinato! Al diavolo! Io la faccio saltare in aria questa città!" dice, prima di crollare addormentato sul divano, stringendo tra le mani una bottiglia di birra mezza vuota.

La domenica mattina successiva, libero dall'attività dell'agenzia, inizia a lavorare al sabotaggio artistico. Prima cosa, immedesimarsi nel romanzo, obiettivo dell'operazione. Prende in mano una delle trenta copie che nel frattempo gli sono state recapitate, e inizia a leggere. Dopo tre pagine, un po' per il contenuto melenso, un po' disturbato dal tremore delle dita della sua mano sinistra – probabile effetto dell'alcolismo o primo sintomo della malattia di Parkinson – non riesce a trattenersi e il libro finisce fuori dalla finestra, nel giardino del palazzo, dopo un volo di due piani. Ma non può arrendersi così! Si dice: coraggio Kobayashi! Beve altro caffè, grida "Gyokusai!" – "Sono pronto a essere disintegrato piuttosto che arrendermi!",– quasi fosse un soldato giapponese nella guerra del Pacifico, prende un'altra copia, si concentra e ricomincia a leggere. Questa volta riesce ad arrivare a pagina undici e si compiace con se stesso per la professionalità mostrata mentre osserva quella copia librarsi per la stanza prima di scomparire giù dalla finestra.
Sette copie dopo Kobayashi sente di aver catturato lo spirito del romanzo. Lo ha letto quasi tutto, e certo, si dice, non possono esserci dubbi: si tratta di una storia. Ci sono degli umani. E pare abbiano sentimenti, a cui danno una smisurata importanza. Per semplicità li chiama così: sentimenti. Ma di tali grovigli emotivi lui non ne sa molto. Osservando gli altri ha imparato a imitarne gli effetti. Quel gioco di adulazione e malignità, tipico delle persone adulte. Ma non è mai riuscito a capire fino in fondo perché preferire quel tipo di interazione al pacifico consumo di alcol in perfetta solitudine.
"Ma questa estraneità è la tua arma!" proclama una voce, all'improvviso, nel suo sconfinato paesaggio interiore, in cui non c'è solo la sabbia del deserto, per quanto ne dicano i suoi nemici.
Ora viene la parte difficile: scrivere. Lo farà mettendosi nei panni della protagonista del romanzo, una giovane donna. Sta pensando al suo finale alternativo: l'eroina, anziché continuare nella ricerca della sua verità tra famiglia e relazioni amorose, inizia a provare autentica ripugnanza, via via più feroce, per fidanzato, genitori, fratello maggiore - il quale, fingendosi in giovane età poeta maledetto, l'aveva spinta per imitazione a rifiutare con sdegno ogni compromesso, condannandosi così alla povertà, mentre lui, dismesso i panni del sovversivo, si costruiva intanto una carriera da manager in una banca svizzera.
Negazione, disgusto, orrore. Liberarsi di loro una volta per tutte. Delle loro voci. Comprare un'ascia. Questo è ciò che riesce a scrivere, sopravvalutando forse il potere della sintesi nella narrativa contemporanea, quando si ricorda di avere proprio per quel giorno un appuntamento con il suo psichiatra, il dottor Benway.
"Chissà se anche Benway fa parte dell'Organizzazione", si chiede assorto.
All'improvviso la porta del suo appartamento viene sfondata. Le forze dell'ordine fanno irruzione nella stanza, lo bloccano lì dove si trova, alla scrivania, con in bocca una delle copie del romanzo che in quel momento, soprappensiero, tiene tra i denti, essendosi lasciato andare all'impulso segreto di mangiare il libro, e lo dichiarano in arresto mentre lo trascinano via.
#4
Citazione di: Jacopus il 16 Marzo 2025, 21:43:51 PM"Resilienza" è in effetti un termine abusato, che ha perso gran parte del suo peso ermeneutico (scusate il parolone) perchè è stato inflazionato. Non si trova nei testi didattici con molta o nessuna frequenza perchè è collegato agli studi sul trauma, che hanno avuto un grande sviluppo negli ultimi 20 anni (Cyrulnik è uno degli autori più citati in questo ambito). Oltre ad essere un termine abusato può essere anche un termine manipolatorio, come dire che se si è "resilienti" si può affrontare qualsiasi avversità e se non sei resiliente è "colpa tua", (un pò come essere povero, ma a livello mentale). Rispetto alle dichiarazioni di Koba non capisco perchè l'assenza dai testi universitari sia concepita come prova a disfavore, mentre la citazione di altri testi (quelli citati da Phil) dove si parla di "resilienza" non sia concepita come prova a favore, proponendo un generico appello alla libertà e alla libera esposizione delle proprie idee. Per carità si può fare anche questo, ed effettivamente può essere un bell'esercizio di libertà, ma, mutatis mutandis, siamo sempre nani sulle spalle di giganti, e di questi tempi dove sono di più i nani che si atteggiano a giganti, preferisco chi fa qualche riferimento a studiosi che hanno maneggiato la materia per decenni, a chi pensa di essere libero di raccontare baggianate.
In secondo luogo però, penso che se a livello epigenetico possiamo ereditare particolari predisposizioni a manifestare ansia, paura, o impulsività, allo stesso modo credo che sia possibile ereditare anche una più raffinata capacità di resistere alle avversità della vita. Anche se il miglior antidoto alle avversità è quella che Winnicott definiva la "pentola d'oro" delle cure genitoriali. Gran parte della nostra resilienza nasce da lì. Chi ha avuto la fortuna di avere genitori amorevoli e comprensivi, presenti e protettivi, avrà sempre una riserva di senso da adoperare nei momenti difficili della vita. Mi scuso anticipatamente con Koba per aver citato Winnicott, invece di far parlare liberamente il mio cervello.
Chiedi scusa per l'uso dell'espressione "peso ermeneutico"?
Ma guarda che non stai mica parlando con tua suocera, stai scrivendo in un forum filosofico, quindi che cosa ci sarebbe di strano nell'usare un termine del genere?
Poi dici di non comprendere perché l'assenza del termine "resilienza" nei testi universitari sarebbe a sfavore del suo concetto etc. Credevo fosse chiaro:
la presenza irrilevante del concetto nella tradizione scientifica della psicologia indica in modo sintomatico che il maggiore uso che se ne sta facendo negli ultimi anni può avere ragioni che non sono solo di natura epistemologica bensì anche ideologica.
Questa la mia tesi, semplicissima come si vede, la cui obiezione più intelligente è stata propormi una lista di pubblicazioni specialistiche – il che finisce in realtà per rafforzare la mia tesi.

Concludi poi con una battutina straordinariamente ironica chiedendomi scusa perché hai citato Winnicott, invece di far parlare liberamente il tuo cervello: anziché risponderti che non mi aspettavo niente di diverso, ti invito a fare questo esperimento: leggiti qualche tuo post del 2016-2017 e poi confrontali con quelli più recenti. Noterai una notevole differenza in complessità e stile, con i tuoi primi interventi che sembrano essere stati scritti da un'altra persona tanto sono più profondi e creativi.
Te lo dico unicamente affinché tu possa prendere le contromisure del caso.

Ps: Ho avuto pochi giorni fa una conversazione molto interessante con chatGPT.
Tema: il confronto dello stile letterario tra M. Lowry, Kerouac e Ballard. Alla fine ci siamo trovati d'accordo sui grandi limiti di stile di Kerouac e sulla superiorità di Lowry.
Domanda: se i livelli della AI sono ormai così sofisticati perché si dovrebbe preferire ad essa conversare con esseri umani su un forum digitale?
Infatti ormai una AI come chatGPT è perfettamente in grado di dirmi quello che mi ha detto Phil sulla resilienza. Avrebbe anche lei preso alla lettera la mia esagerazione sull'idiozia del concetto di resilienza e mi avrebbe corretto e poi mi avrebbe fatto una lista dei testi di psicologia che trattano del tema.
Quindi? Che cosa cerchiamo qua? Che cosa pretendiamo da un utente umano?
#5
Citazione di: Phil il 16 Marzo 2025, 18:07:48 PMConsiderare idiota la resilienza, in quanto categoria di una certa analisi psicologica, più che conturbante mi sembrava una svalutazione gratuita del suo valore analitico. Sicuramente la sua volgarizzazione popolare, per cui è diventata sinonimo di "resistenza", di ottimismo, etc. non va confusa con l'ambito originario di appartenenza. A mio avviso, il "passo breve" che porta qualcuno ad affermare che «le condizioni di grande stress vanno accettate perché potenzialmente stimolanti al superamento di sé» in nome della resilienza, quasi fosse consigliato e auspicabile vivere situazioni strssogene, più che un "passo breve" mi sembra un passo falso (e che nulla ha a che fare con la resilienza, pur magari strumentalizzandone il nome).
Per approfondire, la prima fonte che ho trovato al volo è questa, dove puoi leggere «Tra questi studi quello più celebre e all'interno del quale fece per la prima volta la comparsa il termine resilienza fu quello di Werner e Smith (Werner & Smith, 1992)» (p. 18) e «Nell'ambito della psicologia e più propriamente della psicopatologia, la resilienza è considerata come la capacità di evolversi anche in presenza di fattori di rischio (Luthar & Ziegler, 1991; Rutter, 1979). La resilienza viene inoltre vista come una qualità genetica che però, nell'arco della vita può manifestarsi e essere sviluppata grazie all'interiorizzazione di legami significativi. Cyrulnik (Cyrulnik, 2001) definisce la resilienza come una trama dove il filo dello sviluppo si intreccia con quello affettivo e sociale. Anaut (Anaut, 2003) sostiene che essere resilienti non significa essere individui invulnerabili, inaccessibili alle emozioni, alla sofferenza» (p. 20). Sicuramente, se vuoi approfondire oltre, troverai altre fonti che ti confermeranno come la resilienza, in psicologia, non sia qualcosa di "pericolosamente ambiguo", come invece può essere l'uso che si fa della parola corrispondente.
Ultimo intervento: la letteratura scientifica in ambito psicologico aumenta ogni anno di qualche migliaio di articoli.
È ovvio quindi che ci siano dei testi che trattano della resilienza.
Questo non toglie che sia un concetto irrilevante in psicologia.
Se non lo sai puoi facilmente documentarti magari non con autorevolissimi articoli da riviste online ma con i manuali su cui si preparano gli esami alla facoltà di psicologia.
Ma a parte questo, più in generale trovo abbastanza inutile la tua puntigliosità (penso ti chiamerò da adesso in poi chatgpPhil).
Un conto cioè è contestare la mia idea di una presenza ideologica nel concetto di resilienza, sostenendo magari che tale concetto è bellissimo e pregno di conseguenze filosofiche etc., altro invece è richiamare al rispetto dell'uso di tale concetto in qualche testo scientifico.
Tempo fa in altro topic riportavo le riflessioni del grande psicoanalista Elvio Fachinelli sui meccanismi di difesa: sintomo, secondo lui, di una visione fortificata dell'Io.
E anche lì a sentirmi richiamare al detto esplicito dell'ortodossia freudiana.
Capisci? Essere liberi, avere uno sguardo d'insieme, andare oltre all'esplicito contenuto per coglierne le forze sottostanti.
#6
Citazione di: Phil il 16 Marzo 2025, 12:07:37 PMLa resilienza, in psicologia (per questo ho precisato: «resilienza, propriamente intesa») non è banalmente la capacità di incassare i colpi della vita, di "essere tosti", non è sinonimo di «resistenza» e non ha a niente a che fare con ideologie neoliberiste e manipolazioni delle masse. La resilienza (v. qui), studiata a livello clinico (non stabilita a tavolino da "dottori della propaganda"), va di pari passo con la rielaborazione "positiva", ossia non dannosa per l'individuo, di vissuti potenzialmente nocivi.
In pratica significa, come ricorda l'articolo, che se cresco con genitori schizofrenici non divento a mia volta schizofrenico o non alimento altre turbe psichiche, ma reagisco (la resilienza è essenzialmente reazione, non capacità di subire senza "rompersi") strutturandomi in modo "sano e funzionale". Se non fossi stato sufficientemente resiliente, sarei rimasto traumatizzato o magari avrei "assorbito e riprodotto" atteggiamenti schizofrenici. Questa non mi sembra un'idiozia né una strategia neoliberista, ma una risorsa utile per affrontare crisi interiori. O preferiamo appiattire tutto a «sono in crisi, governo ladro!»?
Il concetto di resilienza in psicologia clinica è praticamente assente.
Non è utilizzato da nessuno dei classici. Nei tanti testi universitari di psicologia in cui mi sono imbattuto nel corso dei miei studi giovanile, non l'ho mai incontrato.
Ha iniziato a diffondersi a partire dalla crisi economico-finanziaria del 2007.
Questo fatto deve essere tenuto presente, se non si vuole avere un approccio ingenuo al sapere.
Al di là dell'uso magari sofisticato e specialistico che ne può fare un determinato ricercatore, il concetto è stato utilizzato soprattutto sul tema della capacità di risposta psicologica a condizioni difficili ma in relazione ad un approccio particolare che si può esprimere come "accettazione positiva della sfida".
Ora, da qui a far prevalere una visione in cui le condizioni di grande stress vanno accettate perché potenzialmente stimolanti al superamento di sé, anziché fermarsi e riflettere sull'opportunità di ripensare alle cause di questo stress, il passo è breve, ed è quello che si è ampiamente verificato negli ultimi decenni.
Se ti ha gravemente turbato il fatto che io abbia utilizzato il termine "idiota" per descrivere il concetto di "resilienza", ritiro tutto e sostituisco con l'espressione "pericolosamente ambigua".
#7
Citazione di: Phil il 15 Marzo 2025, 19:10:28 PM@koba non vedo dove sia l'idiozia della resilienza, se propriamente intesa
Con il concetto di resilienza – concetto tratto dalla scienza dei materiali – l'attenzione si sposta dalla situazione reale, che provoca sollecitazioni insopportabili, alla capacità del soggetto di essere lavorato senza spezzarsi.
Il fine ideologico è convincerci a considerare positivamente la disumanità delle sollecitazione in quanto occasione di un adattamento che nessuno avrebbe pensato possibile.
"Ah, non sono morto! E chi l'avrebbe mai detto. Ma ciò che non mi uccide mi rafforza!".
Spingere a pensare la crisi come un'occasione per mettersi alla prova. Come una sfida. Come un'occasione per diventare più forti.
Non è difficile cogliere la radice ideologica da cui prendono vita espressioni come "resilienza" o "essere imprenditori di se stessi", poi messi in circolazioni dai fedeli servitori della causa neoliberista.
#8
Due presupposti sbagliati:
1. che ci sia da qualche parte un vero Io in attesa di essere scoperto e accolto;
2. che il dolore, l'impotenza, la sofferenza andrebbero presi come stimoli per crescere.
Da qui poi non è difficile arrivare a concetti idioti come "resilienza": ma noi non siamo cozze avvinghiate agli scogli.
Non siamo nemmeno dei materiali che devono mostrare di resistere a tutte le sollecitazioni.
In pratica, si tratta di un'ideologia che favorisce l'accettazione del reale anziché la lotta per un cambiamento sociale.
Una crisi interiore è piuttosto uno scossone a forme esistenziali che non riusciamo più a sopportare e che dobbiamo sostituire con altre, senza che si possa mai distinguere la maggiore o minore autenticità (o forse no, se pensiamo a come molti si sforzano di diventare delle macchiette sociali: umorismo costruttivo, pensieri edificanti, fiducia nelle proprie forze e in quelle dei colleghi, e via dicendo).
#9
Percorsi ed Esperienze / Re: Dick Laurent è morto
14 Marzo 2025, 09:26:04 AM
Quello che in realtà si vorrebbe fare, al di là del pudore che ci impedisce di parlarne, è liberarsi da questa vita, da questo tipo di vita.
Ecco alcuni tentativi che potremmo intraprendere:
- sovvertimento complessivo di tutti i sensi attraverso un programma immenso e implacabile, secondo l'insegnamento di Rimbaud. Programma interpretato da Burroughs e amici beat certo come invito al viaggio, ma soprattutto come abuso di droghe e alcol.
Ricordarsi però che la disgregazione fisiologica del corpo, con tutto ciò che ne consegue in fatto di disturbi fisici e acciacchi, può avere come effetto collaterale proprio quello di ridestare il soggetto alla paura della morte e quindi ad un rinnovato attaccamento alla vita, esattamente l'opposto di ciò che ci si era prefissato;
- sovvertimento della propria coscienza, quindi dello spazio interiore e non dei sensi: lavorare con impegno ad una psicosi volontaria.
Che cos'è la religione per la vita del devoto se non un programma psicotico?
Ma la religione, nella sua versione tradizionale, non è più in grado di funzionare perché si arena senza via d'uscita sulla questione della verità. Vorrebbe cioè contrastare la verità scientifica della natura mostrando l'esistenza di un processo spirituale che, custodito nelle profondità della materia vivente, fin dall'inizio si sarebbe intrecciato alla storia delle creature.
Ma non essendoci prove al riguardo, finisce per capitolare. La brutalità dei fenomeni naturali ha la meglio sulle visioni edificanti della teologia. Non potrebbe essere altrimenti.
Ma questo significa soltanto che non è attraverso la forma tradizionale della religione che possiamo arrivare a sovvertire la coscienza.
Dobbiamo usare altri strumenti.
Bisognerebbe fondare una nuova disciplina scientifica specializzata nella liberazione pratica dalla percezione convenzionale della realtà.
Sappiamo che esistono studi e tecniche sul condizionamento delle persone, utilizzati dai regimi politici. Si potrebbe allora pensare di usarli per uno scopo opposto: non per trasformare gli esseri umani in entità di produzione e consumo, ma per radicalizzare il dubbio su questa realtà e lanciarsi così nel mondo della creatività esistenziale, spirituale e artistica.
Ma è solo un'idea buttata lì di getto.

Riporto un testo di J. G. Ballard tratto da La mostra delle atrocità: il suo contenuto non è direttamente legato a ciò che è stato detto sopra, ma indirettamente. Indirettamente dimostra che cosa si può fare per favorire quello stato di sovvertimento della coscienza, mostrandocelo con i suoi effetti immediati.

La maggior parte delle macchine con cui abbiamo a che fare nella vita di tutti i giorni – gli aeroplani di linea, i frigoriferi, le automobili, le macchine per scrivere – si è ritagliata un posto nei nostri affetti. M in qualche caso questo non accade, e allora ci accorgiamo chiaramente dell'ostilità del mondo minerale: come nel caso dell'elicottero, con la sua ossessività, la sua instabilità e il suo aspetto da insetto. Siamo felici, allora, che il mondo organico abbia imboccato la strada dell'evoluzione prima di quello inorganico.
[J. G. Ballard, La mostra delle atrocità, ed. Feltrinelli p.31]
#10
Percorsi ed Esperienze / Re: Osteria Abisso
05 Marzo 2025, 18:07:57 PM
- Capo, porto anche la motosega?
- Certo! Non lasciare però che la usi il Guercio, ti ricordi che razza di macello ha combinato nel bordello dei cinesi?!
- Sì cazzo, nel vero senso della parola...
- Hai caricato le mazze? I coltelli? I trinciapolli? Le spade giapponesi?
- Si dice katana, capo...
- Eh, non azzardarti...
- Perdono... A proposito, ma cosa dobbiamo fare esattamente?
- È un lavoretto che ci ha commissionato un privato.
- Un privato?
- Esatto. Una cosetta semplice. Dobbiamo fare a pezzi un'osteria.
- Gli fa concorrenza?
- No, non credo. Sembra essere più una questione personale. Una vendetta.
- Ma chi è sto tizio?
- Si fa chiamare Viator.
- Come ci muoviamo?
- Dobbiamo entrare, sfasciare tutto e malmenare un cliente. Dalle informazioni che ho avuto non possiamo sbagliare persona: di solito c'è un solo avventore. Se ne sta tutta la sera a parlare di libri con il barman e a bere prosecco. Uno di quegli alcolisti logorroici alla Charles Jackson, probabilmente.
- Charles Jackson? È della cricca degli irlandesi? Non lo conosco. Ma tornando al lavoretto: e se sono due gli avventori?
- Picchiamo tutti e due. Stiamo sul sicuro. Non è il caso di deludere questo Viator. Mi dicono abbia un pessimo carattere...
- Sarà armato?
- Il cliente? No, il rapporto dice che è un neo-illuminista. Troppo fiducioso nella ragione umana per portarsi dietro un'arma. Però il barman potrebbe avere un fucile da caccia grossa dietro il bancone. Teniamolo d'occhio.
- Va bene, allora siamo a posto? Non manca nulla?
- No. Dai, andiamo.
#11
Percorsi ed Esperienze / Re: Dick Laurent è morto
05 Marzo 2025, 11:47:09 AM
Contro la vita, contro il mondo

La vita ci ha stancati, inutile far finta di niente.
Da una parte c'è il dolore, di gran lunga più resistente e profondo di quei piaceri che di tanto in tanto riusciamo a procurarci.
Dall'altra c'è lo spettacolo insensato dei processi naturali e sociali, che osserviamo attoniti e spaventati quando qualcosa ci risveglia: materia animata o inanimata che avanza senza un perché, che si espande, si organizza, si moltiplica, per poi collassare e rimescolarsi alla melma da cui ha avuto origine.
Dall'ottusa frenesia delle molecole ai piccoli sordidi commerci umani di tutti i giorni.
La specie umana scomparirà, e il mondo sarà dominato da altre creature che forse proprio ora nelle profondità degli oceani o nelle viscere della terra stanno muovendo i primi passi della loro orribile vicenda evolutiva che durerà milioni di anni.

L'unica cosa che si può fare di questa vita, di questo genere di sostanza simile a un manufatto uscito per sbaglio dal sogno di un demiurgo incompleto, è rimanere il più possibile confinati nel sogno.
Illusioni e ancora illusioni. Mai cedere al realismo.
Resistere con dignità nella tempesta, come un Des Esseintes dei nostri giorni, e non consentire, mai e poi mai, che la realtà si prenda più di ciò che è strettamente necessario alla pura sopravvivenza.
È la saggezza di Howard Phillips Lovecraft.
#12
Gli ultimi post di anthonyi e inVerno sono al limite della disinformazione:
- il New York Times non è un quotidiano di orientamento conservatore;
- tutti i sondaggi disponibili sul gradimento di Trump danno valori leggermente inferiori al 50%, come dice giustamente Pio intorno al 48%;
- anthonyi addirittura auspica la continuazione delle operazioni militari perché non c'è fretta (?!): ma gli inviati di guerra dicono tutt'altro, entrambe le parti sono stremate, e quella ucraina sta peggio;
- in diretta mondiale abbiamo tutti assistito all'aggressione verbale di Trump e Vance a Zelensky, poi invitato ad andarsene dalla Casa Bianca, ma il presidente ucraino ne sarebbe uscito bene, dignitosamente? Ma che cosa vuol dire? Quale vantaggio avrebbe ottenuto?

Cerchiamo di mantenere separati i fatti dalle opinioni. Sono stufo di dover controllare ogni cosa che scrivete.
#13
Citazione di: anthonyi il 02 Marzo 2025, 16:51:29 PMQuando zelensky é andato negli USA ha incontrato sia Trump che la Harris, che doveva fare? Incontrare solo Trump così da apparire suo sostenitore?
Come ho già detto quello di Trump era solo un tentativo di estorsione, pretendere dall'ucraina un sacco di soldi in cambio di niente, e poi usare la mediazione per scambiare con Putin la resa dell'ucraina in cambio di vantaggi strategici nel confronto con la Cina.
Insomma l'ucraina era solo un servo da spremere ed usare per propri fini.
Il comportamento di zelensky é stato estremamente dignitoso per quella situazione infame.
Se Zelensky è andato negli Usa vuol dire che la bozza dell'accordo sulle terre rare era accettabile.
Altrimenti sarebbe rimasto a Kiev.
Poi magari a telecamere spente, nella riunione vera e propria, avrebbe comunque dichiarato che senza la garanzia della protezione Usa non avrebbe firmato niente. Nulla toglie che la sua mossa potesse essere appunto questa: strappare qualche garanzia militare per il futuro.
Sembra comunque che gli Usa non vogliamo prendersi impegni al riguardo, quindi il negoziato, se si fosse svolto veramente così, sarebbe comunque fallito.

Nel settembre 2024 a me risulta che Zelensky abbia sì incontrato Trump ma solo in forma privata, mentre con la Harris mi sembra abbiano visitato insieme una fabbrica con tanto di conversazione con la stampa etc.
#14
Al netto dell'aggressività mafiosa di Trump e Vance, non capisco però come Zelensky abbia potuto commettere l'errore di aver insistito così tanto sul tema delle garanzie di protezione militare quando sapeva benissimo, anche prima di partire per gli Usa, che quel punto, ovviamente essenziale per l'Ucraina, non sarebbe stato affrontato quel giorno. Sarebbe stato affrontato negli incontri successivi con la presenza dei paesi europei.
In questo senso va compresa l'insistenza di Trump e Vance sulla sua ingratitudine, perché se fosse stato per loro due, semplicemente avrebbero abbandonato l'Ucraina al suo destino, e amen.
Invece sono lì a mediare con Putin e a lavorare per il paese di Zelensky.
È così che loro due e tutto l'entourage di Trump sembrano percepire la situazione (al di là dell'affare delle terre rare).
Tra le altre cose Vance ha fatto pesare a Zelensky anche il suo viaggio negli Usa del settembre scorso, in cui avrebbe sì presentato a Biden il suo piano per vincere la guerra (?!), ma, ed è questo ciò che brucia ancora ai repubblicani, anche partecipato ad un incontro con la Harris in Pennsylvania (uno degli Stati che si riteneva essere in bilico) apparso come un appoggio alla campagna elettorale democratica.
#15
Citazione di: green demetr il 01 Marzo 2025, 21:32:47 PMQuesta meditazione tua ha messo in forma una delle mie troppe intuizioni, non mi appartengono nemmeno, o almeno non mi apparteneva fin quando non l'hai messa in forma tu.
La visione della melanchonia di durer naturalmente.
Sento che la mia intera esistenza (il pensiero di essa naturalmente) debba passare da quella visione.
Hai ragione la melanconia è il crollo del senso.
Contemplando la litografia sento una forza che pervade il pensatore.
Una forza che insieme lo disgusta e lo frena.
La figura umana ne esce deturpata, una maschera di sofferenza.
Come sappiamo Durer soffriva di depressione.
Ma la depressione è semplicemente un pensiero negativo.
La melanconia antica era qualcosa di diverso.
Qualcosa di strettamente legato all'universo alchemico, all'indagine dei sentimenti.
Del sentimento religioso.
Ossia a qualcosa che lo precede.
Qua torniamo dunque alla tua domanda di ripensare questa discussione.
Naturalmente mentre scrivo agisco, e questo agire è già di per se la maschera che viene messa alla melanconia.
Come se la melanconia ci precedesse, persino nel pensare.
Ricordando il malessere di questi mesi di profonda demotivazione.
Il pensiero che si pensa libero da ciò che lo precede.
E' questo che mi inchioda. In un tale malessere esistenziale che le tue accuse di pigrizia impallidiscono al confronto.
La via megalomane di S.Francesco per quanto eccezionale, per quanto vicino in fondo all'exemplum christi, rimane pur sempre una megalomania senza Dei.
In un contributo psicanalitico lacaniano si diceva che la megalomania per i greci era tutt'altro che una malattia, anzi era una suprema virtù.
Esattamente come la magnanimità lo è nel cristianesimo.
Per essere magnanimi bisogna essere megalomani.
Carmelo Bene venne condannato dalla psichiatria di megalomania.
Cermelo Bene disse di aver trovato più verita negli anni del manicomio che in qualsiasi altra età della sua esistenza.
La visione luciferina della legge, dello IUS romano, il diritto del più forte, la legge della giungla e tutte queste amenità, non possono ammettere il pensare in grande.
Ma pensare in grande non vuol dire essere arroganti, chi arroga è invece proprio la legge.
Ma se c'è qualcosa al di là delle maschere sociali, vi è appunto l'assenza del divino.
O meglio qualcosa che soffoca la ricerca del DIO.
Qualcosa che in fin dei conti cela la megalomania.
Ossia forse la domanda dovrebbe essere quando la megalomania è vera ricerca e quando è invece sintomo di qualcosa di malvagio.
Siamo dalle parti dell'alchimia allegorica, dalle parti dell'analisi dei sentimenti.
Nicce ci ha dato una grossa mano, siamo deboli, deboli che non riusciamo ad andare avanti.
E di nuovo come nei circoli infinite paranoici, siamo qui a dirci depressi.
La melanchonia ci domina.
Ci tocca domandarci, è una visione che non vuol andare via!
Mentre il mondo precipita nel fuoco del Nemico.
Spero di ridestarmi, il disprezzo che provo verso me stesso, sopratutto per tutto quello che avrei potuto e dovuto dare al futuro, sta raggiungendo dei picchi preoccupanti. E' l'ebraismo con la sua genealogia che bussa sempre più forte alla porta. Una visione lacaniana. Peccato che Lacan non ha capito assolutamente chi bussa alla parte. (il padre? ma il padre arriva MOOOOLTO dopo)
La melanconia è stata definita da una psicoanalista, Marie-Claude Lambotte, come una verità arrivata troppo presto.
Ogni melanconico avrà un ricordo dell'infanzia in cui questa verità si è presentata per la prima volta, sganciata da qualsiasi causa.
Per me: un pomeriggio d'autunno di ritorno da solo dai prati in cui noi bambini giocavamo, il giallo dell'erba, il giallo arancio del cielo, l'aria che si faceva fredda. La certezza che il mondo fosse un luogo gelido e sporco. Ecco, in un certo senso, nel mio piccolo, il tocco del male. E gli anni che sarebbero seguiti come reazione ad esso. Con periodi facili, quasi fossi in procinto di averla vinta definitivamente, e ricadute violente.
Il primo ricordo naturalmente non è la causa. Sulla causa della melanconia ci sono tanti modelli. A ognuno il suo. Ma non c'è guarigione, solo attente condotte reattive, una disciplinata compensazione tramite illusione.
Così come per il bambino melanconico è fondamentale tenere vivi i mondi fantastici che inventa, crescendo, diventato adulto, la stessa importanza viene assunta dalla creazione.
Creazione dell'opera: in generale, come archetipo, ecco appunto l'opera alchemica, la trasformazione in oro di ciò che è senza valore. Redenzione di frammenti di mondo.
Ma che cosa sono l'opera conoscitiva, l'opera artistica, l'opera religiosa, se non redenzione (sempre parziale) di un mondo gelido e sporco, completamente privo di senso?