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Messaggi - Scepsis

#1

                                                    - prosegue da messaggio precedente -

Con il Cristianesimo e la sua Rivelazione l'uomo puo' finalmente credere in qualcosa dentro di lui (come dice Pascal), e dentro la sua anima. Puo' cosi' ridurre la lontananza verso Dio e quindi il senso di solitudine. Ma questo processo di avvicinamento tra Dio e uomo non puo' procedere fino al punto di avvicinarli tanto da identificarli, Dio perderebbe la Sua natura e le Sue caratteristiche e l'uomo non avrebbe piu' un Dio a cui affidarsi (l'uomo ha bisogno di credere in qualcosa che non sia lui stesso, come affermato da Pascal).
In modo speculare a quanto sopra scritto, in questo caso cio' che riduce la solitudine dell'uomo (la diminuzione della lontananza da Dio) aumenta la sua paura: non c'e' piu' un Dio a difenderlo, o quanto meno al ridursi della lontananza Dio e' percepito sempre meno come "altro" da se' da parte dell'uomo, quindi meno potente e pertanto meno in grado di difenderlo (in particolare dalle paure interiori e dall'angoscia).
Il grado di vicinanza con Dio, cosi' come percepito dall'uomo, deve attestarsi su un livello tale da garantire sia un accettabile livello di paura che un accettabile livello di solitudine (dove paura e solitudine sono tra loro inversamente proporzionali).


Il grado di vicinanza con Dio, e quindi la commistione tra paura e solitudine, e' un elemento che caratterizza ogni religione ed ogni corrente al suo interno, si pensi al Dio lontanissimo ed inappellabile dei manichei, con una salvezza rigidamente predeterminata (contro cui combattera' Sant'Agostino), o all'opposto al Dio vicinissimo di Pelagio, in cui la salvezza veniva stabilita esclusivamente dall'uomo mediante le sue opere, esautorando di fatto Dio da ogni ruolo (anch'esso combattuto da Sant'Agostino, ma per ragioni opposte).
Con Pascal il grado di vicinanza con Dio e' determinata dall'azione congiunta della vicinanza all'uomo di Gesu' Cristo e dalla lontananza dall'uomo (e dalle sue miserie) di Dio.


Il grado di vicinanza con Dio pero' non e' un qualcosa che attiene solo alle singole religioni,
ma e' anche (e forse soprattutto) un problema del singolo individuo, che dovra' scegliere il livello di vicinanza/lontananza, e quindi la combinazione tra paura e solitudine, nel suo rapporto con Dio.
Tanto piu' l'uomo collochera' Dio vicino a se', ponendolo quindi tanto meno "altro" da se', tanto piu' rischiera' di farNe una presenza "evanescente", irrilevante, che si identifichera' sempre piu' con la propria interiorita' fino al punto di non poterle piu' distinguere. Una presenza comoda e rassicurante perche' sempre piu' simile a se', a cui ci si abitua e che sempre piu' viene data per scontata. Una presenza, pertanto, a cui ci si abitua perche' poco ingombrante ed esigente. E questa e' un'abitudine a cui e' difficile rinunciare perche' ci rassicura e ci impedisce di vedere se e quando la presenza dell'"altro" da se' ci ha eventualmente abbandonato. In questo caso occorrera' alla fine pervenire a questa dolorosa consapevolezza, prendendo coscienza di essere rimasti soli con noi stessi e di non riuscire piu' a scorgere nulla al di fuori di noi e della nostra interiorita'.


In modo speculare a quanto sopra detto, tanto piu' l'uomo collochera' Dio lontano da se', "altro" da se', tanto piu' rischiera' di farne una presenza totalmente estranea a se' ed alla propria interiorita', con quest'ultima che alla fine verra' totalmente negata per potersi adeguare ad un Dio sempre piu' esigente, lontano ed imperscrutabile.
Cosi' come nel caso di un Dio troppo vicino, anche qui abbiamo un processo di rassicurazione, consistente nel porre Dio sempre piu' lontano da noi, un Dio con richieste sempre piu' difficili e pressanti. Lo sforzo e la fatica per poter soddisfare tali richieste saranno la prova e la conferma della nostra capacita' di adeguarci a Lui ed essere all'altezza delle Sue aspettative. L'eventuale incomprensibilita' delle prove a cui ci si sottopone verra' considerata solo come una ulteriore prova, comunque da superare. Quanto dentro di noi sembra opporsi alle crescenti richieste verra' progressivamente negato ed abbandonato, fino a che le richieste non saranno cosi' ampie e totali che l'uomo abbandonera' e neghera' completamente se stesso e la propria interiorita'.
Come nella situazione opposta, anche qui si avra' un'abitudine, ma non sara' una comoda abitudine, bensi' un'abitudine alla fatica ed al sacrificio, comunque difficile da abbandonare perche' la connessa negazione di se' evita dolorose domande e confronti con se stessi.
Se l'uomo riuscira' a risvegliarsi dall'oblio di se', vedra' che la presenza dell' "Altro" da se' lo ha da tempo abbandonato, progressivamente sostituito da ferree e vuote regole e formalita' a cui ha sacrificato la propria autentica interiorita', sostituita da una posticcia. Anche qui l'uomo rimarra' solo con se stesso, in questo caso per un Dio troppo lontano da se', in cui si e' annullato.
Su quanto sopra faccio una precisazione. Il processo sopra descritto e' di tipo drammatico, legato ad una fanatica adesione a regole e richieste estreme. Ma la stessa negazione ed oblio di se' e della propria interiorita', con la stessa conseguente assenza di un autentico "Altro" da se', potrebbe essere connaturata e da sempre presente in un individuo che non interroga e chiama in causa, in alcun modo, il proprio se' piu' intimo e profondo, totalmente ignorato, ed in cui il problema dell' "Altro" da se' non viene neanche posto e considerato, sostituito e nascosto da una passiva ed acritica accettazione di regole religiose viste e vissute solo come vuote regole formali. E questo, di fatto, non e' che un altro modo di collocare Dio lontanissimo da se' da parte dell'uomo.


Per quanto sopra detto, ed in relazione al problema di una presenza di Dio potenzialmente percepita come piu' "evanescente" nel caso della non scelta, si rileva come il problema della percezione della presenza di Dio, legata alla Sua maggiore o minore vicinanza all'uomo, sia comune ad ogni credo religioso ed, al loro interno, ad ogni singolo individuo.
E' evidente che nel caso della non scelta i rischi di non percepire l' "Altro" da se' siano piu' legati ad una Sua eccessiva vicinanza, piuttosto che ad una eccessiva lontananza, ma il rischio in genere, come gia' detto, e' comunque insito in ogni religione ed in ogni individuo. Proprio il ruolo svolto da ciascun individuo nel collocare Dio alla giusta distanza da se', evitando quegli eccessi di collocazione che porterebbero a perderLo, potrebbe suggerire come l'adesione di ognuno al credo od al senso religioso che sente come piu' adeguato e congeniale a se' possa favorire quella giusta scelta di collocazione individuale, tale da assicurare una autentica presenza di Dio, oltre ogni abitudine od acritiche accettazioni
#2
Si richiede in qualche modo di scegliere tra trascendenza ed immanenza, tra Pascal e Spinoza, tra "destino" e non. Comprendo che alla base della richiesta e' anche la convinzione che le due alternative non possano essere "contemplate" ed osservate dall'esterno, posizione da cui nulla puo' essere effettivamente compreso delle due opzioni e da cui e' impossibile percepirne il senso profondo, dischiuso solo da una convinta adesione, da un "salto" incondizionato e senza remore (adesione che pero' non puo' nascere ne' da una semplice argomentazione razionale, ne' da un non convinto ed infondato atto di volonta').
In questo senso la non scelta potrebbe immaginarsi come un procedere sullo stretto piede di due montagne vicine, nell'oscurita' di un'ombra quasi costante che solo l'ascesa verso una delle due vette potrebbe dileguare. Dalla cima della montagna scelta si vedrebbe poi il piede della montagna, avvolto nell'ombra, e la cima dell'altra montagna (inevitabilmente piu' bassa, qualsiasi sia stata la scelta).
E se invece di un procedere sul piede di due montagne la non scelta fosse un procedere sul crinale di un'unica montagna, un procedere visto non come provvisorio, non come temporanea condizione prima di una inevitabile discesa (o caduta) verso un versante o l'altro ? O se, meglio ancora, invece di procedere tra due montagne, od una sola, la non scelta fosse un procedere su di una strada in pianura, affiancata da altre due strade ? Un procedere quindi su di una strada avente dignita' simile alle altre due, con un proprio e specifico senso della spiritualita', assai meno definito in termini di caratteristiche positive di Dio, di cio' che potremmo chiederGli e di cio' che potrebbe chiederci, un Dio formalmente piu' indefinito ma che potremmo sentire, in modi e forme sue proprie, comunque vicino a noi, alle nostre aspettative ed alle nostre necessita'. Naturalmente qui si sta parlando non di una religione, ma di un senso della religiosita'.
Sono consapevole che un Dio di questo genere, nella sua indeterminatezza teologica e nella sua possibile "evanescenza" nella percezione della sua presenza, e pertanto nella sua natura costitutiva, potrebbe non essere considerato tale dai sostenitori delle due concezioni, trascendente ed immanente, ma solo una semplice astrazione priva dei requisiti necessari per ritenerlo e "sentirlo" tale.
I primi chiederebbero che fine farebbe, in questo caso, il timore e tremore proprio del rapporto che puo' aversi solo con un Dio trascendente, timore e tremore che costituisce l'essenza piu' profonda della nostra condizione umana che nel Dio trascendente trova risposta, espressione e senso. Il rapporto con un Dio, pertanto, per essi, puo' essere concepito solo in termini trascendenti, al di fuori dei quali l'uomo e la sua interiorita' non possono trovare piena ed autentica espressione cosi' come, analogamente, un Dio non puo' essere concepito come propriamente tale.
Obiezioni dello stesso tenore, ma dal contenuto naturalmente diverso, verrebbero sollevate dai sostenitori di un Dio immanente, legate al senso di identificazione e di superamento di ogni contrapposizione, propri esclusivamente del rapporto con un Dio immanente.


Si osserva preliminarmente che la posizione della non scelta, cosi' come formulata in precedenti interventi, pure se non priva di problemi comporta quanto meno il non dover escludere e negare la verita' di una delle due concezioni, cosi' come invece entrambe costitutivamente fanno rispetto all'altra, con la conseguenza per queste di dover negare i fondamenti, e pertanto (di fatto) il valore della piu' profonda spiritualita' e delle convinzioni di milioni di uomini.
Con la non scelta, per come e' stata formulata, le due concezioni costituiscono strade diverse, ma ugualmente valide, per arrivare a Dio, se la concezione e' profondamente ed autenticamente sentita, ciascuna delle due con proprie e specifiche caratteristiche.
Dio, nella Sua imperscrutabilita' e vastita', considerera' le due concezioni come strade entrambe valide per arrivare fino a Lui, due modi, sempre totalmente e necessariamente inadeguati e limitati, per avvicinarsi a Lui, illudendosi di comprenderLo.
I sostenitori di una concezione crederanno autenticamente ed assolutamente in essa, con la stessa certezza con cui ritengono che due rette perpendicolari ad una terza non si incontreranno mai (credendo possibile esclusivamente uno spazio piano), cosi' come i sostenitori dell'altra crederanno autenticamente ed assolutamente a questa, con la stessa certezza con cui ritengono che due rette perpendicolari ad una terza prima o poi si incontreranno (credendo possibile esclusivamente uno spazio curvo).


Sostenuta la validita' sia della trascendenza che dell'immanenza come strade che possono avvicinarci a Dio, si tratta di vedere se la non scelta, che non prevede l'adesione ad una delle due concezioni sopra dette (pur sostenendo la validita' di entrambe), possa essere considerata a sua volta una terza strada, un senso della religiosita' in qualche modo anch'esso valido ed accettabile in termini religiosi e spirituali.
Come gia' evidenziato, rispetto alla scelta trascendentale ed a quella immanente, la non scelta comporta necessariamente l'adozione di una concezione di Dio assai piu' indefinita ed indeterminata in termini teologici, nonche' una sua presenza potenzialmente percepita come piu' "evanescente", tanto da far porre la questione se, con queste caratteristiche, tale Dio possa essere considerato effettivamente tale (e non una semplice astrazione).
Ricorrendo all'immagine delle certezze geometriche come analogia delle certezze religiose, sopra utilizzata, nel caso della non scelta tali certezze si limiterebbero ad un punto nello spazio (una definizione e non un assioma). Eventualmente due punti, solo essendo sicuri che tutti accettassero che per quei due punti non passa una sola ed unica retta (ma tante quante i possibili gradi di curvatura dello spazio).


Giunti a questo punto la giusta ed appropriata conclusione dovrebbe essere che la valutazione sui limiti e l'ampiezza di cio' che puo' rientrare ed essere accettato come Dio (in relazione alla non scelta) non puo' che essere affidato a cio' che viene "sentito" personalmente ed individualmente da ciascuno, e che la questione non e' in alcun modo concettualizzabile nella sua piu' autentica e profonda dimensione. Oltre non si dovrebbe ne' potrebbe andare. Si cerchera' invece di provare a verificare se considerazioni e valutazioni propri di un approccio concettuale, pur nella loro inadeguatezza, possano in qualche modo fornire delle indicazioni e degli spunti di riflessione sulla questione sopra posta, con riferimento alla indeterminatezza teologica ed alla possibile "evanescente" presenza di Dio connesse alla non scelta.

Sulla indeterminatezza teologica della non scelta potrebbe essere utile considerare se la concezione sia trascendente che immanente di Dio abbia presentato e presenti un'unica ed invariata formulazione o se questa evidenzi evoluzioni e differenziazioni nel tempo e nello spazio (tra Chiese, tra correnti di pensiero nella stessa Chiesa), ed in che limiti.
Il Dio trascendente ed unico del Cristianesimo ha in effetti presentato vari livelli di conoscibilita', sia nel corso del tempo che all'interno della stessa fase storica.
Relativamente alla conoscibilita' di Dio due tendenze si sono sempre contrapposte, quella di una metafisica positiva ed il piu' possibile chiarificatrice, e quella di una metafisica negativa che nel mistero e nell'inconoscibilita' di Dio vedono la Sua essenza piu' profonda, e considerano il tentativo di chiarire questo mistero come un allontanamento dalla sua effettiva comprensione (un monaco medioevale dira': cio' che volete aprire, voi cosi' lo distruggete). Questa contrapposizione e' presente fin dall'origine, con Giustino ed Origene che ripropongono temi platonici ed aristotelici a fronte di Tertulliano che afferma "credo quia absurdum est".
Il contrasto prosegue nel tempo, da una parte con Sant'Anselmo d'Aosta e la sua prova ontologica e con San Tommaso d'Aquino ed i domenicani, e la loro pretesa aristotelica di poter conoscere Dio e dimostrarNe l'esistenza, e dall'altra con chi a questi cerca di opporsi, come i francescani Bonaventura da Bagnoregio (con il suo "itinerario della mente verso Dio" alla cui conclusione si comprendera' di non comprenderLo, giunti alla "perfetta illuminazione della mente") e Guglielmo d'Occam, con il suo Dio inconoscibile nella Sua essenza ed a cui si puo' giungere solo con un atto d'amore e di fede.
Si avranno poi il mistico Eckhart, in cui Dio, ineffabile, e' "negazione della negazione", e quindi assoluto ed al di la' di ogni determinazione concettuale, pertanto conoscibile solo annullando ogni facolta' conoscitiva, e Nicolo' Cusano, che rende ragione dell'inconoscibilita' dell'infinito e quindi di Dio affermando come, in tale ambito, si abbia la coincidentia oppositorum e la coincidentia contradictoriorum, e come di Dio si possa solo dire cio' che non e'.
Con Pascal e le correnti che a lui si riferiranno, fino all'esistenzialismo, la conoscenza di Dio non puo' derivare in nessun modo da un piano razionale, come invece la metafisica positiva tradizionale aveva fino ad allora sostenuto, e non puo' che derivare da un riferirsi alla propria interiorita' e dalla consapevolezza della propria intima condizione umana.
La concezione del grado di conoscibilita' di Dio all'interno del Cristianesimo ha pertanto evidenziato nel tempo un'ampia differenziazione, presentando elevati livelli di indeterminazione nell'ambito della metafisica negativa. L'indeterminazione di Dio connessa alla non scelta e' naturalmente assai piu' elevata di quella presente nella metafisica negativa, ma nel valutarla si possono comunque tener presenti i livelli raggiunti da tale metafisica gia' all'interno del Cristianesimo.


Relativamente alla percezione della presenza di Dio da parte dell'uomo, con riferimento alla presenza del Dio della non scelta potenzialmente percepita come piu' "evanescente",
vorrei far riferimento ad un pensiero di Pascal, che diceva piu' o meno che l'uomo ha bisogno di credere in qualcosa che non sia fuori di lui, ma invece dentro di lui, e che pero' non sia lui stesso. Questo concetto mi sembra racchiuda tutta l'essenza del problema della percezione di Dio da parte dell'uomo, della Sua presenza o assenza, della Sua vicinanza o lontananza.
Storicamente il credere in qualcosa fuori di se' e' proprio del paganesimo pre Cristiano, in una condizione umana caratterizzata dalla paura e dall'angoscia verso il mondo esterno e quello interiore, da cui la divinita' avrebbe dovuto proteggere l'uomo. Tale protezione comportava un Dio potente e quindi profondamente diverso ed "altro" dagli uomini, e pertanto ad essi lontano. Ma questa lontananza alimentava il senso di estraneita' provato dall'uomo verso il Dio, e quindi il suo senso di solitudine, come attestato ad esempio dalle tragedie greche.
Pertanto cio' che riduceva la sua paura (la lontananza da se' del Dio, e quindi la sua potenza), aumentava contemporaneamente la sua solitudine (data dall'estraneita' provata verso un Dio cosi' lontano).

                                                          - prosegue su messaggio successivo -                                                 
#3
Ho visto solo da poco il tuo intervento, Green Demetr, ed e' stato anche un caso, perche' possono passare anche varie settimane prima che acceda al forum (non ho, purtroppo, molto tempo a disposizione, specie in questo periodo).

Spinoza non pensa che il mondo e la mamma siano buoni, e' esattamente il contrario, il mondo gli e' gia' crollato addosso e vive accampato sulle sue macerie, andando spesso a trovare la madre nella casa di tolleranza dove lavora (di cui e' perfettamente a conoscenza).
La sua non e' una visione consolatoria, in cui ci si rifugia dietro un mondo illusorio ma comunque capace di rassicurarci e consolarci. Prende invece atto, fino in fondo, della sua reale condizione esistenziale e sociale, costellata da vicissitudini e difficolta', e l'affronta volendo evitare in ogni modo che questa possa limitare la sua liberta' interiore, la sua capacita' di guardare al mondo apertamente e liberamente, che possa pertanto, in ultima analisi, condizionare ed influenzare il suo pensiero e la sua opera. E' per quest'ultime che in primo luogo combatte, piu' che per se stesso.
Capisce che solo dentro di se' trovera' la forza per mantenere il proprio equilibrio e la propria liberta' interiore, con una ricerca incessante, assolutamente rigorosa, di una serenita' che possa assicurargli una incondizionata liberta' di pensiero, non limitata e condizionata dalle difficolta' della vita e non avvelenata da rimpianti e recriminazioni.
Serenita' che in effetti trova (come concordemente attestato dai contemporanei), o meglio conquista. Una serenita' avente caratteri in qualche modo simili all'apathia stoica. Per la propria liberta' Spinoza rinunciera' a prestigiosi incarichi universitari, continuando per tutta la vita a svolgere il suo mestiere di molatore di lenti.
Spinoza nella sua concezione religiosa e metafisica non poteva accettare niente che non fosse in linea con la sua ricerca e difesa della propria liberta' interiore (e quindi serenita'), sentite come profondamente giuste e legate alle piu' elevate aspettative dell'uomo. Elevate al punto che la concezione di Dio non poteva non risultare adeguata a tali aspettative.
Pertanto in Spinoza non si ha un utilizzo strumentale della religione, a difesa delle proprie personali necessita' e strumento di rassicurazione, ma invece un destinare l'ambito religioso quale luogo delle proprie piu' alte aspettative, indipendentemente da dogmi e tradizioni.

Con Spinoza le apparenze ingannano.
La sua vita, che vuole ordinata e controllata fino all'estremo, e' la sua risposta e la sua sfida ad un mondo che lo ha portato ad un passo dal caos, esistenziale e sociale.
L'assoluta imperturbabilita' e la serenita' che caratterizzano la sua esistenza, a fronte di vicende che lo hanno profondamente colpito, non sono atteggiamenti frutto di buon carattere o di una naturale e congenita noncuranza, ma sono condizioni conquistate con una strenua ricerca interiore e destinate alla liberta' del proprio pensiero.
Persino il suo lavoro di molatore di lenti, apparentemente normale e tranquillo, e che scegliera' di non abbandonare mai (pur potendolo), e' in realta' profondamente malsano.
Allo stesso modo il suo Dio, dispensatore di serenita' e letizie, in un mondo in cui la serenita' e' un qualcosa da conquistare, nonostante tutto e tutti, e' un Dio che porta in realta' la spada, e non la pace.


Il rispetto reciproco tra Pascal e Spinoza e' la conseguenza del loro spessore intellettuale, ai due non importa nulla della condivisione (in se') delle proprie idee da parte dell'altro, ma sono ben piu' interessati alle rispettive idee, problematiche e scenari, tanto piu' se diverse dalle proprie.
Il rispetto reciproco enunciato e' inoltre legato (con un implicito "nonostante") a quanto precedentemente affermato, che nessuno dei due avrebbe presumibilmente convinto l'altro delle proprie opinioni religiose, nell'ipotizzato incontro, questo perche' aventi valori e giudizi di valore troppo diversi, frutto di esistenze profondamente diverse.
Da una filosofia (e tanto piu' da una concezione religiosa) si viene convinti non tanto dalle sue concatenazioni logiche e dai suoi sviluppi concettuali (a cui possono sempre opporsi altre ed opposte argomentazioni logiche, ugualmente valide), ma dai presupposti da cui la filosofia parte e dalle conclusioni a cui arriva, qualora le si condivida. Ma tale condivisione avverra' sulla base dei giudizi di valore implici (anche in modo piu' o meno latente) nelle premesse e nelle conclusioni, ed a loro volta condivisi.
I giudizi di valore possono considerarsi come degli immediati e basilari elementi di giudizio , sentiti (istintivamente e di per se') come profondamente giusti ed irrinunciabili, diversi da individuo ad individuo ed inevitabilmente acquisiti e fatti propri sulla base delle specifiche esistenze e delle esperienze vissute da ognuno. Tali fondamentali giudizi di valore determineranno la valutazione di cio' che puo' essere considerato indubitabilmente positivo ed auspicabile da un individuo ed invece totalmente negativo ed inaccetabile da un altro, e pertanto orienteranno la formazione dei rispettivi e personali sistemi di valori.
Giudizi di valore e sistemi di valori concorreranno poi in misura maggiore o minore (o risulteranno apparentemente assenti) all'ideazione di una determinata filosofia, assieme naturalmente a molti altri elementi.
Una filosofia non e' "la conseguenza di una vita vissuta male", ma e' la conseguenza "anche" di una vita (comunque sia stata vissuta) che, in quanto tale, determina inevitabilmente l'acquisizione di giudizi di valore e sistemi di valori. A volte questi saranno quasi irrilevanti nell'ideazione di una certa filosofia (ma mai totalmente assenti, al punto da risultare in contrasto con essa), a volte invece assumeranno una forte importanza e orienteranno significativamente il corso del pensiero dell'autore. Ed e' questo il caso, a mio parere, di Spinoza.

Relativamente a quanto sopra faccio un esempio, utilizzando delle affermazione volutamente forzate ed estreme (da non prendere pertanto alla lettera). Se Kant, che condivideva con Hume la negazione dell'innatismo, l'inconoscibilita' della cosa in se', l'inaccetabilita' della metafisica e la soggettivita' dello spazio e del tempo, decide ad un certo punto di sostituire all'"abitudine", alle "credenze" ed all'"immaginazione" humiana le proprie forme e categorie a priori, questo avviene anche (ma naturalmente non esclusivamente o necessariamente) perche' l'ex studente del Collegium Fredericianum, di famiglia pietista, giudica incomparabilmente piu' importante debellare lo scetticismo totale di Hume rispetto al rischio (ed alle conseguenti accuse) di ripristinare di fatto l'innatismo e la metafisica tramite l'a priori. E questa valutazione e' in qualche modo il frutto di precisi giudizi di valore e sistemi di valori fatti propri da Kant.
A conferma dell'importanza di quest'ultimi nell'orientare il pensiero filosofico e' la valutazione della filosofia kantiana e della sua capacita' per lo meno di superare il pensiero humiano espressa da chi, per formazione, vita e cultura, aveva giudizi di valore e valori profondamente diversi da quelli di Kant. Nel 1948 Bertrand Russell, logicista e di scuola anglosassone, scriveva: "Lo dico deliberatamente, a dispetto dell'opinione che molti filosofi hanno in comune con Kant, che la sua Critica della Ragion Pura rispondesse ad Hume. In realta' questi filosofi, almeno Kant .... , rappresentano un tipo di razionalismo pre-humiano, e possono essere confutati con gli argomenti di Hume".
#4
Citazione di: PhyroSphera il 14 Dicembre 2024, 11:43:12 AMIo suggerisco: il non-arbitrio di cui disse Spinoza è solo la determinatezza della sfera naturale. Leibniz fu impeccabile nel mostrare che tale sfera contiene la libertà, dentro la stessa necessità.
Leibniz e' stato un matematico e logico eccezionale: creo' il calcolo infinitesimale (piu' efficente di quello elaborato da Newton), anticipo' la logica simbolica cercando di matematizzare la logica, fu il primo a scoprire che i 5 postulati di Euclide non erano sufficienti per conferire "completezza" (come oggi viene definita) alla geometria euclidea.
Come filosofo pero', in cui cercava di mettere a frutto le sue capacita' logiche per elaborare sistemi coerenti e non contraddittori, si sono spesso avute pluralita' e sovrapposizioni di versioni, riformulazioni, successivi aggiustamenti e cambi di premesse e conclusioni.
Egli assume determinate ed ardite premesse ed idee (tale in generale il concetto di monade), su queste costruisce progressivamente un sistema che vorrebbe coerente, ma perviene poi, talvolta, a conclusioni indesiderate o contraddittorie. E' come se, partendo da un ipotizzato sistema ad N incognite ed N equazioni, si ritrovi poi, nel corso della sua elaborazione, a dover inserire nuove variabili impreviste, frutto della vivacita' del suo genio ma anche di compatibilita' ed equilibri da salvaguardare. Alla conclusione del processo perviene cosi' ad un sistema con N+1 incognite ed N equazioni, o con variabili funzioni di se stesse (e pertanto irrisolvibile), che determina riformulazioni ed aggiustamenti e l'avvio di un nuovo processo di elaborazione del sistema.


Prendo ad esempio il problema della materialita' della monade: inizialmente la monade individuale, in quanto elemento costitutivo primo, indivisibile e senza parti, viene considerato un punto immateriale (ed inesteso), in quanto Leibniz riteneva la materia divisibile all'infinito. Questo pero' lascia aperto il problema dell'esistenza della materia.
Egli abbandona allora l'immaterialita' della monade ed afferma che la sua componente materiale e' data dalla parte oscura della stessa (presente in ogni monade), quella che non raggiunge una chiarezza di percezione.
Relativamente alle monadi composte, e quindi gli oggetti materiali (formati da una pluralita' di monadi), questi sono inizialmente visti come "aggregato" di monadi, aggregato che pero' non ha una propria unita' ed una propria autonoma esistenza: l'unita' viene determinata da chi la osserva ("e' determinata dal nostro concepirla"), l'unita', e quindi l'oggetto, e' un "essere di ragione o piuttosto di immaginazione", un "fenomeno". Ma questa concezione e' troppo vicina a Berkeley, per cui viene poi abbandonata.
Agli oggetti viene allora assegnato un principio unificatore (entelechia) che fornisce agli stessi un "vincolo sostanziale" e quindi una propria unita'. Viene pero' poi fornito da Leibniz anche un altro ed alternativo principio unificatore del singolo oggetto, quella della monade dominante (che caratterizza e da' unita' all'oggetto), di cui le altre monadi possono essere considerate come il corpo.


Relativamente alla trattazione del libero arbitrio, Leibniz parte da tre punti fermi, considerati irrinunciabili: l'onniscenza e l'onnipotenza di Dio e la sua infinita bonta', da cui conseguono rispettivamente la prescienza (conoscenza del futuro) divina, un universo provvidenzialmente predeterminato da Dio ed un mondo reale che e' il migliore dei mondi possibili.
In una ipotetica equazione che potesse delineare tale trattazione i tre punti fermi sopra detti costituirebbero tre variabili esogene, date e predeterminate, ed il libero arbitrio una variabile endogena, il cui valore residuale e' attribuito dall'equazione stessa.
Ora, il problema e': quale puo' essere lo spazio lasciato al libero arbitrio dell'uomo, in un mondo determinato provvidenzialmente da Dio una volte per tutte all'inizio dei tempi, e scelto in quanto e' il migliore tra gli infiniti possibili ?
Al mondo provvidenziale e predeterminato e' tra l'altro connessa "l'armonia prestabilita" tra corpo ed anima (a cui si riferisce l'immagine dei due orologi che una volta regolati si muovono autonomamente in sincronia), e piu' in generale il rapporto tra le monadi, che pur non interagendo tra di loro (ma solo esclusivamente con Dio) hanno una loro preordinata armonia reciproca, frutto di un predeterminato comportamento loro attribuito da Dio al momento della creazione.
Leibniz sostiene che in un mondo cosi' rigidamente ordinato la libera scelta dell'uomo e' possibile e compatibile in quanto l'uomo ex post sceglie "liberamente", e senza intervento o influenza diretta di Dio, quanto Dio aveva destinato come scelta per lui ex ante, fin dal momento della creazione.
Questo perche' l'individuo effettua la sua scelta personale e "libera", tra le infinite scelte possibili, sulla base di una serie infinita di condizioni esterne ed interne all'individuo stesso che determineranno la sua scelta sulla scorta di una specifica ragione "sufficiente" adottata.
Tali infinite condizioni esterne ed interne sono perfettamente conosciute e previste da Dio, cosi' come la conseguente "libera" scelta dell'uomo (che potra' essere la piu' virtuosa, ma anche la piu' criminale). Di questa scelta, come di tutte le potenziali libere scelte effettuate da tutti gli uomini in ogni tempo (con le loro concatenazioni di causa effetto), Dio terra' conto nello scegliere e poi creare il migliore dei mondi possibili.
Una volta creato il mondo (il nostro mondo), questo procedera' su ferrei e rigidi binari, predeterminati inizialmente una volta per tutte.


Anche volendo accettare l'intera costruzione concettuale di Leibniz (con una previsione ex ante delle libere scelte umane, sulla cui scorta scegliere e creare un mondo in cui, ex post, tali scelte verranno poi realizzate), questa costruzione solleva vari interrogativi e questioni.
In questa sorta di compromesso e compatibilita' tra libero arbitrio dell'uomo e volonta' provvidenzialistica di Dio, qual e' il peso ed il ruolo assegnato a ciascuno dei due ?
Le scelte effettuate dall'uomo sono relative ad una data e specifica situazione, e quindi a date condizioni esterne ed interne a chi fa la scelta.
Cambiando la situazione, cambia la decisione da assumere ed anche, potenzialmente, la decisione precedentemente assunta. Qual e' il respiro e lo spazio concesso alle singole scelte dell'uomo di manifestare i loro effetti in un quadro dato, visto che poi e' Dio (e non il caso) che, sulla base del principio del "migliore dei mondi possibili", sceglie il mondo da creare, e quindi decide l'esito e le conseguenze della singola decisione umana, mediante le evoluzioni e le modificazioni delle situazioni ?
L'uomo in questo contesto e' come un attore che con le sue scelte pensa di poter recitare una certa parte, ma poi e' Dio che, come un regista, taglia, cancella o lascia inalterata quella parte, che la inserisce in una commedia (come creduto e sperato da chi la recita) o in un dramma shakespeariano, che, fuor di metafora, fa si' che una scelta fatta con le migliori intenzioni dia le conseguenze sperate o si traduca in un disastro.
Nel mondo provvidenzialistico di Leibniz sia il santo che il peggior delinquente scelgono (ex post) liberamente in uno scenario predeterminato (ex ante) da Dio, ed entrambe concorrono a realizzare il migliore dei mondi possibili, ma sulla base dello stesso principio il ruolo assunto da ciascuno dei due uomini avrebbe potuto essere scambiato con quello dell'altro, e questo fin dall'inizio, alla nascita, oppure nel corso della loro vita (cioe' l'apparentemente predestinato santo divenire nel corso della sua vita un delinquente, e l'apparentemente predestinato delinquente arrivare alla redenzione ed alla santita').
Anche in quest'ultimo scenario alternativo le singole e successive scelte assunte dai due uomini devono essere considerate libere, ma poiche' non e' il caso, ma e' il disegno provvidenzialistico di Dio a decidere se chi entra il seminario diventera' un santo oppure un Rasputin o uno Stalin, e se un soldato diventera' uno spietato mercenario oppure un San Francesco o un Sant'Ignazio di Loyola, ci si chiede quale sia l'effettiva liberta' dell'uomo non su singole, limitate e specifiche scelte, ma sul decidere effettivamente del suo destino di uomo, che non e' cio' che gli accadra', ma cio' che lui intimamente sara' e potra' essere.
Ed in questo senso il destino non e' determinato dalla somma di tante singole ed isolate scelte, ma dalle conseguenze e dal successivo contesto (che l'uomo non controlla) di tali scelte.


Altra questione sollevata dalla costruzione concettuale di Leibniz e' il fatto che il libero arbitrio, in quanto tale, dovrebbe essere caratterizzato dal fatto che, in ogni caso, si sarebbe potuto agire diversamente da come si e' fatto. Ma questo non e' compatibile con l'universo rigidamente predeterminato leibniziano, in cui non e' possibile, e neppure concepibile, che quanto previsto ex ante sulle scelte umane non si verifichi poi, ex post, nel mondo reale, ed in cui quindi non vi e' alcuno spazio per l'atto gratuito, totalmente imprevedibile, di cui parlano gli esistenzialisti come attestante la liberta' umana.


Le molteplici questioni ed interrogativi che potrebbero essere rivolti alla concezione del libero arbitrio di Leibniz troverebbero comunque una risposta tale da portare ad una situazione di stallo. Ad esempio sulla questione dello spazio concesso al libero arbitrio dell'uomo si evidenzierebbe come il sistema sia tale, comunque, da assicurare il migliore dei mondi possibili per l'individuo (oltre che, naturalmente, il fatto che contrapporre lo spazio dell'uomo e quello di Dio non sia accettabile, e che le ragioni dell'uomo siano meglio tutelate da Dio che dall'uomo stesso). Al libero arbitrio inteso come possibilita' di agire diversamente da come si e' fatto si risponderebbe che, al di la' della definizione formale, Dio e' ben in grado di sapere che cosa un uomo avrebbe liberamente scelto in una certa situazione (e che l'atto gratuito, imprevedibile, e' un'astrazione concettuale). E cosi' via.


Ma e' proprio il pervenire a questa situazione di stallo a costituire il problema. La costruzione concettuale leibniziana del libero arbitrio, con la sua astrattezza e macchinosita', sembra piu' finalizzata a portare, in modo difensivo, ad una situazione concettuale di stallo , piuttosto che a convincere, piu' a fornire conferme e rassicurazioni a chi e' gia' convinto del Dio di Leibniz che a conquistare chi dubita o nega. Quest'ultimi sono invece sconcertati o irritati dalle implicazioni della concezione leibniziana, con il concetto del "migliore dei mondi possibili" apparentemente utilizzato per rendere ragione delle ingiustizie e delle sciagure del mondo, e sicuramente utilizzato per rendere sostenibile e coerente il "sistema" del libero arbitrio di Leibniz (con riferimento all'ipotetica equazione relativa a tale sistema, sopra evidenziata, il "migliore dei mondi possibili" costituisce la condizione in grado di assicurare, in ogni caso, una soluzione ad essa).
Con il suo sistema Leibniz, di fatto, sostituisce Dio al caso ed al cieco destino. Per alcuni questo rende piu' sopportabili le sciagure e le ingiustizie della vita, comunque tali da determinare il miglior mondo possibile. Per altri questo non avviene, e trovano inaccettabile questo chiamare in causa un Dio che non semplicemente permette tali ingiustizie e sciagure, ma ne e' diretto fautore, seppure in cambio del "migliore dei mondi possibili". Altri ancora poi rifiutano la concezione ottimistica e consolatoria del mondo reale visto come il migliore tra quelli possibili, giudicando il mondo reale avere ampie possibilita' di miglioramento (da Dio stesso auspicato).


Naturalmente nessuno puo' dire come Spinoza avrebbe accolto e considerato la concezione del libero arbitrio di Leibniz, formulata dopo la sua morte. Ogni ipotesi a riguardo e' legittima.
Se l'incontro tra i due, effettivamente avvenuto un anno prima della morte di Spinoza, avesse potuto svolgersi qualche anno dopo (le prime importanti opere filosofiche di Leibniz datano sette anni dal decesso dell'altro), in quella sede forse Spinoza avrebbe espresso interesse, o addirittura condivisione per tale concezione. O forse avrebbero invece evitato l'argomento, parlando d'altro ed evitando ciascuno di lanciare sguardi interrogativi e perplessi. Spinoza relativamente alla concezione del libero arbitrio dell'altro. Leibniz relativamente alle condizioni della casa dove si teneva l'incontro, quella di Spinoza, letteralmente coperta di polvere di vetro (dell'impressione provatane parlera' nei suoi scritti , Spinoza era un molatore di lenti).
Ma queste sono solo ipotesi. La sola cosa certa e' che, nel congedarsi dal loro effettivo incontro, uno sarebbe rientrato nella sua casa piena di polvere di vetro, dove sarebbe presto deceduto, l'altro avrebbe avuto un futuro di meritata fama e di prestigiosi incarichi, con il plauso e l'ammirazione dei contemporanei e dei posteri a cui aveva offerto quello che chiedevano: una natura organicista, un Dio presciente ed onnipotente, il libero arbitrio ed un sistema certamente controverso, da alcuni ritenuto inaccettabile ed insostenibile


#5
Anch'io ho letto con interesse e piacere il tuo testo, PhyroSphera


Anni fa ci fu la riscoperta di Nietzsche, che in verita' non gli rese giustizia. Ora c'e' la riscoperta di Spinoza, e come in vita tutti lo respingevano, cosi' ora tutti cercano di "assoldarlo" nelle proprie fila, anche qui non rendendogli giustizia.
Il meccanismo e' sempre lo stesso, si cerca di edulcorare e sottacere alcuni aspetti del suo pensiero, enfatizzandone altri. Cosi' nel tempo si e' avuto uno Spinoza che a partire da Feuerbach (che lo definiva "il Mose' dei liberi pensatori e dei moderni materialisti"), e passando per Althusser e Toni Negri, viene spacciato come un anticipatore della lotta anti capitalistica. Prima vi era stato uno Spinoza naturalistico ed organicistico, antesignano del Romanticismo (Lessing, Herder, Goethe), ed uno negatore della liberta' e dei valori umani in nome di una filosofia basata esclusivamente sulla logica e la dimostrazione (Jacobi). Vi e' poi chi confina e riduce il Dio necessitato di Spinoza (il non arbitrio) ad una determinatezza della sfera naturale. Ma la natura del Deus sive Natura non e' solo l'attributo estensione ed i suoi modi, e' anche l'attributo pensiero ed i suoi modi, nonche' altri ed infiniti attributi che non siamo neanche in grado di concepire e che attestano l'ampiezza e l'onnicomprensivita' del Dio (e della natura) spinoziano.


Nella lotta per attribuirsi l'interpretazione autentica del pensiero di Spinoza, oltre al rischio necessariamente connesso alla soggettivita' del processo interpretativo (comunque inevitabile), vi e' anche quello di attribuire determinate caratteristiche a chi non condivide la nostra interpretazione, richiudendolo in un'immagine talvolta lontana dall'effettiva realta'. Una logica quindi piu' "politica" (nella dimensione amico-nemico), che di discussione e dibattito.
A tale proposito evidenzio che se io avessi avuto una visione atea e materialistica sull'argomento, avrei rivendicato tale visione apertamente e con grande orgoglio, ma non e' questa la mia visione.
Per spiegarla faccio riferimento all'ipotizzato incontro tra Spinoza e Pascal, in cui tre erano necessariamente i possibili esiti del contronto:
uno aveva ragione e l'altro necessariamente torto
nessuno dei due aveva ragione
tutti e due avevano ragione
Tu avresti certamente scelto il primo esito (e chi dei due avesse ragione e' intuibile), e avresti pensato che io avrei scelto il secondo esito, ma non e' cosi'.
Se questa fosse stata la mia scelta io avrei scritto alla fine dell'intervento "e con onesto e sincero rimpianto per non aver convinto l'altro circa quella che riteneva, con assoluta onesta' intellettuale, l'unica via di salvezza (esistenziale e metafisica) per l'uomo".
Avrei, cioe', in qualche modo sottolineato l'illusione di entrambi di essere depositari di una verita' unica ed esclusiva. Ma io non ho scritto questo, perche' non volevo intendere questo. Ho invece scritto ".....con grande onesta' intellettuale, l'autentica via di salvezza (esistenziale e metafisica) per l'uomo". "Autentica", che non presuppone unicita' ed esclusivita'. La mia scelta e' infatti il terzo esito (tutti e due avevano ragione).


Immagino che per te sia inconcepibile (come per me un Dio che si preoccupa di aspetti formali e minimali), ma nella mia concezione religiosa Dio riderebbe se, nel giudicare qualcuno, gli venisse obbiettato che quel qualcuno professa una certa visione di Lui (visione umana sempre assolutamente inadeguata e riduttiva, che sia immanente o trascendente), piuttosto che un'altra.
Di piu', nella mia concezione Dio vedrebbe come una macchia ed una colpa se qualcuno dovesse scegliere una determinata visione di Lui per amore del quieto vivere e per prudenza, pur avendo nel profondo del proprio animo una visione diversa, che colpevolmente soffoca ed ignora. Perche' Dio e' esigente e non si accontenta delle mezze misure, della prudenza, di chi nascondendosi a se stesso crede di nascondersi a Lui.


L'umanismo, termine con cui indichi una concezione umana che esclude a priori il soprannaturale, e che rivendicherei con grande forza se fosse la mia concezione, non e' pertanto la mia visione. E del resto una scelta di ateismo e di negazione totale e' di per se' una scelta metafisica, al pari di una scelta di una specifica metafisica positiva.
E' tra le pieghe e mille sfumature della metafisica negativa, anti dogmatica, ed un atteggiamento problematico di dubbio e di ricerca (scepsis, da intendersi come ricerca e non scetticismo preconcetto), che trovo eventualmente, se devo definirmi, la mia autentica collocazione.


Forse non ho sottolineato abbastanza quanto scritto nel precedente intervento:

"Si osserva che in un tema cosi' intimo e personale come quello religioso non esistono soluzioni o formule migliori o superiori ad altre. Ognuno deve trovare, individualmente, le risposte piu' adatte a se', alla propria storia, alle proprie piu' profonde aspettative e valori. Non avrebbe senso stabilire delle gerarchie tra le varie religioni e le concezioni da queste rappresentate, mentre le convinzioni individuali su questo tema sono da valutarsi sul piano della profondita' della ricerca personale, dell'onesta intellettuale e rigore interiore con cui tale ricerca e' stata condotta, della capacita' di non trasformare le proprie convinzioni in uno strumento di costrizione ed oppressione per gli altri, della coerenza con cui le varie convinzioni vengono vissute, e questo a prescindere dal loro contenuto."

Il contenuto delle convinzioni religiose di ognuno di noi, cio' che nasce dalle piu' intime profondita' del proprio spirito (se sincero e sentito), non e' giudicabile, e' uno spazio che non puo' e non deve essere violato da valutazioni di sorta. Puo' pero' essere esaminato il contesto esistenziale ed umano, quello culturale e storico, in cui tale convinzione e' sorta, per poterla comprendere (non giudicare) il piu' possibile.
Ed il comprendere ed il capire e' il compito della filosofia, per cui se un certo contesto esistenziale e' in linea con quanto ci si sarebbe aspettato, questo e' un punto di vista da prendere in considerazione per meglio capire le convinzioni religiose altrui. Ma tale contesto, a scanso di equivoci, non e' certo la causa determinante, pavloviana, di un certo tipo di religiosita' (Spinoza avrebbe potuto convertirsi al cristianesimo, ritornare all'ebraismo, convertirsi a sette ereticali ecc.). Scrivendo che Spinoza "non poteva che..." si sottolinea la concordanza (cosi' come da me valutata) tra storia personale e credo religioso, e non si afferma un inesistente rapporto di causa effetto tra il primo ed il secondo (ma questo lo davo per scontato.). Solo parlando di Jacobi sono stato piu' netto, ma questo per ribattere alle accuse di "disumanita'" mosse alla filosofia spinoziana, ribadendone il carattere profondamente umano.


Vedo che vengo assimilato ad una linea di pensiero che congiunge Locke, Hume e Marx, caratterizzata da uno schema che e' quello dell'ateismo e del materialismo. Avendo sopra chiarito e specificato la mia collocazione, questa assimilazione non costituisce certo un problema, ma e' impropria (anche in termini non esclusivamente religiosi).
Noto che i tre autori hanno avuto rapporti assai ridotti con il pensiero spinoziano, se non per una comunanza di temi affrontati. Locke ha dovuto affrontare sporadiche ed isolate accuse di spinozismo (assai frequenti all'epoca), mentre il rapporto di Marx con Spinoza si limita principalmente alla compilazione di tre quaderni di estratti dall'opera spinoziana (quasi privi di annotazioni), il primo quaderno dal Trattato Teologico Politico, gli altri due da 26 lettere inviate dal filosofo, redatti tutti e tre nel 1841 (l'autore aveva 23 anni), in vista della partecipazione ad un concorso per una cattedra universitaria
#6
            (continua da precedente messaggio)
Ma la beatitudine assicurata dall'unione con un Dio trascendente e dotato di volonta' sarebbe stata vista dal filosofo come "inadeguata" anche in un altro senso, a mio parere, oltre a quello sopra detto. Per Spinoza la beatitudine si configura come totale pacificazione ed armonia, totale assenza di contrapposizioni e contrasti (rispetto ad una vita cosi' piena di questi elementi), in totale identificazione con un Dio che tutto contiene. La garanzia assoluta perche' questo si verifichi e' che non vi sia alcun elemento esterno rispetto al Dio con cui ci si identifica, elemento esterno che potrebbe riproporre tali contrasti. Pertanto Dio deve risultare onnicomprensivo, contenente il tutto al suo interno e tale da non lasciare nulla al di fuori di se' (elemento quest'ultimo che e' poi anche la condizione perche' il Dio necessitato sia allo stesso tempo anche libero, secondo Spinoza).
Tra i possibili elementi "esterni" da considerare ed eliminare sono sicuramente compresi quelli relativi alla scelta ed alla possibilita', tra le principali fonti di lacerazione ed angoscia per l'uomo, e di inconsolabili rimpianti (temi da sempre presenti ma che assumeranno valore centrale in Kierkegaard, due secoli dopo). Chi e' in grado di eliminare alla radice le possibilita' non scelte, gli infiniti possibili che avrebbero potuto verificarsi e non lo sono stati, e' solo un Dio, e quindi un mondo, necessitato, in cui cio' che e' avvenuto (ed avverra')
non poteva (e non potra') che essere cosi', e pertanto anche il rimpianto non avrebbe senso.
Un Dio trascendente e dotato di volonta', e che quindi sceglie, non necessitato, non sarebbe stato in grado di fare questo, e avrebbe anzi riproposto Esso stesso, con la sua attivita' volontaristica, il nodo della scelta.
Per le ragioni sopra dette si ha il Dio necessitato di Spinoza e la conseguente mancanza del libero arbitrio per l'uomo: per mantenersi fedele ad un Dio che tutto contiene e ad una beatitudine non viziata da elementi esterni, il Dio (e l'uomo) di Spinoza deve avere tali caratteristiche, e l'uomo solo identificandosi con un Dio (ed un Tutto) di questo tipo consegue ad una piena ed assoluta beatitudine, realizza se stesso e trova il proprio autentico e compiuto significato.
La lettura che quindi do della filosofia di Spinoza e' pertanto opposta a quella formulata da Jacobi (strumentale e finalizzata ad un attacco al naturalismo di Herder e Goethe), che vedeva in essa, nel Dio necessitato e nella mancanza di libero arbitrio, la conseguenza di un approccio filosofico basato esclusivamente sulla dimostrazione e sulla logica: le caratteristiche sopra dette del pensiero spinoziano sono invece dettate da motivazioni in primo luogo umane ed esistenziali, pur se poi espresse in una formulazione geometrica (per il carattere obbiettivo ed intuitivo di quest'ultima), e pur se sempre rispettose e rigorosamente coerenti con l'ordine geometrico.


Si badi bene che la determinazione del carattere di Dio, da parte di Spinoza, non e' da considerarsi un processo strumentale finalizzato ad attribuire specifiche e predeterminate caratteristiche alla "beatitudine" derivante dall'identificazione con Dio, ma e' bensi' conseguente ad una rigorosa e profonda ricerca interiore tesa ad identificare e chiarire le piu' elevate necessita' ed aspettative spirituali dell'uomo, alla ricerca di cio' che caratterizza il suo rapporto con Dio (e quindi anche alla beatitudine connessa al rapporto mistico con Esso).


Anche gli stoici hanno sostenuto la tesi di un universo necessitato, in quanto governato deterministicamente dalla ragione (Logos): tutto cio' che e' avvenuto non poteva che avvenire cosi', come anche per il futuro, nel quadro di una concezione circolare dell'universo, con cicli che si ripetono sempre uguali ogni 36.000 anni ("l'eterno ritorno").
Questo costituisce, anche qui, una difesa contro l'angoscia della scelta e della possibilita', cosi' come del rimpianto.
Questa difesa dall'angoscia risulta apparentemente come una conseguenza della cosmologia e teologia stoica, ma ci si potrebbe domandare se, gia' allora, non siano quest'ultime ad essere state determinate (inconsciamente) da una esigenza di difesa dall'angoscia della scelta e del rimpianto, che in questa cosmologia e teologia trova una risposta (o perlomeno se questa esigenza abbia, in qualche modo, inconsapevolmente concorso alla determinazione di tale cosmologia e teologia).
L'universo necessitato degli stoici non li porta pero' ad una concezione fatalistica, passiva e rinunciataria della vita: se il passato e' stato cosi' e non poteva essere diversamente (e questo elimina il rimpianto), il futuro non e' conosciuto e conoscibile (se non, genericamente, per le divinazioni astrologiche) e pertanto l'uomo nella vita deve attivarsi con tutte le sue forze per realizzare se stesso e la propria natura, cioe' vivere liberamente secondo ragione, lontano dalla schiavitu' delle passioni. Il senso della liberta' negli stoici e' cosi' forte che ritengono che per un uomo, se non gli fosse possibile vivere liberamente secondo ragione, sarebbe preferibile la morte. Allo stesso modo Spinoza, sostenitore di un Dio ed un mondo necessitati, ha un senso cosi' forte della liberta' umana da rendersi protagonista di una rivendicazione di liberta' di religione, di pensiero e di espressione, tra le piu' radicali della storia.


Si osserva che in un tema cosi' intimo e personale come quello religioso non esistono soluzioni o formule migliori o superiori ad altre. Ognuno deve trovare, individualmente, le risposte piu' adatte a se', alla propria storia, alle proprie piu' profonde aspettative e valori. Non avrebbe senso stabilire delle gerarchie tra le varie religioni e le concezioni da queste rappresentate, mentre le convinzioni individuali su questo tema sono da valutarsi sul piano della profondita' della ricerca personale, dell'onesta intellettuale e rigore interiore con cui tale ricerca e' stata condotta, della capacita' di non trasformare le proprie convinzioni in uno strumento di costrizione ed oppressione per gli altri, della coerenza con cui le varie convinzioni vengono vissute, e questo a prescindere dal loro contenuto.
Da questo punto di vista le caratteristiche di profondita', onesta' intellettuale, rigore e coerenza delle convinzioni religiose di Spinoza sono da considerare indubitabili ed altissime, cosi' come quelle delle convinzioni religiose, opposte a quelle di Spinoza, di un suo contemporaneo, Blaise Pascal, cantore della miseria ed inadeguatezza dell'uomo e dell'incertezza che lo avvolge. La sua concezione della condizione e dell'esistenza umana lo portano naturalmente ad un Dio trascendente, cosi' come la diversa concezione della condizione e dell'esistenza umana portano naturalmente Spinoza ad un Dio immanente.
Se si fossero potuti incontrare (cosi' come Spinoza in vita incontro Laibniz) i due si sarebbero serenamente e profondamente confrontati, avrebbero riconosciuto reciprocamente e lealmente il valore l'uno dell'altro, ed alla fine, quasi sicuramente, ciascuno sarebbe rimasto esattamente con le stesse opinioni religiose (frutto di storie personali, valori ed aspettative che non si possono cambiare, a differenza di argomentazioni e ragionamenti).
Uno avrebbe continuato a vedere nell'identificazione con un Dio immanente e necessitato una vuota illusione, lontana dall'effettiva condizione umana, al fondo miserevole e totalmente incerta, caratterizzata da una abissale distanza da Dio che solo la fede e la Grazia riesce a colmare.
L'altro avrebbe continuato a considerare l'abbandono ad un Dio trascendente e dotato di volonta' una condizione dominata da una latente paura e angoscia, propria di chi non riesce a percepire la propria intima connessione con Dio ed il Tutto.
Entrambe, ed e' questo l'importante, si sarebbero certamente lasciati con profondo rispetto reciproco, dato il loro valore morale, e con onesto e sincero rimpianto per non aver convinto l'altro circa quella che ciascuno dei due riteneva, con grande onesta' intellettuale, l'autentica "via di salvezza" (esistenziale e metafisica) per l'uomo.

#7
Spinoza parte dallo stesso punto di inizio assunto da Cartesio, il cogito ergo sum, ma procede nella direzione esattamente opposta a quella assunta da quest'ultimo.
Cartesio, partendo dal cogito ergo sum, vuole rivoluzionare e rifondare le fondamenta della conoscenza umana e le scienze. Spinoza, partendo dal cogito ergo sum, si dirige verso una sfera non umana e non gnoseologica, ma metafisica, verso una concezione di Dio innovativa rispetto ai tradizionali canoni dell'Occidente (Hegel dira' che "con Spinoza per la prima volta l'intuizione orientale dell'identita' assoluta e' stata accostata immediatamente al modo di pensare europeo"), non piu' trascendente e volontaristica, ma assolutamente necessitata ed immanente. Quindi un Dio contenente ogni e qualsiasi cosa, materiale e non, aventi tutte pari dignita' in quanto necessarie emanazioni di Dio stesso, che in Esso si rispecchiano e si identificano.
Tale concezione non puo' non coinvolgere profondamente la sfera umana ed esistenziale: l'uomo avra' come piu' elevato e prioritario obbiettivo il raggiungimento della mistica
consapevolezza dell'unione tra ogni uomo (cosi' come tra ogni cosa) e Dio. Questa consapevolezza, se raggiunta, e' in grado di trasfigurare l'esistenza umana ed il suo significato, portandola ad una condizione di beatitudine e di identificazione con Dio e con il tutto. L'uomo e' cosi' in grado di superare ed eliminare il dolore e la paura propri della condizione umana, cosi' come tutte quelle limitazioni e tribolazioni che ogni individuo e' destinato inevitabilmente a subire nella sua esistenza.
I due aspetti, metafisico (con una nuova concezione di Dio) ed esistenziale (con una nuova collocazione e concezione dell'uomo, delle sue possibilita' e del suo rapporto con Dio), si intrecciano, conferendo reciprocamente valore e forza l'uno all'altro. I temi teoretici della metafisica spinoziana si sposano e favoriscono le soluzioni umane ed esistenziali individuate dal filosofo, cosi' come quest'ultime operano nei confronti dei primi, ed un aspetto senza l'altro non avrebbe potuto portare alla costruzione del complessivo sistema filosofico spinoziano.


A determinare il percorso del pensiero di Spinoza, caratterizzato dai due aspetti sopra detti (metafisico ed esistenziale), concorrono presumibilmente due elementi in particolare, da una parte la fascinazione generata dall'incontro con l'intuizione del cogito ergo sum (fascinazione assai diffusa e generalizzata nella sua epoca), dall'altra le dolorose esperienze personali che hanno profondamente segnato l'esistenza del filosofo, vissute per di piu' in un contesto storico tra i piu' caotici e sanguinosi, esperienze che hanno posto al centro della sua riflessione la dimensione umana ed esistenziale e la necessita' di una via di uscita dal dolore e dalla paura. A questo proposito, nella prefazione al "Trattato sull'emendazione dell'intelletto" (pubblicato postumo, ma iniziato presumibilmente nel 1656, anno della sua scomunica dalla chiesa ebraica) si legge: "dopo che l'esperienza mi insegno' che tutto quello che si incontra comunemente nella vita e' vano e futile, vedendo che tutto cio' da cui temevo e che temevo non aveva nulla in se' ne' di bene ne' di male se non in quanto il mio animo se ne commuovesse, stabilii finalmente di ricercare se vi fosse un vero bene che si comunicasse a chi l'ama e ne occupasse da solo l'animo respingendo tutte le altre cose: se ci fosse qualcosa, trovata ed ottenuta la quale, io potessi in eterno godere continua e somma letizia".


Relativamente al primo elemento (la fascinazione generata dall'incontro con l'intuizione del cogito ergo sum), si osserva che, nel quadro storico di un riscoperto neoplatonismo rinascimentale, con i suoi echi spirituali e panteistici, e di un rigoglioso e ed innovativo sviluppo scientifico, la scoperta dell'intuizione del cogito ergo sum e' stata probabilmente la scintilla che ha innescato un processo tale da portare alla metafisica ed al misticismo spinoziano, vale a dire ad identificare l'uomo (cosi' come ogni cosa) in Dio, in quanto emanazione ed espressione necessaria di quest'ultimo.
Di fatto gia' con il cogito ergo sum cartesiano si era determinato, in qualche modo, un avvicinamento dell'uomo e del suo pensiero a Dio, come mai prima nella storia.
Questo avvicinamento e' dato dalla capacita' dell'uomo di concepire una intuizione (il cogito ergo sum) potenzialmente in grado di opporsi e resistere, nella sua indubitabilita' e certezza, ad eventuali tentativi di falsificazione anche da parte di un Dio ingannatore. E' presumibilmente questa consapevolezza che porta Cartesio a sostituire quasi immediatamente l'immagine di un Dio ingannatore con quella di un genio maligno (piuttosto che il fatto che Dio, sommamente buono, non puo' volerci ingannare).
Nella trattazione cartesiana il cogito ergo sum e' l'unico concetto in grado di superare il dubbio metodico cartesiano, dubbio che dopo tale superamento non verra' piu' applicato ai successivi concetti elaborati ed esposti da Cartesio, in particolare quello delle idee chiare e distinte. Quest'ultime verranno dichiarate (senza dimostrazione e senza essere sottoposte all'esame del dubbio metodico) essere alla base della validita' e del valore del cogito ergo sum, e portate a fondamento della nuova concezione scientifica cartesiana. Il cogito ergo sum verra' invece svalutato (e non riconosciuto nella sua unicita') come uno dei tanti possibili esempi di idea chiara e distinta. E' come se Cartesio, avendo come principale obbiettivo la rifondazione della conoscenza umana e delle scienze, non si accorgesse (o preferisse ignorare, in quanto lontano dal suo obbiettivo) del valore e dell'unicita' del cogito ergo sum, e delle conseguenti implicazioni e suggestioni derivanti da tale concetto.
Implicazioni e suggestioni colte invece pienamente da Spinoza e che concorreranno all'elaborazione del suo sistema filosofico, in cui l'uomo arrivera' ad una mistica identificazione con Dio.


Relativamente al secondo elemento (le dolorose esperienze personali di Spinoza che lo hanno portato a porre al centro della sua riflessione la dimensione umana ed esistenziale), occorre necessariamente fare una premessa.
Il filosofo e' prima di tutto un uomo, che nell'elaborare il proprio sistema filosofico (per quanto apparentemente determinato dalla sola impersonale ricerca di una "Verita' " universale e generale) non puo' non considerare, anche inconsciamente, i propri personali valori umani, la propria intima concezione dell'esistenza, delle sue necessita' ed aspettative, del suo significato (a questo proposito si puo' dire che il paradiso esistenziale di Kant e', in qualche modo, l'inferno esistenziale di Hegel, e viceversa). Questi fattori potranno avere un ruolo piu' o meno grande nell'elaborazione di un sistema filosofico, essere piu' o meno espliciti o addirittura essere apparentemente assenti, ma non potranno comunque essere ignorati (consapevolmente o inconsapevolmente) tanto da portare all'ideazione di un sistema in contrasto con tali valori e tali concezioni: il "mare senza rive" del pensiero, del resto, offre infinite possibilita' di pervenire (anche inconsapevolmente) a sistemi che non confliggano, in ogni caso, con essi.
Vi sono poi pensatori che all'intima dimensione umana ed esistenziale, alle sue necessita' ed al suo significato attribuiscono un ruolo ed un peso centrale nella propria opera. Tra questi Socrate, Epicuro, Pascal e, sicuramente, Spinoza.


Spinoza visse in un'epoca segnata da conflitti tra i piu' sanguinosi della storia, la fine della guerra "dei trent'anni" (di origine religiosa) era ancora recente, e costellata da continui e violenti scontri tra parti contrapposte (in Olanda repubblicani contro orangisti, con il linciaggio da parte della folla dei fratelli De Witt, di cui Spinoza fu spettatore).
In questo contesto il filosofo si era trovato a nascere in una famiglia "marrana" di origini portoghesi, quindi ebrei a suo tempo convertiti piu' o meno a forza al cattolicesimo, e ritornati all'ebraismo una volta giunti ad Amsterdam (all'epoca definita la "nuova Gerusalemme" per la buona accoglienza riservata agli ebrei), dove Spinoza nacque.
In Portogallo i "marrani" erano odiati piu' degli stessi ebrei praticanti, e nel 1506 a Lisbona piu' di 2.000 marrani furono massacrati in due giorni dalla folla inferocita. Gli stessi ebrei non marrani, secondo la storiografia, tennero verso i marrani un variegato atteggiamento, che andava dalla solidarieta' alla piu' ferma condanna per il loro "tradimento", tanto da collaborare, in alcuni casi, alla loro persecuzione.
Spinoza visse lo stesso doppio rifiuto nella sua vita, ed affermo' come venisse emarginato dai cristiani in quanto ebreo, ed emarginato dagli ebrei in quanto eretico. Nella formula della sua scomunica da parte della sinagoga di Amsterdam si legge che ogni ebreo avrebbe dovuto evitare ogni rapporto con lui (per cui fu allontanato dalla famiglia) e tenersi "ad una distanza di 4 gomiti". La scomunica si tenne nello stesso luogo dove, anni prima, aveva assistito all'esecuzione di una pubblica flagellazione, considerata necessaria per riammettere all'ebraismo un individuo (suo lontano parente) precedentemente scomunicato. Se mai c'e' stato un uomo che, alla luce della sua esistenza, non poteva accettare delle religioni che in primo luogo giudicassero e condannassero, cosi' come dei sistemi politici discriminanti e negatori della liberta' di pensiero, questo e' stato Spinoza.
Le numerose costrizioni e limitazioni subite nella sua esistenza, vissute sempre con grande dignita' e forza morale, gli ispirano la volonta' di ricercare (usando le sue parole, precedentemente citate) "se vi fosse un vero bene che si comunicasse a chi l'ama e ne occupasse da solo l'animo, respingendo tutte le altre cose: se ci fosse qualcosa, trovata ed ottenuta la quale, io potessi in eterno godere continua e somma letizia".
L'isolamento (che finira' per deliberatamente mantenere e difendere, in quanto condizione di liberta') in cui necessariamente vive, se si esclude una ristretta cerchia di amici ed estimatori (nonche' il carteggio con illustri pensatori, tra cui Laibniz), gli permettera' una liberta' di pensiero assoluta, che portera' all'ideazione di un sistema filosofico ed una metafisica profondamente innovativi per l'Occidente. Il "vero bene" in grado di dare "continua e somma letizia" e di far superare dolori e paure verra' individuato in una concezione mistica dell'uomo e del mondo, in unione ed identificazione (come tutte le cose) con Dio.


Naturalmente parlare genericamente di misticismo e di identificazione con Dio e' troppo vago ed indeterminato, un dire tutto e niente, tante sono state le forme che ha assunto nella storia del pensiero, dal ritorno all'Uno di Plotino all'"eroico furore" di Giordano Bruno, questo profondo percepire un'intima unione con Dio, in grado di trasfigurare la vita (ed il senso ad essa attribuito) di chi a tale percezione si avvicina.
Comune alle varie forme di misticismo e' il piano intuitivo, estatico, al di la' ed al di sopra del piano razionale e concettuale, con cui si perviene all'unione con Dio (quest'ultimo, in quanto entita' unificante e suprema, tale da superare ed eliminare ogni distinzione, non puo' essere colto da cio' che peculiarmente analizza e quindi divide, cioe' il piano razionale). Altra caratteristica comune alle varie forme di misticismo e' la sensazione di beatitudine ed armonia che si accompagna all'identificazione con Dio, dove ogni contrasto e contrapposizione viene superata, ogni necessita' e passione eliminata, in uno stato di totale pacificazione con se stessi e con il tutto.
Questo stato di beatitudine e' insieme conseguenza (quindi con uno rapporto di causa effetto) ma anche elemento costitutivo ed imprescindibile dell'unione con Dio, e quindi concorre a determinare ed identificare il carattere da attribuire a Dio perche' questo risulti effettivamente tale (cioe' in grado di corrispondere alle nostre piu' intime e profonde aspirazioni, in quanto da considerare come da Dio stesso ispirate).


Da questo punto di vista le vicende personali di Spinoza, intrecciate con gli avvenimenti storici e l'evoluzione del pensiero propri del suo tempo, hanno probabilmente concorso a delineare in lui un concetto di beatitudine, o "letizia" come da lui definita, che non poteva accordarsi ad una unione con un tradizionale Dio trascendente e creatore, finalistico e dotato di volonta', quindi un Dio che giudica ed anche condanna ed esclude.
L'unione mistica con un Dio di questo tipo avrebbe in ogni caso comportato un abbandono (di abbandono e non di identificazione deve necessariamente parlarsi nel caso di un Dio trascendente), e quindi un atto di fiducia verso quest'ultimo. Ma Spinoza non aveva fiducia in un Dio di questo tipo, per lui sarebbe stato impossibile percepire una unione totale con un dio trascendente, che necessariamente e' "altro" ed "al di sopra" rispetto all'uomo, un Dio che giudica e potenzialmente condanna ed esclude, a differenza di un Dio immanente e necessitato di cui l'uomo e' parte integrante e con cui l'identificazione e' sempre e comunque totale, e l'inclusione garantita.
                      (continua in successivo messaggio)
#8
Citazione di: iano il 29 Ottobre 2024, 21:41:37 PMIntuisco una contraddizione in ciò che affermi.
O quantomeno non è una affermazione che riguarda la matematica pura, ma più la fisica matematica, cioè una matematica che nasca avendo  già come obiettivo un campo di applicazione preciso.
La matematica pura non nasce avendo un campo di applicazione in partenza, anche se non mi sento di escludere che ci sia una vocina interna che suggerisca ai matematici quali assiomi scegliere, se poi le loro teorie trovano applicazione inattesa nei problemi fisici del momento.
Ci sono gli assiomi della geometria, quelli della logica e quelli della matematica. Con "campo di applicazione" mi riferivo per i primi alla geometria, per i secondi alla logica (e non ad un campo di applicazione concreto o riferito a qualche scienza), omettendo la matematica in quanto non "completa". Per questo scrivevo: "gli assiomi... devono comunque essere tali da essere adeguati e sufficenti per rendere dimostrabile qualsiasi affermazione relativa al loro campo di applicazione, se possibile (come nel caso della geometria e della logica, di cui si e' dimostrata la completezza)".
Citazione di: iano il 29 Ottobre 2024, 22:02:55 PMIn fatti Hilbert porta a compimento il lavoro di Euclide, il quale ha come applicazione predefinita il modo in cui noi percepiamo lo spazio fisico, fatto di cose per noi evidenti, e per questo agli assiomi di Euclide è richiesto di essere evidenti.
Godel fa invece riferimento alla logica e alla matematica pura, cioè quella che nasce senza avere un campo di applicazione predefinito, e nascendo per nessuna applicazione in particolare , ai suoi assiomi non è richiesta alcun evidenza, né alcun significato particolare, cioè quanto di più lontano di qualcosa che somigli ad un
''a priori''.
Certamente una cosa e' la geometria ed un'altra e' la matematica. Parlando della "completezza" della matematica ho aggiunto tra parentisi "(in geometria i 5 postulati di Euclide non erano sufficienti a renderla "completa", ma i 21 di Hilbert si, ed Hilbert lo dimostra)", solo per esemplificare il processo che avrebbe dovuto seguire anche la matematica per arrivare a dimostrare la propria "completezza" (che tutti davano erroneamente per scontata), cosi' come era stata dimostrata la "completezza" della geometria.
Relativamente alla geometria, gia' con gli assiomi di Euclide si raggiunge un certo grado di astrattezza per l'epoca in cui sono stati concepiti, con punti adimensionali, rette infinite, il concetto di rette parallele ricavabile dal quinto postulato, anche se niente di paragonabile allo spazio vettoriale hilbertiano con elementi non piu' dati da punti dello spazio euclideo, ma da vettori (costituiti ciascuno dagli infiniti componenti di una serie numerica convergente), tale da far perdere alla geometria ogni carattere di evidenza.
#9
Citazione di: iano il 29 Ottobre 2024, 00:09:34 AMIn cosa si differenzia una affermazione della cui verità o falsità nulla possiamo dire, da un assioma della cui verità o falsità nulla siamo tenuti a dire?
Gli assiomi sono i punti di partenza, dati e posti arbitrariamente (in quanto non devono essere dimostrati), mentre le affermazioni da dimostrare sono i punti di arrivo. Se posto ed individuato correttamente si era sempre pensato che un sistema iniziale di assiomi avrebbe potuto dimostrare (in positivo od in negativo) qualsiasi affermazione (quindi ipotesi o cogettura) di tipo matematico (in geometria i 5 postulati di Euclide non erano sufficienti a renderla "completa", ma i 21 di Hilbert si, ed Hilbert lo ha dimostrato). Il teorema di Godel ha dimostrato il contrario di quanto si pensava, vale a dire che non esiste un sistema di assiomi in grado di dimostrare qualsiasi affermazione matematica non perche' non e' stato ancora individuato, ma perche' tale sistema di assiomi necessariamente non puo' esistere. Ad oggi non e' stata ancora trovata una affermazione matematica "indecidibile" nel senso indicato da Godel, ma sappiamo che puo' esistere.
Gli assiomi inoltre sono arbitrari nel senso che sono liberamente individuabili, non sono l'espressione ed il prodotto della mente umana o di verita' divine, ma devono comunque essere tali da essere adeguati e sufficienti per rendere dimostrabile qualsiasi affermazione relativa al loro campo di applicazione, se possibile (come nel caso della geometria e della logica, di cui si e' dimostrata la completezza). Oltre a questo gli assiomi devono essere anche "consistenti", cioe' tali da non determinare conclusioni e risultati tra loro contraddittori. Godel partendo dalla sua dimostrazione della non "completezza" della matematica arrivo' a dimostrare anche la non "consistenza" della stessa.


Citazione di: iano il 29 Ottobre 2024, 00:20:07 AMBeh, no, direi che sono due problemi di tipo diverso.
Accettando i numeri irrazionali abbiamo svincolato il concetto di numero dal modo in cui lo intuiamo, mentre l'incompletezza interviene in una matematica ormai svincolata del tutto dalla nostra intuizione, se non nella misura residua della possibilità di intuire un teorema che vada poi dimostrato, come ben dici.
Con "Allo stesso modo secoli fa..." mi riferivo alla modalita' di risoluzione del problema, cioe' ad un allargamento dei confini della matematica rispetto a quelli tradizionalmente fissati, e non al contenuto dello stesso. Il tentativo di introdurre una nuova branca della logica matematica, definita meta matematica, sembrerebbe andare in questa direzione

#10
Al di la' della fondatezza del concetto di giudizio "sintetico a priori" alla luce del successivo dibattito sviluppatosi in ambito matematico e filosofico (di cui si dira' piu' avanti), tale concetto appare funzionale agli scopi generali che Kant si era prefisso con la sua opera: limitare e portare nel giusto ambito le pretese della ragione umana, rivendicandone e valorizzandone nel contempo le legittime potenzialita' e capacita'. Questo avrebbe poi comportato per l'uomo una liberta' mai sperimentata prima e la possibilita' di riconoscere la propria effettiva condizione umana, libero da paure e vincoli e pienamente consapevole di se'.
A tale scopo Kant utilizza congiuntamente categorie e concetti propri sia del razionalismo che dell'empirismo (scuole di pensiero fino ad allora totalmente separate e considerate inconciliabili e non relazionabili), al fine di limitarli reciprocamente. L'esperienza fenomenica viene considerata indispensabile ed imprescindibile, ma questa deve essere letta e declinata con le forme e le categorie a priori, forme e categorie innate nell'uomo e quindi universali e necessarie, ma che per esplicarsi e rivelarsi devono a loro volta relazionarsi indispensabilmente con la realta'. L'esperienza fenomenica senza le forme e le categorie a priori risulterebbe incomprensibile e priva di significato, ma quest'ultime non sarebbero neanche percepite ed utilizzate se non venissero automaticamente ed inconsciamente applicate in ambito fenomenico. Con Kant la "tabula rasa" degli empiristi e' in realta' riempita dalle forme e categorie a priori, ma tale "tabula" non e' leggibile se non proiettata sull'immagine del mondo, cosi' come percepita nell'esperienza fenomenica.
Con il concetto di conoscenze "sintetiche a priori" applicato alla matematica ed alla geometria quest'ultime, pur conservando il loro carattere universale e necessario in quanto a priori, possono nel contempo essere avvicinate alle scienze sperimentali, sintetiche a posteriori (come la fisica, che solo in alcune proposizioni fondamentali risulta sintetica a priori, e che all'epoca vedeva un grandissimo sviluppo), e questo relativamente sia al metodo di scoperta ed indagine che alla natura di tali scoperte, realmente nuove e non tautologiche, e pertanto sintetiche.
Sempre in quanto sintetiche a priori, matematica e geometria possono essere differenziate nettamente dalle conoscenze analitiche a priori, ricollegabili di fatto per Kant in primis con la logica quale si era fino ad allora manifestata, riferibile principalmente alla scolastica ed alla teologia, con un asfittico e prevalente utilizzo di sillogismi e produttrice di tautologie.
Il matematico viene cosi' avvicinato da Kant agli scienziati sperimentali, solo che i primi non possono avvalersi, come invece i secondi, dei dati dell'esperienza. Entrambe hanno di fronte a se' un insieme di dati e di possibilita', inizialmente caotico ed "ermetico", offerti dai dati osservati per il secondo e dall'elemento matematico o geometrico di partenza (sia esso un triangolo, un'equazione di terzo grado ecc.) per il primo. Per entrambi la possibilita' di effettuare nuove scoperte (teoremi per il primo, leggi fisiche per il secondo), e quindi giudizi sintetici in cui il predicato non sia gia' implicito e presente nel soggetto, e' dato esclusivamente da un atto intuitivo (rispettivamente puro ed empirico). Scrive Kant: "la sintesi in generale... e' il semplice effetto della capacita' di immaginazione, di una cieca, ma indispensabile funzione dell'anima, senza la quale non avremmo assolutamente mai una conoscenza, ma della quale siamo coscienti solo di rado".
Per il matematico la deduzione logica ed analitica non ha alcun ruolo in quest'opera di scoperta di nuovi teoremi, e solo a scoperta avvenuta la deduzione logica ed analitica entrera' in gioco per dimostrare la correttezza logico formale del teorema, operando la consueta dimostrazione (assiomi-dimostrazione rigorosa-teorema).

Quanto indicato da Kant per i giudizi sintetici a prori, che ha innegabilmente come conseguenza una difesa ed una valorizzazione della matematica e della geometria, costituisce pero' anche la base di una delle due principali concezioni sui fondamenti della matematica sviluppatesi nei decenni successivi a Kant (anche con riferimento al ruolo dell'intuizione nelle scoperte matematiche), vale a dire la concezione intuizionista di Poincare', Brouwer, Sylvester. Tale concezione e' sorta in contrapposizione al logicismo di Frege e Russel (in cui la matematica si identifica di fatto con la logica, che ne costituisce il fondamento) ed al formalismo di Hilbert (in cui la matematica, partendo da premesse ed assiomi assolutamente arbitrari, giunge a conclusioni valide mediante il rispetto formale di regole convenzionalmente stabilite). Per quest'ultime due scuole di pensiero dunque la matematica non e' caratterizzata da un contenuto e non e' l'espressione di facolta' e predisposizioni umane, ma si caratterizza per il rigoroso rispetto di regole formali, per l'assunzione di assiomi arbitrari e per un elevato livello di astrazione.
Ben diverso l'approccio degli intuizionisti, che vedono la matematica come espressione della mente ed intelligenza umana e delle leggi che la governano, per cui tale disciplina procede mediante intuizioni che si rendono immediatamente evidenti nei loro concetti e nelle loro conclusioni. Sylvester scriveva che la matematica trae origine "direttamente dalle facolta' ed attivita' inerenti alla mente umana, e da una continua introspezione del mondo interiore del pensiero". Poincare', in analogia con quanto indicato da Kant affermava che "la logica dimostra, ma e' l'intuizione che scopre (i teoremi matematici)". In Scienza e Metodo arriva ad evidenziare il ruolo dell'inconscio nella ricerca matematica, con importanti scoperte che vengono intuite improvvisamente ed inaspettatamente, quando la mente e' rivolta a tutt'altro, o addirittura in sogno.
Le scuole di pensiero logicista e formalista hanno certamente avuto nel tempo un ruolo ed un peso largamente prevalente nel dibattito sui fondamenti della matematica, ed il loro apparato concettuale e' risultato egemone negli sviluppi di ogni campo della matematica e della geometria. Per esemplificare l'astrattezza ed il rigore formale dell'approccio logicista e formalista puo' considerarsi il concetto di uguaglianza tra numeri. Tale concetto, tra i piu' intuitivi ed evidenti, da Frege (ed e' questa la concezione oggi accettata ed utilizzata) viene definito mediante la nozione di corrispondenza biunivoca tra insiemi mutuata da Cantor
(ma in questo caso considerando insiemi finiti e non infiniti), per cui due insiemi finiti hanno lo stesso numero cardinale, cioe' sono uguali, se gli elementi di un insieme possono essere messi in corrispondenza biunivoca con gli elementi dell'altro insieme. Piu' in generale, per Frege, un numero cardinale e' un insieme di tutti gli insiemi i cui elementi possono essere messi in corrispondenza biunivoca con gli elementi di un insieme iniziale dato (ad esempio, l'insieme delle dita di una mano, che va poi a costituire il numero 5 con l'insieme degli insiemi).
Logicismo e formalismo hanno conseguito notevoli successi, come la dimostrazione della "completezza" della geometria hilbertiana (basata su 21 assiomi, rispetto ai 5 assiomi euclidei), oltre che della logica cosi' come formulata da Russel e Whitehead (ed e' stato Godel a darne dimostrazione). Il tentativo di quest'ultimi di dimostrare la completezza della matematica (da sempre considerata scontata, pur in assenza di una dimostrazione formale) e' invece clamorosamente fallito con la scoperta del teorema delle proposizioni indecidibili di Godel, che ha dimostrato come la matematica, di per se' e per sua stessa natura, possa sempre presentare la possibilita' di affermazioni ed ipotesi non dimostrabili (nella loro verita' o falsita') per qualsiasi sistema di assiomi che venga adottato, per cui la matematica e' da considerarsi "incompleta". Da specificare che questo fatto, assai importante per i logici e per il dibattito sui fondamenti della matematica, storicamente lo e' stato assai meno per i matematici (che lo hanno quasi ignorato).
In relazione all'approccio logicista sulla fondazione della matematica ed ai suoi sviluppi, alla luce della "incompletezza" della matematica, potrebbero emergere a mio parere tre possibili scenari in futuro:
1  Le attuali difficolta' relative alla incompletezza della matematica potrebbero essere riassorbite nell'ambito di una visione della matematica piu' ampia di quella attuale, nei cui accresciuti confini possa essere sanata l'attuale contraddizione. Allo stesso modo secoli fa l'allora sconcertante scoperta dei numeri irrazionali e' stata riassorbita incorporando tali numeri in una piu ampia classe di numeri, in precedenza sconosciuta, con il passaggio dai numeri razionali a quelli reali. A tale proposito si sta ora provando ad utilizzare ed introdurre una nuova ed innovativa branca della logica matematica, definita meta-matematica, che non si occupa dei simboli e delle operazioni dell'aritmetica, ma dell'interpretazione di questi segni e di queste regole
2  Si prendera' atto della incompletezza della matematica e delle sue conseguenze, adattandosi ed adeguandosi a tale situazione (che non si sa se provvisoria o meno), cosi' come si e' preso atto e ci si e' adattati alle anomalie della fisica quantistica ed alle sue conseguenze, che al momento comporta un dualismo tra quanto governato da questa fisica (microcosmo e tre delle quattro forze fondamentali: elettromagnetismo, debole e forte) e quanto governato dalle leggi della relativita' (macrocosmo e forza gravitazionale)
3  Il problema della incompletezza della matematica perdera' centralita' ed importanza, cosi' come in generale il dibattito tra intuizionisti e logicisti-formalisti, che potrebbe in futuro venir interpretato come un indebito sconfinamento della matematica in problematiche piu' filosofiche ed epistemologiche che scientifiche. Questa e' in effetti una tendenza che si sta affermando. Relativamente a drastici cali di interesse su questioni in precedenza considerate cruciali, si rileva come nelle discipline economiche per anni si sia dibattuto sull'attribuzione del valore e la determinazione dei prezzi, per le sue possibili conseguenze politiche. Il tema ha perso ogni interesse quando si sono scoperte le uniche soluzioni possibili al problema (le precedenti erano viziate da sistemi con variabili funzioni di se stesse), da parte di Sraffa e di Von Neumann, che pero' non hanno offerto alcuna risposta alle ipotizzate conseguenze politiche

Al logicismo di Russel si sono collegate correnti filosofiche che nella scienza e nella logica formale hanno trovato i propri principali ispiratori, quali la Scuola di Vienna che ha poi dato origine al neo empirismo logico. Queste correnti, avendo come obbiettivo il superamento di qualsiasi metafisica e qualsiasi dogmatismo, non potevano non attaccare l'innatismo implicito nell'a priori kantiano. Anche l'empirismo tradizionale, del resto, viene attaccato da tali correnti per l'assenza di un ruolo fondamentale attribuito alla logica, assenza che ne determina, di conseguenza, un orientamento biologico e psicologico.
Hahn, Neurath e Carnap scrivevano: "l'analisi logica vince non solo la metafisica nel senso proprio, classico della parola, specialmente la metafisica scolastica e quella dei sistemi dell'idealismo tedesco, ma anche la cripto-metafisica dell'apriorismo kantiano e moderno.
La concezione scientifica del mondo non riconosce nessuna conoscenza incondizionatamente valida derivata dalla pura ragione, nessun "giudizio sintetico a priori" del tipo di quelli che stanno alla base dell'epistemologia kantiana e di tutta l'ontologia e la metafisica pre e post kantiana... La concezione scientifica del mondo ammette solo proposizioni empiriche su cose di ogni specie e proposizioni analitiche della logica e della matematica... E' il metodo dell'analisi logica che distingue il moderno empirismo... dalla precedente versione che aveva un orientamento piu' biologico e psicologico".
Piu' in generale il neo empirismo logico si riprometteva, mediante un empirismo ancorato ad una logica formale valida di per se', priva di qualsiasi connotato innatistico, di rappresentare un punto di svolta ed un cambio di prospettiva rispetto al secolare, ed ormai logoro, dualismo gnoseologico tra un innatismo (qualsiasi mutevole forma abbia assunto nel tempo) che inevitabilmente sfocia in dogmatismo ed arbitrarieta', ed un empirismo privo di certezze e fondamenta.
Relativamente al ruolo ed alla natura della logica, che in questa ed in altre correnti di pensiero del novecento svolge un ruolo centrale, si rileva una generale e progressiva tendenza ad attribuire alla stessa caratteri maggiormente "convenzionalistici" rispetto alle formulazioni inizialmente adottate (ad esempio con la teoria dei giochi linguistici in Wittgenstein)

#11
Varie / Re: Rastislav e l'enigma del numero magico
13 Ottobre 2024, 18:25:12 PM
Ciao Eutidemo
Tu hai perfettamente ragione su quanto dici nel presupposto di trovarci di fronte ad un problema esclusivamente matematico, di calcolo numerico, in cui l'attenzione e' concentrata sulla risoluzione matematica del problema e per delineare il quadro complessivo e gli elementi costitutivi del problema stesso, i suoi presupposti, bastano sintetiche e concordanti indicazioni, la cui elaborazione si muove nel campo del presumibile e dell'intuibile.
Ma se lo stesso problema viene trattato da un punto di vista logico formale il "presumibile" non basta piu', le indicazioni fornite per chiarire i presupposti del problema non e' sufficiente che siano concordanti, la loro interpretazione non puo' essere considerata solo come intuibile e scontata, ma deve essere univoca e certa, e qualsiasi possibilita', anche la piu' remota ed improbabile, deve essere considerata al pari di quelle piu' probabili e presumibili.
Nel prospettare ed illustrare l'enigma di cui si discute si e' giustamente privilegiata una visione del problema come principalmente di tipo matematico, di calcolo numerico. Di conseguenza i presupposti e le condizioni iniziali poste al problema stesso sono costituite da concordanti indicazioni ed esempi, assolutamente significative nell'ambito di un problema matematico ed esplicite nel chiarire le intenzioni e la volonta' dell'autore.
Il fatto e' che qualsiasi problema puo' essere trattato da un punto di vista logico formale, e quindi concentrando l'attenzione sui presupposti e sulle condizioni iniziali poste, per verificare che i paletti ed i limiti apparentemente fissati, piu' che validi nell'ambito di un problema matematico, lo siano altrettanto nell'ambito di una trattazione logico formale.
Io, che non conoscevo la soluzione a=987.654.321 (e sinceramente non ci sarei mai arrivato), avevo trovato una possibile soluzione (comportante cifre intermedie tutte uguali tra loro) in contrasto pero' con quanto fissato e posto come condizione mediante indicazioni concordanti ed esempi. Si trattava pertanto di verificare che quanto fissato e posto come condizione risultasse ancora valido dopo una verifica logico formale.
Ad opporsi ad una soluzione comportante cifre intermedie tutte uguali tra loro erano esenzialmente due elementi:
a) un esempio fatto in cui le le 8 possibili cifre intermedie, inserite in 8 diverse equazioni, venivano indicate con 8 lettere diverse
b) in un aiuto fornito, ed a puro titolo di esemplificazione, a 3 di queste lettere venivano attribuite specifiche cifre (b=6, c=8, d=3), e si specificava poi "ovviamente i numeri dell'esempio non sono quelli della soluzione".
Questi 2 elementi, tra loro concordanti, davano indicazioni piu' che sufficenti per un problema visto come esclusivamente matematico, e determinavano l'esclusione della soluzione comportante cifre intermedie tutte uguali tra loro.
Trattando pero' il problema da un punto di vista logico formale si vedeva innanzi tutto che mancava una esplicita affermazione che le cifre intermedie dovevano essere tutte diverse tra loro, affermazione univoca e certa che avrebbe eliminato ogni dubbio dal punto di vista formale. In piu' i due elementi "a" e "b" sopra detti, pur costituendo indicazioni concordanti e pertanto assai significative per un problema di tipo matematico, se verificate dal punto di vista formale perdevano la loro significativita', trattandosi solo di esempi ed esemplificazioni.
Relativamente al punto "a" si osserva, tra l'altro, che l'utilizzo di 8 lettere diverse per le 8 possibili cifre intermedie avrebbe potuto essere determinato dalla volonta' di fornire la piu' ampia e generica gamma delle soluzioni possibili (anche nel caso che le cifre intermedie fossero state tutte uguali, utilizzare un'unica lettera avrebbe costituito una precisa indicazione ed un restringimento del campo delle possibilita'). A questo mi riferivo quando dicevo che l'utilizzo delle 8 lettere aveva lo scopo di rendere piu' difficile la soluzione, semplicemente il fatto che cosi' veniva presentata la piu' ampia e generica gamma possibile delle soluzioni, senza restringimento del capo delle possibilita'.
Relativamente al punto "b" trattasi di una semplice esemplificazione, per di piu' seguita dall'osservazione "ovviamente i numeri dell'esempio non sono quelli della soluzione", per cui formalmente come soluzione ad ogni lettera potrebbe assegnarsi qualsiasi cifra tra 1 ed 8, al limite anche una stessa cifra per tutte, in quanto possibilita' non esclusa formalmente.
Allo stesso modo, e per la stessa ragione, anche per il punto "a" potrebbe aversi che dietro le 8 lettere vi sia un'unica ed identica cifra, sempre da un punto di vista formale.
Avevo pertanto ottenuto una soluzione in contrasto con le indicazioni concordanti e valide nell'ambito di un problema considerato di tipo matematico, ma invece sostanzialmente accettabile nell'ambito di un approccio logico formale (in quanto i paletti validi per un approccio del primo tipo venivano meno con un approccio logico formale).
Non conoscendo la soluzione a=987.654.321 (a cui, ripeto, io non sarei mai arrivato), e non sapendo dell'esistenza o meno di altre soluzioni (pur ritenendola molto probabile), mi sono anche chiesto se l'assenza di una esplicita menzione del fatto che le cifre intermedie dovevano essere tutte diverse, cosi' come la natura dei punti "a" e "b" sopra detti (validi per un approccio matematico, ma non per un approccio logico formale) non fosse in qualche modo voluta. Questo, eventualmente, per permettere una soluzione del tipo "tutte le cifre intermedie uguali" superando i paletti posti dai punti "a" e "b" in forza di una verifica formale degli stessi.
A prescindere da questo, comunque, il fatto di introdurre un approccio logico formale permetteva in ogni caso di rendere accettabile la soluzione prospettata (cifre intermedie tutte uguali), eliminando di fatto i vincoli posti da "a" e "b". Per questo ho scritto in un altro messaggio che "la soluzione prospettata (a uguale a qualsiasi numero composto dalla sola cifra 1 (11, 111, 1.111 e cosi' via) possa essere considerata altrettanto valida di a=987.654.321". Il valore di a prospettato e' poi quello che determina a sua volta la soluzione "cifre intermedie tutte uguali" e pari a 9.
Nel primo messaggio inviato sono stato molto sintetico (solo "a uguale a qualsiasi numero composto dalla sola cifra 1 – 11, 111, 1.111 e cosi' via - ), in attesa di conoscere che tipo di risposta avrei avuto (non accettabile in quanto le cifre intermedie sono tutte uguali, oppure va bene nonostante le cifre intermedie siano tutte uguali in quanto i paletti apparentemente fissati non operano in forza di una verifica formale degli stessi, o altre di altro tipo). La risposta mi ha un po' spiazzato, per cui nel secondo messaggio ho cercato soprattutto di chiarire i termini della soluzione proposta lasciando in secondo piano il tema dei paletti presenti nel problema ed i possibili approcci a quest'ultimo (matematico o logico formale), temi che affronto nel presente messaggio.

Faccio una precisazione: tutto quanto ho fin qui detto da' per scontato che un problema che nasce evidentemente come problema matematico possa poi essere trattato e valutato in termini logico formali. Se per regola tacita, o per tradizione consolidata (io ho avuto modo di vedere molti pochi enigmi) questo non e' considerato accettabile, perche' magari si spostano i termini del discorso, si devia l'attenzione da un aspetto gia' sufficientemente complicato come quello matematico, o per qualsiasi altra ragione, io ne prendo atto e tutto il discorso fin qui fatto viene doverosamente meno

Un cordiale saluto
#12
Varie / Re: Rastislav e l'enigma del numero magico
10 Ottobre 2024, 15:11:33 PM
Nelle condizioni indicate si dice solo che le cifre intermedie devono essere tutte uguali tra loro ma non si dice che ad ogni numero (18, 27 ecc.) le cifre intermedie tutte uguali devono cambiare e non possono essere uguali tra loro. Solo nell'esempio fornito si utilizzavano poi convenzionalmente lettere diverse ma nulla vieterebbe, date le condizioni indicate, che b=c=d ecc.  Io avevo pensato che trattandosi di un enigma, l'utilizzo di lettere diverse fosse un modo legittimo e voluto per rendere la soluzione piu' difficile.
Nella mia soluzione la cifra intermedia per tutti i numeri e' data da 9. Infatti:

18*11=198      18*1.111= 19.998
27*11= 297      27*1.111= 29.997
e cosi' via.

Questo succede perche' i numeri da te indicati (18, 27, 36.....) sono in successione dei multipli di 9 (9*2, 9*3 ecc.) ed i multipli di 9 presentano in sequenza la prima cifra pari ad 1 (18), poi pari a 2 (27) ecc. fino ad arrivare ad 8 (81), mentre l'ultima cifra (che nel caso del 9 e' necessariamente anche la seconda) parte da 8 (18), poi scende a 7 (27) ecc. fino ad arrivare ad 1 (81) (questo del resto e' quello che indicavi anche tu "Notate che le prime cifre sono tutte ascendenti (12345678), le ultime tutte discendenti (87654321)", e questo pensavo fosse un suggerimento a notare che i numeri indicati fossero dei multipli di 9).
Da notare che la prima cifra inizialmente pari ad 1, poi 2 ecc, fino ad arrivare ad 8, e l'ultima cifra (nonche' la seconda nel caso di multipli del 9) inizialmente pari ad 8, poi 7 ecc. fino ad arrivare ad 1, e' una caratteristica non solo dei multipli del 9, ma anche dei multipli del 99, 999, 9.999 ecc. (per il 99: 198, 297, 396 ecc., per 9.999: 19.998, 29.997, 39.996 ecc)
Si trattava quindi di introdurre nelle moltiplicazioni proposte (18*a, 27*a .....) il numero 99, o 999, o 9.999 ecc., ma questo e' facilissimo perche' i numeri iniziali proposti, essendo multipli di 9, contengono gia' il 9, e questo basta moltiplicarlo per 11 (e avremo 99), 111 (999), 1.111 (9.999) ecc. Se prendiamo 99, e quindi poniamo a=11, nella prima moltiplicazione (18*a, cioe' 2*9*a) avremo 2*9*11, cioe' 2*99, che e' pari a 198,
nella seconda moltiplicazione (27*a, cioe' 3*9*a) avremo 3*9*11, cioe' 3*99, che e' pari a 297 e cosi' via. Come si vede avremo in successione tutti i multipli di 99, che in quanto tali rispettano la condizione posta in ordine alla prima e all'ultima cifra delle soluzioni ottenute per le varie moltiplicazioni. Stessa cosa se avessimo preso 999 o 9.999 (con a rispettivamente pari a 111 e 1.111).
La soluzione prospettata implica soltanto che le cifre intermedie siano sempre uguali (pari a 9) per le varie moltiplicazioni, ma questo, ripeto, non era esplicitamente escluso o rifiutato nelle condizioni iniziali poste (nell'esempio fatto si utilizzano convenzionalmente lettere diverse per indicare le cifre intermedie, ma trattasi appunto di un esempio e nulla vieta che le diverse lettere possano poi indicare la stessa cifra, in questo caso 9).
Penso pertanto che la soluzione prospettata (a e' qualsiasi numero composto dalla sola cifra 1 (11, 111, 1.111 e cosi' via)) possa essere considerata altrettanto valida di a=987.654.321
 
#13
Varie / Re: Rastislav e l'enigma del numero magico
09 Ottobre 2024, 21:56:32 PM
a e' qualsiasi numero composto dalla sola cifra 1 (11, 111, 1.111 e cosi' via)
#14
Sull'utilizzo del Cogito ergo sum da parte di Cartesio, viene da sempre posta grande attenzione al corto circuito tra principio di evidenza e Dio. E' il primo che fonda e garantisce l'esistenza del secondo o e' il contrario ? Cartesio fornisce nel tempo varie soluzioni, ma la principale e' che il principio di evidenza valga per se stesso (senza la garanzia di Dio), ma che Dio garantisce la veridicita' della nostra memoria e delle verita' presenti in essa, verita' frutto di precedenti applicazioni del principio di evidenza. Senza la garanzia di Dio, che garantisce i nostri ricordi, dovremmo ogni volta riapplicare il principio di evidenza per sapere che qualcosa e' vero, e non potremmo fidarci della nostra memoria.
Osservando il processo con cui si passa dal cogito ergo sum al principio di evidenza e poi a Dio, a me sembra che vi sia un elemento forse altrettanto grave del corto circuito sopra evidenziato.
Con il dubbio metodico cartesiano si effettua sostanzialmente una doppia verifica sulle presunte verita' da analizzare: la verifica del sogno (una certa cosa viene percepita da svegli
oppure si sta sognando ?) e quella del genio maligno (un genio maligno potentissimo potrebbe indurmi in errore ?). Nessuna realta' materiale, nessuna percezione sensibile supera la verifica del sogno (un oggetto potrebbe essere solo sognato e non reale), mentre le verita' matematiche e geometriche si (un teorema, se corretto, anche se concepito in sogno rimane vero). Le verita' matematiche e geometriche pero' non superano la verifica del genio maligno, lo dice esplicitamente Cartesio (ogni teorema ed ogni dimostrazione potrebbero apparirmi vere solo per opera del genio). Che cosa supera tale verifica ? Solo ed esclusivamente il cogito ergo sum, che per sua stessa natura supera qualsiasi obbiezione ed e' un'intuizione talmente auto evidente da non poter essere negata.
L'elaborazione (si potrebbe dire scoperta) del cogito ego sum consegue ad un rigoroso processo di messa in dubbio ed esclusione di tutto cio' di cui si potrebbe dubitare (praticamente tutto) e che possa presentarsi nel pensiero (stimoli sensoriali, verita' e certezze acquisite, persino ricordi) tramite il dubbio metodico. Il processo di esclusione procede con un rigore mai applicato prima nella storia del pensiero e la sfida e l'obiettivo e', alla fine di questo processo condotto con rigore feroce, potersi porre la domanda "Che cosa rimane" e verificare l' indubitabilita' ed auto evidenza di cio' che rimane, oltre il quale non c'e' nulla. Per Cartesio "cio' che rimane" e' il pensiero stesso, il cogito del cogito ergo sum, indubitabile ed auto evidente: alla fine del processo l'uomo ha di fronte a se' solo il proprio pensiero, unica cosa che gli e' rimasta e a cui, anche volendo non potrebbe rinunciare ne' gli potrebbe essere tolta. Per questo, in questa condizione, il genio maligno non ha alcun potere su di lui.
Una volta acquisito il superamento della verifica del genio maligno da parte del cogito ergo sum, Cartesio fa una cosa che sopra ho definito forse altrettanto grave del corto circuito tra principio di evidenza e Dio. In maniera del tutto arbitraria afferma che il cogito ergo sum (che e' e sara' l'unica verita' sottoposta da Cartesio alla verifica del genio maligno) non e' valido di per se', ma solo in quanto facente parte della vasta categoria delle idee chiare e distinte (cioe' evidenti), di cui il cogito ergo sum non e' che uno dei tanti possibili esempi.
Scrive Cartesio: "infatti dato che ne avevo scoperta una (il cogito ergo sum) che sapevo essere tale (vera e certa), stimai di poter sapere in che consisteva tale certezza....pensai di poter assumere come regola generale che son tutte vere le nozioni che concepiamo in modo del tutto chiaro e distinto". E poi aggiunge "sorge qualche difficolta' quando si deve determinare quali sono in effetti quelle (le nozioni) che concepiamo distintamente".
E' chiaramente arbitraria l'improvvisa introduzione del principio di evidenza (le idee chiare e distinte) che assorbe il cogito ergo sum, senza che ci si ponga il problema se quest'ultimo, anziche' uno dei tanti possibili esempi di idea chiara e distinta, sia invece l'unico ed il solo in grado di superare il dubbio metodico.
Il principio di evidenza e' poi utilizzato per affermare l'idea di Dio (non quella delle verita' matematiche, che precedentemente si erano definite non in grado di superare il dubbio metodico), e quest'ultimo, in virtu' della sua bonta' ed in quanto non ingannatore, garantisce l'esistenza del mondo materiale e, con il circolo vizioso sopra detto, in qualche modo le idee chiare e distinte. Del dubbio metodico e del genio maligno non si parlera' piu'.
Ora il problema e' se il cogito ergo sum sia un concetto singolo e a se' stante, unico a poter superare il dubbio metodico, o se tale superamento sia avvenuto in quanto appartenente alla piu' ampia categoria delle idee chiare e distinte (pur avendo in effetti affrontato l'esame del dubbio metodico solo il cogito ergo sum).
Nel primo caso pur avendo istituito il dubbio metodico per rifondare la conoscenza su nuove basi, l'introduzione del principio di evidenza risulterebbe arbitraria e tale principio non potrebbe fondarsi sull'applicazione del dubbio metodico e del cogito ergo sum. Nascerebbe pertanto in modo arbitrario (cosi' come arbitrarie venivano giustamente considerate le basi delle vecchie conoscenze).
Specifico che il cogito ergo sum ed il principio di evidenza (idee chiare e distinte) costituiscono entrambe elementi concettuali fondamentali ed importantissimi del pensiero.
Cio' di cui si discute e' solo la coerenza formale del processo con cui dal primo si e' passati al secondo.
A mio parere il cogito ergo sum e' un concetto singolo e a se' stante, isolato nella sua singolarita' ed eccezionalita', tale da non poter essere ricompreso ed assorbito in categorie piu' vaste e generali e da non poter originare a sua volta derivazioni concettuali ed applicazioni, in quest'ultimi casi se non snaturandone e tradendone l'essenza. Una sorta di "punto di singolarita", concetto con cui in fisica si indica una situazione mai presentatasi prima e che non si ripetera' piu', con proprie ed esclusive regole (tipo il Big Bang).
Un'altra volta volta nella storia del pensiero si era avuta l'ideazione di un concetto con caratteristiche assai simili, e mi riferisco all'Essere in Parmenide, pur se rivolto al mondo esterno anziche' a quello interiore, come in Cartesio. Il processo di ideazione e' presumibilmente simile, con un processo mentale di progressiva esclusione ed eliminazione in questo caso di ogni determinazione fisica del reale e di negazione della molteplicita' del mondo in quanto ritenute apparenze illusorie. Alla fine di questo processo di "svuotamento" del mondo e di eliminazione di ogni determinazione fisica il "che cosa resta" e' in questo caso l'essere in quanto essere, l'essere in quanto tale privo di determinazioni ed oltre il quale non c'e' nulla. Si potrebbe dire che, sebbene la nostra percezione della realta' possa essere sbagliata ed il molteplice illusorio, pure dietro questi errori e queste illusioni si trova qualcosa che in ogni caso e', l'Essere in quanto tale. Questa intuizione (come il cogito ergo sum) e' indubitabile ed autoevidente. Dice Parmenide in Sulla natura: "l'essere e' e non e' possibile che non sia...il non essere ne' lo puoi pensare (non e' infatti possibile), ne' lo puoi esprimere", aggiungendo tra l'altro una affermazione "cartesiana": "...infatti il pensare implica l'esistere".
Il "che cosa resta" relativo alle due intuizioni, (l'Essere ed il Cogito) per il loro carattere di indubitabilita' e per il processo con cui sono state ideate, ha avuto un vasto eco nelle rispettive epoche ed ha rivoluzionato l'immagine che i contemporanei avevano del mondo e di se stessi. Con l'Essere di Parmenide per la prima volta la Verita' del mondo non poggia su miti o dei, ma sulla mente dell'uomo non solo capace di indagarla, ma anche in grado di relazionarsi e compenetrarsi con essa, come il fatto di concepire intuitivamente l'Essere parmenideo sembra suggerire (l'innatismo e la metafisica si originano presumibilmente da qui). Con il Cogito di Cartesio il pensiero umano e l'Io, indistruttibile nella sua consapevolezza di se', assume nuovi e fondamentali significati, simili ad un nuovo mondo sconosciuto da scoprire. Dal pensiero umano e dall'Io non si potra' piu' prescindere nel pensiero successivo.
Relativamente al fatto che le due intuizioni costituiscano concetti singoli e a se' stanti, isolati ed eccezionali, e che solo snaturandone e tradendone l'essenza possano essere ricomprese ed assorbite in categorie piu' vaste e generali, o si possa da queste determinare derivazioni concettuali ed applicazioni, per Cartesio gia' si e' detto di come il fatto di voler assorbire il cogito ergo sum nella piu' vasta categoria delle idee chiare e distinte e del principio di evidenza appaia di fatto arbitrario e strumentale. Per quanto riguarda Parmenide, si rileva come lui stesso, anziche' confinare la sua scoperta dell'Essere nell'ambito di una intuizione teoretica, ne abbia formulato applicazioni al mondo reale che ad oggi appaiono sostanzialmente ridicole, con l'dea di un mondo immobile e la negazione del molteplice. Parmenide rimane comunque fedele alla sua idea di metafisica negativa, che verra' poi successivamente soppiantata dalla metafisica positiva da Platone gia' con il suo "parricidio di Parmenide" nel Sofista.
Tale metafisica subentra alla precedente prendendo le mosse proprio da quest'ultima, volendo mantenere il piu' possibile le suggestioni e la carica evocativa che il pensiero di Parmenide aveva tra i contemporanei, per poi modificarne progressivamente e completamente i presupposti ed approdare ad esiti finali opposti. Il "che cosa resta" dell'intuizione dell'Essere di Parmenide era un essere necessariamente privo di determinazioni, e solo tradendo il senso dell'Essere parmenideo si sarebbe potuto attribuire a quest'ultimo una qualche determinazione. Con la metafisica positiva di Platone le determinazioni, al contrario, hanno natura ontologica e la loro origine e' nel mondo delle idee.
Il mondo delle idee di Platone, in qualche modo posto arbitrariamente (pur se carico delle suggestioni proprie dell'innatismo) aveva la stessa potenza e forza evocativa dell'Essere di Parmenide, auto evidente ed indubitabile ? Certamente no, ma conservava sulla scorta di quest'ultimo una sua carica emotiva ed una sua suggestione, che per la metafisica positiva si e' mantenuta nei secoli successivi, in misura pero' sempre minore.
E' significativo che Cartesio, alla ricerca di nuove basi e di nuova forza per la "conoscenza" ufficiale sempre piu' in crisi, ritorni allo stesso punto dove tutto era iniziato, 20 secoli prima, con l'ideazione di una nuova intuizione indubitabile ed auto evidente (allora l'Essere di Parmenide, ora il Cogito ergo sum).
Tali intuizioni, proprio per il loro stesso carattere di indubitabilita' ed auto evidenza, risultano assai potenti e con grande forza evocativa, e dovrebbero essere mantenute in un loro proprio ambito relativo alla coscienza individuale, alla consapevolezza che l'essere umano ha di se' e delle proprie potenzialita', al senso generale da attribuire all'uomo ed al mondo. Su queste basi potranno poi svilupparsi teorie e concezioni comunque sempre fallibili ed opinabili. Se invece le intuizioni di cui sopra risultassero applicate direttamente (anche dai loro stessi autori) ad un piano logico formale, questo potrebbe originare contraddizioni ed arbitrii, e se applicate ad un piano concreto e reale determinare delle assurdita' (come sopra detto)
#15
In effetti l'idea e' interessante, ieri avendo visto i messaggi tardi ed avendo poco tempo a disposizione non ho avuto il tempo di considerarla piu' di tanto ed ho solo di cercato di rispondere il piu' in fretta possibile, per cui le risposte che ho fornito non sono adeguate e valide per le argomentazioni proposte. Me ne sono reso conto quasi immediatamente dopo, ma a quel punto non avevo piu' tempo a disposizione.
I primi due punti che avevo considerato nella risposta di ieri erano entrambe relative al cambio di etichette,
L'argomento del cambio di etichette sulle monete, pure interessante, non e' pero' un argomento decisivo ed in ultima analisi neanche sostenibile in quanto il calcolo delle probabilita' nello specifico si occupa di un preciso evento fisico: l'uscita di una faccia o di un'altra di una moneta, il fermarsi di una pallina su di un colore piuttosto che sull'altro e su questi precisi eventi si possono avere ripetizioni di sequenze o meno. Se si cambiano le etichette e non so a cosa corrisponda il bianco, il verde, il marrone ed il giallo in termini di rosso e nero e' come se non mi venisse detto l'esito della seconda e terza moneta, perche' non so se ho avuto delle ripetizioni di colore o meno. Se ho invece conosco a cosa corrispondano i 4 colori in termini rosso o nero, ma ci potrebbero anche essere conversioni in termini di bianco e verde o marrone e giallo (purche' si ritorni a 2 alternative), io cosi' posso ripristinare il fatto che vi siano solo 2 possibili alternative e posso convertire i 6 colori in solo 2 (rosso e nero, ma eventualmente bianco e verde o marrone e giallo). Con la conversione dei 6 colori in 2 e' come se si lanciasse la stessa moneta per 3 volte, caso che e' comunque del tutto equivalente al fatto che che si lancino le tre monete in successione o contemporaneamente. Se la conversione non la conosco, come ho gia' detto, e' come se l'esito della seconda e terza moneta non mi venisse detto, per cui non so se ci sono state ripetizioni o meno.
Naturalmente e' possibile costruire ex ante le 8 possibili combinazioni dei 6 colori (tanto hanno tutte la stessa probabilita' ex ante), ma ex post devo sapere se R B M CORRISPONDA A RRR, RNN o cosa
Citazione di: iano il 04 Ottobre 2024, 00:10:52 AMMa che previsioni faremo lanciando le tre monete una di seguito all'altra? saranno diverse o uguali?
Perchè mi pare che pur essendo i due casi sostanzialmente uguali, applicando la tua stessa logica otterremo risultati diversi.
Siamo di fronte a due casi uguali, ma che dovremo diversamente trattare, avendo nominato diversamente le facce delle tre monete.
Avendo nominato diversamente le facce delle 3 monete non cambia niente in termini di trattamento, a condizione che conosca le corrispondenze dei colori e possa convertire i 6 colori in soli 2, se invece le corrispondenze non le conosco non posso proprio trattare il caso dei 6 colori (non e' che lo tratto diversamente), e questo per assenza di informazioni, perche' e' come se non vi venisse detto l'esito della seconda e terza moneta.
Citazione di: iano il 04 Ottobre 2024, 00:10:52 AMSe invece di avere tre monete ne abbiamo una sola R/N, nella quale come detto abbiamo applicato su una faccia un etichetta rossa e sull'altra un etichetta nera, cambia qualcosa se prima di ogni lancio scambiamo le etichette fra loro?
Quindi se non cambiamo le etichette mettiamo di ottenere NNN,
che cambiando le etichette diventa un NRN.
Ma se la combinazione che abbiamo ottenuto dipende dal modo arbitrario in cui abbiamo allocato le etichette, una combinazione allora vale l'altra, perchè avrebbe potuto essere lettarelmente l'altra se avessimo fatto una diversa scelta nell'applicare le etichette.
Eppure secondo la tua logica noi dovremmo trattare in modo diverso due casi uguali, a meno di non ammettere che non solo i lanci precedenti influenzano i successivi, ma che questi dipendono anche dal nome N o R che arbitrariamente abbiamo dato alle facce, o da come le abbiamo dipinte.
Le stesse considerazioni che ho fatto sopra valgono se si cambiano le etichette ad ogni lancio per la stessa moneta. Se ad ogni lancio si invertono i colori bastera' invertire i colori nei risultati ottenuti . Se invece l'inversione e' erratica ed imprevedibile valgono le considerazioni fatte sopra per i 6 colori, se conosco le inversioni di colore operate posso tenerne conto e risalire all'effettiva sequenza di esiti. Dato un esito effettivo NNN (che e' un dato di fatto), se io so che solo per il cambio di etichette si ha NRN, ma che e' in realta' invece NNN, io considero quest'ultima sequenza. Se non so come ha operato il cambio di etichette io non conosco gli effettivi esiti e per assenza di informazioni non gioco. La sequenza di esiti registrata non e' una formula magica che devo utilizzare sempre e comunque, se la sequenza e' stata falsata da un cambio di etichette o risalgo alla vera sequenza (NNN) o di quella falsata non me ne faccio niente e non la considero neanche.


Citazione di: iano il 04 Ottobre 2024, 00:35:52 AMSe è uscito
/RRRRRRRRRRR/NNN
faremo una previsione, ma faremo una previsione diversa se facciamo iniziare la storia nel punto in cui ho messo il secondo slash.
Può la storia dipendere dal punto in cui iniziamo a raccontarla?
Se così fosse avremmo infinite storie, una per ogni punto diverso di inizio del racconto.
Confermo quello che ho detto: "Quello da considerare sono le ultime uscite consecutive dello stesso colore, che dovranno essere numerose per giustificare la puntata. Quello che e' successo precedentemente e' praticamente irrilevante" e la dimostrazione per assurdo e' data da quello che dici, da quando dovremmo iniziare a considerare i risultati gia' ottenuti, dall'inizio della giornata, da un'ora prima, da 5 minuti prima ? Ma anche se si fossero avuti 8 neri consecutivi seguiti da 7 Rossi, quei 7 rossi varrebbero (non in termini qualitativi, ma probabilistici) piu' dei precedenti 8 neri. Se poi i rossi successivi agli 8 neri fossero solo 2 il problema non si pone perche' le uscite dei rossi "dovranno essere numerose per giustificare la puntata."


Infine confermo anch'io che la discussione con te e' stata molto interessante e che alla sua conclusione non e' necessario che vengano condivise le stesse tesi