Buon pomeriggio, sono nuovo qui; mi si perdoni qualche errore. Vorrei gentilmente un chiarimento su un periodo tratto da L'essere e il nulla sartriano. Sinceramente ci sto ragionando da un po', ma le conclusioni non sono state feconde.
Il periodo è:«Un tavolo è nello spazio, accanto alla finestra ecc. L'esistenza del tavolo, infatti, costituisce un centro di opacità per la coscienza», fin qui tutto chiaro, poi:«È necessario un procedimento infinito per inventariare il contenuto completo di una cosa. Introdurre tale opacità nella coscienza significherebbe prolungare all'infinito l'inventario che questa può erigere intorno a se stessa, fare della coscienza una cosa, e rifiutare il cogito». (L'essere e il nulla, Introduzione. Alla ricerca dell'essere, Il cogito preriflessivo e l'essere del percipere, pp. 17-18). Se può essere utile, ecco la versione francese:«Il faudrait un procès infini pour inventorier le contenu total d'une chose. Introduire cette opacité dans la conscience, ce serait renvoyer à l'infini l'inventaire qu'elle peut
dresser d'elle-même, faire de la conscience une chose et refuser le cogito». Sicuramente Sartre, d'esempi così, ce ne offre altri; celeberrimo quello de La trascendenza dell'Ego, dove «questo Io superfluo è, inoltre, anche nocivo. Se esistesse, strapperebbe la coscienza a se stessa, la dividerebbe, penetrerebbe in ogni coscienza come una lamina opaca. L'Io trascendentale è la morte della coscienza»; «se dunque si introduce questa opacità nella coscienza, si distrugge in tal modo la definizione così feconda appena data [che la coscienza è coscienza (di) sé], la si irrigidisce, la si oscura; la coscienza non è più spontaneità, essa ha addirittura in se stessa come un germe di opacità»; ritorna la metafora dell'oscurità, più tardi, quando dice che «l'autentica spontaneità deve essere perfettamente chiara: è ciò che essa produce e non può essere altro. Legata sinteticamente ad altro che a se stessa, essa conterrebbe una qualche oscurità e, addirittura, una certa passività nel trasformarsi. Bisognerebbe infatti ammettere un passaggio da se stesso ad altro, cosa che implicherebbe lo sfuggire della spontaneità a se stessa»; ma anche quando parla del corpo, dice:«Non è qualcosa di diverso dal per-sé; non è un in-sé nel per-sé, perché allora coagulerebbe tutto». Insomma, è chiaro: la coscienza «è tutta leggerezza, tutta traslucidità». A più riprese, in tutta l'Introduzione, fiorisce «la sottile pellicola di nulla» che ci isola; le cose sono espulse dal suo seno, come l'Ego che Husserl aveva innalzato «al rango di assoluto»; del resto se ne avesse uno, la coscienza vivrebbe un «prolungamento inerte» della sua esistenza. Ma torniamo al periodo iniziale: 1) perché Sartre parla di «inventario»? 2) perché di «infinito»? Però, si sa, l'in-sé è una compressione d'essere infinita, dove il "sé", improprio, si scioglie in una massiva identità (ancora impropria, perché implica un rapporto con sé) del richiamante col richiamato: l'in-sé è ricolmo di sé. [Parla di «infinito» per questa ragione, per la densità infinita delle cose?] Un'inchiesta sull'essere delle cose, di cui evidentemente abbiamo una comprensione preontologica, vuole che l'uomo si tragga fuori dall'essere, si faccia non essere; e conosciamo bene il prosieguo. Bisogna partire dai fenomeni, ed è ciò che fa Sartre nel suo saggio d'ontologia fenomenologica. Il fenomeno è fuori, «eccede e fonda la conoscenza che se ne ha». Se fosse dentro e condividesse l'essere della coscienza svanirebbe in trasparenza e poi una soggettività assoluta si dissolverebbe: c'è bisogno di un Grande Fuori su cui l'uomo possa reggersi, su cui possa creare perché «gli uomini non sono in grado di creare niente dal nulla [...] del resto gli uomini non sono divinità [e neppure una divinità potrebbe "creare", a dirla tutta]». Già questa «trasparenza», naturalmente, esige che le cose siano conosciute e messe in rapporto tra di esse come non aventi rapporti tra di esse: l'uomo deve avere una comprensione dell'in-sé in quanto realtà assoluta, senza rapporto e contemporaneamente una di sé in quanto relazione assoluta (altrimenti da dove trarre il rapporto non cognitivo che la coscienza intrattiene con sé se l'uomo non fosse rapporto fin dall'intimo della propria esistenza, che è il cogito preriflessivo?). Questa conoscenza delle cose stesse, che esula dagli idealismi e dai realismi, ci consegna alla coscienza, pura trascendenza, in-tenzionalità creatrice. Si tratta di un discorso chiaro, ma non mi basta. Se le cose stanno così di fatto, di diritto potrebbero stare ancora così? Abbiamo detto di no, se la cosa dentro la coscienza condividesse il suo essere; se non lo condividesse, la coscienza sarebbe morta, irrigidita, oscurata nel proprio essere (e ritorniamo al periodo dell'inizio, perché alla fin fine queste conseguenze sono troppo metaforiche e poco logiche -ecco perché è necessario che comprenda quel periodo). Inutile considerare l'«altro» della citazione de La trascendenza dell'Ego, oltre che come le cose, come l'Altro stesso: se d'un tratto fossimo Altri, non saremmo più noi, saremmo strappati a noi stessi: infatti la coscienza rimanda solo a sé, può essere concepita solo attraverso sé, è un essere individuale, fino alla claustrofobia, direi (e per questo gli uomini sono separati dal diaframma delle loro esistenze); la coscienza è dispersione nell'unità, nell'identità. Spero possiate rispondermi presto. Come voleva il regolamento, ho cercato di argomentare. Grazie in anticipo e, ancora, una buona giornata!
Il periodo è:«Un tavolo è nello spazio, accanto alla finestra ecc. L'esistenza del tavolo, infatti, costituisce un centro di opacità per la coscienza», fin qui tutto chiaro, poi:«È necessario un procedimento infinito per inventariare il contenuto completo di una cosa. Introdurre tale opacità nella coscienza significherebbe prolungare all'infinito l'inventario che questa può erigere intorno a se stessa, fare della coscienza una cosa, e rifiutare il cogito». (L'essere e il nulla, Introduzione. Alla ricerca dell'essere, Il cogito preriflessivo e l'essere del percipere, pp. 17-18). Se può essere utile, ecco la versione francese:«Il faudrait un procès infini pour inventorier le contenu total d'une chose. Introduire cette opacité dans la conscience, ce serait renvoyer à l'infini l'inventaire qu'elle peut
dresser d'elle-même, faire de la conscience une chose et refuser le cogito». Sicuramente Sartre, d'esempi così, ce ne offre altri; celeberrimo quello de La trascendenza dell'Ego, dove «questo Io superfluo è, inoltre, anche nocivo. Se esistesse, strapperebbe la coscienza a se stessa, la dividerebbe, penetrerebbe in ogni coscienza come una lamina opaca. L'Io trascendentale è la morte della coscienza»; «se dunque si introduce questa opacità nella coscienza, si distrugge in tal modo la definizione così feconda appena data [che la coscienza è coscienza (di) sé], la si irrigidisce, la si oscura; la coscienza non è più spontaneità, essa ha addirittura in se stessa come un germe di opacità»; ritorna la metafora dell'oscurità, più tardi, quando dice che «l'autentica spontaneità deve essere perfettamente chiara: è ciò che essa produce e non può essere altro. Legata sinteticamente ad altro che a se stessa, essa conterrebbe una qualche oscurità e, addirittura, una certa passività nel trasformarsi. Bisognerebbe infatti ammettere un passaggio da se stesso ad altro, cosa che implicherebbe lo sfuggire della spontaneità a se stessa»; ma anche quando parla del corpo, dice:«Non è qualcosa di diverso dal per-sé; non è un in-sé nel per-sé, perché allora coagulerebbe tutto». Insomma, è chiaro: la coscienza «è tutta leggerezza, tutta traslucidità». A più riprese, in tutta l'Introduzione, fiorisce «la sottile pellicola di nulla» che ci isola; le cose sono espulse dal suo seno, come l'Ego che Husserl aveva innalzato «al rango di assoluto»; del resto se ne avesse uno, la coscienza vivrebbe un «prolungamento inerte» della sua esistenza. Ma torniamo al periodo iniziale: 1) perché Sartre parla di «inventario»? 2) perché di «infinito»? Però, si sa, l'in-sé è una compressione d'essere infinita, dove il "sé", improprio, si scioglie in una massiva identità (ancora impropria, perché implica un rapporto con sé) del richiamante col richiamato: l'in-sé è ricolmo di sé. [Parla di «infinito» per questa ragione, per la densità infinita delle cose?] Un'inchiesta sull'essere delle cose, di cui evidentemente abbiamo una comprensione preontologica, vuole che l'uomo si tragga fuori dall'essere, si faccia non essere; e conosciamo bene il prosieguo. Bisogna partire dai fenomeni, ed è ciò che fa Sartre nel suo saggio d'ontologia fenomenologica. Il fenomeno è fuori, «eccede e fonda la conoscenza che se ne ha». Se fosse dentro e condividesse l'essere della coscienza svanirebbe in trasparenza e poi una soggettività assoluta si dissolverebbe: c'è bisogno di un Grande Fuori su cui l'uomo possa reggersi, su cui possa creare perché «gli uomini non sono in grado di creare niente dal nulla [...] del resto gli uomini non sono divinità [e neppure una divinità potrebbe "creare", a dirla tutta]». Già questa «trasparenza», naturalmente, esige che le cose siano conosciute e messe in rapporto tra di esse come non aventi rapporti tra di esse: l'uomo deve avere una comprensione dell'in-sé in quanto realtà assoluta, senza rapporto e contemporaneamente una di sé in quanto relazione assoluta (altrimenti da dove trarre il rapporto non cognitivo che la coscienza intrattiene con sé se l'uomo non fosse rapporto fin dall'intimo della propria esistenza, che è il cogito preriflessivo?). Questa conoscenza delle cose stesse, che esula dagli idealismi e dai realismi, ci consegna alla coscienza, pura trascendenza, in-tenzionalità creatrice. Si tratta di un discorso chiaro, ma non mi basta. Se le cose stanno così di fatto, di diritto potrebbero stare ancora così? Abbiamo detto di no, se la cosa dentro la coscienza condividesse il suo essere; se non lo condividesse, la coscienza sarebbe morta, irrigidita, oscurata nel proprio essere (e ritorniamo al periodo dell'inizio, perché alla fin fine queste conseguenze sono troppo metaforiche e poco logiche -ecco perché è necessario che comprenda quel periodo). Inutile considerare l'«altro» della citazione de La trascendenza dell'Ego, oltre che come le cose, come l'Altro stesso: se d'un tratto fossimo Altri, non saremmo più noi, saremmo strappati a noi stessi: infatti la coscienza rimanda solo a sé, può essere concepita solo attraverso sé, è un essere individuale, fino alla claustrofobia, direi (e per questo gli uomini sono separati dal diaframma delle loro esistenze); la coscienza è dispersione nell'unità, nell'identità. Spero possiate rispondermi presto. Come voleva il regolamento, ho cercato di argomentare. Grazie in anticipo e, ancora, una buona giornata!