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Discussioni - Koba

#1
Racconti Inediti / Vita nova
18 Maggio 2025, 17:18:29 PM
Siamo prigionieri. Cambiano le forme, resta la condanna all'ergastolo.
È davvero impossibile fuggire dalla vita? Si chiedeva la studentessa giapponese di Dazai-san. Sì, è impossibile.
Ma allora, cosa stiamo facendo? Qual è lo scopo di tutta questa sofferenza? Di tutta questa impotenza?
Ci deve essere una via, un sentiero che forse non abbiamo ancora intrapreso. Che è sempre stato lì, davanti ai nostri occhi, e proprio per questo invisibile.
È l'alba, poche ore ancora e sarò al lavoro. Poi la solita giornata convulsa. Chissà se anche oggi accadrà qualcosa che mi farà dire: sì, le persone sono creature incomprensibili! E sono violente!
Se il destino della razza umana è la prigione di ferro, che cosa possiamo fare?
La prima cosa è tenere ferma questa verità: i custodi di questo carcere, anche se sembrano gentili, vogliono solo piegarci, al punto che nemmeno in sogno sia ammessa l'idea di un'altra vita. Non sanno veramente di essere delle guardie, e proprio per questo il loro operato è straordinariamente efficace. Non sono demoni, sono solo persone comuni, mediamente ambiziose, convinte che questo mondo sia l'unico possibile. E che in quanto tale vada conservato, perseguito, ulteriormente espanso, nei secoli dei secoli.
E tenendo ferma questa piccola verità siamo costretti a concludere, con amarezza, che non ci può essere alcuna riconciliazione, per quanto ciascuno di noi la desideri. Le persone che ti circondano svolgono, quasi sempre, il ruolo di custodi. Non puoi essere sincero con loro. E non puoi nemmeno scontrarti apertamente perché non capirebbero il senso della tua opposizione. Per loro infatti non esiste altra realtà. Sono convinti che al di là della recinzione della prigione ci sia solo il vuoto. Amano le loro celle. Amano i loro piaceri, che sono incoraggiati a consumare dai discorsi che, di continuo, ci attraversano.
Non ci si può salvare restando nel loro labirinto.
Quindi, prima fase: abbandono di una vita.
Uscire di casa, un giorno, d'istinto, quasi senza niente. Uno zaino con i documenti e poco altro.
Andarsene da qui. Ma verso dove? Non si può fare come da bambini quando ci si affidava all'antica saggezza delle rocce: si lasciava che la direzione del proprio cammino fosse determinata dai sassi. Indicazioni segrete che la nostra immaginazione non ancora corrotta sapeva cogliere nelle loro forme apparentemente indistinte. Il nostro intuito è ormai sordo ai messaggi che ci vengono dal regno minerale. E le cose non vanno meglio con le piante e i funghi: non possono più aiutarci, seppure sembrino protendersi verso di noi, come a volerci confortare, attirati dalle nostre pene.
Siamo soli. Sono solo.
Decido allora di seguire le tracce di qualcuno venuto prima di me, che è stato ferito dalla vita, dalla carne, e che ha scelto di essere un pellegrino.
Ora mi trovo in una grande città, costruita ai piedi della catena montuosa che taglia in due la nazione. Da qui, lungo una linea che collega santuari, monasteri, e minuscole chiesette, posso arrivare fino al mare. Come se il mare fosse la meta... L'acqua? La sabbia? Non lo so, ma è pur sempre un indizio.
Esco di casa e in pochi minuti sono all'interno della Cattedrale, nella speranza di riconoscere, tra le statue di santi e martiri, la raffigurazione del mistico vagabondo che sto cercando. Non so chi sia ma sono sicuro che da secoli sia in attesa che io lo riconosca e che lo accolga, così che possa rivivere, attraverso il mio spirito, la folle avventura della ricerca di un Dio.
Prendo posto in uno degli ultimi banchi e mi guardo attorno.
La mia attenzione però è attirata da una ragazza. L'ho già vista. Anche lei è qua nella cattedrale per delle ragioni sue, segrete. I riti non la riguardano. La preghiera è un modo fin troppo semplice di concedersi una tregua. No, lei ha il rigore di chi si è lasciata tutto alle spalle e vede davanti a sé solo una solitudine sterminata.
Di giorno la si vede girare con dei sacchetti pieni di cianfrusaglie. Sono i suoi pochi averi? Non ha una casa?
Immagino all'improvviso che sarebbe stupendo morire insieme. Percorrere i mille chilometri di sentieri che ci separano dal mare per poi, finalmente, lasciarci trascinare dalle onde.
Che cosa ci racconteremmo durante il viaggio? Di cosa parleremmo?
#2
Racconti Inediti / Il testamento
04 Maggio 2025, 11:35:01 AM
La notizia della morte di mio zio, un ex gesuita, mi fu comunicata ai primi di marzo dall'avvocato che aveva ricevuto l'incarico di consegnarmi il suo lascito testamentario. Nessuno dei miei familiari si era preso la briga di avvertirmi della sua fine. La cosa non mi sorprese: tutti in realtà si vergognavano di lui. All'inizio, da giovane missionario, vanto della famiglia, poi, in seguito, a causa della scomunica, l'innominabile.
Il giorno dopo mi recai nello studio dell'avvocato che, stranamente, aveva sede in uno dei quartieri più periferici della città, quasi a ridosso delle autostrade.
Sulla sua scrivania c'era una piccola cassa di legno scuro. Mi fece firmare alcune carte e me la consegnò. Mi disse che era sigillata e che per aprirla sarebbe stato necessario forzarla.
A casa, dopo alcuni tentativi con un cacciavite, riuscii a sollevare la parte superiore. Iniziai a esaminarne il contenuto.
C'erano delle fotografie. Alcune facevano parte della stessa sequenza che ritraeva gli scontri etnici del '94, ai tempi della sua missione in Africa: un uomo armato di machete che ne rincorre un altro. Poi, nell'istantanea successiva, lo colpisce, oppure l'inseguito scivola, non si capisce bene. Infine nell'ultima foto si vede l'arma conficcata  nella testa della vittima, ancora impugnata dall'assassino.
Nella prima inquadratura si nota una cosa, che è forse la ragione per cui lo zio le ha conservate: i due uomini sono molto simili. Età, altezza, corporatura, anche i vestiti sono quasi identici. Indistinguibili, eppure appartenenti ad una differente etnia – cosa che ha segnato il loro assurdo incontro.
Altre foto: il reparto pediatrico di un ospedale fatiscente; dei cacciatori sorridenti con i piedi sul cadavere del loro trofeo: un vecchio leone; una ragazzina che in strada tiene per mano un uomo sulla cinquantina e sembra accompagnarlo all'interno di un motel.
Sotto le foto c'era un taccuino nero. Lo aprii. Era il suo diario. La prima pagina era datata settembre dell'anno precedente. L'ultima, due giorni prima della sua morte.
Ecco il contenuto dell'ultimo brano:

"... il Dio dell'amore esiste, ed è per questo che possiamo scrivere di Lui – e in realtà, per un paio di millenni, non abbiamo fatto altro: mettendo insieme tutto ecco una biblioteca vastissima, come una grande metropoli, un immenso labirinto, che parla solo di Lui – ma sarebbe tempo sprecato invocarlo, perché non è il nostro Dio, non è il Dio della nostra specie, non può sentire le nostre preghiere.
Queste le conclusioni a cui sono arrivato: indubitabilmente esiste, il nostro intuito non si sbaglia. Ma non può ascoltarci. Forse è in attesa delle sue creature, che verranno tra qualche milione di anni. O forse si sono già estinte in epoche remote, chissà, magari proprio per mano di homo sapiens, e Lui è rimasto a ricordo di una possibilità che la natura ha già consumato. Insieme agli infiniti orribili tentativi evolutivi, forse c'è stata anche quella di un animale angelico.
Il nostro vero Dio invece è il Dio della morte. Non il Diavolo, né l'Anticristo. Nessuna divinità malvagia, oscura. Ma un Dio capace di accogliere il desiderio inconscio della nostra specie: il desiderio della fine. Niente più orrori. Niente più supplizi. Solo la pace del nulla, l'abbandono, il sollievo di vedere le civiltà umane – edificate tutte, senza eccezioni, sul dolore delle vittime – finalmente scomparire per sempre. Senza lasciare traccia.
Le accuse di satanismo che mi sono state rivolte dai miei nemici di Roma sono ridicole, del tutto infondate.
Ho solo deciso di aprire gli occhi. A quel punto non potevo continuare a trattenere la nostalgia per un Dio che non ci appartiene.
Ho iniziato allora a pregare il nostro vero Dio. Tutto è diventato più chiaro, più sensato. Il nostro compito, di sacerdoti, non è quello di illudere i fedeli su un'improbabile vita eterna, ma quello di accompagnarli verso la propria morte mostrando loro che non c'è nulla di cui temere, che ci attende finalmente la pace. La vera pace!
Proprio oggi, ancora una volta, ho ripensato a quel mio vecchio compagno di studi della Gregoriana. Lui, argentino, poco prima di entrare nell'Ordine, all'ultimo anno di liceo, come tanti ragazzi pensava fosse suo dovere opporsi, in qualche modo, alla dittatura militare. Aveva così partecipato all'occupazione della propria scuola. Lì, la sera tenevano delle riunioni, discutevano. Niente di particolarmente sovversivo. Fino al giorno in cui fece irruzione l'esercito, che arrestò tutti. Proprio quella sera lui arrivò in ritardo: la sua salvezza. Di quei ragazzi, dei suoi amici, non si è saputo più nulla per trent'anni. Poi, alla fine, la verità è venuta fuori: erano stati portati in una base militare, caricati su un aereo e poi gettati nell'oceano in volo da cinque mila metri di altezza.
Questa è l'immagine che ha dominato la sua vita.
Nella storia, miliardi di individui dominati da immagini simili, di puro orrore.
Che Dio, il nostro vero Dio, ci liberi da questo flagello, strappandoci via, compassionevolmente, dalla vita!"

Oltre al taccuino e alle fotografie c'era un orologio, un coltellino e due piccole statuine in legno: forse rappresentavano delle divinità della foresta che lo zio, ormai impazzito, credeva fossero manifestazioni storiche di quello che lui diceva essere il vero Dio degli uomini.
Rimisi tutto nella cassa, andai in giardino, scavai una buca e la sotterrai.


[Con questo breve racconto si chiude la mia partecipazione al forum: buona fortuna a tutti]
#3
Racconti Inediti / Il sabotatore
25 Aprile 2025, 15:39:17 PM
Una sera di febbraio il giovane Kobayashi, impiegato presso una delle maggiori agenzie di pompe funebri della città, viene avvicinato in un bar da uno sconosciuto. Questi, fingendo di volerlo abbordare per ragioni sessuali non chiare, gli posa davanti un dossier con le istruzioni per la sua missione: il progetto Vita Nova è cominciato, l'Organizzazione ha dato il via alle operazioni.
Kobayashi trasecola, pensa che il tizio sia pazzo.
"Ricordati l'addestramento", gli dice il tizio, che si presenta come agente Gregory.
"Quale addestramento?"
"Beh, forse non sapevi che si trattava di addestramento. A volte lo fanno: preparano un agente senza che lui se ne accorga. In questo caso la copertura è perfetta, il problema è però farlo passare da dormiente ad agente operativo. Alcuni infatti quando vengono svegliati si rifiutano di credere alla verità, e cioè che tutta la propria vita sia stata solo una gigantesca e perfetta copertura."
"Ma quale copertura! Quale addestramento!"
"Quale addestramento? Pensaci bene: qualche anno fa, per esempio, non hai forse seguito un corso di jujitsu?"
"Sì, e allora? Volevo imparare a difendermi."
"Siamo stati noi a spingerti a farlo. Attraverso stimolazioni segrete e ambigue ti abbiamo guidato fino a quella palestra. Bada bene, non a un corso qualunque, ma uno di quelli tenuti da uno dei nostri."
"Maestro Chang è uno dei vostri?"
"Naturalmente."

Tutte le scelte significative che Kobayashi ha fatto nella sua vita, se attentamente analizzate, ne rivelano l'origine occulta: la mano dell'Organizzazione.
Ora, superato lo shock grazie ad un numero imprecisato di drink, Kobayashi apre il dossier: la sua missione consisterà nel minuzioso sabotaggio di ogni aspetto della vita lavorativa e sociale.
Il sabotatore perfetto è colui che apparentemente accetta di buon grado le forme servili e deprimenti della realtà, con il sorriso e i modi cordiali del bravo cittadino, ma nello stesso tempo è inflessibile fino al sacrificio estremo nella distruzione di quei processi che, per quanto apparentemente irrilevanti, risultano invece disumani e distruttivi per la salute mentale delle persone, in quanto ideati da individui senza anima che, bisogna riconoscerlo, per ragioni misteriose di ordine metafisico o demoniaco si sono trovati spesso a tessere i fili della storia universale.
Sono loro, autentici costruttori di mondi infernali, i veri nemici di tutto ciò che è umano. I mondi della schiavitù antica e moderna, i mondi dell'asservimento nel lavoro, i mondi degli eserciti, dell'addestramento all'omicidio di massa. Demiurghi corrotti che hanno plasmato la materia viva per creare luoghi di supplizio, dove la demenza ha la meglio sulla ragione, la morte sulla vita.
Lo scopo dell'opera del sabotatore è puramente artistico e spirituale e, nelle migliori delle ipotesi, manifesta un carattere di tipo epidemico: dare forma ad una rivelazione che contagi più persone possibili. Ma di per sé, già il solo fatto della bellezza del gesto, è sufficiente.
A seguire, le istruzioni operative. Così si chiude il dossier.

Kobayashi rimane quindi in attesa. Continua a fare le stesse cose, così come negli ultimi cinque anni: si alza al mattino, si prepara, va al lavoro. In agenzia accoglie i clienti che vogliono sistemare per tempo il proprio corpo dopo la morte, mostra loro le opzioni a disposizione: dalla cremazione alla mummificazione fino alla putrefazione secca garantita da bare tecnologiche che mantengono l'interno asciutto e ventilato, impedendo che i batteri facciano scempio del cadavere.
Poi, dopo il lavoro, si ferma al solito bar per bere qualcosa. Quindi torna a casa, cucina, e se non è particolarmente ubriaco, riprende la lettura della "Trilogia di Von Gunten", il fantasy che Robert Walser non avrebbe mai scritto, non fosse stato per l'insistenza del suo stesso protagonista, convinto che formazione (volume 1) e apprendistato (volume 2) non bastassero: serviva un'opera definitiva, di taglio fantascientifico, espressione del suo carattere ingegnoso e utopistico. Walser non fece in tempo a tradurre il sogno del giovane Jacob. Per questo, allo scadere del copyright, nel 2027, un oscuro scrittore si è fatto carico di questo delirio, con risultati controversi: per alcuni critici uno scempio, per altri un esempio brillante dell'applicazione della teoria jazz alla letteratura.

Finalmente, un giorno, ecco le istruzioni: sostituire le copie del best seller del momento, "Le lacrime e i canti", con copie alterate, opportunamente sovversive. La vicenda sentimentale dell'originale trasformata, nelle ultime trenta pagine, in un crescendo di ribellione, violenza e distruzione.
Almeno, così Kobayashi interpreta una conversazione avuta nello stesso locale in cui qualche sera prima ha incontrato l'agente Gregory. Altrimenti per quale ragione questa sconosciuta, che non può che essere Gregory stesso, camuffato da giovane donna in tailleur, sta deridendo apertamente quel romanzo, rivolgendosi a lui come se si conoscessero e lasciando una copia del libro sul bancone prima di scomparire?
È chiaro ciò che l'Organizzazione gli sta chiedendo e Kobayashi, ora al quarto gin tonic, ne apprezza il rigore: destabilizzare la mente di studentesse romantiche e pendolari assonnati in un crescendo inquieto di caos, come se il rifiuto del mondo si fosse per due terzi del racconto mimetizzato e solo nella parte finale, ormai conquistata la fiducia del lettore, si mostrasse apertamente.
Ordina un bicchiere di whisky con dell'acqua ghiacciata a parte, per festeggiare l'epifania appena avvenuta, beve tutto d'un fiato, e corre a casa.
Il piano prevede l'acquisto di almeno 30 copie del romanzo, la modifica di ciascuna copia con il blocco di pagine riscritte, e la sostituzione di quelle originali negli scaffali della libreria della città con queste.
Kobayashi si rende conto che la pericolosità dell'operazione non sta tanto nel dover forzare nottetempo l'ingresso della libreria, quanto nella modifica del testo del romanzo. Come ogni iniziato dell'Organizzazione sa per istinto che il vero pericolo è la scrittura: non c'è modo infatti di sapere, penna alla mano, cosa salterà fuori. Nessuno ha il controllo di questa faccenda. Cosa accadrebbe se anziché spingere il lettore a sovvertire l'ordine costituito, il suo finale risultasse in realtà ancora più sdolcinato di quello originale, rivelando così il proprio vero carattere: quello di un servo che ha fede solo nei buoni propositi?
"No, ma che dico... Ma quale finale sdolcinato! Al diavolo! Io la faccio saltare in aria questa città!" dice, prima di crollare addormentato sul divano, stringendo tra le mani una bottiglia di birra mezza vuota.

La domenica mattina successiva, libero dall'attività dell'agenzia, inizia a lavorare al sabotaggio artistico. Prima cosa, immedesimarsi nel romanzo, obiettivo dell'operazione. Prende in mano una delle trenta copie che nel frattempo gli sono state recapitate, e inizia a leggere. Dopo tre pagine, un po' per il contenuto melenso, un po' disturbato dal tremore delle dita della sua mano sinistra – probabile effetto dell'alcolismo o primo sintomo della malattia di Parkinson – non riesce a trattenersi e il libro finisce fuori dalla finestra, nel giardino del palazzo, dopo un volo di due piani. Ma non può arrendersi così! Si dice: coraggio Kobayashi! Beve altro caffè, grida "Gyokusai!" – "Sono pronto a essere disintegrato piuttosto che arrendermi!",– quasi fosse un soldato giapponese nella guerra del Pacifico, prende un'altra copia, si concentra e ricomincia a leggere. Questa volta riesce ad arrivare a pagina undici e si compiace con se stesso per la professionalità mostrata mentre osserva quella copia librarsi per la stanza prima di scomparire giù dalla finestra.
Sette copie dopo Kobayashi sente di aver catturato lo spirito del romanzo. Lo ha letto quasi tutto, e certo, si dice, non possono esserci dubbi: si tratta di una storia. Ci sono degli umani. E pare abbiano sentimenti, a cui danno una smisurata importanza. Per semplicità li chiama così: sentimenti. Ma di tali grovigli emotivi lui non ne sa molto. Osservando gli altri ha imparato a imitarne gli effetti. Quel gioco di adulazione e malignità, tipico delle persone adulte. Ma non è mai riuscito a capire fino in fondo perché preferire quel tipo di interazione al pacifico consumo di alcol in perfetta solitudine.
"Ma questa estraneità è la tua arma!" proclama una voce, all'improvviso, nel suo sconfinato paesaggio interiore, in cui non c'è solo la sabbia del deserto, per quanto ne dicano i suoi nemici.
Ora viene la parte difficile: scrivere. Lo farà mettendosi nei panni della protagonista del romanzo, una giovane donna. Sta pensando al suo finale alternativo: l'eroina, anziché continuare nella ricerca della sua verità tra famiglia e relazioni amorose, inizia a provare autentica ripugnanza, via via più feroce, per fidanzato, genitori, fratello maggiore - il quale, fingendosi in giovane età poeta maledetto, l'aveva spinta per imitazione a rifiutare con sdegno ogni compromesso, condannandosi così alla povertà, mentre lui, dismesso i panni del sovversivo, si costruiva intanto una carriera da manager in una banca svizzera.
Negazione, disgusto, orrore. Liberarsi di loro una volta per tutte. Delle loro voci. Comprare un'ascia. Questo è ciò che riesce a scrivere, sopravvalutando forse il potere della sintesi nella narrativa contemporanea, quando si ricorda di avere proprio per quel giorno un appuntamento con il suo psichiatra, il dottor Benway.
"Chissà se anche Benway fa parte dell'Organizzazione", si chiede assorto.
All'improvviso la porta del suo appartamento viene sfondata. Le forze dell'ordine fanno irruzione nella stanza, lo bloccano lì dove si trova, alla scrivania, con in bocca una delle copie del romanzo che in quel momento, soprappensiero, tiene tra i denti, essendosi lasciato andare all'impulso segreto di mangiare il libro, e lo dichiarano in arresto mentre lo trascinano via.
#4
Racconti Inediti / Cristalli viventi
25 Febbraio 2025, 13:18:01 PM
La terra inizia a scottarmi sotto i piedi quando una notte sogno di nuotare in un lago nero con un'acqua così ferma e densa che anziché affondare, quando smetto di muovermi cedendo alla sonnolenza e all'oblio, rimango sospeso in superficie.
Così faccio due più due e capisco che la mia analisi con il dott. Benway non sta funzionando – che altro potrebbe significare il fatto che anziché perlustrare le acque profonde rimango a galla come se fossi bloccato in uno strato gelatinoso? – e che quindi la cura per contrastare la mia metamorfosi, da uomo a minerale, non sta portando a niente.
Ma il tempo stringe. La notte percepisco strani mutamenti del corpo, con la pelle che in alcuni punti si fa liscia come una pietra levigata dallo scorrere perenne dell'acqua di un ruscello, e con nuove escrescenze e organi alieni che sembrano prepararsi a sbocciare, come fiori lussureggianti in una foresta di cristallo.

Mi precipito da Benway.
La sala d'attesa è vuota. Dallo studio non arrivano voci. Busso piano, poi entro. Non c'è nessuno. Sulla scrivania è posata una cartelletta con l'intestazione "Interzona Incorporated". Sfoglio velocemente quello che sembra essere un rapporto sugli effetti di un farmaco chiamato Xnova. Dopo un po' capisco che si tratta di un potente allucinogeno.
Continuo nella lettura e trovo questo passaggio: "La produzione di nuove identità supportate da adeguate allucinazioni a lunga durata e a bassa intensità, come uno sfondo tratteggiato sì in modo approssimativo ma sufficiente a sostenere la buona fede del soggetto, per definizione un pigro bastardo e intollerante al dubbio, è il mercato del futuro.
La trans-identità, di genere, di specie, rappresenta oggi, secondo le nostre ricerche di marketing, il desiderio più segreto, per la cui realizzazione il popolo tutto è disposto a pagare qualsiasi cifra e a rinunciare a qualsiasi libertà".
Continuo a sfogliare il dossier. Nell'ultima pagina ecco l'immagine della Xnova: una piccola pillola gialla a forma di rombo. Esattamente uguale allo psicofarmaco che il dott. Benway mi ha prescritto all'inizio della terapia, due mesi fa.

Dunque è questo ciò che mi sta accadendo?
Mi concentro e cerco di ricordare quando è iniziata la metamorfosi. Alcuni pensieri si oppongono, respingono l'idea che ci sia stato un tempo in cui io non ero un minerale. Ma non è così. Anche se è tutto confuso. Perché è così difficile ricordare?
Mi scuoto. Ora ci sono: all'inizio ero solo depresso. Sì, è così. E qualcuno mi ha dato il biglietto da visita del dottor Benway e ho preso un appuntamento. Ero depresso, triste, le cose andavano male, volevo solo morire. Poi però a un certo punto salta fuori quella strana idea della metamorfosi, che non mi ha più lasciato.
Ma certo! L'effetto della Xnova! Maledetto Benway!
Sento dei passi dietro di me.

"Vedo che ha letto il rapporto sulla Xnova, signor Lee. Stupefacente vero? Nel vero senso della parola... Si tratta infatti di una sostanza che abbiamo intenzione di tenere fuori dal mercato legale dei farmaci. È la droga del futuro. Scalzerà l'oppio e i suoi derivati in brevissimo tempo. E solo noi, della Interzona Inc., sappiamo come produrla. Le lascio immaginare di che giro d'affari stiamo parlando. Purtroppo nel suo caso le cose non sono andate come dovevano. Se si fosse convinto di essere, per esempio, uno scrittore come William Burroughs, oppure una ragazza dolce e romantica di nome Maisie, lei ora sarebbe felice. Certo, qualcuno obietterebbe dicendo che così sarebbe solo un artificio. Ma non esiste felicità o anche soltanto pace che non sia l'effetto di una simulazione. È così.
Questo mondo è brutale, signor Lee. Non fa per gli uomini come lei. Ecco perché si è immaginato di essere un sasso. Desiderava essere più forte.
Come può intuire dal revolver che le sto puntando al petto siamo all'epilogo. Troppi soldi in ballo per lasciarla andare. Mi dispiace. Addio, signor Lee".

Non posso crederci! Che ingenuo questo dottor Benway! Cosa pensa di fare con quella pistola? Cosa può fare un proiettile contro la roccia?
#5
Percorsi ed Esperienze / Dick Laurent è morto
17 Febbraio 2025, 14:01:09 PM
Questa mattina ho ripreso la vita di Francesco d'Assisi scritta da Tommaso da Celano. Prima di iniziare la lettura, attinente i brani sui miracoli, stavo pensando a come un tempo fosse radicata l'idea della divinità come forza guaritrice che attraversa la materia, quasi fosse un fluido ristoratore che si comunica dalla sua origine misteriosa agli oggetti inanimati fino alla creatura bisognosa, salvandola.
Così tutti attorno al santo premono da ogni parte per toccargli un angolino della veste perché fiduciosi che la potenza che si trasmette attraverso la stoffa possa raggiungerli e risanarli.
Stavo pensando a questo, e a come ai nostri giorni sia più probabile trovare credenti che applicano la stessa idea di forza risanatrice alla sola interiorità, alla sola dimensione spirituale, come se la potenza dei santi oggi non fosse in grado di mutare direttamente la materia.
Tant'è che nel caso di una malattia del corpo il miracolo sarà forse reso più comprensibile come una forza che si diffonde dal centro dell'anima del malato, dalla sua fede "resuscitata", e in questo appunto consisterebbe il miracolo, da cui seguono poi gli effetti visibili sull'organismo, come sintomi psicosomatici benevoli.

Proseguendo nella lettura arrivo al capitolo 2 della Parte Seconda in cui Tommaso racconta di Francesco – siamo nel suo penultimo anno di vita – quando si ritira in solitudine e pregando cerca di capire che cosa deve ancora fare per unirsi a Dio. Cosa deve fare per raggiungere quella perfetta unione con il Padre che tanto desidera.
Anche se è considerato da tutti come un santo, Francesco continua ad avere su se stesso parecchi dubbi. "Disconosceva la propria perfezione, e si stimava davvero imperfetto" scrive Tommaso. E pur avendo vissuto tante gioie spirituali rimaneva come un dubbio di fondo: infatti "era pronto a soffrire [...] ogni dolore corporeo, purché alfine gli fosse concesso che in lui si adempisse misericordiosamente la volontà del Padre celeste".
Così nell'Eremo, dove si trova in quei giorni, prende il Vangelo, prega a lungo e chiede a Dio che gli venga mostrata la sua volontà attraverso una pagina del libro: aperto a caso, il brano trovato dovrà mostrare il segno definitivo. Il brano "estratto" da Francesco è quello della Passione.

Ogni cosa ha un significato specifico, e se lo ignoriamo è perché tale significato affonda negli spazi misteriosi e profondi dell'anima (qualcuno direbbe l'inconscio).
Il fatto che io questa mattina abbia trascurato la lettura del testo che avevo in programma e che abbia messo le mani sul libro di Tommaso da Celano, ha un significato, non è l'effetto del caso.
Ripenso ai sogni della notte. Tra tutti, quello che ricordo meglio è questo: mi trasferisco in una grande città e mi iscrivo alla facoltà di medicina. Trovo un posto dove stare, mi organizzo, poi però mi rendo conto, quando ormai è troppo tardi, dell'assurdità dell'idea di ricominciare gli studi a 50 anni.
Il sogno sembra descrivere lo stato confusionale in cui mi trovo da qualche mese.
Sono vivo o si tratta solo di un pregiudizio?

Decido allora di fare come Francesco, di aprire il Vangelo per avere un segno.
Tutto ciò che è avvenuto nelle ultime settimane – i dubbi, l'angoscia, le crisi melanconiche – mi appare ora come una catena di fatti che doveva condurmi ineluttabilmente fino a questo istante, alla mia mano che scorre tra le pagine del Vangelo, gli occhi chiusi, una timida preghiera...
Il brano è Luca 6,17-19: descrive Gesù che predica a grandi folle, tutti accorrono per essere guariti, "tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti".
Proprio così! Esattamente il tema su cui riflettevo questa mattina ancora prima di iniziare a leggere Tommaso!
Che cosa può voler dire?
Non lo so, limitiamoci per ora a vedere come tutto sia inestricabilmente legato: pensieri (le riflessioni del mattino sui meccanismi del miracolo), sogni (la mia iscrizione a medicina – cosa che rimanda appunto all'evento della guarigione, su cui riflettevo a inizio giornata), fatti (l'estrazione casuale del brano evangelico che sembra essere il segno di una conferma: "non ti stai perdendo, come vedi io sono qua, una presenza reale!").
#6
Mettendo da parte ciò su cui non possiamo dire nulla di definitivo, ovvero Dio, per quanto riguarda il fondamento della morale non rimane che riflettere intorno all'uomo e alla natura.
Dal punto di vista scientifico possiamo dire che ogni creatura cerca la felicità (benessere, maggiore vitalità, prosperità), e nello stesso tempo che ogni creatura è legata all'altra e al proprio ambiente.
Quest'ultima asserzione (già sostenuta in tanta metafisica, in particolare in quella neoplatonica) può essere dimostrata proprio nel senso della fisica moderna: idealizzando un sistema chiuso (così come nella meccanica si idealizza un sistema con un numero limitato di variabili) si può vedere come la conclusione non possa che essere la seguente: è l'interazione tra le singole creature a decidere la prosperità o la fine della vita nel sistema.
Se ad un'interazione virtuosa, anche se non consapevole, succede un approccio esclusivamente conflittuale (semplificabile in "mors tua vita mea"), la prosperità nel sistema avrà probabilmente all'inizio dei picchi locali per poi estinguersi e lasciare il posto al deserto.

Da una parte la competizione sembra essere un elemento indissolubile di tanti aspetti della natura (la vita dei carnivori e dei parassiti, per esempio), dall'altra è constatabile con tutta evidenza questa interazione virtuosa che sembra essere anche più essenziale, quasi fosse una logica superiore ma immanente la natura stessa e che solo ora abbiamo iniziato a comprendere sul piano scientifico.

La sapienza filosofica (fino a Spinoza) ha sempre cercato di sciogliere questa contraddizione con la conoscenza. Conoscenza di ciò che è essenziale (il legame con il Tutto, la necessità della Natura, l'uomo come espressione del divino e quindi capace di accedere alla Sapienza) rispetto a ciò che è puro accidente (la violenza, l'errore, l'isolamento).
Attraverso la conoscenza filosofica arrivo a capire in modo indubitabile che sono legato a tutte le altre creature, il cui accrescimento in vitalità è quindi anche mio specifico e particolare interesse.
Il sapiente si prende cura degli altri perché gli altri sono parte, per quanto piccola, tenue, di se stesso.
Questo modello era comunque accessibile ai soli filosofi.

Ma a che punto siamo arrivati noi, ora?
Qual'è la vera difficoltà nel fare in modo che l'idea dell'interazione virtuosa come espressione dell'essenza stessa della natura e dell'uomo diventi una nozione comune, scontata, come comune e scontata è la cura per il luogo in cui si abita?
I modelli filosofico-sapienziali da che cosa sono stati sostituiti? I discorsi sull'etica della compassione, dell'empatia quale ruolo hanno in questo fallimento? Tutto quel sentimentalismo morale...
Forse dovremmo ricordarci che ogni emozione (quindi anche la compassione) è una reazione istintiva dell'organismo nel suo complesso ad un evento potenzialmente dannoso o benefico.
Nel dolore che si prova per la sciagura dell'altro l'organismo, saggiamente, ci ricorda, non solo che potrei essere io al suo posto, ma che, in un certo senso, quello sono proprio io, anche se solo in parte, alla lontana. Indubitabilmente quella sciagura, ogni sciagura, è una perdita che mi tocca, concreta, oggettiva, quantificabile, per quanto piccola.
Nella compassione forse emerge dalle profondità dell'organismo un sapere antico ma sempre dimenticato, sempre rimosso.
Noi però veniamo subito catturati dalla nostra stessa commozione, prova della nobiltà del nostro animo. Nasce così lo strano spettacolo della sofferenza, terapeutico in quanto muovendoci alla commozione ci rassicura sul fatto di avere un cuore. Ma il vero messaggio, la vera informazione, che è scientifica, oggettiva, non vagamente sentimentale, e che è: "quel corpo straziato sei anche tu, è una parte di te", finisce ineluttabilmente per andare dispersa.
#7
Per Aristotele esiste solo l'individuale. Apparentemente si contrappone all'idealismo di Platone. Tuttavia nella metafisica di Aristotele la priorità va alla forma, non alla materia. È la forma a determinare l'individuo. La forma intesa come essenza che dall'interno fa in modo che la cosa realizzi se stessa, come deve essere, il suo fine.
Il seme contiene in se' la forma della quercia, dell'albero finito. La forma che plasma dall'interno il seme e che condurrà, guiderà, l'intero processo fino all'individuo compiuto, è anche il suo concetto. L'essenza-concetto di una certa cosa è ciò che ne determina lo sviluppo da dentro e che la fa essere quella specifica cosa e non un'altra.
Questo per quanto riguarda Aristotele.
In Hegel le cose sono simili ma per lui si tratta di approfondire come questi concetti formino un'unità vivente.
C'è un primo momento che è quello in cui l'intelletto analizza i concetti, distinguendoli, l'uno dall'altro.
Tuttavia ogni cosa richiama altre cose, ogni singolo concetto è in relazione con altri concetti. Platone nel Sofista, nella confutazione della filosofia di Parmenide, darà una descrizione del sapere come una rete di idee che il filosofo deve percorrere, idee che sono identiche a se stesse (e in questo si conferma l'idea centrale di Parmenide: l'essere è e non può non essere) ma diverse da tutte le altre (in questo invece ci si allontana da Parmenide: l'essere può non essere, cioè il niente è, ma in senso relativo, riferito a tutte le altre idee).
Ma le idee di Platone sono eterne e separate dal mondo sensibile. Una struttura statica. È il pensiero a scorrere per questa rete di relazioni. Le essenze eterne invece sono come cristallizzate. Legate insieme da relazioni ma immodificabili.
Il problema lasciato aperto da Platone è il rapporto tra il mondo delle essenze e il mondo sensibile. Ogni cosa è tale perché esprime, imperfettamente, la sua essenza eterna. Ma come avviene questa partecipazione? Come avviene il mutamento, lo sviluppo?
Aristotele dirà che Platone ha semplicemente raddoppiato il mondo. La sua metafisica (di Aristotele), come si è visto sopra, cercherà di dar conto del mutamento.

Ma torniamo a Hegel. Dicevamo che il primo momento è quello dell'analisi dell'intelletto. Il momento della distinzione delle singole essenze. Ad esso succede il momento propriamente dialettico, quello negativo, in cui ciascun concetto richiama ciò che non è, il suo altro. Infine c'è il momento positivo: il costituirsi di una nuova unità, tenuta insieme alla distinzione. Un'unità viva, fluida.

- - continua - -
#8
Un noto manuale di teologia giustifica l'esistenza della teologia fondamentale come la riflessione necessaria per "dare risposta a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi", citando la nota la frase della prima lettera di Pietro.
La speranza dei primi cristiani, ancora molto vicini all'ebraismo e poco avvezzi al platonismo, era quella dell'esistenza di un Dio che sì, li avrebbe accolti dopo la morte, ma capace anche di trasformare il mondo. Il Regno di Dio è qui, in questo mondo, appunto.
Inizia la storia. Ambigua nel miscuglio del "già e non ancora".

Questa epopea però è finita. Non si spera più nella trasformazione del mondo, per opera di un Dio o per effetto di una rivoluzione. Tantomeno si spera in una vita dopo la morte.
La speranza ora riguarda la propria salute mentale, il proprio equilibrio, il proprio benessere. La vita privata, insomma.
Tutto è concentrato nel presente. Il futuro è l'apocalisse ambientale. È l'incomprensibilità delle istituzioni in cui avvengono le decisioni politiche.

Rinunciare ad ogni speranza nel futuro è allora da una parte ciò che viene auspicato dal capitalismo (perché la speranza che si concentra nel presente privato significa soprattutto consumo e assenza di qualsivoglia opposizione organizzata), dall'altra anche un modo per sottrarsi ad un'illusione millenaria, un modo, forse l'unico, di liberazione reale.

Vorrei capire, e quindi vi chiedo:
1. se sia preferibile conservare l'attitudine a sperare in grande, nonostante tutto;
2. se invece, nel caso si decida per una rinuncia ad essa, tale rinuncia possa essere intesa come saggezza filosofica, o invece piuttosto come l'effetto definitivo di una manipolazione sociale e politica per rendere l'essere umano sempre più simile ad una macchina che produce e consuma.