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Discussioni - Visechi

#1
Non sempre il contenuto di uno scritto riesce a mantenere fede alle promesse che il titolo lascia intuire, ma alle volte accade. È giusto il caso della bellissima inchiesta di Ezio Mauro, "La sottile linea rossa", pubblicata su Repubblica il 21 novembre 2016. Consiglio a tutti di cercarla e leggerla con estrema attenzione.
Un fiume di parole che analizza nel dettaglio le ragioni di una crisi profonda che investe la sinistra italiana, e non solo. Non di una crisi di consenso, si tratta, che al più rappresenta una conseguenza, bensì una crisi di valori e culturale. Un percorso, quello imboccato, che rischia di produrre un'insanabile scollamento fra corpo sociale e sinistra, i cui vertici sono spesso percepiti come rappresentanti di un establishment troppo alieno dai veri bisogni della gente.
Ma non è della sinistra che voglio parlare. No! Di quella ne parlino i politologi, i sociologi e chi fa delle analisi politico-sociali il proprio mestiere. Le mie sarebbero solo parole che si aggiungerebbero alle altre migliaia che quel pamphlet ha sollecitato.
L'inchiesta è un florilegio di parole, frasi e locuzioni che colpiscono come pugni vibrati alla bocca dello stomaco, che sconcertano e tramortiscono: dure, intense, che fanno riflettere. Inserite nel contesto semantico a significare maggiormente il concetto. Sono come snodi o pietre miliari poste ai crocicchi del pensiero, segnandone l'intero discorso. Talvolta, più che snodi, sono dei trait d'union fra due iconografie lessicali che ci conducono a percorrere le strade di un'umanità dannata.
Mi soffermo solo su due dei punti toccati dal giornalista.
Parlando di immigrati il nostro sentimento - perché è lui ad essere chiamato in causa, non la razionalità - incespica su "i dannati della terra", che son coloro che "non proiettano l'ombra". Concetto in cui è significato il loro non essere più umani, privati come sono di anima, e il loro corpo "...diventa immediatamente propaganda perché parla da solo con il colore della pelle, la sua disperazione, la sua diversità, i segni dell'apocalisse che si porta addosso. La riduzione del migrante a puro corpo, pura quantità, presenza materiale d'ingombro, nuda esistenza che chiede di continuare a vivere ha qualcosa di sacrilego e di estremo, perché mette fuori gioco la politica, abituata a occuparsi di persone, di cittadini con diritti e doveri". Concetti concreti, veri, la cui realtà la viviamo quotidianamente passeggiando per le strade delle nostre città, oramai intrise di questo dolore soffocante che ha rinunciato anche al lamento e al pianto. 
È una lotta disperata, come quella del naufrago contro onde sovrastanti, che non sutura le profonde ferite che il Mare Nostrum si trova incise sul proprio fluido corpo. Lotta da folli, perché, ci avverte Giusy Nicolini, "Le cifre dicono che la nostra è una follia". È una follia che lotta contro le cifre debordanti, ma anche contro "i venditori di paura". Un doppio fronte: la realtà di uno tzunami che bussa alle nostre coste e il pre-concetto dettato dall'insicurezza che risveglia paure che un finto benessere aveva sopito per decenni. Ma quando si è  "... gente di mare e la comunità sostituisce lo Stato", non si è mai soli nella lotta, e può anche accadere che "Lampedusa poteva finire dannata, e invece ha guadagnato in reputazione per la sua accoglienza, ha migliorato i servizi sanitari e sa una cosa? Quest'anno il turismo è cresciuto del trentadue per cento". Donna! Solo una donna può sconfiggere il mondo; come fu per Rosa Park. Eroine perché i loro gesti sono e furono naturali e semplici: l'una accoglie chi bussa alla sua porta, l'altra si sedette dove non doveva. Niente di più semplice, di più naturale. Ma quanto è difficile esserlo.
C'è un racconto che, in filigrana, si dipana all'interno della narrazione principale. È quello di un Paese ferito, profondamente lacerato nell'anima sua più intima. È l'Italia degli "esclusi", dei reietti, di chi vive, o meglio sopravvive ai suoi margini. Quasi del tutto scordata dalla politica, dove i residui di un welfare agonizzante non arrivano. Un pezzo importante del Paese che, pur di tacitare il suo profondo malessere, si concede ad un  "populismo che crede invece alla cabala dello zero" e che reca come insegna effigiata sulle proprie "vele" la "rappresentazione della rappresentanza". 
Ma non è neppure di questo che voglio parlare. Dicevo che vi è un racconto sottotraccia, che forse non emerge con nitore, ma che, una volta rivelatosi e mostratosi al sentimento di chi legge, prorompe con forza e pretende di raccontarsi... Ed io ho deciso di raccontarlo.
Parlando di poveri – altro vocabolo che la sinistra dei salotti e degli affari rischia di cancellare dal proprio vocabolario – emerge un passaggio che riporto per intero: 
«Ma io sentivo il disagio di occuparmi solo di questioni come i diritti dei diseredati, cose tutte più che sacrosante, intendiamoci, ma mentre parlavo con quella gente qualcun altro si preoccupava di dar loro da mangiare», racconta Morgantini. «Volevo farlo anch'io. Ho settant'anni, convivevo con Elvira da trentotto, abbiamo avuto l'idea di sposarci per sfruttare i regali di nozze come finanziamento al progetto e alla fine abbiamo raccolto settantamila euro e sono nate le "Cucine popolari", in partenza con sei volontari e pochi pasti. Oggi quelli che ci regalano il loro tempo per andare a prendere pasta, carne, frutta e verdura, per cucinare, servire a tavola e lavare i piatti sono trenta, e a tavola si siedono ogni giorno ottanta persone. Funziona, e l'idea della laicità è andata a farsi benedire. Io sono laico, ci mancherebbe, ma ho scoperto che con i preti e i volontari cristiani si lavora che è una meraviglia, e poi se devo dire la verità stamattina avevamo bisogno di verdure e chi ce le ha date? Comunione e Liberazione, con il Banco Alimentare». 
È un ex sindacalista di 70 anni che parla. Ha impegnato nell'impresa – questa impresa, non economica – l'intera dote del matrimonio, contratto con la sua compagna proprio con questo obiettivo.
Ho letto più volte questo passaggio, ed ogni volta mi son domandato cosa possa aver spinto una persona, che potrebbe decidere di godersi la meritata pensione, a sacrificare (il verbo è improprio, credo che per lui non sia un sacrificio ma una gioia) sé stesso, il suo tempo, le sue energie e il suo patrimonio a favore di una causa che non lo dovrebbe investire direttamente. Cosa accade nell'animo di un uomo o di una donna che mette la sua esistenza al servizio di assoluti sconosciuti? È buonismo questo? Ma che significa poi buonismo? Questa storia – non solo questa, ne esistono tantissime simili, in ogni città del Bel Paese, anche nella mia città – ci dice ben altro. 
Qualcosa accade. Ma cosa precisamente? Non può trattarsi di una forma di egoismo mascherato che celi al suo interno il retropensiero che un domani potrebbe egli stesso trovarsi nella condizIone di essere aiutato. Non può neppure essere un'altra forma di egoismo ancor più bieco che confidi nella riconoscenza dell'intera comunità. Spesso questi signori e questi volontari agiscono praticamente nell'ombra, quasi totalmente ignorati dalla massa delle persone e dalle istituzioni. Compiono un'opera eroica, si sostituiscono allo Stato, senza ricavarne altro che quella gioia che neppure la vista della miseria più nera riesce ad offuscare. Uomini e donne, ragazzi e ragazze che si ritrovano a determinate ore del giorno per compiere il sacro rito di accogliere sconosciuti per servirli. Quale è il carburante che muove i loro muscoli, la mente e il cuore? Non è semplice sensibilità o empatia, non solo compassione, neppure carità o solidarietà. Sentimenti nobili, questi, ma che non bastano a spiegare tanta abnegazione e dedizione, che nella maggioranza dei casi muovono al pianto ma non al pieno sacrificio di sé. 
Un teologo parla di una forza interiore, una sorta di fluido o di 'principio' che funge da motore immobile che tutto muove. Lo chiama 'principio passione'. Una stilla divina che ci richiama alla nostra comune radice divina. Io non credo ad entità metafisiche trascendenti, ma vedo e sento che non può trattarsi di semplice identificazione, in forza della quale vedo me stesso nel prossimo che soffre, e ciò che faccio a lui è come se lo facessi a me. La regola aurea rappresentata concretamente nella realtà di ogni giorno nei suburbi delle nostre città. C'è qualcosa di più, qualcosa che non ha contenitore, che sborda di lato. Un fluido denso più forte della gravità, che chiama e unisce. Una propaggine del nostro essere che si protende verso l'esterno per abbracciare il viandante, il profugo, l'ultimo. 
Non lo so! So solo che quando vedo queste persone, quando ne incontro qualcuna resto disorientato, perché nella loro meravigliosa grandezza umana vedo riflessa la mia piccolezza d'uomo.
C'è nella mia città un signore, oramai anziano, che vive per gli altri dispensando pasti a chi ne ha bisogno. Non servono tessere, né iscrizioni per accedere alla sua mensa. Quest'uomo, e con lui quelli che gli si accalcano intorno per aiutarlo a servire il prossimo, non distinguono i colori della pelle e non si curano di separare idiomi esotici da dialetti locali. Basta che chiedano. Conosco quest'uomo da più di quarant'anni. L'ho combattuto quando era dirigente della mia azienda, forse era giusto così! Oggi è giusto che abbia per lui una profonda ammirazione.
Non ho molto altro da dire, se non limitarmi a suggerire al mio sindaco di guardarsi intorno, di non essere cieco. I valori che la sinistra dovrebbe incarnare si declinano in welfare, sostegno alle classi disagiate, aiuti concreti alle persone deboli e supporto a chi fa di sé stesso un'ancora alla quale possano aggrapparsi i naufraghi di una società distratta e di istituzioni spesso troppo prone di fronte al tornaconto politico.
#2
Tematiche Filosofiche / Nietzsche e Zarathustra
16 Gennaio 2025, 23:27:13 PM
Lo Zarathustra è l'opera filosofica di Nietzsche senza dubbio più significativa. Rappresenta l'annuncio del nuovo Uomo che ha trasceso tutti i valori, sovvertendoli, per proporre una nuova tavola di valori che la morale comune solitamente ricusa. L'opera è scritta in forma di poema in prosa, ove spiccano momenti di lirismo di una sublimità insuperata. Può essere ricondotta alla forma dell'annuncio evangelico – Evangelo del nuovo uomo -. Di questa tipicità ne ripercorre lo stile: forma profetica, enunciati più importanti introdotti dalla locuzione evangelica "In Verità...", quasi a rimarcare che s'inserisce a pieno titolo nel filone dei Libri Sapienzali. Le caratteristiche del SUPERUOMO sono contenute in un dialogo che ripercorre – stravolgendolo – il Discorso della Montagna.
Partiamo, quindi, dall'inizio, con ordine: "la volontà di potenza", primo elemento ed incipit del ragionamento. In questo concetto non c'è nulla di metafisico o trascendente che possa, anche per pallida analogia, farlo accostare allo shakti ed alla spiritualità orientale in genere (precisazione dovuta perché mi pare d'aver letto in qualche scritto, probabilmente distrattamente, un velato accostamento al buddhismo), se non un'esangue assonanza terminologica e lessicale, un'omofonia, ovverosia una somiglianza nel timbro di voce. Ma non è il suono quel che ci interessa. Senza dubbio, stiamo parlando di qualcosa di "umano, troppo umano". Cosa è dunque questa benedetta "Volontà di potenza"? Null'altro che il respiro della Vita, della Natura. È il loro ansito; è il sospiro della Terra cui Zarathustra esorta il Superuomo a restare vincolato ed avvinghiato: <<Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze!>>.  Tutto assai mondano, dunque, o al più una parvula trascendenza priva di trascendente.  L'intera opera di Nietzsche, non solo lo Zarathustra, è impregnata di questo sentore di vita ed esorta al vincolo alla terra. Egli non volse mai il suo sguardo al cielo se non per celebrare il funerale di Dio:
<<Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così son morti anche tutti questi sacrileghi. Commettere il sacrilegio contro la Terra, questa è oggi la cosa più terribile, e apprezzare le viscere dell'imperscrutabile più del senso della terra!>>. Non si deve ora intendere l'eroe nicciano come un invasato che faccia l'amore con la terra, alla stregua d'alcune culture animistiche delle Americhe. Il senso della terra è un vincolo irrinunciabile per l'uomo oltre l'uomo. È sta ad indicare la sua mondanità che non colloquia più col cielo. È, infatti, del tutto assente qualsiasi anelito divino.  Dio è morto! Tale sospiro impetuoso non appartiene solo alla terra, ma è presentito anche dall'uomo primordiale, di cui il superuomo nicciano rappresenta l'evoluzione e il suo inevitabile superamento. L'uomo è una transizione, così come lo fu l'ominide rispetto all'homo sapiens: <<L'uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, - un cavo al di sopra dell'abisso>>.  Egli è divino nella misura in cui si sostituisce integralmente a Dio e sa porre la propria natura, prettamente umana (oltreumana), al di sopra (al di là) dell'effimera e deturpante concezione del Bene e del Male, riuscendo ad accogliere in sé il soffio della Vita, pneuma dell'esistenza, senza alcun fine, senza alcuno scopo, o meglio, con l'unico vero fine rappresentato dall'uomo stesso e dalla sua "Volontà di potenza" che lo eleva ad unica divinità.  Il superuomo di Nietzsche è un essere amorale, che si pone ad un livello (l'ultimo e il più eccelso) superiore ad ogni morale. Egli è Dio a sé stesso, sufficiente a sé stesso, trionfatore e legislatore di sé stesso. È l'uomo nuovo che si plasma in un orizzonte privato della presenza di Dio e della trascendenza, che presente un oltre privo di orizzonti celesti. Così è che la compassione, la carità ed ogni tensione o impeto solidaristico ed altruistico, valori cui noi, infimi uomini crepuscolari e della transizione, tributiamo gloria ed onore, non sono altro che sfasature, pesi e gravami che appesantiscono il cammino verso l'uomo nuovo: "Umano, troppo umano"
Con questo slogan egli inaugura un nuovo filone dell'umanesimo. Il suo campione ha trasceso l'uomo e con lui ogni morale. Il danzatore folle del ditirambo dionisiaco si genera nel caos (la bocca aperta che richiama ad un'apertura di senso e non ad un unico senso), ed illumina una stella, la propria stella. Si muove e vegeta nella danza scombinata e caotica che si oppone ad ogni Cosmos ordinativo. Consuma la vita e muore al momento giusto, questo è il solo telos cui si conforma.  "L'eterno ritorno dell'uguale", che spezza l'armonia del Cosmo, è la condizione dimensionale indispensabile per l'avvento del nuovo uomo. Il riproporsi ciclico delle stagioni e degli eventi rende necessaria la resa alla necessità, al destino ineluttabile rappresentato dall'Aurora dell'Oltreuomo, il quale – l'ineluttabile destino - è la promessa, l'Evangelo privo di Dio e di salvezza escatologica di chi ha sognato e profetizzato un mondo finalmente sgombro di false speranze.  A differenza del tempo cristiano, disteso lungo un segmento rettilineo, in cui l'attimo presente attinge significato e senso dall'attimo che lo precede, per poi, insieme, riempir di senso il futuro escatologico, rinviando così ad un tempo indefinito – la fine dei tempi – in cui si realizza quel che era stato annunciato all'inizio, il tempo ciclico, viceversa, esalta ogni attimo, ogni momento, poiché ciascun attimo è fine a sé stesso e non impregna di senso quello successivo. L'eterno ritorno dell'uguale impegna semper pro semper l'azione, poiché ogni scelta sarà per sempre, giacché ritornerà a riproporsi tale e quale per l'eternità. Perciò, in ogni momento si compie l'atto eroico della decisione per il 'sì' o per il 'no' ed in ogni attimo si combatte la lotta per l'esistenza senza alcuna possibilità di rinvii ad una salvezza esogena, prossima a venire. Perciò il tempo ciclico è un tempo eroico, in cui l'individuo nel condurre una serrata lotta per l'esistenza esprime con forza la propria determinazione <<Così volli che fosse>>.
L'Amor Fati, altro fondamentale ingrediente della filosofia di N., è l'abbandono a quest'ineluttabilità scandita dallo scorrere ciclico del tempo che dischiude un destino da amare, anche se impregnato di sofferenza, da non negare, da non rifuggire, da non celare sotto la coltre di vana spiritualità. È addirittura sofferenza da bramare. L'eroicità del Superuomo nell'accettazione tragica (nell'accezione classica: "Non io, bensì così vollero gli dei" - Iliade) del proprio destino (Amor fati) è molto simile al rapporto dialettico che la Grecia classica instaurò nei confronti della Vita e del Tempo, di Cronos. <<Così volli che fosse>>. Quest'enunciato tradisce in modo emblematico la nozione di 'Eterno ritorno', cui si collega quella di "Amor fati", entrambe di derivazione stoica – l'intera filosofia, o visione di N. risente enormemente del pensiero greco. V'è da dire che dello stoicismo conserva alcuni tratti, mentre per altre coloriture se ne discosta alquanto -.
A questo punto, per meglio comprendere e cogliere la particolarità del pensiero di N., è opportuno domandarsi in che consista questo senso tragico della Vita, mutuato quasi integralmente dalla cultura classica. Il "sentimento tragico" non ha nulla a che vedere con il pessimismo, poiché quest'ultimo annienta ed annichila. È, invece, un presentire, un permanere ed un'accettazione Fatale della dilacerazione della Vita e della Natura. Il respiro della Vita, nel suo espandersi e contrarsi (diastole e sistole), si esplica nella costante ed inesausta disputa fra fioritura e dissoluzione; fra armonia e disarmonia, nel perenne oscillare fra Cosmo e Caos; fra bello e brutto; estasi ed afflizione; meraviglia e disincanto; sistole ed extrasistole; in definitiva, fra Vita e Morte. L'uomo è preso nel mezzo di questa eterna dialettica; immerso nelle increspature che si generano, subisce, nella sua esistenza, l'oscillante moto dell'ansito della vita. Un eroe classico, sebbene sottostia alla legge del Fato, forza primordiale cui neppure gli dèi possono sottrarsi, non ne subisce il moto, ma in esso confluisce, divenendone parte attiva e fattore creativo, di cui Vita e Fato si servono: da qui la danza. Si potrebbe dire che, in una certa misura, pur dialetticamente, Vita/Fato ed eroe confluiscano nel medesimo flusso ondulatorio, componendo e invigorendone il moto, accentuandone la cresta. Gli eroi greci, sebbene le loro esistenze fossero totalmente comprese in questo ansito, rappresentano un elemento attivo del divenire. Così pure Zarathustra di N. La' dove la filosofia orientale nega o sottace quest'ansito, relegandolo fra le aberrazioni o ritenendo che sia l'emergere dell'oblio del Sé Superiore; la cultura cui si rivolge N. per attingere le peculiari caratteristiche del suo campione, viceversa lo esalta, e l'eroe si traduce in un complemento del moto stesso; non un Illuminato o Risvegliato che staziona imperturbabile ed inacesso in un "Centro Immobile" che gli permetta di trascenderlo. L'eroe greco soffre, piange, urla e lotta – l'intera Iliade ruota intorno alla figura di Achille ed alla sua ira: <<Cantami, O Musa, l'ira funesta del Pelide Achille>>.  Ripeto: <<Così volli che fosse>>.  Da quest'enunciato può derivarsi l'intero percorso che il pensiero del folle genio compì per approdare, giustificare e "santificare" la sua creatura: il Superuomo o l'Oltreuomo. La "volontà di potenza" emerge dall'ipertrofia dell'Ego, e l'ego stesso (vale a dire l'Io) si ciba di questa volontà espansa oltre ogni limite fino allora lambito dal pensiero speculativo e filosofico.
L'io si esplica attraverso la volontà di vita, concetto tanto caro a Schopenhauer, che in N. assume il nome di "volontà di potenza". Come già accennato, non c'è shakti in questa "volontà di potenza", non c'è neppure un racimolo della potenza o forza cosmica tanto cara allo Shiva ishvarico, c'è solo un'ipertrofica volontà tutta umana che non colloquia con energie cosmologiche primordiali, perché ne disconosce la discendenza. Sennonché, la cosmologia di N. si riduce tutta nella potenza dell'uomo nuovo, nella sua forza posta in essere (creata?) in virtù della massima espansione della volontà: << Davvero, attraverso cento anime io ho camminato la mia via e attraverso cento culle e dolori del parto. Molte volte ho già preso congedo: io conosco gli ultimi istanti che spezzano il cuore. Ma così vuole la mia volontà creatrice, il mio destino. O, se debbo parlarvi più sinceramente: proprio un tal destino vuole la mia volontà. Tutto quanto è sensibile soffre in me ed è in ceppi: ma il mio volere viene sempre a me come mio liberatore e apportatore di gioia. Volere libera: questa è la vera dottrina della volontà e della libertà, così ve la insegna Zarathustra.>>.  Tutto ciò non è da intendere in maniera letterale: N. non credeva minimamente all'anima eterna, né alla reincarnazione o alla metempsicosi. Si tratta semplicemente di un linguaggio simbolico espresso in forma poetica, ove il simbolismo è inscritto in un nuovo ordine temporale. Il volere riecheggia dal passato, da un tempo mitico e viene a lui per coniugarsi con il Fato, e quest'ultimo giunge a lui, cogliendolo per strada, per recargli il volere, quel particolare volere, che è potenza di volontà, o meglio "volontà di potenza": "così vuole la mia volontà creatrice, il mio destino". Fato e volontà si conformano ed insieme, assentendo l'uno all'altra, "creano" il divenire, l'attimo fuggente che diviene. Non v'è più dunque un'armonia cosmologica che intessa la storia per l'uomo, bensì un'ebbrezza voluttuosa che si genera nel caos, o un caos che pullula nell'ebbrezza delle passioni. Questa è, con ogni dovuta evidenza, voluttà, non distacco. Il Superuomo è un errabondo, un viandante che danza e i cui colori sono il rosso avvampante della fiamma delle passioni, non è un anodino ed atarassico Saggio dal Centro immobile. Egli è consono alla Vita, che è disputa, tragedia, consunzione, crepuscolo, virilità. La sua è voluttà, lussuria di vita, è, in definitiva, un imperioso Sì alla Vita. L'Amor fati non è un semplice conformarsi al destino, ovvio che in definitiva di ciò si tratta; è creazione e volontà creativa che si coniugano con il Fato; è Fato che si congiunge alla volontà. Il "matrimonio mistico" che si celebra nelle pagine dell'opera di N. è di ben altro tenore rispetto a quello esoterico officiato nei saggi di spiritualità. V'è passione, un amore rosso e cruento come vivido sangue che ribolle. Se si osserva con attenzione, egli postula un confluire di destino e volontà di vita. Le due matrici si conformano l'una all'altra, e non per volere di un Dio, o per via dell'avvenuto recupero di una coscienza superiore o a seguito di un complesso procedimento introspettivo o meditativo – niente di più estraneo al pensiero di N. –, bensì per causa di un "ritorno", di un rivisto, di un rivissuto che celebra il fastigio della volontà. L'Amor fati è così un "volere che così fosse", i cui termini opposti che lo inscrivono sono da recuperare nell'impossibilità per la volontà stessa di infrangere lo scorrere del momento (cosa che neppure la geniale follia di N. poté affermare) e, dall'altra parte, nell'ineluttabilità del Fato, del destino, fra le cui braccia siamo sospinti. La volontà è però libera; questa volontà, che è comunque convogliata verso un destino ineluttabile – il suo destino –, è al tempo stesso la massima espressione di libertà.  Ma come potrebbe essere intravista o presentita una libertà che si esplichi nell'ambito di un tempo lineare, teleologico, escatologico ove il destino l'attende per compiere l'evento, se non postulando un "eterno ritorno dell'uguale"? Z. non nega lo scorrere del tempo. Egli danza nel suo fluire, nel divenire. Anche in ciò si può notare la grande distanza da qualsiasi negazione dell'entità di Cronos. Da qui il suo celeberrimo "Così volli che fosse", il suo "Amor fati", il suo bramare la sofferenza che impregna il tempo e la vita, la sua tragicità esistenziale nell'eterna disputa fra la dionisiaca ebbrezza delle passioni da preservare e coltivare, espandere e glorificare e quanto reso necessario dal momento, dall'attimo stesso. La vita, sebbene sia dissoluzione e disfacimento, si rigenera eternamente proprio nella decomposizione, nello sfacelo, ricomponendosi nella sua magnificenza. La sofferenza è parte della vita, poiché la rigenera. La Vita, pur nella sua ciclicità, è divenire, impermanenza; il Superuomo, conforme alla Vita, a differenza dell'Illuminato, è un uomo del divenire, totalmente immerso nell'impermanenza, intriso di transizione. La volontà di vita, sospinta in una danza folle dall'ebbrezza delle passioni, è la creatrice dell'attimo transeunte che si origina nel caos. Il volo cui incessantemente allude Zarathustra non è un volo metafisico, neppure reale, ancor meno del samadhi, né di un nirvana o celestiale, bensì un volo ideale sospinto dal vento nuovo di un uomo che supera l'uomo vecchio, è il volo della libertà, e il suo aleggiare si svolge tutto nel mondo terreno, non fra ovattate nubi, neppure fra gli spazi interstellari di un universo e di un cosmo che sono ricusati dalla sua filosofia:  <<Deve essere tolta al creatore la sua fede e all'aquila il suo librarsi in lontananze d'aquila? Dio è un pensiero che rende storte tutte le cose dritte e fa girare tutto quanto è fermo. Come? Il tempo sarebbe abolito, e tutto ciò che è perituro sarebbe abolito? Pensare queste cose è vortice e vertigine per gambe umane, e vomito per lo stomaco: davvero, abbandonarsi a simili ipotesi io lo chiamo avere il male del capogiro. Io lo chiamo cattivo e ostile all'uomo tutto questo insegnare l'Uno e il Pieno e l'Immoto e il Satollo e l'Imperituro>>.

#3
Racconti Inediti / LE DUE SPONDE DEL FIUME
19 Dicembre 2024, 22:25:20 PM
Io questa sua battaglia non la capivo proprio. Ne avevamo condotte tante, insieme, nel corso di una pluridecennale frequentazione. Ma questa volta sentivo che la stavo perdendo. Strenuamente impegnata in un qualcosa che la stava alienando da tutti, dalle sue amicizie e dal mondo. Sembrava indifferente ad ogni altro interesse e, soprattutto, poco incline a cercare di comprendere le ragioni altrui e di aver rispetto dei sentimenti di chi le stava vicino. Appariva come un'anima in pena, anche se il suo contegno, serafico e sempre tendente al buon umore, non lasciava trasparire l'inquietudine che fermentava dentro il suo cuore. La conoscevo troppo bene per lasciarmi ingannare. Le chiesi cosa le stesse accadendo e le ragioni che la rendevano così intransigente.

Mi osservò stupita per qualche secondo, poi sorrise. 
«Ho imparato, in questi anni, a percorrere i sentieri altrui indossando i loro calzari, non puoi dirmi che non cerco di comprendere le ragioni di chi mi sta vicino. Non è vero che sono intransigente, almeno non di solito, ma su questo argomento, mi spiace, ci troviamo su due fronti contrapposti. È come se fossimo su due rive poste l'una di fronte all'altra ed in mezzo scorresse un fiume. Io sto su una, tu sull'altra, e da questi due contrafforti opposti ognuno osserva l'altro con sospetto e diffidenza. Io sul tuo versante ho stazionato per qualche tempo; so quale sia l'aria che tira; tu, invece, mai hai respirato l'aria densa e satura di miseria che asfissia quest'altra parte del fiume. Non credere di poter vedere troppi ponti che consentano l'attraversamento per passare agevolmente da un argine all'altro. Nel senso, caro mio, che su questo tema non c'è possibilità d'incontro o di mediazione. Perché il transito può avvenire soltanto dopo che si sia guadato il fiume, immergendosi personalmente nelle sue acque tumultuose e solo dopo aver condotto una lotta senza quartiere contro la corrente che rischia di portarti a valle, per rigurgitarti nel mare magnum dell'indifferenziato, dove tutto è uguale e tutti hanno un unico pensiero. Ciò di cui ti parlo, è un attraversamento fra acque profonde che intridono le rive di un limo culturale che, se e quando dovesse appiccicarsi alla tua pelle, ti rende diverso da quello che eri prima, e non è possibile venire da questa parte senza aver guadato il fiume e affrontato i pericoli che in esso son celati. Potrai approdare su questo versante del fiume e finalmente ritrovarci solo se e quando avrai affrontato e sconfitto le fiere che lo abitano, celate fra i mulinelli e i vortici che la corrente crea quando incontra i balzi che ne increspano le acque. Perché, mio caro, fintanto che anche tu non avrai subito il lavacro e ti sarai mondato di tanti gravami e ciarpami ideologici, qui non potrai stare».

«Io ho cercato di fare il tuo percorso, ma un po' perché non ho capito fino in fondo, un po' perché mi son trovato solo, ho riabbracciato la mia originaria convinzione che dovremo impedire questa invasione e cercare, per quanto possibile, di aiutarli a casa loro».

«Che s'incontrino ostacoli difficili da superare l'ho sempre saputo, perché non si tratta d'impedimenti che vagando incroci per strada, per cui scartando di lato potresti anche evitarli o aggirarli. Quelli ti si parano di fronte ostruendo il passaggio. Si può continuare a nasconderli, ad ignorarli, ma un giorno ci devi pur sempre fare i conti, perché questi intralci, come lacci che ti vincolano al suolo, te li porti dentro, cuciti sulla pelle e infitti dentro l'anima.
... Non strabuzzare gli occhi!
Queste fiere hanno nomi noti, si chiamano razzismo, egoismo e paura. Tu te le porti dentro, e sei in ben nutrita compagnia. Ti rodono dall'interno e t'impediscono di vedere che noi non siamo al mondo solo per godere la vita fra apericene e spritz, odio quel tipo di cultura. Potessi scegliere, quando posso, fra uno spritz con un'amica o un amico e la compagnia di uno di questi ragazzi di colore disperati, ma che sanno, nonostante tutto,  anche sorridere, non avrei dubbi. Invece di trascorrere del tempo fra amenità e chiacchiericci stupidi, ascolterei con le lacrime agli occhi i loro racconti, il viaggio intrapreso da ciascuno di loro per approdare su una terra che li odia, che non li vuole solo perché ha troppa paura delle diversità.
La diversità è ricchezza, non è da temere, perché arricchisce un panorama reso troppo monotono dal pensiero dominante. Le biodiversità sono preservate in tutti gli ecosistemi, solo nel contesto umano sono aborrite.
I loro sono racconti bellissimi, perché non sono narrazioni romanzate, ma è come se ogni volta ne leggessi uno e compissi il viaggio insieme a loro, per soffrire nella carne e nell'anima ciò che hanno patito loro. E le mie sono lacrime vere, che mai ho avuto timore di mostrare, perché quando colano lungo il viso e, mischiandosi con il trucco, impiastricciano il volto, sento qualcosa di bello dentro di me, qualcosa di umano, di caldo e di dolce. E nel loro sorriso, mentre raccontano di parenti o figli o padri affogati o bruciati dal sole e dal sale misto al carburante di quelle carrette che li trascinano via dai loro affetti, scorgo tutta la nostalgia, il dolore, la malinconia che un essere umano può provare. Avverto quella punta di dolcezza e quella mezza misura di dolore che li accompagna sulle nostre spiagge per vendere due cianfrusaglie, che per noi son stracci, per loro vita. Resto incantata, sconvolta e assettata delle loro storie. È buonismo o sono una radical chic?  Non lo so, non m'interessa, non so neppure cosa significhino questi due epiteti, faccio solo quello che sento. Lottando contro me stessa, caro amico, ho fatto i conti con le mie paure, il mio egoismo e il razzismo latente che sempre un pochino abita l'anima di ciascuno di noi, e me ne sono liberata. Un giorno, come in un'alba, ne ho sentito tutto l'inutile peso, e liberarmi di questi mostri ha significato librarmi per aria, anche se poi ha comportato lordarmi mani e braccia nel fango che li accoglie, qui sulle nostre coste. Tu non hai mai provato a sorridere loro quando cercano di venderti la loro mercanzia fatta di miseri stracci, rispondono sempre con un sorriso. A loro non serve tanto per vivere, quel che cercano è comprensione e forse un pochino di attenzione, non l'ostilità che incontrano ogni giorno. Io non voglio più villaggi vacanza, neppure hotel super lusso, voglio bidonville, andare da loro, ascoltarli, mostrar loro che in noi alberga ancora un briciolo di umanità, far sentire loro che non stanno rubando nulla se cercano di dar corpo alla speranza di una vita migliore. Noi avremmo fatto lo stesso, noi abbiamo fatto lo stesso!»

Parlava con calma, serena, era commossa e due lacrime le rigarono il volto. Sentivo di amarla e di non poter accedere al suo mondo, troppo lontano dal mio, dalle preoccupazioni per l'auto incidentata, per le fatture da pagare e per l'impegno per il prossimo week end. Quanto era bella, trasfigurata da una fede che io non potevo avere; ricca di niente e bisognosa di nulla. Toccai nel profondo tutta la mia aridità e la comparai alla sua ricchezza. Ne rimasi profondamente colpito.

«A me, vedi, non interessa la quantità delle persone che mi accompagnano in questo duro viaggio. Non mi curo di osservare chi o quanti stanno alle mie spalle o al mio fianco per darmi forza e per infondere quel coraggio che serve per affrontare tutti i giorni una vita dura e difficile, mi basto da sola in questo percorso. Non ho bisogno dell'assenso altrui per continuare a fare e pensare ciò di cui sono intimamente innamorata. Tutti, proprio tutti potrebbero passare dall'altra parte, io non ho bisogno di persone che non sappiano lottare, che non siano convinte. Potrei rimanere qui, su questo versante, sola a guardare la moltitudine di uguali che si accalca dall'altra parte, ma so che non mi sentirei mai sola, o non me ne fregherebbe poi troppo. Qui ho davvero tanta compagnia, quella di me stessa, e quando sono triste e abbattuta, amico mio, non penso a viaggi esotici, penso che insieme a me ci sono i miei eroi: Lampedusa, Nicolini e Boldrini e tanto mi basta, anche se non posso parlarci. Poi sola non credo di esserlo completamente. Questo esecrato ed esecrando Governo, (racconto scritto ai tempi del governo Renzi), che ha commesso mille e più errori, per i quali non merita neppure un pensiero, immaginati il mio voto, ha un merito, forse l'unico. Io sono fiera di essere italiana e mi sento tale fin dentro l'anima, pensando che, senza curarsi dell'immobilismo dell'Europa intera, da solo, senza curarsi di chi lo seguiva o meno, ha ordinato ai militi della sua marina, cioè soldati addestrati per fare la guerra ed uccidere altri uomini, di mettere in acqua le navi da guerra per andare a prenderli in mare, per salvare loro la vita. Bene, credo che anche uno solo di quei salvataggi ai miei occhi riscatti i tantissimi errori compiuti. Un giorno, credo, la Storia, quella che leggi sui libri, renderà merito all'Italia, la mia Italia, di questa scelta che mi riempie di orgoglio».
#4
Tematiche Culturali e Sociali / LE POLITICHE REPRESSIVE
16 Dicembre 2024, 21:59:36 PM
Le politiche repressive, in relazione a qualsiasi tematica o problematica, soprattutto quando fanno esclusivamente leva sulla propria forza di coercizione, ovverosia quando non sono opportunamente integrate con politiche di progresso economico e sociale, storicamente hanno dimostrato di avere le gambe corte e funzionare maldestramente per il tempo in cui sono adottate, risultando, fra l'altro anche oltremodo dispendiose. Riprova di ciò la si ha osservando il dato della criminalità nei paesi d'oltreoceano che applicano la pena di morte o quello dei flussi migratori di sudamericani rispetto agli USA. 
Un'intera branca della letteratura sociale attesta l'inconsistenza di fondo e la falsità del nesso severità/sicurezza, tanto caro a certa parte politica. Di contro, vero è  che un atteggiamento eccessivamente lasso in materia di prevenzione, repressione, condanna ed espiazione del crimine non aiuta di sicuro. Entrambe queste politiche risultano  inadatte ad affrontare le problematiche associate alla sicurezza. Risultano, invece, assai congeniali ad un utilizzo strumentale e populista della paura, le prime, e del sentimento umano, le seconde. In medio stat virtus, raccontavano i latini.
Sull'argomento sicurezza vi è un mito nero che va sfatato, soprattutto quando questo tema assume i minacciosi connotati della "marea nera" che in questi anni sta "invadendo" il nostro Paese, trascinandosi appresso comprensibili timori e sospetti, pena il perpetuarsi di un equivoco che rende impossibile la giusta comprensione di approcci meno rudi. Nessuno in possesso di un minimo di senno può ergersi a paladino della deregulation più totale nel governo dei flussi migratori. Nessuno auspica l'invasione dell'Europa o dell'Italia da parte di orde musulmane assetate del sangue cristiano, intrise di rabbia atavica, pronte a vendicare l'onta di Lepanto o di Poitiers. Non vi è chi vorrebbe l'Africa vuota e l'Europa ricolma di africani; è sicuramente da preferire, anche perché più naturale, che ciascuno possa vivere serenamente in casa propria. Risulta, però, ostico far comprendere a certa parte della comunità, quella più infoiata e, presumibilmente, anche la più spaventata, che la lugubre contabilità di morti affogati fra le acque del Mediterraneo può indurre in qualcuno con un minimo di senso etico e di capacità di immedesimazione un sano raccapriccio rispetto a prassi inconcludenti che fanno dell'economia il fulcro e dell'umanità un accidente prescindibile, soprattutto quando quest'ultima collide con il dio PIL. Non c'è Pil che tenga di fronte ai volti e agli occhi disperati di quei poveri ragazzi. 
È il caso di prendere atto che le politiche sociali e quelle preposte alla gestione dei flussi migratori sono state un fallimento e che forse un approccio diverso, meno ottuso, meno ideologico e meno repressivo, potrebbe offrire una risposta, quella necessaria, per por fine a questo orrore. Politiche sensate che non si declinano in scellerati accordi, come quelli sottoscritti a suo tempo da Maroni e Berlusconi con quell'altro criminale, loro amico, di Gheddafi e che furono la causa del proliferare di tristi statue di sale nei deserti africani. È probabile che i cosiddetti "buonisti" siano stanchi di essere compartecipi silenti di questa barbarie e, fedeli all'imperativo che risuonò dinanzi agli orrori del secondo conflitto mondiale: «mai più!», auspichino in primo luogo interventi mirati a preservare la vita di quei  disgraziati che pur di offrire una speranza e un sogno a se stessi e alle proprie famiglie, affrontano un viaggio che solo a raccontarlo dovrebbe far accapponare la pelle e stillare lacrime, anche a pachidermi paciosi, adiposi ed obesi nel cuore e nell'animo quali siamo diventati noi italiani.
Noi "buonisti" siamo tutti ben consci che mischiati a quei giovani, che fra mille tormenti e mille difficoltà cercano di raggiungere le nostre coste, ci sono anche persone pronte a delinquere. Lo sappiamo, ma il prezzo che si paga per fermarne dieci sono le decine e decine di vite umane, e, visto i trascorsi, anche recenti, è un prezzo che non possiamo pagare. Sappiamo bene che le politiche di gestione dei flussi migratori sono carenti e che la fantomatica legge Bossi-Fini è talmente stupida da imporre a chiunque approdi nel nostro Paese di delinquere, di essere preda delle organizzazioni criminali che imperversano indisturbate in ogni angolo d'Italia. Sappiamo che sono merce da ricatto, soggetta alle vessazioni, considerata materiale di risulta di una fabbrica della prevaricazione che non ha né cuore, né anima, né cervello. Non ignoriamo neppure che i CIE o CPR sono carceri a cielo aperto, luoghi dell'orrore, che traboccano di persone: studiati per contenerne qualche centinaio in maniera dignitosa per poco tempo, solitamente superano il migliaio d'individui. Siam consci che sono fucine dove la rabbia e il rancore crescono e si nutrono della disperazione e di sogni frustrati. Sovente lì dentro maturano i germi della violenza e dell'odio. Sappiamo tutto questo, e pur sapendolo non riusciamo proprio a rassegnarci ai fili spinati, all'esercito in armi che presidia le nostre coste e le nostre frontiere. Non riusciamo proprio a rassegnarci a ciò perché intuiamo che i flussi migratori sono ineluttabili, inarrestabili, ineliminabili e non saranno due o tre corvette della nostra scassatissima marina militare ad intimorirli a tal punto da farli desistere: alla disperazione solitamente si risponde con atti disperati, e quelli a cui assistiamo basiti, sono propriamente atti di disperazione imposti dalla fame.
Perciò la risposta non può essere affidata alla spada, come non è stata la spada la risposta adeguata al proibizionismo americano, non lo è stata neppure rispetto alla droga, alla prostituzione, all'aborto. Ed è perciò che destano enormi preoccupazioni le irresponsabili dichiarazioni di certa politica odierna. È necessario e s'impone, oggi più che mai, una politica della gestione, il costo economico sarebbe decisamente meno elevato di quello sostenuto con le politiche repressive. Basti pensare solo a quante risorse economiche è costata l'idiozia in Albania e quante se ne dovrebbero mettere in campo per il rimpatrio dei clandestini, che puntualmente ritornerebbero, a meno che non li si giustizi sommariamente sul posto: non è però questo il Paese che i "buonisti" sognano. 
Uno Stato, in tutte le sue articolazioni, è una macchina complessa che deve saper far fronte quotidianamente a svariate problematiche ed affrontare, nel miglior modo possibile e consentito dalle circostanze e dai mezzi, criticità derivanti dalla complessità della società che è chiamato ad accudire, senza abdicare mai al principio inderogabile dell'etica e della democrazia. Se così non fosse, se ritenessimo conseguente e ammissibile il ritrarsi delle istituzioni ed il loro chiudersi in sé stesse di fronte alle difficoltà, dovremmo anche accettare e pretendere la sua resa incondizionata nei confronti della mafia, della criminalità organizzata. Ma così non è. Chiediamo, giustamente, un impegno costante che prescinda dal Pil e dallo sforzo economico.
Ciò a cui assistiamo in questi anni è un fenomeno vasto, multiforme, complicato nella gestione e non può essere affrontato semplicisticamente chiudendoci in noi stessi, barricandoci in casa ed affidando il presidio delle frontiere a truppe in armi. Ciò che la tragedia di tanti giovani extraeuropei interroga in maniera critica è la nostra forza d'animo di non rinunciare ai nostri principi, alla nostra etica, in definitiva, al nostro essere umani. Non vi è altra strada se non quella dell'integrazione.  Non certo assimilazione, avremmo tutti scritto così, eppure usiamo un altro termine. Rispetto delle differenze, cultura dell'ascolto, assistenza (principio su cui è fondato il nostro Welfare, non facciamoci intimorire da questo termine), convivenza equilibrata di culture e religioni differenti (le differenze vanno preservate perché sono una ricchezza irrinunciabile). Sarebbe a dire, tanto per intenderci con un esempio pratico, né più né meno di quanto accadeva in Spagna prima che la cattolicissima Isabella si ponesse in testa di distruggere con pervicacia una delle più fiorenti culture multietniche che la storia del pianeta abbia conosciuto, trasformando i mori in moriscos e gli ebrei in marrani. 
La storia non è solo una congerie di brutture, di guerre e violenze. È anche capace d'impartirci lezioni di civiltà e di convivenza insospettabili, di cui dovremmo far tesoro. Dobbiamo riesumare la nostra intima e naturale propensione all'incontro. L'uomo è un animale relazionale, che trova nell'incontro il principale alimento che nutre la sua umanità. L'incontro è il più grande antidoto contro l'ignoranza, ben più efficace dello studio. L'incontro è vita, è dinamico, non statico. Dovremo rinunciare all'ideologismo e confidare un po' di più nel prossimo. Affidarci con animo critico (non si rinunci mai a questa grande propensione umana, poiché è la capacità critica il principale motore che stimola la ricerca, prodromo delle scoperte e delle invenzioni più belle) alla psicologia che studia il comportamento umano, in quanto individuo, e alla psicologia sociale che lo studia nel suo esser relazionale comunitario. Non possiamo arrenderci al deserto. Lo dobbiamo percorrere senza perderci, calpestarne la polvere e scottarci ai raggi del sole cocente, fino a trovare, ed in certi non sporadici casi a ritrovare, la polla sorgiva da cui sgorga l'acqua vivificante della bellezza di essere umani che contendono alla bestia che abita il profondo dell'anima di ciascuno di noi l'estasi e l'appagamento ricavato dalla contemplazione della bellezza.
Le politiche repressive non fermano la disperazione, soprattutto quando questa è tracimante, e difatti tracima ed esonda in foggia di tetri e fatiscenti barconi (solo il 15% dei flussi migratori che interessano l'Italia avviene attraverso il Mediterraneo, il resto in mille altri rivoli difficilmente monitorabili?). Non può essere ignorato, per esempio, che la comunità straniera più rappresentata in Italia è quella rumena (oltre 1 milione d'individui). È anche quella che fa registrare il più frequente ricorso ad azioni criminali. Le ragioni di ciò non stanno scritte nella genetica, non c'è nulla nei cromosomi dei rumeni che possa far intuire in anticipo che si sia al cospetto di una comunità con una forte propensione a delinquere. Nelle scatole craniche dei ragazzi di Timisoara o di Bucarest non si registrano neppure vistose protuberanze che possano accreditare l'obbrobriosa tesi di Lombroso del "secolo breve", la quale pretendeva che i tratti delinquenziali fossero iscritti nella genetica delle persone e che la fisiognomica ne tradisse l'evidenza. La comunità romena è la stessa cresciuta o nata sotto la dittatura di Ceausescu. Si tratta di quell'infanzia rubata al futuro e alla vita, costretta letteralmente a vivere nei tombini. Il risultato è questo. La Romania è parte integrante della UE. Non è stata ancora ammessa pienamente nell'area Schengen. Nondimeno, non è concepibile che in ambito UE si possa limitare la libera circolazione dei suoi cittadini, ciò perché verrebbe negato il principio basilare che sottende proprio gli accordi di Schengen, quindi il concetto stesso di Europa e di unità comunitaria.   
Che tristezza doversi confrontare con sterili numeri quando questi parlano di tragedie immani, quando espongono il sudore, la fatica, il sangue, le lacrime e la disperazione di esseri umani. Non mi frega proprio nulla della contabilità stocastica o statistica, quando dietro questa contabilità c'è una moltitudine di persone che sogna e spera. Un Paese di cattolici dovrebbe rileggersi con attenzione l'intero nuovo Testamento per comprendere il profondissimo significato, non solo teologico o religioso, che la speranza assume per le esistenze di ciascuno di noi. Il danno più grave che un animo può subire, non è la fame, neppure la morte, ma è appunto la disperazione, cioè la fine di ogni speranza. 
Questo è buonismo? Forse solo capacità d'immedesimazione. È voler cercare di indossare i calzari di chi s'incontra per strada; provare a sentire sulla propria pelle quel che gli altri sentono e patiscono ogni giorno. So bene che si tratta in ogni caso di un'esperienza edulcorata, ma, pur essendo tale, e non potrebbe essere altrimenti, è pur sempre un'esperienza che sfianca l'animo, sfibra il fisico e insinua nella mente il disperante dubbio che tutto possa ridursi all'abusata locuzione latina "Homo homini lupus". Come è possibile rassegnarsi a tutto ciò? L'uomo non è un'entità astratta, collettiva e deresponsabilizzante, sulla quale, in quanto massa confusa e non identitaria, possano essere riversate responsabilità che sono invece individuali, personali, precise e non surrogabili. Come è possibile rassegnarsi alla deresponsabilizzazione, tanto comoda quanto vile, che suddivide le colpe, fino ad assumerne su di sé solo un'infinitesima residuale stilla, un racimolo non significativo che salva la coscienza e non intristisce il cuore. Deresponsabilizzazione tipica della psicologia del branco che addita nelle colpe altrui le ragioni dell'abominio. Noi italiani siamo troppo cattolici; sarebbe meglio divenissimo un po' più luterani. È necessario che ciascuno s'appropri e si faccia cultore a sua volta della cultura della responsabilità, che appella in causa proprio l'individuo, e la comunità solo come somma di individui equamente responsabili. 
Non possiamo rassegnarci! Rifiutiamoci di dare il nostro consenso alla monocromia, all'usuale, all'ordine e alla disciplina; convertiamoci alla policromia, alla polifonia, anche all'indisciplina, perché è spesso proprio quest'ultima la forza generatrice che sovverte le consuetudini e lo status quo – in tal senso paradigmatica la bellissima lezione impartitaci da Rosa Parks, non scordiamola mai -. È davvero giunta l'ora di riprendere le armi del buon senso e della ragionevolezza. Non arrendiamoci.
#5
Tematiche Spirituali / ANIMA
04 Dicembre 2024, 23:30:04 PM
Ciò che ci parla dall'interno, con voce flebile, come un'eco appena percettibile, è una legione, non è un demone. 

Noi siamo mille essenze miscelate e aggrumate in un glutine inestricabile. È la nostra anima un caleidoscopio dai mille colori e dai mille significati. Per questo è oltremodo indelicato fornire voce a chi voce non ha, se non quel poco e tanto che urla dal profondo come Vox clamanti, di cui noi udiamo solo un'eco.

Il Cantico dei Cantici, meraviglioso libro ispirato, ci canta appunto questa meraviglia che ammalia... ci canta la vita come essenza forgiatasi nel profondo di ciascuno di noi. Il Cantico dei Cantici è Eros, ma scorda di trasportare con sé la legione che abita il nostro intimo. Dà voce, monocorde, ad una sola parte della vita: la meraviglia, scordando l'abnorme, il terrifico che è in noi. L'anima non ha una sola voce, non canta, non si esprime in poesia, quel che leggiamo composto in versi è solo quel vapore sulfureo che percepiamo come richiamo dagli inferi.

Potremo, forse, dire che l'anima sia il substrato personale entro cui unitariamente sprofonda l'essere in tutta la sua molteplicità di forme, prima che fosse avvertita la scissione dovuta ed operata dall'insorgere della coscienza. Potremo inferire che sia un substrato magmatico, ribollente, che permane nel profondo di ciascuno di noi, in un punto che anticipa e previene la scissione fra ragione ordinativa e follia disgiuntiva e scompaginante. L'anima è così il punto dell'equilibrio fra i due suoi costituenti. Ma oggi si assiste alla sua disfatta al cospetto del trionfo della razionalità scientista che promana dalla coscienza, la quale ha relegato nel campo della patologia la follia dionisiaca del ditirambo, tramutato e costretto in insipiente danza regolata, che preclude così lo sguardo a più sensi e più voci.

La coscienza è una scissione operata fra le due forze: propende verso la ratio ordinativa e rifugge il folle kaos della vita. L'anima è personale e si coniuga con l'anima collettiva rappresentata dall'ambiente e dalla cultura coeva. Anima collettiva intrisa di reminiscenze del passato che la colorano con i colori attinti e trasfusi nel corso del tempo.

L'Anima rappresenta il contrappunto e il complemento della coscienza: là dove l'una unisce e scompagina, l'altra scinde e ordina. Sono due attitudini che si completano per tenere il suo abitatore (abitato), l'uomo, in costante tensione verso la vita. L'anima è l'occulto che ci abita, l'inconscio che ci agisce, l'irrazionale che si appropria di noi e delle nostre azioni e scelte, mai pienamente nostre.

Non vi è una scienza per l'Anima, non vi può mai essere una scienza che dia voce all'anima. L'occhio non può osservare sé stesso nell'atto di osservare sé stesso: la psicologia, logos dell'anima, è la presunzione di dar voce a chi urla nel silenzio. Compie il misfatto di fornire regole universali che la decodifichino. Ma è un assunto dogmatico, è un'aporia, una contraddizione, una violenza ed una violazione della sua intima essenza. Così la psicoanalisi (scomposizione in elementi semplici dei tratti caratteristici della psiche-anima), è un'altra ingiuria perpetrata nei confronti di ciò che non è visitabile ed osservabile per parti da ricomporre. Non è possibile rendere oggettivo ciò che è soggettivo. La scienza imporrebbe un'osservazione del fenomeno priva d'interferenze, la più asettica possibile. Ma nella 'scienza' dell'anima, del profondo, l'osservatore e l'osservato coincidono, e la razionalità necessaria alla sua decodifica e anamnesi è comunque interferita dall'anima stessa; rappresentando, infatti, il nostro conscio (coscienza) circa il 10% del fenomeno denominato nel suo complesso Uomo, qualsiasi azione, atto razionale, ivi compreso anche l'atto di osservare, leggere e ridurre in asettiche e fredde formule di comportamento, sono sempre interferite in buona misura da elementi e fattori occulti, esoterici, che sgorgano e scaturiscono dal profondo occulto. La religione è un'altra assiomatica impostura. Non inferisce circa l'Anima, ma inferisce in ordine al suo promanare e al suo dispiegarsi nell'esistenza, fino a spingere il proprio campo d'indagine verso l'epilogo escatologico e la sua riunificazione con ciò da cui si è in origine scissa. Fino ad argomentare e dedurre la sua intima attitudine a coniugarsi con qualcosa da cui in origine si sarebbe disgiunta. Fino a conclamare ed enunciare la sua perenne e costante correlazione con la fonte primordiale... che assurda pretesa! La religione, argomentando in tal senso, conchiude il senso e la significatività dell'esse in anima entro uno spazio escatologico, rinviando la sua forza agente ad un futuro da compiersi, vanificando e negando il suo carattere ctonio, che attiene più agli inferi che al sublime e celestiale.

L'anima è un flusso che sovverte le regole, imponendosi come forza luciferina insondabile. Per cui non vi può essere logica che la trattenga, che la conchiuda entro leggi ferree e regole irredimibili. L'Anima è al tempo stesso Meme e Lethe, ricordo e oblio. Parla un linguaggio simbolico, esoterico, non decifrabile. È un paradosso che si esprime unitariamente nella sua molteplicità. Dar voce all'anima, farla parlare con il linguaggio dei verbi, degli avverbi, dei sostantivi comuni è una forzatura improponibile: l'inconscio non parla la nostra lingua, urla nel silenzio che udiamo e vediamo in sentimento ed emozioni. Non vi è una sola anima in noi, vi sono tante anime quante sono le percezioni e le risposte che ad esse per buona misura inconsciamente forniamo, con nostre scelte ed atti che ci scelgono e ci agiscono. 

Noi non abbiamo un'anima, noi siamo dell'anima.
#6

Ho sempre avuto in elevata considerazione la libertà individuale, anche quella imprenditoriale. La considero senza dubbio un valore da preservare. Soprattutto se e quando si sviluppa in maniera armonica, nel rispetto dell'ambiente entro cui va ad insediarsi. Diverso è il mio parere quando per raggiungere i suoi fini, questa libertà impone le sue regole e tende a deprimere i territori e comprimere le libertà e le convenienze delle comunità.
Non vi è libertà nell'aggressione dell'ambiente, se non quella sterile di chi ama circondarsi dei miasmi putrescenti della morte. Però nessuno può pretendere che la massa segua la libera scelta di chi amerebbe vivere in mezzo ai cadaveri. Chi ama i deserti può benissimo salire sul più elevato ed isolato pennone di roccia e vocarsi ad una vita da anacoreta. 
Ci sono casi, anche non sporadici, in cui l'imprenditoria e l'industrializzazione non hanno consumato suolo uccidendo il territorio, ma pretendere che l'industria chimica o quella di trasformazione non abbiano alcun impatto sull'ambiente naturale circostante è davvero pura follia.
Più frequentemente accade che le élite industriali e capitaliste, in massima parte, non abbiano alcun rispetto dell'ambiente che ospita le loro fabbriche ed imprese. È noto: il capitale non ha olfatto, e i miasmi della morte che le ciminiere eruttano nell'aria o sversano nei terreni mai potranno offendere il suo delicato nasino, troppo avvezzo a ben altri profumi. 
D'altronde, pecunia non olet! 
Novello Erisittone, il capitalismo è massimamente autoreferenziale, proprio perché si nutre di sé stesso e tende a nutrire esclusivamente sé stesso. Non per nulla un antico detto, per nulla popolare, recita: il denaro va dove c'è denaro e ricchezza. Ma la ricchezza non si genera per partenogenesi. Il suo accumulo è sempre, a livello planetario, una sottrazione di mezzi economici e finanziari ad altre parti del mondo. Ricchezze che in quelle zone magari fungono da mero sostentamento. Per questo motivo, sostanzialmente, l'aggressione capitalistica priva di freni e controllo tende a desertificare le aree ove poggia i propri voluttuosi sguardi.
Ciò che il liberismo sfrenato, alleato del capitale, non  può comprendere e non potrà mai accettare è che le regole del mercato non sono dettate semplicemente e solo dalla dinamica domanda/offerta. Il mercato, e con esso l'economia, è un ingrediente imprescindibile della comunità umana. Con essa entra necessariamente in contatto. La troppo spesso mortifera ed onnivora liason domanda-offerta tende sovente ad entrare in conflitto proprio con la comunità umana. Infatti, se e quando si viene a creare un vistoso disequilibrio fra questi due poli (e ciò accade assai spesso), si vengono a determinare conseguenze assai cruente. Ciò ha più volte messo in crisi questa dinamica autoreferenziale, rendendo indispensabile un governo superiore delle forme di economia che al capitalismo, per un verso o per l'altro, fanno riferimento. In sintesi, la variabile umana, folle e mai pienamente governabile, indipendente sia dal mercato sia dalla volontà del capitale, ha in buona misura condizionato la libera e sfrenata espressione proprio del capitale, spesso imbrigliandolo e asservendolo ai bisogni della comunità (soviettismo, per dirla alla Gramsci?). Più sì che no, questo è avvenuto, quando è avvenuto, allorché il liberismo senza vincoli è stato soggiogato alle urgenze umane ed alla necessità di riscatto di vaste frange della popolazione, soprattutto proletaria e contadina.
Il Capitale ha sottoscritto un accordo di reciproca collaborazione con il potere. Vivono in una condizione di osmosi. Si autosostentano. L'espansione dell'uno significa quasi sempre la crescita dell'altro. Il Capitale si è sempre appoggiato al potere, di solito il più becero e cruento, per alimentare se stesso. La storia dell'uomo è ridondante di questa evidenza. La si veda un po' alla stregua di un quadro eseguito con la tecnica del puntinismo. Non v'è alcuna necessità di dover corredare questa tesi con citazioni, basta aprire un qualsiasi libro di storia, di sociologia, di antropologia per averne piena contezza. 
Lo stesso Colombo poté varcare l'Oceano su tre meravigliose barche in grazia e virtù della voluttuosa prospettiva di dar maggior espansione alle brame di ricchezza dei governanti di Spagna. Così fu che popolazioni intere (incivili, cruente etc...) furono sterminate  (c'è necessità di qualche citazione?). La conquista del West fu anch'essa opera sua. La tratta degli schiavi fu una conseguenza della protervia del Capitale. Ma non scordiamo che anche i due massimi e più cruenti conflitti del secolo scorso furono ispirati sempre da questo mostro tentacolare, che se non imbrigliato ed opportunamente asservito rischia oggi, ancora una volta, ma stavolta in maniera definitiva, di soffocare per eccessiva brama l'uomo e la sua umanità. 
Certo, fu inoculato in quelle terre selvagge il germe della civiltà. Ma qualcuno è mai andato a domandare se avessero necessità e avvertissero il bisogno di questa nostra civiltà? L'uomo ha esigenze che il Capitale non può e non potrà mai soddisfare. Potrà forse fornire dei surrogati (come un fiore di plastica), ma mai potrà dare risposte ed indicare la strada verso l'unico vero desiderio umano: quello della felicità.
Le attività umane, sono, giustappunto, attività dell'uomo. Questi non può essere visto e considerato alla stregua di una monade: sufficiente a se stesso, essere a se stesso. È, come prima sua caratteristica essenziale, un essere relazionale. La primissima relazione che instaura una volta che viene al mondo è con l'ambiente circostante. Da questo rapporto polemico (da polemos), quindi spesso conflittuale ed assai dinamico, non può mai prescindere. Può vivere isolato, come un eremita, ma con l'ambiente che lo accoglie e circonda deve pur sempre fare i conti.
La Natura non è sempre una madre benigna, sovente si mostra nelle sue acre vesti di mater matrigna - interessantissime a tal proposito le lezioni di Leopardi -. Da qui la necessità di governarla, modificarla, rimodularla per adattarla alle condizioni genetiche del suo ospite. L'uomo è l'unico essere del creato che nasce totalmente privo di difese naturali: "la scimmia nuda".
Essendo la Natura colei che offre asilo a questa scimmia nuda, è gioco forza che, nel riadattarla alle sue esigenze, l'uomo debba necessariamente portarle assoluto rispetto. Tale rispetto si concretizza nel trovare il giusto equilibrio (il kata metron dell'antica saggezza greca) fra le trasformazioni antropiche e le ragionevoli e ben misurabili capacità di assorbimento che l'ambiente mostra di possedere. 
Diversamente, se si eccede, si cade nel peccato che sempre una saggezza che precedette quella di Cristo definiva 'tracotanza' (hybris).
L'uomo per vivere ha necessità assoluta di usare l'ambiente, ma senza eccessi ed evitando di apportare modificazioni tali da ridurre a macerie la casa che lo ospita.
Abbiamo e siamo innamorati (me compreso, ovvio) di un unico modello di civiltà. Lo abbiamo brevettato e lo esportiamo convinti che sia l'unico universalmente valido. Abbiamo così soppiantato altri esempi di convivenza fra umani. Sotto l'insegna della croce e della pecunia abbiamo irriso le civiltà del vicino e lontano Oriente - per riscoprirle solo quando il nostro modello ha mostrato vistose crepe ed incrinature -; cancellato quella precolombiana; reso sterile quella paleocristiana; disintegrato quelle animistiche del centro Africa. Senza rispetto e senza ritegno, le abbiamo quasi tutte cancellate. Mai che alla pecunia ed alla mitra sia venuto in mente di affiancare e non sostituire, accostare e non soverchiare, integrare e non assimilare. 
Il Capitale e il potere hanno un vocabolario assai ridotto, purtroppo.
Da sempre quest'entità acefala si è servita del potere e il potere di lei. La storia del colonialismo è una storia d'amore fra potere e Capitale. E quest'ultimo conserva in sé, nel proprio Dna proprio il sentore e il sapore di quelle calde e voluttuose notti in cui poté, senza remore e senza freni, addirittura con il consenso festoso della più alta autorità morale del tempo, consumare l'amplesso col suo amato. Ne serba il ricordo e tende a perpetuare questa sua vocazione, prescindendo dall'uomo e dalla Natura, che in questa sarabanda ditirambica sovente appaiono come freni – lacci e lacciuoli -.
Il Capitale ragiona in termini di colonialismo. Quando non lo fa è giusto perché la politica, quindi l'uomo, non glielo consente – a tal proposito gli esempi sarebbero ridondanti -. Se fino a ieri assumeva volto e sembianze piuttosto rozze, senza curarsi dell'estetica, oggi, epoca in cui anche l'occhio ha le sue pretese, si ammanta delle candide vesti del progresso. Anche quando a questo progresso sarebbe meglio e più saggio rinunciare . Ma il suo volto è sempre arcigno e il suo sorridere scopre denti aguzzi, come quelli delle fiere pronte all'assalto.
Questa naturale alleanza impone che quanti permangono ai suoi margini o relegati oltre il suo perimetro debbano sottostare alle sue ferree regole, che statuiscono l'imperio delle élites sulle masse. La dittatura del Capitale si estrinseca e realizza con la sottrazione alle masse delle opportunità di sviluppo organico ed armonico. È sufficiente dare una scorsa alla storia della Sardegna. Cercare di comprendere cosa sia accaduto con la grande industrializzazione dell'isola - capitale, potere e, purtroppo in quel caso, anche cieco, se non addirittura venduto sindacalismo, uniti all'insegna del progresso -. Una visita guidata a Sarroch, Ottana, Porto Torres, Portovesme è sempre assai didattica. Lì, in quei deserti, fra quelle cattedrali, potranno essere reperite le dotte citazioni che io non includo in questo testo. Se per un solo attimo si ha avuto la sensazione che stia filosofeggiando in maniera astratta, una visita al museo della morte di Porto Torres rasserenerebbe chiunque sulla veridicità di quanto affermo.
Non vi è naturalità nell'operare del Capitale, solo un'inesausta ricerca del profitto. Ciò va a danno, troppo spesso, di tutto quel che entra in conflitto con le sue mire. La Natura non è un'entità amorfa del complesso ecosistema definito terra. Ne è parte viva e pulsante. L'ambiente, intendendo terra, acqua e cielo, elementi primordiali che rinnovano e celebrano ogni giorno i fasti e la sacralità della vita, è elemento vivente. Come tale esposto anche al rischio di essere sopraffatto dalla morte: tutto ciò che vive è esposto alla morte (cit. U. Galimberti e mille altri ancora, ma soprattutto il buon senso).
L'uomo, intendendo con questo termine l'intera umanità, in esso (ambiente) è immerso, da questo è circondato e con questo deve convivere, pena la scomparsa di entrambi. 
La Natura, quindi l'ambiente, ha un'enorme capacità di assorbimento delle attività antropiche. La Natura è resiliente. Questo afferma la scienza. In un rapporto osmotico, si modella, modula, adatta e conforma alle modificazioni apportate dall'attività umana. Così è sempre stato. È questo che ha consentito il progredire della tecnica e la crescita del livello e della qualità della vita della comunità umana. Altro che Capitale. Una Natura rigida non avrebbe mai potuto consentire l'antropizzazione del pianeta. Merito assai più elevato rispetto a quello ascrivibile al mercato e al Capitale. Se le cose sono andate in un verso favorevole all'uomo, non è detto che domani possa essere così. O per meglio dire, così è sempre stato fino all'avvento della rivoluzione tecnologica, quella dei tempi coevi... Di oggi.  
Dicevo, l'ambiente ha un'immensa capacità di adattamento. Certo, è risaputo e comprovato, ma è anche scientificamente provato che questa adattabilità ai mutamenti, soprattutto quando indotti in maniera eccessivamente repentina, non è infinita, bensì definita e, mi si passi la tautologia, quindi anche limitata. Il che significa, senza meno, che vi è una soglia (altra sgraditissima tautologia, ma serve per comprendersi), un confine oltre il quale il sempre labile diaframma che separa il rigoglio della vita dal tanfo della morte e del disfacimento si lacera e non sarà più rammendabile con interventi tampone come gli accordi di Kyoto (tali sono, servirebbe ben altro per mettere in sicurezza il bene più prezioso che abbiamo, ovverosia la vita futura nostra, in quanto specie e del pianeta, in quanto ecosistema globale).
Il capitale è figlio di un sistema imprenditoriale che si è sempre nutrito attingendo linfa vitale dall'eco coloniale dei secoli trascorsi. Non si è mai abbeverato ad una fonte che non scaturisse dalla silicea roccia della necessità di rincorrere se stesso. Avendo come unico obiettivo quello di potersi sempre superare (accumulo, in economia), non si è mai nutrito dell'esigenza di operare per un bene più elevato e meno autoreferenziale: quello, per esempio, delle comunità entro cui è andato ad insinuare le sue voraci membra. Ha stretto un patto serrato e pare inscindibile con l'autoremunerazione. 
È così diventato alieno alle tematiche di più elevato profilo etico e sociale (se ne fotte, in un francesismo assai più esplicativo). È refrattario a misurarsi in termini di eco-sostenibilità (tutto ciò che entra in contatto con il termine ambiente o ecosistema, assume per lui i connotati dei no global, scordando e non volendo vedere che a Genova nel 2001, per esempio, sfilavano madri di famiglia, padri con prole al seguito, sfilavano pacificamente inseguendo l'utopia di pacificare la Natura con l'umanità che il capitale tende a disumanizzare). Recalcitrante ad ascoltare le voci dissennate (certo, lo sono, tutte le utopie sono dissennate) e dissonanti che pongono sulla linea dell'orizzonte del guadagno fine a se stesso la necessità di espandere le possibilità per costruire i presupposti di un'esistenza migliore, che non sia dunque esclusivo appannaggio di già pingui capitalisti. 
Non avendo a cuore altri che se stesso e la sua spiraliforme remunerazione, ha in uggia tutto ciò che tendenzialmente o anche potenzialmente possa recare con sé un gradiente o una screziatura di pericolosità al suo eterno, vano e vacuo indefinito espandersi
#7
 
E' presumibile che ogni tempo abbia vissuto e patito un senso di smarrimento analogo a quello che si patisce nei tempi odierni. Anche il tempo dei nostri padri, suppongo anche quelli dei nonni e degli altri avi, hanno condiviso questo comune sentire. Forse può risultare agevole trarre la ragione dell'usuale formula 'perdita di punti di riferimento' in Thomas Mann, specificamente nel bellissimo tomo dal titolo Doctor Faust. Anche Roth, nella sua bellissima Cripta dei cappuccini, ha marcato il sentimento di scoramento che impregna i tempi di transizione (talvolta non è necessario rivolgersi alle scienze sociali per aver contezza e cognizione che la percezione crepuscolare della storia è un leit motiv che ha attraversato i tempi, le latitudini e gli spazi).
 
Niente di nuovo sotto il sole, dunque?
 
Non sono i riferimenti ai grandi della cultura universale che debbono marcare e dare la cifra dell'odierna sensazione di decadenza. Sarebbe davvero un troppo comodo rifugio affidare le nostre sensazioni a chi ha vissuto in altri tempi e con notevole maestria ha cantato il tramontar del sol.
 
No! Sotto il sole odierno c'è ben altro.
 
Non l'usuale, non il banale, non un normale periodo di transizione. Le transizioni hanno sempre – dico e confermo sempre – maturato nel proprio seno risposte e qualità che si sovrapponevano a quelle avviate al tramontar. I fattori del senso, i significanti della vita erano in nuce nella decadenza stessa, e la decadenza si presentava non come una dissoluzione, piuttosto come un'evoluzione dei fattori sociali e psicologici che fornivano sostanza e significato all'esistenza stessa. Per effetto di questo evolversi sociale, non s'avvertiva una cesura netta fra un tempo e l'altro. La transizione, a parte lo spleen di fondo, che attiene più all'umanità che all'essere sociale dell'uomo, si poneva nel limine fra crepuscolo ed aurora, e la società avvertiva contemporaneamente il tramontare del vetusto senso e l'aurora del nuovo. Fra scoramento e speranza, si muoveva nell'unica direzione concessale dal progredire e dallo scorrere del tempo... ne seguiva la direttrice. Neppure la Grande Guerra, evento fra gli eventi, poté nulla – allora – contro questo ineluttabile mutar di forme e senso, resi necessari e istituiti proprio dalla e nella trasformazione, dal e nel divenire, dalla e nell'esigenza congenere alla vita di dissolvere e creare: rispettivamente diastole e sistole della vita e della società che vive, rappresentandone, infatti, il respiro: il respiro del NULLA.
 
I nostri giorni, piuttosto, hanno perso per strada la diastole, sono fermi alla sistole, alla contrazione che scorda e svanisce il moto d'espansione, permanendo, così nella buia via della dissoluzione: un cupio dissolvi. La transizione dei giorni nostri non si porta più appresso il gene del senso e di un significato nuovi. Essendo priva di culla che accolga la nascita di un nuovo senso, niente ha da cullare, nutrire e far crescere, mantenendosi così nel suo status embrionale di transizione inespressa. Che vede il crepuscolo ma non approda all'aurora, pur bramandola.
 
Niente più ideologie! Ciò che, nel bene e nel male, seppur sovente concepite e coltivate in maniera violenta e del tutto distorta, tenevano coese nell'individuo la brama di conseguire un repentino mutamento di forme e la spinta motivata all'azione, che di questo struggimento è, appunto, l'effetto più naturale. Eppure, nel passato, furono proprio le ideologie a dischiudere un orizzonte cui confidare e credere, e tanti, tantissimi, piuttosto che lasciarsi uccidere dalla verità del nulla, che si apre alla noia, pretendendola e istituendola, in questo orizzonte ideologizzato hanno investito, come si può investire in un amore. E quando l'idea o l'amore, tramontando, tradiscono, naturale è il vuoto che si espande, cacciando via il senso, ed è allora consueto che la verità del non sense ecceda nel suicidio... come sempre è stato.
 
Non penso e non immagino di certo un'ideologia tirannica o totalitaria – il vulnus del XX° secolo, e forse la causa della fine d'ogni ideologia -, penso più che altro all'idea che ha intriso l'esistenza dei vari Gramsci, Nenni, Pertini, Berlinguer (che piacere poterne trovare almeno due della mia terra). Ideologie intrise di fede, talvolta cieca ed acritica, ma pur sempre impregnata di senso. La stessa fede che, con la morte di Dio, si è tramutata più che altro nel laido bigottismo militante di CL o di Azione Cattolica. Non alludo, in questo caso, alla fede che ha infervorato don Milani, don Sturzo, o i tanti altri che si sono lasciati travolgere dall'amore militante. Ho in uggia e disdegno la cupida voluttà d'appartenenza, che coglie le anime piccine, ed esalto, invece, con un senso di piacevole meraviglia la militanza voluta e imposta dalla fede o dall'idea, che impregna di sé, della loro essenza, le anime di uomini grandi e nobili.
 
Sono, questi, tempi che si consumano in fretta, e di corsa corrodono e dissipano ogni ricchezza umana, soprattutto le relazioni, i momenti d'incontro. Ne sono esempi eclatanti l'uso compulsivo di chat e forum... di Internet in generale, della tecnologia, che usa l'uomo, che s'impossessa delle coscienze e s'installa nell'animo, svuotandolo d'ogni altro contenuto... sia esso il sentimento, vuoi pure le emozioni. Le stesse che nascono dall'incontro di donne e uomini veri, fatti di carne, di ossa, di paure e gioie e di sentimenti ed emozioni. Emozioni che non si esauriscano nel breve arco di tempo concesso da una fugace scopata: veloce, clandestina, nel corso della quale forse neppure il nome dei partner è mai pronunciato, perché non è elemento essenziale dell'effimero e transeunte piacere, che mai si traduce in emozione che arricchisca l'animo.
 
L'eccessivo utilizzo di 'k' e i flash da pixel, sono sintomo evidente che l'utilitarismo si riverbera e manifesta in ogni particella della nostra esistenza quotidiana. Anche nel linguaggio, il quale, per molti, non è più uno strumento di comunicazione, cioè di unione, anche momentanea, che deve quindi trasmettere per ricevere. Oggi il linguaggio, sempre più povero e scarno, non comunica, se non la superficie, rifiutando di porsi al servizio del profondo, dell'anima, del sentimento. Il linguaggio asservito alla tecnologia chiede, domanda, pretende... non è più comunicativo.
 
La transizione che viviamo è uno stare, non un andare, è cioè un qualcosa che non va oltre, che non si apre a nuove proposte e scoperte, che surroghino fede e idee, che, nel bene e nel male, hanno rappresentato il punto di riferimento di tantissimi giovani negli anni scorsi.
 
Un tempo ci si uccideva per un'idea – certo, mal interpretata -. Si era però disposti alla manganellata pur di affermare un'idea, un proprio punto di vista, seppure attinto acriticamente; oggi è la noia – non lo spleen, che è altra cosa, Baudelaire non è passato invano – ad uccidere, a muovere l'azione, a costringere l'esistenza di troppi ragazzi e ragazze, disposti a buttar via la propria gioventù nel vano inseguimento del troppo facile piacere di un attimo che ottunde il vuoto che li/ci abita. Piaceri veloci che, proprio perché troppo facili e a portata di mano, non richiedono un investimento di energie, di sentimento, non impegnano la persona, il suo intimo, ma solo l'epidermide. Superficie che è espressa anche dall'eccesso di 'k', utili per volere, pretendere, ottenere... mai per dare qualcosa, per uno scambio.
 
La transizione appare come un mastodonte che goffamente si muove nel pantano della tecnica, ed in esso resta imprigionato. Una tecnica che promette il paradiso oramai disabitato dall'ideologia, il cui tramonto ha svelato l'effimera illusione del farmaco contro il nulla che si espande. Paradiso sempre più disabitato anche a seguito della rinuncia e del rifiuto dell'eterna, irrisolta promessa della fede. Il paradiso della tecnica è freddo come il metallo e la plastica che utilizza per proporsi; effimero e falso come la pubblicità che la propone.
 
L'abbondanza di modi e mezzi di comunicazione ha ottuso la propensione a comunicare; l'enorme disponibilità di piaceri ha offuscato la gioia e il piacere all'incontro vero; l'emozione pret a porter ha reso inutile e vano l'investimento emotivo; la spiritualità da banco ha intristito e impoverito l'anima degli uomini, svuotandola della speranza, promettendo in cambio una conoscenza impossibile e la futile coscienza del Sé Superiore; l'io è diventato Dio, e la solitudine colloquia solo con le altre solitudini di cui si circonda, divenendo l'ambito e l'area entro cui, monadi, muoviamo i nostri passi. L'incontro fra persone sempre meno si coniuga nel sentimento o nell'emozione. Sempre meno si apre all'impegno, all'investimento emozionale. Sempre più assomiglia a un cleanex: lo si usa, lo si getta via, non lascia tracce.
 
Tutto, oramai, è votato all'utile, al consumo: l'uomo e la donna consumano un rapporto sessuale, non fanno più l'amore, perché anche il verbo amare, usato ed abusato, si è svuotato di senso. L'amicizia è solo uno stare insieme, un fare le cose insieme, affinché le reciproche intime solitudini non emergano, facendo così udire l'eco della voce del vuoto che si spande nel nulla. La tecnologia ha ucciso anche la bellissima illusione dell'amore fra umani, quelle dell'ideologia e della fede sono tramontate da tempo, da molto, troppo tempo.
 
Certo! Non tutto è così bigio e oscuro. So bene che resistono enclave d'umanità, ma si tratta appunto sempre più d'enclave, dove la norma dei nostri nonni è diventata eroismo. Un detto popolare – mutuato dal celeberrimo moto di Brecht -, dipinto sul muro di un'abitazione in un paesino del centro della mia terra recita: beato il popolo che non ha bisogno d'eroi: in questo detto c'è davvero tantissima saggezza. L'area del senso s'assottiglia sempre più, indietreggia al cospetto del miasmatico sentore del nulla.
 
Come non atterrire, non essere sgomenti di fronte alle confessioni d'efferati delitti: perché? (la domanda); non so! (la risposta). Ebbene, non mentono: la noia agisce ed opera senza offrire un senso, senza un vero perché. Talvolta s'incappa in un'improvvisa e inattesa sincerità: per vincere la noia!
E'questa la novità, la vera cesura fra le altre transizioni e quella presente. Neppure si odia; sempre più di frequente l'azione è priva di movente: non il furto, né la ricchezza o il potere; non un'idea da dover essere affermata anche con il ricorso alla forza, neppure l'odio... ma solo un 'non so' e tanta noia da vincere. Un gioco, ed è così! E' l'eterno gioco del nulla, che si esprime proprio in noia, in 'non so', in nulla: uniche vere vesti che il nulla sa e può indossare... il resto è belletto, maschera.
 
Il nulla oggi è nudo!
 
In altri tempi, neppure troppo lontani per non averne più memoria diretta, la transizione nasceva dal sapore e dal colore del crepuscolo, e si protendeva ad ammirare il colore e presagiva il calore dell'aurora. Entrambi ben presenti, in nuce, nel tramonto. Il Medioevo si tuffava nell'Umanesimo, il quale annunciava il Rinascimento, che era seguito dall'Illuminismo – grande e fervente fucina di controverse ideologie -. All'Illuminismo fece seguito il Romanticismo, poi il decadentismo, con tutta la cultura che ne cadenzava il passo. Il XX° secolo s'apriva segnato da un evento cruento, controbilanciato, però, dalla speranza, sicuramente anche frivola, della belle epoque. La Grande Guerra nutriva ed era nutrita dall'irredentismo. Il ventennio era il falso riscatto (creduto vero). La successiva tragica guerra si radicava in nuove attese per l'uomo, sfociate in seguito anche nella Carta universale dei diritti dell'uomo; fino a giungere ai giorni nostri, fra alti e bassi, scoramenti, paure e rinnovate speranze. Probabile che nel fondo della cornucopia domani scoveremo l'ennesima, immarcescibile, futile e transeunte nuova illusione che dissimuli la verità del nulla. Ma oggi qual è il nostro orizzonte? E' un futuro in mano alla tecnica! Morto Dio – oramai quasi sotterrato, soprattutto dalla Chiesa -, tramontate le illusorie ideologie, qual è la nuova futura illusione che potrà riuscire a dissimulare la verità del nulla e del non senso? Resta solo un'amara constatazione: forse i giovani d'oggi sono soltanto più sinceri, mostrano senza infingimenti la nudità del nulla, e di questa essenza oscura sono appunto l'espressione più consona e genuina.
 
Nessun pianto da parte mia, solo un'amara constatazione.  
 
La verità, quando si mostra nuda e cruda, intrisa dei suoi miasmatici odori e foschi colori, atterrisce e sgomenta. La società odierna registra nella cultura proprio questo sgomento.
 
#8
Racconti Inediti / L’ANIMA SARDA
05 Novembre 2024, 22:23:49 PM


Mi sorrise e col suo accento romanesco soggiunse: «Voi sardi siete assurdi. Non vi integrate mai. Dove ci sono due sardi c'è sempre il famoso circolo che gli fa da casa. Si può dire che non usciate mai dalla vostra isola. Siete come chiocciole e sempre un pochino melanconici».
Ero abituato ed anche un po' affezionato a queste sue impertinenze e sfottò. Dolcissima e strega al tempo stesso. Non me la presi. Non so bene il perché ma volli provare a raccontarle cosa è per noi la Sardegna, e con enfasi, tutto d'un fiato le dissi:
«Capisco quanto sia difficile, se non addirittura impossibile, spiegare e far comprendere a chi non lo è cosa significhi essere sardi, cosa un sardo sente nell'anima. Già, non ti meravigliare, nell'anima, poiché noi non siamo sardi solo per l'anagrafe, lo siamo soprattutto perché sentiamo che dentro di noi la Sardegna vive e pulsa, scorrendo fra le membra, portata dal sangue. Ti dirò di più, credo che la nostra anima aderisca al nostro corpo assumendo la forma stilizzata del sandalo: Sandalia, appunto.
Mi chiedo come potrei mai riuscire a farti capire cosa sia e come percepiamo noi la poesia e la letteratura sarde. Queste non nascono nelle teste degli autori. I nostri poeti e letterati non si sedettero un bel dì allo scrittoio per comporre le loro opere, col desiderio di farci innamorare. No! Qui non avviene così: Grazia Deledda o Muntanaru colsero Melchiorre, le sorelle Pintor, gli struggenti e meravigliosi Cantos de sa Solitudine nei campi, fra le rocce, fra i balzi dei fiumi e nei boschi. Qui da noi la letteratura nasce dalla terra, come una qualsiasi altra pianta; sbuca da lì e si innerva lungo le gambe di chi dalla Sardegna è prescelto per esporla in forma scritta, in versi o in prosa. Prende posto nella caverna dei sentimenti e delle emozioni e poi da qui sortisce fuori per parlare sardo ai sardi.  Non è mai poesia o letteratura di Grazia Deledda, di Sebastiano Satta, di Atzeni, è il logos della terra di Sardegna. E quest'isola delle sue perle è gelosissima.
Come potrei riuscire a spiegarti che queste opere letterarie, ma anche quelle figurative di Biasi o Spada, sono intrise dei sapori, dei colori, delle emozioni e dei profumi di Sardegna. Sciola, Nivola, Ciusa non sono forse loro stessi rocce dell'isola? La musica che sortisce fuori dall'organetto diatonico suonato alle feste e sagre dei paesini dell'entroterra è il canto sincopato dei nostri boschi. I nostri stessi balli sono il circolo che si crea intorno al focolare, e narrano in movimenti sincroni i Contos de foghile degli anziani. Il canto a tenores è l'eco che nasce dai nostri monti, antichi come il mondo, e che percorre le valli per andare incontro alle genti nei villaggi. È la loro voce: Gorropu, Lanaitto parlano sardo. Hai mai provato ad ascoltarla? E se la letteratura rappresenta l'anima, i costumi, quelli bellissimi indossati da ragazze brune come una notte stellata di agosto, che solo a guardarle ti commuovi, sono la pelle che riveste l'isola e noi sardi. In tutto ciò c'è la Sardegna. Hai mai notato che negli assembramenti di persone, fra la moltitudine di vessilli e bandiere che garriscono al vento, quella che sempre risalta per eleganza e bellezza reca l'effige gloriosa di quattro mori con la benda? Ti sei mai chiesta il perché? Noi la portiamo cucita sulla pelle, e l'abbiamo dentro di noi anche quando non la sventoliamo, tanto ne siamo fieri. Fieri di portare inciso dentro nel cuore lo stesso vessillo che ha avvolto le idee e i corpi di Gramsci, Lussu, Berlinguer e tantissimi altri che hanno dato lustro a questa folle terra.
Ma come faccio a raccontarti dei profumi di lentisco, mirto, asfodelo, corbezzolo, capperi che intridono i nostri abiti? Rinuncio a descriverti la gioia e il senso infinito di libertà e solitudine che si prova andando in estate per i campi riarsi dal sole o immersi nella bruma in inverno; non riesco a parole a trasmetterti il piacere di rubare a questa terra dura ed avara il cardo e l'asparago selvatico, come potresti mai riuscire a sentirla questa gioia, tu che calpesti solo l'asfalto delle città? I nostri fiumi sono il sangue vivo che scorre nelle nostre vene. E il nostro vino è il fiume violento e inebriante di Lethe che fluisce festoso nelle nostre gole. Non senti un suono di natura selvatica al solo nominarli? Flumendosa, Cedrino, Rio Mannu, Codula de Luna; Nepente, Cannonau, Malvasia. Come potresti tu avvertire quel fremito che sale lungo le membra? I nostri colli sono incoronati da piccoli villaggi di pastori, perciò sono i re e le regine delle nostre valli e dei nostri mari: Osilo, Castelsardo, La Plassas. Gli stessi nomi dei paesi hanno un non so che di magico: Sarule, Sorgono (che dà l'idea di un miracolo che si erge dal terreno), Laconi, Orgosolo, Mamoiada, Luogosanto (santo per la gratificazione ricevuta di sorgere al centro di una delle zone più belle del territorio, la cui vista digrada dalla collina verso un mare color dello smeraldo). Le nostre terre hanno un suono inebriante: Nurra, Trexenta, Marmilla, Barbagia, Gallura, Campidano. Che bello pronunciarne il nome per udire il suono delle vocali e delle consonanti che si spande nell'aria accompagnando il belato delle nostre greggi e il canto della natura. Puoi tu comprendere il fascino ancestrale delle sagre paesane, quando le splendide centenarie, con incisa sulla pelle incartapecorita tutta la storia dell'isola, espongono ai visitatori i propri manufatti che profumano di lavanda o di pane fresco? Non puoi sapere quanto sia bello sperdersi nell'incanto del suono delle voci dei paesani; quel suono magico che evoca un passato millenario inciso dal vento sulle pietre dei monti di Gallura o del Sarrabus o del Gennargentu (la porta d'argento che accede al paradiso), e che echeggia sull'Ortobene, cogliendoti mentre lanci uno sguardo estasiato sul cuore pulsante dell'isola. Incappare nella magica danza selvaggia dei Mamutones, dei Turpos, dei Boes e dei Merdules. E magiche sono pure le grotte che cullano il sonno agitato dei nostri miti e delle leggende: le domus de janas, le tombe dei giganti, i menhir, i dolmen sono pietre che vibrano di vita. Non so descriverti il profumo che emana dai viottoli dei paesi percorsi da sa Filonzana, che recide il filo della vita, dalle Panas, su Surbile, l'Ammuttadori e i pianti che echeggiano fra muri di sassi e fango per la visita nottetempo della Femina Accabadora. Gli stessi sassi nuragici che tengono in piedi le nostre antiche cattedrali, sparse fra i campi di Barumini o Sant'Antine, sono chicchi di riso ambrato accarezzati dal cielo. I tralci di vite da cui pende il dionisiaco frutto cantato da D'Annunzio.
Come posso trasmetterti le emozioni che questa avara, dura, dolce e poetica terra suscita in noi sardi? Come renderti partecipe della gioia che pervadeva noi bambini quando l'auto di mio padre imboccava la strada che sbuca sull'arenile di Porto Conte, dal poetico nome di Baia delle Ninfee? Quel filo di mare azzurro che si intravede in lontananza, quel gigante che fa da guardia all'insenatura; o spiegarti l'agitazione che tutti noi pervadeva in prossimità delle grandi giare colorate che contornavano la provinciale verso Platamona, il mare di Sassari. L'inquietudine che coglie il visitatore alla vista della Sella del Diavolo, all'imponenza maestosa di Tavolara, alla radiosa dolcezza dell'arcipelago de La Maddalena, al profumo di selvatico che intride le narici percorrendo i viottoli sterrati dell'Asinara. Proprio non riuscirei a farti udire il silenzio profondo della solitudine dei pastori negli ovili sperduti fra rocce dure come il diamante. O l'infinita solitudine delle chiesette sperse nel verde di valli sperdute. Rinuncio pure a descriverti la meraviglia che si coglie nello smarrirsi per boschi e per conche, o lo stupore che ancor oggi assale ogni sardo quando da Gorropu procede verso le acque tumultuose di Flumineddu, per infine tuffarsi nell'azzurro di un mare che si confonde con il cielo, tanto da non riuscire a distinguere la linea irreale che li tiene discosti.
Non puoi capire ed io non posso far altro che arrendermi all'impossibilità di farti partecipe pienamente di questa seduzione che si appropria delle genti Shardane che popolano l'isola. Un giorno regalai un bellissimo libro ad un sardo che abita nel continente – anche questo dovrebbe suggerirti quanto diversi e lontani da noi siate voi continentali – un bellissimo libro che parlava di queste cose. Con gli occhi resi umidi dall'emozione mi disse: "un sardo piange quando lascia l'isola, per il dolore che gli procura l'esilio dall'Eden; piange lontano dall'isola, per la nostalgia che permea ogni poro della sua pelle; piange quando vi fa ritorno, per l'emozione di ritrovare quest'incanto. Ma quanto è dolce questo pianto, ha il sapore del miele di corbezzolo e la consistenza del vino rosso." La nostra cultura è intrisa di questa profonda melanconia».
Tacqui!
Mi guardò con meraviglia, mi sorrise, mi abbracciò e baciò. Andammo a prendere un caffè insieme.
#9
Era sempre serena, mai una nuvola pareva adombrare il suo animo. Eppure sapevo bene che non poteva essere così. Nel suo cuore c'era una ferita aperta, mai del tutto rimarginata. Un dolore enorme che solo un amore più grande di quello che si prova per una figlia persa prematuramente poteva placare e consolare. Quante lacrime aveva versato.

La incontrai per caso. Erano anni che ci eravamo persi: colpa dei miei impegni e del mio egoismo. Sempre bella, con un sorriso dolce che illuminava il viso e lo sguardo che induceva quiete. La voce, da eterna ragazza, era naturalmente sensuale. Dopo i primi convenevoli, le domandai di lei, della sua vita privata... solite cose. Le chiesi se si era mai sposata e, facendo perno sulla nostra antica confidenza, le chiesi se fosse innamorata.

"Sì!", mi rispose, osservandomi sorridendo: "perdutamente innamorata". Stupidamente fraintesi: "era ora! Finalmente! A quando le nozze, sempre che non ci siano già state?", "non è possibile che noi si possa convolare a nozze, perlomeno quelle che normalmente s'intendono come tali, ma in un certo qual modo, siamo intimamente sposati da sempre". Non capivo, restai confuso. Lei se ne accorse e, accompagnando le parole con un piccolo ed incantevole gesto, specificò, ancora più sibillina: "Sono innamorata di un uomo morto.", " mi stai prendendo in giro, spero", "un uomo che ha sofferto tanto per tutti noi, fino a morire per noi... in croce.", "Capisco, credi alle favole!", "Sì! Una splendida favola, incredibile e, poiché folle, assurdamente vera".

Come sempre riusciva a coinvolgermi in discussioni appassionate. La sua intelligenza, che faceva il paio con la sua bellezza, aveva sempre agito su di me come un magnete che mi attirava dentro un vortice di senso e significato che mai avevo provato in altre situazioni. Era proprio bello parlare con lei.

"Sei una donna intelligente. Non riesco a capire come puoi credere che sulla croce  Gesù  possa aver sofferto nella carne. È stato davvero troppo facile per Lui affrontare la croce: una divinità non può soffrire le nostre pene, e neppure il dolore può intaccarne l'anima."

Con un ammiccamento m'invitò a sedermi con lei sulla panchina più vicina. Il sole splendeva e la primavera faceva già sentire il suo tepore. Accettai di buon grado: sapevo che mi avrebbe preso per mano ed accompagnato a far visita alla sua anima, ciò che di lei ho sempre amato: "Io credo che Dio si sia incarnato, sia diventato a tutti gli effetti uomo. Non può non aver sofferto le nostre pene. Credo le abbia conosciute tutte: la sofferenza fisica per le trafitture dei chiodi e quella nel costato; credo pure che abbia sofferto fino allo spasmo più acuto del cuore l'abbandono da parte del Padre suo. Ha conosciuto tutto, anche l'assurdo dramma dell'abbandono del Figlio. Perché Gesù è colui che è stato abbandonato dal Padre ed è anche chi ha abbandonato il Figlio. In quegli attimi ha conosciuto il dolore di una madre che per salvare il proprio figlio lo consegna nelle mani di mercanti di uomini privi di scrupoli, e, quando lo fa, nello stringere per l'ultima volta la sua piccola mano, sa già che forse non lo rivedrà mai più. Ha anche vissuto l'atroce sofferenza di quel piccolo che, senza colpe, per trovar salvezza e dar corpo ad una speranza, è abbandonato dalla madre alle vili cure di uomini privi di scrupoli. Nella flagellazione ha patito il tormento della carne di tanti giovani che hanno creduto nella giustizia, torturati da vili aguzzini. Nell'ignominia della croce, ha sperimentato su di sé l'offesa di uomini che sbeffeggiano e ingiuriano altri uomini solo a causa di una diversa pigmentazione della pelle, perché noi siamo più attratti dalla superficie delle cose che dalle profondità del cuore. Gesù ha sofferto tutte le nostre pene, quelle dell'umanità."

Restai stupito. Non volevo offenderla, cercai le parole più delicate che potessi trovare per replicare a quell'enfasi un po' stucchevole: "Sai come la penso su questa storia. Storia di uomini scritta da uomini per gli uomini. Credo anch'io che Gesù, se mai è esistito il Gesù dei Vangeli, abbia sofferto nella carne come qualsiasi altro uomo. Tale era, nient'altro. Il resto credo siano sovrastrutture erette per devozione da chi credeva in Lui."

"So bene che sei ateo. Ma pur essendolo, io so che dentro di te divampa un'antica inquietudine mai appagata, che ti rende curioso e ti porta a cercare qualcosa che neppure tu ben sai distinguere. Credo che tu razionalizzi troppo. Non sono così ingenua da credere che tutto ciò che ci propina la Chiesa sia oro colato. Fra l'altro, in quegli enormi spazi ricolmi di ori e marmi preziosi, il Logos di Dio risuona come un'eco distorta. Ma il mio Gesù non abita le Chiese. Vive dentro di me.", "Certo, non potrebbe essere altrimenti, ne sei innamorata, e, come qualsiasi altro amore, non potrebbe che essere ospite del tuo cuore. Ho la sensazione, però, che tu sia innamorata di un'idea, forse dell'idea dell'amore.", "Può essere. Io credo che l'amore che un uomo può provare nei confronti di una donna, e viceversa, altro non sia che una sorta di immagine evanescente dell'amore che Dio prova per l'umanità. L'amore fra umani è un pegno, un acconto di quello che ci attende, è quanto più ci avvicina a quello che Dio prova per noi".

Era davvero incantevole sentirla parlare.

Proseguì: "Io, dentro di me, sento che il Logos, facendosi carne, ha patito sulla croce non solo come carne, ma anche come divinità. Gesù è un paradosso. Non puoi pensare di scindere la divinità dall'umanità di Gesù; è la sua stessa natura che non lo permette. Diversamente, la morte sulla croce e l'intera vita di Gesù, sarebbero solo una finzione, una bugia – forse pietosa – raccontata all'uomo, poiché la divinità non avrebbe partecipato al dolore e non sarebbe stata quindi partecipe delle afflizioni dell'umanità. L'incarnazione, invece, impone proprio questo. Dio si è fatto uomo, nella sua interezza: carne intrisa di gioia e dolore, certezze e dubbi. E' per questo motivo che ti ripeto che è Dio stesso che soffre. Anche il dubbio insinuatosi sulla croce, i cui segni sono rinvenibili nel Getsemani, sono la cifra di un'agonia spirituale che coinvolge la divinità in prima persona, e Gesù, in quanto uomo divino, non poté sottrarsi a questa agonia, la quale trovò il suo epilogo nell'agonia della carne divina sulla croce. Ritenere che la sofferenza abbia coinvolto solo la carne, lasciando intatta la natura divina, significa sostenere un'algida alterità di Dio rispetto alle vicende umane, ciò sarebbe in aperto contrasto e negherebbe di fatto la passione amorosa che dovette convincere Dio a dare sé stesso per riscattare la creazione dal peccato, e sarebbe un'indelicatezza rispetto al mio amore, che non posso concedere".

Restai muto. Sorrise. Si era fatto tardi. Il tempo era scorso come un sospiro. Ci abbracciammo. Eravamo davvero felici di esserci ritrovati. Ci saremmo incontrati ancora.
#10
Racconti Inediti / IL MARE, I PORTI, LE BARCHE
05 Ottobre 2024, 22:12:53 PM
Non si dovrebbe fare. Lo so bene! Eppure, quel giorno lo feci. Senza ritegno. Era così bello sentire le loro voci, la loro musica, ma soprattutto scoprire che non di solo gossip e calcio è fatto l'incontro di persone amiche. Erano sedute al tavolino vicino al mio. Subito mi colpì il loro parlottare e la perfetta sintonia che traspariva dai loro sorrisi. Ascoltai in estasi l'intero loro discorrere, astratto eppur tanto concreto. Era poesia, la loro. Non so come questo stupendo cicaleggio fosse iniziato, ma so bene come proseguì.

"... eppure, se ci pensi, noi non siamo poi troppo diversi da piccole barche che solcano il mare della vita, e ciascuno di noi è a sua volta un approdo e un'imbarcazione. Piccole feluche variopinte sballottate qua e là, che ogni tanto trovano un approdo per riposare e recuperare le energie perdute."

"Nostalgia del tuo mare?"

"Mah! Forse...".

Tacque per un attimo, come se dovesse ritrovare il filo dei suoi pensieri perso per l'interruzione. Poi, subito dopo, ritrovatolo, riprese.

"Nell'abbandonare il porto, le barche, con le loro vele variopinte, sembrano disegnare sull'orizzonte azzurro un arabesco dai mille colori. Tante piccole farfalle che si muovono verso il sole e la luce, che, come per le falene, pare quasi le attragga. Forse le vele bramano questa luminosità del sole, così come noi bramiamo la luminosità dell'anima. Una luce che si accende e si spegne in modo intermittente per avvertirci di qualcosa. Non si tratta sempre di un segnale di pericolo, talvolta è solo un avvertimento.
Quando s'incontra un'altra persona, l'intermittenza che si produce dall'incontro sembra ci voglia comunicare qualcosa. Quale sia il significato di questo messaggio spesso lo comprendiamo alla fine, oppure dopo tanto tempo. Talvolta comunica calore e genuinità, altre volte brama di possesso. 
Ma neppure le vele possono possedere il mare o il sole o il vento, così un amore non può mai possedere la persona amata. Sia le vele che l'amore s'illuminano e scaldano con il calore che traggono dal sole e dalla persona amata, e solcano il mare e il sentimento senza mai ferirlo. La brama di possesso, invece, è ciò che distrugge sia la luce che il calore. Allora si nutre il sentimento non più con le emozioni, ma lo s'incrosta con l'insicurezza, la paura. Una persona non può mai essere possesso esclusivo di un'altra.
E le barche sono libere di veleggiare giusto perché non ambiscono ad appropriarsi di chi le ospita sulla sua superficie. Così anche un amore, perché sia tale, veleggia sul sentimento senza mai violarlo. 
Ma quando si è giovani, troppo giovani, quanti errori si commettono. Per questo è bella la gioventù, perché commette errori, ma è stato bello cogliere tanto gli errori che quella luce che io ho sempre intravisto. 
Poi le barche fanno ritorno al porto, attraccano sulle banchine, e la vita riprende il proprio corso sulla terra ferma, poggiando i piedi per terra. 
E' bello ritornare sulla terraferma dopo un'intera giornata passata fra onde spesso ostili".

Era una metafora stupenda, quasi un dipinto narrato con una musica di sottofondo che rapiva. Ed io ne fui rapito.

"Non avevo mai pensato la Vita come un mare e noi come barche. Come sei poetica oggi, sembri una pittrice che con semplici parole dipinge su una pergamena dorata un magnifico acquerello. Per te forse è più facile, poiché vivi in un meraviglioso posto di mare. Non credo abbia torto."

"Ma sì! Immagina.
Siamo come piccole barche le cui vele sono gonfiate e distese dal vento e da questo sospinte. Sempre pronte a solcare l'ignoto: un mare che sempre calma e poesia non è, più spesso è burrasca. Ma siamo barche che lasciano il porto, che affrontano il mare, che sfidano il vento, che approdano in porti distanti migliaia di miglia. Siamo giunchi che si piegano alle folate. Siamo anche queste brezza leggera o furiosa che pare voglia spezzarci. 
Siamo come i piccoli pescherecci che vedo scorrere davanti ai miei occhi ogni mattina affacciandomi alla finestra dello studio. Le nostre vele sono i sentimenti che ci spingono, che ci raccontano il mondo, che ci sussurrano piano se oggi piangiamo oppure ridiamo, che ci fanno solcare questo mare fatto di gente. 
Ne incontro tantissima, anche qui seduta a questo tavolino. Osserva.
Ogni giorno la vedo sulle banchine del mio molo, venire ad acquistare il pesce appena pescato. Visi ormai noti, qualcuno sorride, c'è chi si muove di fretta, chi pare porti sulle spalle il peso del mondo. Gente che va, gente che viene. 
Anche la nostra vita è un po' come questo molo. Un brulichio di persone, di gente incontrata per caso, oppure cercata con il desiderio di arrivare a conoscerla. Visi ormai sfatti nel ricordo che pian piano svanisce, altri ancora nitidi nei pensieri perché è gente che ancora è con te. 
Quante persone abbiamo incontrato nella nostra vita? Quante ne ricordiamo e quante ne abbiamo scordate? Quante di quelle che ancora ricordiamo sono nei nostri affetti, quante altre nell'area dell'indifferenza? 
Strana la gente, ci si avvicina e poi si fugge via, ciascuno per la propria strada."
 
"Che strani pensieri, oggi. Che ti è accaduto di particolare da farti utilizzare i colori pastello della vita?".

"Ma no, nulla di eccezionale, sai bene che sono eternamente innamorata".

Risero di gusto. Anch'io sorrisi. Penso se ne siano accorte, ma non ci badarono più di tanto. Ripresero il loro fraseggio fatto di dolci note e piccoli tratti di pennello intinti in colori soavi.

"Anche noi, sospinti dal vento della vita, spesso abbandoniamo i nostri porti sicuri per recarci là dove un destino, il nostro, quello che è stato tracciato per noi, ci chiama ed esige. 
Quando abbandoniamo il rifugio sicuro, spesso l'angoscia o la speranza ci sono compagne. Man mano che percorriamo la strada che ci deve condurre là, dove siamo attesi, altri sentimenti ed altre emozioni si fanno spazio nel nostro animo. 
Per alcuni è l'intemperanza: bruciare le tappe e raggiungere il luogo del ritrovo il più in fretta possibile. Così, questi, nella smania di arrivare, scrutano l'orizzonte con inquietudine, senza mai volgersi di lato o indietro. Non vedono così ciò che fa da perimetro al loro veleggiare. Perdono alcuni sapori ed ingredienti che la vita e il tragitto offrono loro. Perdono i paesaggi e il piacere di trovarsi non soli, ma con compagni di viaggio. Sempre protesi verso quell'orizzonte che un po' li abbaglia, essi vivono sempre troppo sporti in avanti, sempre sul punto di cadere, senza equilibrio. Nella loro smania non si curano mai di ciò che incontrano, e poggiano, con indifferenza, i propri piedi su tutto ciò che si interpone fra la loro persona e l'agognata meta. Incuranti così delle gioie e dei dolori degli altri. 
Giunti alla meta, senza mai aver fatto una sosta e senza essersi riforniti di una sufficiente dose di sentimento, bramosi, in pochi attimi consumano, depredandole, le risorse che vi trovano, per ritrovarsi subito delusi di non essere approdati in alcun Paradiso. Scoprono così che quella Terra Promessa era solo una riserva ormai resa sterile e desertica".

"Sapessi quante ne ho incontrate persone del genere. Amori svaniti per eccesso di aridità e di cupidigia. Capisco quel che intendi dire"

"C'è chi, invece, non è posseduto da questa brama di giungere in alcun dove. 
Queste barche veleggiano tranquille, gettando l'ancora nelle insenature che più le affascinano, facendo gran scorta di viveri indispensabili per il lungo viaggio che li condurrà verso quella meta sconosciuta che tutti noi attende. Conosceranno la meta senza fretta, solo all'approdo finale. 
Nel tragitto raccolgono il cibo e l'acqua, sorrisi ed amicizie, amori e incontri, alleviando così la solitudine del loro peregrinare per le acque del pianeta".
 
Si sorrisero con dolcezza. Si vedeva che si volevano bene e che la loro amicizia era di lunga data. Si alzarono, pagarono il conto, mi lanciarono un bellissimo sorriso, a cui risposi con gioia imbarazzata e andarono via.
Una bellissima giornata si annunciava.
#11
Racconti Inediti / BRUJA - STREGA
28 Settembre 2024, 19:53:56 PM
Cadere in campo brujo, qui in Sardegna, equivale a dire 'mettere il piede in fallo', e il fallo in cui si cade non è certo una mancanza o un errore tale a cui si possa con semplicità porre rimedio. Il campo brujo è l'area del sacro, nel senso antropologico del termine. Cioè un'area ove la divinità esplica le sue terrifiche forze. É l'area del Numinoso... Mistero che seduce e spaura, al tempo stesso.
Ma brujas, qui da noi, sono anche chiamate le 'streghe'. Area della maledizione e della maldicenza, perché non esiste maledizione che non sia anche accompagnata dal pigolio importuno del popolo e delle genti.

La maldicenza è un venticello che, leggero, s'insinua beffardo in ogni dove. 

Bruja, lei era per le chiacchiere di paese, e bruja, dunque, ella dovette essere per il mondo intero.
Bella come un'aurora imbrunita dal sole. Neri gli occhi, profondo lo sguardo, lunghi i capelli. Elegante come una gazzella. Il cielo, a vederla passare, in estasi, cantava: "...come sei bella!/Gli occhi tuoi sono colombe,/dietro il tuo velo.
Le tue chiome sono un gregge di capre,/che scendono dalle pendici del Gàlaad.
I tuoi denti come un gregge di pecore tosate,/che risalgono dal bagno;/tutte procedono appaiate,/e nessuna è senza compagna.
Come un nastro di porpora le tue labbra/e la tua bocca è soffusa di grazia;/come spicchio di melagrana la tua gota/attraverso il tuo velo.
Come la torre di Davide il tuo collo,/costruita a guisa di fortezza.
Mille scudi vi sono appesi,/tutte armature di prodi.
I tuoi seni sono come due cerbiatti,/gemelli di una gazzella,/che pascolano fra i gigli." (Cantico dei Cantici).
Così lei era per me. 
La incontrai, la vidi, la sfiorai una mattina che, elegante come un giunco che danza al vento, percorreva le strade del suo assolato paese di montagna. Mi rubò il respiro, e i sospiri volteggiarono da allora attorno allo svolazzo delle sue vesti.
Una malia, sussurrò la gente, che la maldicenza non ama il clamor di tromba. Alla bruja, puttana, invece il paese urlò contro, che per ingiuriare neanche la grancassa è mai sufficiente. Bruja, figlia di bruja. Femmina fra le femmine, viveva accompagnata dall'invidia tradotta in risolini di scherno. 
Il cuore, davvero, non sente ragioni, e le ragioni delle donne erano rigonfie di astio e di quell'astio il mio cuore ne trasmutava corpo e sostanza, dandogli la levità di sogni sensuali, di pensieri di corse nei campi, di festose risate e baci a perdifiato. Avevo il kaos nell'anima e le stelle, nel kaos che l'impregnavano, erano passi di danza, ditirambi dionisiaci ove l'ebbrezza intrideva ogni poro.
Erano sogni ed era realtà, nulla era vero, tutto frammisto a vapori suadenti. 

La bruja è storia ed è anche leggenda, è mito che incontri ogni dì per le strade, fra viottoli madidi dei nostri sudori, fra i muri di misere case, fra il fumo di neri camini. Ti riempie il cuore ed anche i pensieri. Ti ruba l'anima e pure la mente. Se l'incontri per caso, sfuggirle non puoi, ad ogni suo sguardo volare saprai. È carne ed etere lieve. È danza e svolazzi di gonne di seta. Nel cuore ha una spilla che conquista per sempre. È invitta, tenace, impavida sempre. I suoi filtri son d'oro che fonde sul seno. Le sue atmosfere incantate conducon lontano, fra nebbie e vapori di sogno. Puoi tenerla per mano se riesci a sottrarre un sorriso al suo cuore, o un bacio furtivo.

Vibravano forte i tamburi, il flauto emetteva magici suoni, i violini sprizzavano gioia, fra canti e balli di belle ragazze, quel dì della festa paesana, il cuore pulsava e il sangue fluiva, il vino scorreva. L'incontrai attorniata dalle vecchie matrone che additavano quella ripugnante merce avariata. Spaurita fra tanti latrati, posò lo sguardo su di me: "portami via", sognai che mi disse. Ruppi gli indugi e forzai il cerchio. La rapii agli insulti e la trascinai lontano, fra il cisto e il corbezzolo. Il suo profumo di gatta selvatica era quello del mirto e si confondeva con quello dell'aria che respiravo. Era trafelata e spaventata, nonostante ciò mi osservò con spavalderia, era cosciente dell'ascendente che esercitava su di me. Sensualissima, sorrise beffarda, come per sfida. 
La notte ci avvolgeva con le sue tenebre di seta e acciaio. Una lamina di luce lunare ci colse in un abbraccio caldo, e il bacio sciolse ogni residuo di affanno. La bruja, stupenda puledra, raccolse in sé il mio cuore e, da allora, lo serba nello scrigno dorato della sua anima selvatica.

La bruja, bellissima dea, abita i pensieri dell'uomo.
#12
Racconti Inediti / PAESAGGI DI ANIME STANCHE
25 Settembre 2024, 20:17:11 PM
Tutto ciò di cui avevamo bisogno, che i nostri cuori bramavano, lo avevamo intorno a noi. Nulla ci serviva, niente avremmo dovuto chiedere al cielo turchino che faceva da tetto ai nostri sogni. Eppure, come chiunque altro, come fu per Eva, eravamo irrequieti. Non riuscivamo a restar dentro quel mondo denso di miracoli quotidiani.
Dolce il sapore del mare. Tiepido il calore del sole. Tenue lo spirare del vento. 
Immersi nella conca ad ovest dell'isola, avevamo addirittura un gigante addormentato, con una candela in fronte, che proteggeva i nostri amplessi quotidiani con una natura rigonfia di vita. 
Nulla si doveva temere, niente avremmo dovuto patire, ché ciò che occorreva ai corpi lo forniva gratis la Grande Madre, ciò che abbisognava alle nostre anime, quotidianamente, ce lo donavamo senza parsimonia. Era bello vivere e la Morte nei nostri cuori non trovava spazio.
Eppure, come uccelli migratori, che nessuno ben conosce il motivo per cui abbandonano i loro nidi per fuggire lontano, eravamo irrequieti e, benché gratificati dal dio della gioia, inquieti, scrutavamo con ansia quel filo oscuro che tien la misura del mare e del cielo.
Giovani, si era. E come la vita pulsa nei virgulti che forano il terreno, in noi scorreva sangue selvaggio di indomiti puledri che, sebben pasciuti e curati dentro la stalla, guardano con ardore oltre la staccionata.
Quel paradiso, fra colli, impregnato del profumo del mirto e del rosmarino, accarezzato dal canto dei grilli e delle cicale e baciato dal vento, non riusciva più a contenere la nostra esuberanza: giovani eravamo, questo il nostro delitto. I nostri amplessi diurni non chetavano le corse dello spirito ribelle che scalciava dentro di noi. E fu che quelle corse ci condussero a superare il limine fra noto ed ignoto. Noi, il mistero volevamo, e il mistero avemmo.

Una radura deserta, irta di cespi e prugni rinsecchiti, accolse il nostro sguardo. E il mordicchiar dell'ansia che ghermì i nostri cuori, non fu abbastanza per ingiungerci imperioso di rincorrere le nostre orme e ricondurre corpo e cuore al riparo, nella festosa conca.
Non più muschio per cuscino, né fronde di lecci per tetto. Niente danze della lepre o insolenze della volpe, solo cenere e sassi neri. Niente più nubi ovattate, ma nembi plumbee e un raggio che, lamina ossuta, macera pelli e cuore. 
Eppure, lo spirito non fu domo. Ci condusse oltre, tenendosi stretto per mano con l'ultima invitta dea, menzogna menzognera. Lassù, oltre la rupe che, sovrastante l'imperioso e tumultuante fiume, spiava i nostri passi e scrutava le nostre intenzioni.
Spaurita lei, ebete, con un finto sorriso di coraggio, io, proseguimmo per dar requie all'inquietudine e per dannare il cuore. Lassù, a sfiorare il cielo bigio e accarezzare il sole di fuoco. Perché?
Il cuore non sente ragioni. 
Il nostro fremente sguardo si sperse nel rimirar cupi e umbratili
Paesaggi disperati:

Acre fu il sapore di raspi di vite stretti fra i denti. Spogli oramai dei succosi rubizzi acini da cui festoso un dì spillava gioioso il nettare che inebria la mente. Raspi avvizziti che negan l'oblio, unico farmaco che potesse lenire l'ansia e l'angoscia di essere là.. 
Con scarnificate dita di morte, i rami ritorti d'alberi morti coglievano la grassa bruna terra che, mentre l'osservavi, s'immiseriva in arida sabbia. Ove non radicava frondoso l'albero, ma solo l'arbusto e lo sterpo di uno spoglio paesaggio riarso dal sole cocente, percosso da venti impetuosi, che recavano seco né vita né spore da cui gorgogliasse altra vita e speranza. 
Uno sguardo sperduto a vagare su piatte radure sempre uguali a sé stesse, che avevan oramai perso il ricordo del trillo festoso del grillo, del canto allettante della capinera. Terreno di coltura d'un verminaio di sensazioni di morte. Occhi stanchi e rugosi, sperduti a guardare lontano, oltre quel limine rosso che è cornice al patire di tutti, che oblia lo sfuggente passo danzante della lepre. Occhi per sempre dimentichi della corsa gioiosa di esseri scordati da Dio. 

Colà è il deserto che impera; il freddo che brucia le foglie dell'ultima flora ed avvizzisce le pelli di esseri sparsi per caso e ignorati per sempre. 
Uomo, sospeso un attimo solo a vagare nel nulla, nel buio del tempo, errante, senza meta e riparo, fra le desolate lande dell'Anima. Che ruba un sorriso a quei miseri sassi ove poggia i suoi piedi. Soldati di una guerra mai combattuta e persa per sempre; alfieri di sogni che son uggia divina. 
Nel Silenzio di Dio, più sali le scale, più vedi lontano quell'orlo di luce che sovrasta ogni cosa; più la corsa è affannata, più la distanza si accentua. E' tanta la strada percorsa che tanta ne rimane da compiere. Qual strano insensato tragitto privo di meta ha previsto per noi l'invitta Matrigna: fra sassi e polveri scure, intrise di sangue...
Paesaggi privi di pace si parano dinanzi ad occhi infossati e sfiniti, a piedi piagati, ad anime stanche che emettono un urlo. 
Vagare nel nulla, null'altro ci resta, nel Silenzio di Dio. Rubare fiacche parole a genti più fiacche e sfinite di noi, per udire o sognare un suono gentile che non sia un rantolo o un crampo di stomaci vuoti. Le mani protese nel vuoto a stringere aria pesante, ove è assente il Logos di Dio, ove greve è il lamento dell'uomo, che intona inutili canti d'amore e solenni preghiere mai udite da altri che non fossero uomini mesti, che, chini, camminano stanchi nel cupo obbrobrioso Silenzio di Dio, la cui unica eco è il greve tonfo dei passi che percorrono vie inscritte in un sogno... quell'inutile sogno di essere eterni, la cui vana certezza che si compia, alfine, quella vile promessa, nata una notte di sogno che danna da sempre, che estorce e giustifica pianti, lamenti, vagiti, gemiti di chi tanto ha sperato, già sterile si sfalda d'un fiato al torrido fuoco di un sole sempre più nero, tramutandosi in cupo lamento, che è la fine della nostra inutile unica vita. 

#13
Racconti Inediti / DIALOGO SURREALE FRA DUE NON SO CHI
21 Settembre 2024, 21:52:40 PM
Lui: come posso aiutarti? Ho cercato di starti vicina, di essere qui, di essere sempre con te. Non ho più molte parole, ho solo me stesso da offrire per te;
Lei: la vita non è un soffice letto di petali rosa, me ne sono avveduta: il prato è sfiorito, il colle slavato, il cielo s'adombra; disegnami un fiore dai mille colori che mi doni il sorriso;
Lui: se fossi pittore t'avrei già donato un intero giardino di fiori splendenti dipinti da me, d'aiuole fiorite che spandon d'intorno soavi profumi, soltanto per te. Ma sarebbero solo fiori di carta, per un sorriso di carta, che non nascerebbe da te. Non sono un pittore, non so dipingerti un fiore di carta;
Lei: Aiutami! Tutto è sbiadito, il cielo è velato, il freddo è pungente, il buio incipiente; ti prego, fai brillare un Sole splendente per me. Accendi nel cielo una luce brillante che segni la strada;
Lui: non son fatto di Luce, non sono una Stella, non posso inondarti di raggi lucenti, non posso indicarti una strada; posso solo aiutarti a trovarla da te;
Lei: null'altro che questo? Avvicinati un po'; insegnami tu!
Lui: non sono un Maestro, ancor meno son saggio, ho poche lezioni da offrire per sciogliere i dubbi e i lacci che ti legano al suolo: non so storcere sbarre o piegare gli eventi; posso solo aiutarti, stringendoti forte, e donarti quel poco calore che ho;
Lei: componi dei versi, immergimi in sogni leggeri; avvolgimi in nubi ovattate; alleviami il peso che incontro ogni giorno;
Lui: non sono un poeta, non sono capace a creare paradisi di sogno; posso solo tenerti per mano mentre, incerta, cerchi la strada che conduce lontano;
Lei: componi una musica, una dolce armonia che mi faccia sognare, che mi persuada che vivere è un passo leggero di danza;
Lui: non so musicare, non conosco le note; non posso crearti incantevoli suoni che accompagnino danze leggere; posso solo ascoltare con te il mondo cantare, e guardare con te la Natura danzare;
Lei: componi per me arazzi dorati con dolci parole che conducan lontano, che obliino il mondo, che quietino il cuore e silenzino l'anima greve immersa nel buio;
Lui: vorrei anche farlo, ma non so esser bugiardo; non voglio donarti parole mendaci che compongano versi o racconti che scordino il peso di vivere; sarebbe un trastullo, un vacuo esercizio, uno sterile gioco di verbi e parole che inseguon se stesse. Vorrei, invece, che il sogno che potremo comporre nascesse da me, ispirato da te;
Lei: intreccia per me una danza gioiosa, alcuni mirabili passi leggiadri che rapiscan il mio sguardo ghermito dal giogo funereo del pianto, sperso oramai fra le forre dell'anima affranta;
Lui: non so proprio danzare, non posso intessere vesti dorate, non posso dipingere nell'aere aggraziate figure gioiose che allietino il cuore, che presto svaporano in scontrose folate di vento.
Vorrei, invece, che ti muovessi leggera, percorressi i sentieri, le valli ed i colli con passo sicuro, superassi gli anfratti più ostili senza sperderti in acque impetuose, conducessi la barca con lena, senza volgerti indietro a guardare le angustie di ieri, a smarrire il respiro rincorrendo i dolori e le pene che affliggono l'animo greve;
Lei: raccogli per me delle pietre preziose, che brillino al sole, che diano calore, che riempiano i giorni di Luce e colore;
Lui: potrei anche farlo, sarebbe solo un mondo di vetri scolpiti con mole e smerigli, sarebbero solo miseri e falsi pezzi di vetro, un mondo di specchi più freddi del freddo; io voglio per te un mondo più vero, con sole e calore che nascan da te;
Lei: donami almeno degli occhiali dipinti, ché possa vedere la vita con tinte più tenui, che nascondano agli occhi gli spenti colori, che ridonino pace e bellezza, che creino mondi incantati;
Lui: non posso volere per te un mondo artefatto. Gli occhiali ti spengono il volto e non ti mostreranno il bello che è in te; le lenti ti velano il viso, ti soffocano il riso, ti spengon lo sguardo; non chiedermi, dunque, di esser fasullo;
Lei: portami in cielo, in alto con te, fra nubi ovattate, più in alto dei tetti, che possa scordare qui in basso che c'è, spiega le ali e conducimi via, che i pesi, gli affanni e i gravami non possan frenarmi;
Lui: non posso volare, queste ali che vedi son fatte di cera, si sciolgono al sole, non ho, dunque, grandi mete che conducan in alto nei cieli, ho solo due gambe con cui camminare per le strade del mondo; non posso alleviarti il cammino e renderti leggera la vita;
Lei: ma allora dimmi cosa puoi fare?
Lui: sono solo un uomo che non rinuncia ad essere tale in cambio di fantasiosi sogni divini; posso stare al tuo fianco, mentre cammini con pena; posso seguire i tuoi passi, prenderti in braccio sorreggendo con te il peso di vivere, dividendo con te le pene e gli affanni, asciugarti le lacrime, custodirle all'interno di un cuore in affanno, donarti le mie, rinfrescarti le gote dopo il tanto ansimare, starti vicina anche quando sei sola, posso offrirti me stesso, per quel poco che vale, ma non chiedermi mai di essere ciò che non sono, non credermi mai una Luce divina, o un autore di sogni fantastici, posso darti la mano, regalarti un abbraccio, non t'infioro la vita, non ho petali rosa che marciscono al sole, o profumi di viole che svaniscano al vento; chiedimi, dunque, di stare con te così come sono; col mio incedere lento vorrei solo seguire i tuoi timidi passi lungo l'irto cammino, tenerti per mano e camminare al tuo fianco;
Lei: è già tanto! E' tutto quello che voglio, è quello che cerco... prendi la mano e camminiamo affiancati; raccontami storie che dican di te
 
#14
Racconti Inediti / DIALOGO IMPROBABILE
18 Settembre 2024, 19:01:44 PM
Siamo grani di policroma sabbia. Nati per caso. Lanciati nel mondo da una mano invisibile. Costruiamo noi stessi vivendo, e vivendo ci nutriamo di emozioni che si generano per via della relazione che instauriamo con il mondo che ci circonda e, soprattutto, con le altre persone. Ciascuno di noi è la faccia di un enorme diamante, che brilla alla luce o si opacizza nel tempo. Gioiamo, piangiamo, speriamo e tremiamo. Il tempo è pervaso dei nostri timori e delle nostre emozioni. Ogni tanto ci imbattiamo in qualcuna di esse, oppure incappiamo in qualche timore. Sono il tempo e il vento che ce le fanno incontrare.

Da oltre un anno avevamo smesso di sentirci, né ci vedevamo più. 
L'incontrai, quel giorno. Fu un caso fortuito. Ci salutammo e, non l'avrei immaginato, ci fermammo a parlare. Volevo sapere tutto di lei: cosa avesse fatto in quel periodo, cosa sognasse, ma in modo particolare ero io che desideravo poterle raccontare quel che mi pulsava nel cuore. Tutto ciò che ho sempre desiderato e non ho mai avuto l'occasione di dirle.
Pochi, veramente scarni furono i convenevoli. Lei era bella, sorrideva... Non l'avevo scordato. 
Mi buttai a capofitto nella conversazione. Quanto avevo desiderato quel momento. Non avevo idea di come avrebbe reagito, ma il desiderio fu più forte del timore. 

"Non credo in Dio, per cui non posso sostentarmi con l'innamoramento della fede. Non mi resta che innamorarmi delle persone che incontro. Io non conosco la fede. Non so quindi se sia vero, ma credo che l'innamoramento fra umani sia quanto più ci avvicini all'amore di Gesù, quello che egli dovette provare per l'umanità. A me, invece, non resta altro che questo e con esso mi attacco alla vita.
Noi non moriamo mai se permaniamo nei pensieri delle persone che abbiamo amato e quando quei pensieri sono accompagnati da un sorriso, che si apre lieto per la gioia che quell'incontro è riuscito a donare.

Tu conosci quel senso di vertigine che ti coglie quando un tramonto inebria i sensi e ti senti immerso in quello sfondo color arancio screziato di rosso e tendente al viola? O quando, ammirando un quadro che cattura la tua attenzione, percepisci l'anima profonda del suo autore e con essa entri in contatto, aspirandone le emozioni, come se fosse aria e impregnandoti della sua linfa ricca di kaos? O quando, ancora, una musica s'insinua in te e tu alla sua armonia ti abbandoni come in estasi, e ti vedi trasportare come se un vento leggero ti conducesse con sé a danzare con le note che intridono il cielo? In quegli attimi scordi il tempo che scorre, e gli affanni smettono per quel breve istante di rimestarti l'anima. Sei introdotto in una dimensione surreale di sospensione dall'esistenza, come se si vivesse un'esperienza mistica. Per paradosso, è proprio allora che ti senti più vivo." 

Si rannuvolò. Parve infastidita. "Perché mi racconti queste cose? Io volevo sentire la tua anima viva, sentire il tuo cuore pulsare, udire storie che raccontassero di te. Non ho voglia di poesia."

"Non è poesia, questa. Voglio dirti che io mi sono immerso nei tuoi sorrisi, nei tuoi sguardi, nei tuoi piccoli gesti, e da allora tutto questo fa parte di me, si è installato in qualche angolo del mio cuore, e ogni volta ricordarlo è nostalgia, che, senza rendermene conto, condisco con un sorriso, perché tu non sei un fantasma che vanamente inseguo come se fossi la coda di una cometa o la linea dell'orizzonte, tu sei viva e presente, sei acqua sorgiva, che fluendo rinfresca e disseta."

Mi guardò un po' confusa: "È un anno che non ci sentiamo, un anno che ci siam persi... Non so neppure dove fossi e che facessi, ed ora mi parli di acqua e sorrisi?"

"C'ero ogni volta che sei caduta. L'ansia faceva da metronomo al tempo che, scorrendo, bruciava quei giorni. Ero lì, con te, ogni volta ti sei rialzata. Gioivo, silenzioso come la notte, senza nulla chiedere e niente pretendere. Ho visto le fasciature che cingevano le tue mani, ho sentito il tuo dolore e le tue gioie, erano i miei dolori e la mia gioia. Non hai percepito la mia presenza, come una brezza discreta, che spirava ad ogni tuo sospiro e tremava, scuotendo i rami degli alberi, all'idea che fuggissi via, risentita per l'indebita irruzione nel tuo mondo?"

Sorrise. "Non puoi chiedermi nulla, non posso darti nulla. Non so se hai pianto e sofferto"

"Questa non è una storia di corpi. Solo i pensieri, il mio e il tuo, potranno incontrarsi per intessere danze."

Alzò lo sguardo, mi fissò negli occhi. La sua espressione era dolcissima. Forse aveva capito, oppure no, non so... Forse andò via sbuffando, ringraziando il cielo per la fine dello strazio.
Non ci incontrammo più... 
Eppure vive!

DIALOGO MANCATO

"Uno parla ed un altro tace.
Ma chi parla prima ha taciuto.
Il tacere è l'orizzonte del parlare:
Parlare è tacere.
Dunque una tace e l'altro pure"
Giorgio Caproni
#15
Racconti Inediti / PICCOLA DONNA
14 Settembre 2024, 22:07:42 PM
Infastidito da quella che io interpretavo come indifferenza, quasi urlando, le dissi: "hai mai vissuto il rovinoso precipitare entro la forra del disgusto, dell'angoscia, del pianto?".

Attesi una sua reazione, che non giunse. Di rimando solo uno sguardo quasi inebetito che esprimeva tutto quanto in lei io non capivo e non riuscivo ad accettare.

Proseguii: "Cos'è, come potresti definire quel tarlo, quel picchiettio costante che pervade l'anima al cospetto del disfacimento delle illusioni, lo svaporare delle speranze, l'assottigliarsi della nostra esistenza spersa in mille rivoli di dolore, annerendola e oscurandola?"

Tacque ed abbassò lo sguardo. Era il suo modo alquanto singolare per evitare coinvolgimenti in discussioni che lei riteneva senza costrutto e prive di senso. Ero esasperato e non volli, come altre volte, cedere.

La incalzai: "Proviamo a capirci, se mai sarà possibile, almeno stavolta. Il dolore non è una fantasia che, in assenza di ragioni reali e concrete che contribuiscano a generarlo, autonomamente s'installa nel profondo di un'anima. Raccontami, finalmente, se puoi, quale sentimento potresti provare tu per la perdita di un figlio, per la morte di un affetto, per la scomparsa di una presenza cara che vive in te? Indifferenza, assenza di emozioni? La morte di un caro dipinge sul tuo volto un condiscendente sorriso che lascia il tuo animo sereno, privo di turbamento, oppure avverti anche tu un ago acuminato che sevizia e martoria il cuore? Lo svanire di un amore, il suo irreversibile consumarsi, lascerebbe in te un sapore amaro di sconfitta, il senso del tragico, della caduta, o, ancora una volta, l'indifferenza e la commedia s'imporrebbero al tuo animo? Sarebbe un'atarassia indomita quella che s'impossesserebbe di te in questi accidenti della vita? Se così fosse, lascia a me le lacrime, lascia che avverta il dolore, lascia che maledica, lascia che mi sostenti con la rabbia."

Mi guardò stupita, mai le avevo parlato in quel modo, mai avevo osato irrompere in maniera così autoritaria nel suo mondo nebuloso, chiuso dentro una cassaforte, ben protetto e per me del tutto inaccessibile. Si fermò, mi prese una mano, la portò alla guancia e la baciò. Fu un gesto tenerissimo che fece sbollire d'un fiato la mia irritazione.

Con la solita dolcezza, nel suo italiano stentato, rispose "Quando scompare un amore, o un affetto svanisce nell'aria, quando si consuma o si spegne quel lume di calore che riempie una vita, noi entriamo in un mondo privo di tutto e ricco di assenze, dove tutto il nostro essere viene avvolto da nebbie ghiacce e il cielo della nostra anima si offusca, offuscando anche i nostri sentimenti e le nostre emozioni. Questo oscurarsi del cuore intorbida parti di noi, per cui perdiamo di vista il mondo e la Vita che ci abbracciano comunque. L'amore non è amore verso l'altro, ma è amore di ciò che di noi vediamo nell'altro... quel che scompare è la scomparsa di parti, di frammenti di noi, del nostro essere. Noi non amiamo il prossimo, amiamo noi stessi nel prossimo, ciò che il prossimo ci rinvia in immagine di quanto amiamo."

Queste frasi da allora mi si sono impresse nella mente, non le scorderò più. Non amiamo gli altri; amando, amiamo noi stessi; chi non ama in primo luogo sé stesso, non può amare il prossimo. Forse per questo Gesù non hai mai predicato l'ascetismo. Era proprio bella e radiosa, in quel momento. Una lamina di luce le impreziosiva il volto da africana. Il suo dolce sorriso rimandava lampi di riverbero che parevano cingerle il viso in un abbraccio splendente.

"Ho visto la mia gente martoriata dalla fame, dalla siccità, da altri uomini del mio stesso colore. Ho sentito il sibilo delle bombe e dei proiettili. Ho udito il pianto dei mie fratelli e delle mie sorelle, le urla per lo strazio di mia madre e visto il corpo di mio padre lacerato dal becco dei rapaci. Ho attraversato deserti e mari, incontrando gente di tanti colori, più disperata e impaurita di me e uomini rozzi, crudeli e assassini a cui nell'angoscia più cupa ho consegnato la vita e tutte le mie residue speranze. Ho tremato, pianto e avuto paura e rabbia. Ho deciso che non ne avrò più.
Io devo andare. Voglio entrare nella mia terra, da dove son venuta fuori, in essa voglio confondermi. So bene che il mio male progredisce, lo sento che ogni giorno va ad occupare una sempre più ampia area del mio corpo. Ma è il destino, è la Vita ad esigere un prezzo che bisogna sempre essere pronti a pagare, perché la Vita è un dono gratuito, ed è ancor più gratuito poter nascere in un luogo anziché in un altro. In questo non c'è merito e non c'è colpa, anche se a me, ospite spesso sgradita, questa colpa mi è stata imputata. Ma non ho risentimento, solo gioia serbo nel cuore, perché la Vita mi ha negato tanto ma un dono magnifico non me l'ha voluto rifiutare, forse per compensare: non avrò tempo per far l'amore, ma ho imparato ad Amare, e questo mi basta, perché mi sento ricca."

Era bello sentirla parlare in quella strana lingua: un misto fra italiano e africano, con inflessione swahili, così mi disse quando l'estate prima l'avevo conosciuta in un angolo di strada mentre, sorridendo, guardava il cielo azzurro. Le strinsi la mano e l'accompagnai al porto per l'imbarco. Con la commozione che erompeva dal petto per l'imminente perdita, la ringraziai per la stupenda lezione e le promisi che in ogni bambino o bambina avrei rivisto lei e il suo magnifico sorriso da ventenne che non aveva conosciuto le bambole: un saluto, Amina, piccola donna mai stata bambina.
#16
Riflessioni sull'Arte / L’ARTE
10 Settembre 2024, 18:08:42 PM
Mi son chiesto tante volte perché al cospetto di un'opera d'arte accade che si sia colti da un sommovimento che scuote i sensi, che fa vibrare l'anima fino alla commozione. Si è come avvolti in una sorta di fluido impalpabile che, sortendo fuori dall'opera, prende dimora nei sensi, scuotendoli e innervandoli, e che offre l'accesso ad un mondo emozionale inusitato. Quali caratteristiche possiede questo fluido è un mistero; di quali ingredienti è composto, che calore e colore lo intridono, non è dato saperlo. Certo è che non può trattarsi solo di un ingrediente estetico, perché, se così fosse, essendo i canoni della bellezza soggetti al divenire, muterebbe con essi anche il nostro modo di rapportarci con questo mondo. Eppure, lo sappiamo bene, esistono opere eterne, che inducono sensazioni vive e commozioni simpatetiche dell'animo del suo creatore. La creazione artistica è di fatto l'apice delle facoltà creative dell'uomo e la sensazione che se ne ricava è di trovarsi al cospetto di un livello di creazione, seppur inferiore, quasi un bagliore fiammeggiante, in grado però di emulare quella divina. Credo che sia per questa ragione che sia in grado di scuotere l'anima e condurre entro mondi intrisi di spiritualità.
 L'arte ha una sua peculiarità. Soprattutto quando è espressa in versi, lascia aperte tante porte. Non è ordine, ma kaos, dall'etimo che noi abbiamo scordato: una bocca aperta che si offre a più possibilità. È proprio in questa particolarità che risiede il suo incanto, perché la rende fruibile in eterno. Essa non deve rendere passivo l'interlocutore, come se si trovasse di fronte ad un freddo resoconto ragionieristico, lo deve stimolare, suscitando, interrogando e risvegliando le sue capacità di ascolto, spesso sopite.
 Il fluido che attraversa la tela, che erompe dalle note o che emerge dal componimento letterario cela al suo interno l'essenza del suo autore. Compenetrato nell'opera d'arte c'è, infatti, l'Uomo o la Donna che hanno composto, musicato e poetato, con i suoi elementi costitutivi, in un equilibrio reso stabile e immodificabile dalla composizione artistica stessa, che è quella, non altra. L'opera d'arte, qualsiasi essa sia, è dunque un resoconto fotografico della realtà emozionale dell'autore. In ogni quadro, in ogni verso o racconto o pentagramma è inciso l'animo di colui o colei che ha composto l'opera.
 A chi osserva spetta l'arduo e bellissimo compito di leggervi l'animo, lo spirito, le passioni ed emozioni di chi ha 'creato'. Nell'assolvere a questo difficilissima funzione 'vediamo' e 'leggiamo' attraverso le nostre emozioni e passioni. Si viene così a creare un'interazione inedita fra 'lettore' ed autore.
 Due emozioni, due sentimenti, due anime che, tramite l'opera, s'incontrano, oltre il tempo e lo spazio. Questa interazione è, a sua volta, fonte di un'incredibile inedita e bellissima realtà relazionale. L'opera d'arte svolge l'incredibile compito di mediare, fra cielo e terra, fra flussi emotivi distanti e distinti.
 Nell'arte sono ravvisabili ben tre sfere emotive: quella del 'lettore' (chi percepisce), quella dell'autore (il 'creatore') ed una terza impalpabile che è la somma delle due ed anche e soprattutto un qualcosa in più rispetto a questa somma: è la relazione fra umani.
 L'arte è mutevole perché muta forma e sostanza in dipendenza dei diversi animi e delle diverse emozioni di chi l'ascolta ed osserva. Crea un'emozione che si trasfigura sulla scorta delle instabili emozioni dei diversi soggetti che 'leggono'. È un arcobaleno cangiante che muta i propri colori ogni volta che l'osservi. È autogenerativa, giacché nutre l'animo dell'Uomo, arricchendolo, e da questa ricchezza generata attinge nuova linfa, di ritorno, per perpetuarsi. È la sublimazione dell'essere, in cui si raccordano i sentimenti e le passioni. In essa sono contenuti e ricompresi i frammenti dell'Uomo, e la sua ricomposizione è la ricomposizione dell'Umanità.
 Leggere una poesia è compiere un viaggio fra emozioni e sentimenti sempre nuovi, che si rinnovano ogni volta che si ripercorrono i sentieri tracciati dai versi. È anche effettuare un tuffo, rinunciando a qualsiasi protezione o difesa, per immergersi dentro un abisso ribollente di magmatiche sensazioni, la cui profondità resta celata anche dopo che si è raggiunto il fondo. Significa lasciarsi sommergere ed avvolgere da fluidi di emotività liquida, le cui increspature sono intinte nel sentimento più vivo, screziandosi dei colori che il tenue chiarore di una lamina di luce mostra in tutta la sua cangiante iridescenza.
 Ci si apre a nuovi mondi, addentrandosi nel chaos dell'anima. Percorrere gli erti vicoli tracciati dai versi significa anche, e in special modo, fare l'incontro con se stessi, perché è l'emotività personale ad essere suscitata. Dietro ogni verso è celato il mondo interiore dell'autore/autrice che neppure il viaggio di un esperto speleologo riesce a riportare alla luce. Ed è questa la vera delicata magia generata dall'arte, perché in assenza di appigli certi e di stabile terreno entro cui affondare le radici delle certezze, si supplisce con l'instabilità del flusso emotivo personale che si genera nell'immersione totale nell'onda di sensazioni ricche di calore, suoni e colori nuovi.
 Il sentimento del poeta, cristallizzato nel testo scritto, man mano che i versi si dispiegano, va a raschiare il fondo dell'anima di chi quei versi li legge, generando, per sommatoria, un denso vapore di commozione che con levità va ad insinuarsi fra le pieghe del componimento, intridendolo di senso. La vera creazione artistica non è la poesia, la musica o il dipinto, ma proprio questa delicata miscela emotiva che si genera ogni volta che un'anima incontra e si confronta con l'anima del poeta, del musicista, del pittore.
 Questa è l'arte! Ed è per questo motivo che un'opera d'arte è sempre viva, e lo sarà in eterno, almeno fintanto che ci saranno anime che con essa entreranno in contatto.
 Non serve conoscere genesi, storia e circostanze che hanno concorso a realizzare la creazione, queste informazioni possono essere utili ed indispensabili per un convegno o un documento di analisi critica dell'opera. Ma quando non si hanno le conoscenze tecniche necessarie per questa 'sterile' (?) attività, l'arte può essere fruita più liberamente attraverso l'emozione che induce, che fra l'altro è il prodotto più ricco, bello, colorato e musicale dell'opera. Non saper riconoscere le note di un piano, ma ascoltare i notturni di Chopin o le note dolenti del piano di Keith Jarrett può inebriare e rendere del tutto superfluo distinguere le scale di Do da quelle di Sol (posto che esistano).
 Noi umani non siamo esseri esclusivamente razionali, ma soprattutto siamo anime che generano e si nutrono di emozioni: ciò che più d'ogni altra cosa insaporisce l'esistenza. Per cui, si può gioire di non saper segnalare l'esistenza dei tropi, delle metafore e delle altre figure retoriche, o distinguere fra idilli, elegie, sonetti in esametro o altra metrica, o di altri tecnicismi che fanno di uno scritto, un dipinto, un brano musicale un qualcosa di diverso da un semplice prodotto commerciale. Spesso è sufficiente riconoscere quegli ingredienti che sono attinti dal profondo dell'anima e non suggeriti dalla tecnica. E di questi si gode e ci si nutre. Evidentemente, lo spirito è in grado di godere, ed è uno stupendo godimento, della gioia donata dall'ignoranza tecnica, che lascia il campo libero a quella emotiva, alla sinestesia di verbi ed aggettivi visti e percepiti in dolci o grevi suoni, tenui o furenti colori, delicati o acri profumi, tepore o freddo pungente, brezza che accarezza o bufera che sferza il cuore. 
#17
Racconti Inediti / FRA VAPORI DI SOGNO
09 Settembre 2024, 14:43:10 PM
Era triste, quel giorno. 
Non ne conoscevo le ragioni ed avevo timore ad indagare. Il suo mondo interiore, profondo come gli abissi del mare, è stato per me un mistero che mi ha sempre affascinato e, al tempo stesso, sconcertato ed emozionato. 
In un tenue sussurro, quasi impercettibile, come se parlasse fra sé e sé, la udii declamare alcuni versi che stentai ad individuare e collocare nel corretto scaffale della mia labile memoria:
"Ma nel cuore
nessuna croce manca.
È il mio cuore
il paese più straziato."
 
Ne fui immediatamente colpito, ma, non so perché, mi trattenni dal domandarle cosa stesse mormorando. Lei sollevò lo sguardo e mi sorrise. Un sorriso, triste, melanconico e dolcissimo, che aprì una profonda fenditura nel mio desiderio di evitare di farmi risucchiare all'interno del crepaccio che introduce nell'antro buio del suo mondo di struggente nostalgia denso di vapori color pastello e bigio come il fumo di un camino.
Un po' titubante le domandai a chi appartenessero quei versi.
"Ungaretti", rispose un po' stupita.
"Come mai?"
Tacque, quasi volesse escludermi dai pensieri che in quel momento affollavano la sua mente. Proseguimmo a camminare sotto il sole che già cominciava a scaldare l'aria. Non riuscii a celare dietro un sorriso il mio fastidio, lei lo colse e con calma prese a far cantare il suo cuore colorato:

"La particolarità del cuore degli uomini è che fintanto non s'inaridisce, come una polla d'acqua sorgiva, non smette di sgorgare le proprie lacrime o la propria gioia.
Il cuore è un'immensa fucina d'emozioni e le emozioni sono gioia e dolore.
La fine della sofferenza è l'ignoranza. Tante volte ho cercato di imporre al mio cuore di non soffrire e di lasciar che la Vita gli scorresse intorno senza portarlo via con sé. Ma la mente in certe situazioni serve a ben poco, il cuore non sente ragioni, ed è perciò che è anche il punto più dolente, più esposto alle intemperie e all'inclemenza del tempo. La logica rassegna pezzi di realtà che il cuore ricostruisce in un unico caleidoscopico mondo. Le emozioni leggono la realtà e io non so perché un tramonto un giorno mi fa piangere, un altro, invece, mi culla trascinandomi lontano dagli affanni, in un mondo che non c'è, ma che vive dentro di me. Quel che colpisce il cuore è un soffio invisibile, che penetra dentro tramutandosi in tempesta, sia essa un caldo e suadente vento che induce alla danza, oppure un ghiaccio vento del nord che spira con forza, svigorendo e sfiancando, trasformando il ribollio in vitrea materia ipodermica.
Non ho sensi che osservano. Quel che va ad abitare la mia anima si insinua attraverso ogni poro della pelle che entra in contatto con questo flusso che prosegue il suo corso a prescindere da me, da noi tutti, eppur sempre in connessione con ciascuno di noi. "

Le sue non erano parole, ma un leggero alito che si confondeva con quello del vento, che leggero spirava.

"So che non capisci, che il mio mondo è fatto di fantasmi che non fanno cigolar catene ma emettono un suono alle volte sinistro, altre dolce come la musica di un pianoforte, ma la vita non è un evento da disquisire, non è un ragionamento che conduca ad una dimostrazione empirica. In essa vi è della luce, come vi è l'ombra prodotta da questa luce, e il mio bordeggiare m'insinua alternativamente entro ciascuna di queste due aree. Ma non vi è mai uno stacco completo, nitido e definito che ne marchi il confine, spesso le due aree si compenetrano, avvolgendosi in unica spirale, e io, mossa da forze centripete, nel suo centro cado, oppure son preda di venti centrifughi che mi respingono. Non è facile essere vento e seguire il moto circolare di questo uragano, perché nel momento in cui divento parte di esso, soffro per il male di cui son causa io stessa. E non è neppure facile permanere nell'occhio del ciclone, perché la vita fluisce ad una velocità superiore ai miei mezzi, alle mie forze. Ma tutto questo non è voluto da me."

Tacque. Era il momento che più mi procurava ansia ed angoscia. Ebbi un fremito, non sapevo cosa dire, ero confuso e profondamente turbato. Mi fermai, l'abbracciai forte per farle sentire lo sconquasso che provavo dentro. Capivo che il suo male progrediva e paventavo il momento in cui sarebbe andata via, come vapore fra il vapore delle nubi, lasciando che marcissi dentro a macerarmi l'anima per una gioia che non poteva e non sapeva esplodere. In quel momento ella svanì, rientrando nel suo mondo fatto di tenui foschie che riempivano l'aria che respiravo.

Non so se mai ci incontreremo.
#18
Racconti Inediti / SINESTESIA
07 Settembre 2024, 21:39:55 PM
Non so dirti bene di che si tratti, so che è una sensazione, un vuoto che si riempie con i colori della nostalgia: un arancio digradante verso il senape. Ha lo  stesso colore che assume il cielo pochi attimi dopo che il sole si è tuffato dentro il mare, spegnendovi i raggi cocenti, che al contatto con l'acqua sfrigolano, impreziosendo l'aria di delicate perle madide di luce riflessa. Le nubi s'intingono di screzi violacei e il suono del mare s'accorda con le pulsazioni del cuore.
Non so disegnarla, ma dev'essere simile ai quadri di Munch, i cui colori sono intinti nel sogno ed imbevuti di pianto.
Non so quale sia la sua voce, ma credo che abbia il suono di un piano che mesto marca il tempo che scorre, impregnandolo di note danzanti sospese nel buio notturno. 
Le vedo duettare con ricordi sopiti, che, cullati e scaldati dal suono, sortiscono fuori da un pozzo di cui ignori il mistero profondo. Un canto corale che si sperde nell'aria.
Non so se abbia un profumo che avvisi del suo furtivo addentrarsi fra anima e sensi. Non sarebbe diverso da quello del rosmarino, che si effonde nell'aria la sera, quando la calura estiva si stempera nel buio incipiente, cedendo il suo ardore alla brezza di Ponente che sfiora la pelle, e reca con sé i suoni di canti lontani.
Ha il calore del fuoco nei camini, acceso nelle sere d'inverno per tenere lontano il freddo e riunire le famiglie ad udire racconti di storie remote.
L'ho vista, una sera, addensarsi e prendere corpo, nutrirsi del pianto, vestirsi di gioia, farsi strada fra il leggero stormire del vento. L'ho vista danzare coi rami degli alberi, accarezzare la risacca del mare che si frange sugli scogli, impreziosendo l'aria di lapilli fumosi, densi di luci dipinte dal sole che lento scompare. 
L'ho scorta danzare al chiaror della luna, mi prese per mano, mi condusse lontano, non so se fra nubi o fra spume di onde.  
L'ho udita, una sera, la sua sinfonia, suonata dal mare, dal vento e dagli alberi scossi, venirmi vicino per stringermi forte. Il suo tocco leggero di seta vermiglia, che lieve ricopre le spalle e svolazza ad ogni soffio di vento. La luce, un sorriso di bimbo, bianco come chicchi di riso, che risplende nel buio. Il suo cuore, un seno di mamma che allatta. I suoi occhi avevano il peso del sonno di un cucciolo, protetto e accudito e la speranza di sguardi di bimbi africani che scrutano il mondo. Una piccola mano protesa che incontra tantissime mani di mille colori che vogliono stringerla. È un bacio di donna, la danza gioiosa di belle ragazze, una gonna che scopre le gambe. Un campo fiorito dai mille colori. Una corsa di bimbi che inseguon sé stessi. 
Un'assenza è un ago nel cuore che effonde nell'anima un'immagine dolce di un qualcosa che fu e mai più tornerà, che vive nel cuore, che nessuno potrà mai fare svanire. 
Un vuoto ricolmo di tanta, tantissima nostalgia.
#19
Non credo nel fatalismo, tantomeno nel determinismo. Credo, invece, che sussistano entrambi, e che ciascuno dei due si compenetri nell'altro, in un rapporto dialettico che si mantiene in un equilibrio instabile, che genera incertezze e sovente non poco caos.
La Storia è materia umana, e dell'uomo è terreno d'azione preminente. I fatti della Storia non si generano per partenogenesi, per motu proprio, quasi si trattasse di elementi estranei ed indipendenti dalla relazione che si instaura fra l'uomo e il mondo.
 
La Storia è relazione.
Gli accadimenti di cui la Storia si interessa e di cui è intessuta credo siano determinati da due fattori: il caso e l'agire umano. Quest'ultimo è generato dalle nostre scelte, dai dibattiti e dal confronto, anche introspettivo. Il nostro agire, l'insieme delle azioni che compiamo ogni giorno, s'inserisce fattivamente nella casualità degli accadimenti. I due elementi non sono scindibili, e, in questo connubio, l'agire umano opera affinché la congiuntura imbocchi una determinata direttrice anziché un'altra. Quella, presumibilmente, più consona ai vantaggi, ai desiderata e ai benefici di chi quell'agire in massima parte produce. Il caso, a sua volta, interagisce con l'opera dell'uomo, e i due elementi interagiscono in un rapporto dialettico, dinamico e sempre precario.
L'attività di analisi critica degli eventi succedutisi e che si succedono nel tempo condiziona le scelte umane, le quali, a loro volta, condizionano e sono condizionate dalla casualità.
Ora, va da sé che l'azione umana non sempre è il risultato di scelte totalmente razionali - quasi mai –, e non sempre è la migliore risposta possibile fra le tante disponibili. Le nostre scelte sono condizionate, oltreché dal caso, come già visto, anche da una serie di fattori endogeni, fattori che la psicoanalisi ha più volte reso palesi.
Il quadro complessivo che si ricava da tutte queste interferenze interne ed esterne è quanto di più variegato si possa immaginare. Non riconducibile ad un paradigma ottimale o preordinato cui fare riferimento per l'analisi e lo studio. Non si tratta, infatti, di un modello inscatolato in un marmoreo ed immutabile processo fissato per sempre. Tale condizione rassegna uno scenario alquanto precario, ove l'incertezza, l'opinione e l'interpretazione imperano. Se gli eventi puntuali, per esempio nascita o morte riguardanti un determinato personaggio, possono essere accertati con certezza o buona approssimazione, è l'azione che l'ha coinvolto ad essere esposta al chiacchiericcio soggettivo teso a chiarirne - più spesso a confonderne - cause ed effetti: basti pensare alla diatriba che ruota attorno alla persona di Gesù. Per effetto di ciò, viene a costituirsi un vero e proprio catalogo delle diverse possibili soluzioni e spiegazioni fornite su quell'unico evento.  E' proprio questo composito catalogo delle opzioni possibili, più o meno razionali, più o meno corrette, più o meno istintive che rappresenta il campo dell'indagine storica, all'interno del quale si sviluppa l'analisi e il dibattito fra uomini. E il dibattito, inteso come confronto delle diverse posizioni emerse dall'indagine testé accennata, che forgia il pensiero da cui emergono le idee, è un altro elemento che concorre, in una qualche misura, a comporre l'intero mosaico della Storia, sintetizzato in resoconti scritti che narrano ciascuno la propria verità, inducendo in chi li legge o ascolta la necessità di operare una scelta, la più convincente o verosimile o più congeniale alle proprie attese. Tale scelta è poi causa efficiente di ulteriori eventi che, per segmento, s'innestano in quel flusso perpetuo che noi sintetizziamo in un unico sostantivo: la Storia.
Da quanto precede, appare subito evidente quanto sia importante comprendere ed aver piena coscienza che la Storia, che è il contenitore di un'eterogenea gamma di scelte umane e di eventi casuali e causali che si intrecciano in maniera indistricabile, è assolutamente priva di certezze, perché queste non possono essere ancorate ad alcuna ostentata evidenza che possa giustificare inconfutabilmente gli eventi trascorsi, tantomeno predire quelli futuri. È così una costruzione difficile e faticosa che comporta, sempre, un elevato livello di attenzione e discernimento, affinché il caso, privo di alcuna azione che lo incanali, o la pancia, non razionale, non siano gli unici suoi elementi costitutivi.
Le caratteristiche peculiari dell'uomo, quelle che lo hanno allontanato dallo status di primigenia animalità irrazionale, si esaltano quando è lui (l'Uomo) a governare la Storia, viceversa, si mortificano allorquando la subisce, perché in questo secondo contesto sarebbero l'animalità e il caso a costringere il suo agire, che, così, avrebbe un ruolo conseguente, non causante. In poche parole, se è vero che non è l'uomo a fare la Storia, è ancor più vero che la sua azione concorre fattivamente a costruirla, pertanto, per dirla con Gramsci, che si acquisisca almeno quello scampolo di volontà e consapevolezza per costruire quella frazione di Storia che ci compete. Odio gli indifferenti.
 
Mille papaveri rossi.
#20
Racconti Inediti / LEI
04 Settembre 2024, 22:03:22 PM
Perdonate se non si tratta di un racconto.


Le armoniose forme,
fra sinuose curve,
in deliziosi poggi,
si ergono sensuali.

Morbide valli,
fra il tripudiar di sensi,
in anfratti ameni,
digradano teneramente.

Delicato solco,
scrigno di fragranti umori,
fra il fresco erisimo,
lievemente riposi.

Richiamo eterno 
di ansito antico 
e deliziosi amplessi,
il mio ardor ti brama. 

Nella tenue sera,
fra i soavi lembi,
con tenero impeto
penetra il mio corpo.

Eterna gioia, in un
possente sbocco
fra le tue fauci
zampilla la vita.