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Discussioni - sgiombo

#1
Mi capita di assistere a dispute fra scientisti che ritengono quella propria delle scienze naturali l' unica possibile conoscenza razionalmente fondata e ragionevolmente (se non anche assolutamente) certa di tutto ciò che é umanamente indagabile da una parte, e credenti che alla scienza affiancano la religione come fonte di verità che esulano dalla conoscenza dei modi del divenire naturale - materiale proprio delle scienze naturali stesse.
Gli scientisti (in sostanza quelli che una volta, con un termine un po' più "vetero" -ma come mi piace, da comunista, affibbiare ad altri questa pretesa contumelia che sento continuamente rivolgere contro me stesso!- si dicevano "positivisti") denunciano l' irrazionalismo e le frequenti sopraffazioni subite dalla scienza ad opera delle religioni (per la verità bisognerebbe dire delle chiese, che é cosa un po' diceversa) e tendono ad identificare con credenti in Dio e nel "soprannaturale" tutti coloro che criticano razionalmente la scienza e ne analizzano i limiti.
Dall' altra parte i credenti tendono ad arrogare a sé (o nei casi meno peggiori a sé e a credenti in altre religioni) l' unicità di una più critica comprensione dei limiti della conoscenza scientifica e della necessità di accedere a verità più "profonde" (come dicono di solito loro), o comunque più generali sulla realtà complessivamente intesa (verità ontologiche), oltre che relative ad ambiti diversi da quello materiale - maturale intersoggettivamente constatabile che é oggetto delle scienze naturali (verità circa i fenomeni mentali).
Una terza posizione frequentemente osservabile é quella di coloro che ritengono che conoscenza scientifica e fede religiosa si integrano complementarmente l' un' l' altra.
E' questa per esempio la tesi sostenuta, con mia grave delusione, da uno scienziato grandissimo (per me comunque uno dei due o tre maggiori ricercatori del XX° secolo!) e uomo coltissimo (anche in campo "umanistico"), che ammiro comunque moltissimo, Stephen Jay Gould nell' ultimo libro scritto poco prima di morire, I pilastri del tempo.
Anche qui nel forum la questione si affaccia di tanto in tanto in questi termini.
A me sembra doveroso precisare che in realtà la religione (anzi, le diverse religioni) costituiscono risposte a problemi non scientifici ma filosofici; ma non affatto le uniche risposte possibili e di fatto tentate.
In realtà quelle religiose sono solo un sottoinsieme della ben più ampia classe delle filosofie.
E la scienza può essere criticata razionalmente e integrata o "affiancata" con considerazioni ontologiche generalissime e con conoscenze dell' ambito non materiale - naturale della realtà e dei suoi rapporti con quello materiale - naturale, anche attraverso teorie critiche razionali ben diverse dagli irrazionalismi (più o meno integralmente tali: non faccio di tutte le erbe un fascio) religiosi.
#2
Attualità / INNOVAZIONE
12 Marzo 2019, 21:42:45 PM
Da incorreggibile anticonformista - bastian contrario ho sempre considerato quella di "innovazione" la peggior parolaccia conformistica politicamente corretta in assoluto (peggio perfino di "eccellenza", "meritocrazia", "mercati", "EurOOOOOOOOOOOOOOOOOOpa", ecc.).

L' "innovazione" é la novità forzata, da realizzare ad ogni costo, anche a costo di stare peggio di quando non c' era (mentre "novità" é un termine neutro: ci possono essere novità utili a migliorare la vita, e dunque da utilizzare, e altre tali da peggiorarla e dunque da evitare).

E' presto per arrivare a conclusioni fondate, ragionevolmente certe, ma appare assai verosimile che il secondo "inspiegabile" incidente al decollo del nuovo aereo americano accaduto in Etiopia, come il primo in Indonesia, sia dovuto al malfunzionamento dell' elettronica applicata all' "assistenza alla guida" (come se i piloti di aerei fossero degli incapaci un po' come certe guidatrici e guidatori di automobili che chissà come conseguono la patente a rischio e pericolo di se stessi e degli altri utenti delle strade, soprattutto ciclisti e motociclisti).
Del tutto inutilmente: sono mai caduti al decollo aerei nuovissimi in condizioni atmosferiche perfette ...senza inutile (e forse dannosissima, pluriomicida) elettronica?

Analogamente nelle corse motociclistiche si verificarono "inspiegabili" terrificanti impennate e rovinose cadute ai primordi dell' impiego dell' elettronica.

Analogamente (ma per fortuna meno pericolosamente) certi idiotissimi programmi di scrittura per computer completano "da sé" le parole secondo le desinenze e i suffissi più comuni, in modi che spesso c' entrano con ciò che si sta scrivendo come i cavoli a merenda.

Secondo me c' é molto da meditare su questa tragedia.
#3
Gian Domenico Borasio: Saper morire. Ed. Bollati Boringhieri, 2011

Sono riflessioni di un medico italiano specialista in cure palliative che lavora da tempo in Germania (é la traduzione in italiano dall' originale in tedesco) che ripensa alla sua esperienza nella cura di malati con "prognosi infausta" in "fase terminale" (delle rispettive malattie e delle rispettive vite).
La cosa che più mi ha colpito favorevolmente é che, contro il pensiero conformisticamente dominante per così dire, considera giustamente la morte come un fatto naturale da accettare (inevitabile e non sempre necessariamente conseguenza di azioni colpose o dolose), come effettivamente é.
Inoltre critica fatti ed atteggiamenti diffusi ma errati a proposito per l' appunto della morte per malattie inguaribili (ma non "incurabili": curabili palliativamente in modo da consentire a chi ne é affetto una sopravvivenza la più serena e dignitosa e la relativamente meno breve ragionevolmente possibile, nonché una morte serena).
Per esempio il fatto che, contro le preferenze della stragrande maggioranza della popolazione e contro il buon senso, nei nostri paesi il 95 dei decessi avviene i ospedale e solo il 5% in casa; e analogamente il fatto che, salvo "casi imprevisti o di forza maggiore" la nascita (il parto) avviene sempre e comunque in ospedale e non a casa, anche nei casi di gravidanza portata regolarmente a termine senza alcun problema o rischio che non sia fisiologico (e in Italia con un evidente abuso della pratica del taglio cesareo).
Critica l' accanimento terapeutico, cioè l' atteggiamento di gran lunga prevalente fra i pazienti, ma soprattutto fra i parenti dei pazienti e i medici (in quest' ultimo caso almeno in parte a causa di più che giustificate preoccupazioni di subire ingiuste querele), per il quale la vita andrebbe il più possibile prolungata ad ogni costo, dovrebbe essere la "quantitativamente più estesa possibile" quale che sia la sua qualità.
Sembra perorare soprattutto un ritorno a una saggezza medica "antica", da sempre propria della medicina ma in tempi recenti sempre più spesso frustrata e impedita da una concezione distorta e in ultima analisi falsa della modernità e del progresso scientifico (pur sacrosanto e che l' autore no mette affatto indiscussione, ma da non assolutizzare e invece da contestualizzare nell' ambito di un sobrio, razionalistico senso del limite: del limite di ciò che quantitativamente e qualitativamente si può realisticamente pretendere dalla vita).
E' comunque un libro non rivolto in particolare agli operatori sanitari, ma a chiunque capisca la necessità di accettare la morte (comunque inevitabile) e sia intenzionato ad arrivarci il più possibile preparato in modo da viverla -proprio così!- nella maniera meno drammatica o frustrante possibile ma con serenità.
Una critica che mi sento di muovere all' autore, dichiaratamente credente cattolico, riguarda la negazione da parte sua della liceità dell' eutanasia attiva, consistente nel fatto che il medico fa morire senza dolore, almeno per quanto possibile, attraverso determinate pratiche appropriate allo scopo, un paziente, unicamente dietro richiesta insindacabile di quest' ultimo (anche se con lui discutibile per vedere se qualche alternativa per lui accettabile le cure palliative possano eventualmente offrire con ragionevole fondatezza) che dispera di poter sopravvivere ulteriormente senza insopportabili dolori fisici e/o psicologici o comunque di poter sopravvivere in maniera da lui stesso ritenta non dignitosa, nonché il suicidio assistito (mentre a mio parere un po' ipocritamente, come d' altra parte molti esponenti sia clericali che "laici" delle istituzioni ecclesiastiche, non solo cattoliche, ritiene accettabile l' eutanasia passiva, cioè il lasciare che sopraggiunga la morte del paziente astenendosi da pratiche terapeutiche che la procrastinerebbero, assecondando in questo il desiderio del paziente stesso).
A questo proposito devo dire sinceramente che una certa mia deprecabile malizia mi induce a nutrire qualche pur modesto dubbio che il fatto, comunque certissimamente vero, che i progressi compiuti dalle cure palliative consentono quasi sempre di assicurare (se applicate correttamente, nei loro aspetti strettamente medici ma anche in quelli, non meno importanti e indispensabili, infermieristici, psicologici, di assistenza "spirituale" e sociale - relazionale) ai malati terminali una sopravvivenza accettabilmente libera da dolore e sofferenza e una morte serena, possa essere stata un po' enfatizzata dall' autore.
Ma é solo un piccolo dubbio, forse eccessivamente malevolo.
Più convintamente mi sento di criticare il concetto di "assistenza spirituale".
Già il termine, incompatibile con le convinzioni dei pazienti materialisti, mi sembra decisamente da respingere: sarebbe decisamente più opportuno parlare di "assistenza filosofica" o "morale" (nel senso delle Operette "morali" del Leopardi), o magari "valoriale" o "esistenziale".
Inoltre l' autore sembra identificarla unicamente con l' assistenza di un sacerdote o comunque un autorevole conoscitore delle più diffuse confessioni religiose, ovviamente il più possibile vicino alle convinzioni del paziente.
Non vedo perché anche un non credente che ritenesse di trovarne giovamento nella fase terminale della propria vita e nella propria morte non dovrebbe poter disporre (come di un diritto da soddisfarsi da parte del SSN) di un analogo conforto da parte qualcuno che ne condivida almeno in qualche misura le più profonde convinzioni.
#4
Percorsi ed Esperienze / DOMANDE
23 Febbraio 2019, 11:34:31 AM
1 Si lavora per vivere o si vive per lavorare?

2 Si vive per essere felici o si é felici (pur) di vivere (comunque, in qualsiasi condizione)?

(Ad entrambe le domande la mia personale risposta é "la prima che hai detto").



Ma mi piacerebbe però raccogliere le risposte degli amici del forum, così da stilare una specie di statistica su quel che intendono come mezzi per degli scopi o per scopi da raggiungere con adeguati mezzi.

Mi stupirei se alla prima domanda qualcuno rispondesse che vive per lavorare (vorrebbe dire che é talmente fortunato che il suo lavoro lo appaga pienamente in tutte le sue aspirazioni, che niente altro ha da chiedere alla vita, oltre al fatto di continuare nel suo lavoro, per essere appagato, felice).

Alla seconda mi aspetterei che gli atei rispondano unanimemente ("alla bulgara") come me: lo scopo fondamentale é la felicità, e se la vita la consente la si sceglie come mezzo opportuno; se invece non se ne può ragionevolmente aspettare che infelicità (complessivamente), allora non vale proprio la pena di continuare a viverla.

Dai credenti mi aspetterei diverse risposte.
Risposte che se non temessi di offendere chiamerei "fondamentalistiche" o "integralistiche", secondo le quali la vita, essendo un dono divino (ed essendo Dio infinitamente buono), é un fine in sé, da perseguirsi come tale, quale che sia la sua qualità.  
O in alternative risposte che sempre se non temessi di offendere chiamerei "opportunistiche", secondo le quali, volendo Dio (nella sua infinita bontà) la felicità e aborrendo l' infelicità per tutti, se ne asseconderebbero doverosamente e virtuosamente i desideri puntando alla qualità della vita piuttosto che alla sua quantità (durata nel tempo), e dunque che se non se ne potesse ragionevolmente aspettare che infelicità (complessivamente), allora la si dovrebbe per lo meno passivamente lasciar finire, se non anche far cessare attivamente.
(Ricordo due noti credenti morti negli ultimi anni, che a mio parere, un po' ipocritamente entrambi, alla luce di quanto "ufficialmente professato", hanno chiesto di essere lasciati morire, evitando accanimenti terapeutici, e anzi venendo "addormentati" farmacologicamente onde non soffrire; per la cronaca, di uno -don Verzè "del SanRaffaele"- ho una pessima opinione, dell' altro -il card. Martini- un' opinione piuttosto buona).


Ovviamente da parte di chi avesse la compiacenza di rispondermi chiederei che precisasse se é ateo o credente (di alcuni é del tutto evidente, ma di altri no).
Da chi rispondesse "la prima che hai detto" alla prima domanda (se con mia sorpresa ce ne fossero) mi piacerebbe anche sapere che professione svolge e in quali condizioni.

Grazie per l' attenzione.
#5
Percorsi ed Esperienze / Inferno e paradiso
13 Febbraio 2019, 20:50:45 PM
Abito da anni in una cittadina di 12000 abitanti lungo la Via Emilia, "da sempre" relativamente prospera.
Eppure stasera mi é capitato, uscendo da un sottopassaggio pedonale, di sentire forti strilli di ragazzini.
Ho pensato a un gioco vivace, come se ne facevano spesso quando ero bambino io, e ho fatto finta di niente.
Invece sento chiamare aiuto: sono due bambine spaventatissime di circa 9 - 10 anni. Mi fermo e mi chiedono piangendo se posso accompagnarle a casa perchè un gruppo di ragazzi ubriachi ha cercato di importunarle.
Restando molto guardingo per il timore che si tratti di una trappola per derubarmi (ma sarebbero state  troppo brave come attrici, per la loro età...) accetto.
Durante il tragitto mi dicono che é la terza volta che capita loro, tornando a casa dal doposcuola.
Raccomando loro di dirlo ai genitori e poi alle maestre della scuola e del doposcuola e comunque di farsi accompagnare da qualche adulto.
Alla mamma della prima bambina cerco di suggerire di fare denuncia ai carabinieri, ma é straniera, parla poco e male l' italiano e non sa bene come si possa fare (anzi mi sembra perfino che capisca poco di ciò che cerco di dirle; mi dice che da domani la farà accompagnare dal fratello).
A casa della seconda trovo il padre, che per fortuna la carica in macchina per andare alla caserma dei carabinieri a sporgere denuncia; gli lascio il mio numero di telefono: anche se non sono testimone se non della fuga delle bambine se servirà mi potrà rintracciare.
Questo l' aspetto orrendo della faccenda.
In un paese come quello ove risiedo non mi sarei mai aspettato niente di simile (erano circa le 19,00).

C' é anche, malgrado tutto, un aspetto meraviglioso: mentre accompagnavo a casa la seconda bambina questa mi ha detto "grazie, signore. Lei é un uomo buono".
Non ricordo un altro momento di felicità simile in tutta la mia vita (o forse mezzo secolo fa quando, al liceo, mi ero accorto che la prima ragazzina di cui mi sono innamorato ricambiava i miei sguardi pieni di di desiderio; ero imbranatissimo allora. Ma non sono nemmeno tanto sicuro: é passato tanto di quel tempo!).

Credo che se esistesse il paradiso sarebbe qualcosa come quel momento però di durata eterna.

...Ma intanto l' inferno esiste per davvero, e sempre più mostruoso, perfino in una cittadina ex-prospera della "Emilia (ex-) felix".

Dobbiamo trovare il modo di fare come in Francia, di ribellarci!
#6
Per "felicità" (più o meno, ma di fatto mai completamente, realizzata) comunemente si intende l' appagamento (più o meno, ma di fatto mai completamente, ottenuto) delle aspirazioni (proprie di ciascuno); per "infelicità" il loro mancato appagamento.
 
Dunque criterio della complessiva felicità o meno di una persona in un certo momento della propria vita può essere il seguente esperimento mentale:
Se ci comparisse davanti una divinità onnipotente e ci proponesse di rivivere (magari un' infinità di volte) la propria vita quale é stata finora, che cosa le risponderemmo?
Se le rispondessimo affermativamente, allora evidentemente la nostra vita (finora) é stata complessivamente felice (o comunque più felice che infelice per lo meno di un minimo di "eccesso di felicità" tale che varrebbe la pena di rifarla tale e quale, tale da compensare gli elementi di infelicità, in qualche misura inevitabili).
Se rispondessimo negativamente, allora evidentemente la nostra vita (finora) é stata complessivamente infelice.
 
 
Si potrebbero poi immaginare ulteriori sviluppi dell' esperimento mentale.
La divinità onnipotente potrebbe chiederci se volessimo in alternativa rinascere senza sapere quale sarà la nostra vita futura o cessare definitivamente di esistere e di vivere consapevolmente.
Personalmente, sebbene alla prima domanda avrei risposto affermativamente (sono complessivamente felice della mia vita quale é stata finora), di fronte a questa seconda proposta risponderei senza esitazioni che preferirei cessare di esistere: del tutto ingiustificato mi sembrerebbe infatti il rischio di vivere una vita infelice, e anche decisamente infelicissima, quali non poche (e comunque sempre troppe!) ci tocca di constatarne intorno a noi.
E coerenza mi imporrebbe, "a mo di corollario", che se avessi la possibilità di generare altri figli me ne dovrei astenere.
Infatti potrebbero essere infelici, e pure tantissimo, e comunque non avrei certo il diritto di imporre loro, senza il loro consenso (che non potrei avere per un' impossibilità logica, assoluta), il rischio dell' infelicità, seppure in alternativa alla possibilità della felicità.
Ma mi imporrebbe anche di porre immediatamente fine alla mia vita in modo il più possibile indolore (eutanasia), dal momento che nulla mi garantirebbe che in futuro il rapporto fra soddisfazioni e insoddisfazioni delle mie aspirazioni non si possa invertire, e dunque "il gioco non varrebbe la candela" (e anzi, con l' avanzare dell' età e i connessi problemi di salute e di efficienza fisica e mentale, il rischio dell' infelicità tenderebbe con ogni probabilità sempre più ad incrementarsi).
Senonché fra le mie (attuali) aspirazioni c' é quella di contribuire (sia "materialmente", economicamente, sia "moralmente", culturalmente, con la mia vicinanza intellettuale e affettiva), nei limiti delle mie possibilità, alla felicità dei miei cari innanzitutto e in varia misura di tutti coloro con cui potrei avere a che fare; e se mi dessi l' eutanasia contravverrei a questo dovere che sento dentro di me lasciando insoddisfatta questa mia importante aspirazione (= mi renderei infelice; moltissimo, anche se per pochissimo tempo, soprattutto in considerazione del persistere dell' infelicità arrecata ad altri ben oltre il brevissimo lasso di tempo della mia sopravvivenza in tal caso).
 
 
Inoltre si può essere felici o infelici in maggiore o minor misura per "fortuna estrinseca" o per "meriti intrinseci".
E mentre nel primo caso -per definizione- si sarebbe soddisfatti o meno della propria vita "in generale", nel secondo si sarebbe soddisfatti o meno di se stessi (e, se felici, qualora la divinità ci chiedesse se vorremmo rinascere così come siamo di fatto nati oppure diversi si sceglierebbe la prima alternativa; se insoddisfatti di noi stessi probabilmente la seconda).
Cioè nel secondo caso si sarebbe contenti oppure scontenti di sé, di essere come si é. Cosa che con tutta evidenza non può essere autonomamente scelta ma si subisce, inevitabilmente impotenti di fronte alla sorte; infatti anche nel caso si decida di cambiare, di compiere sforzi per mutare la propria personalità, cosa certamente non impossibile per lo meno in linea teorica, di principio, tuttavia questa decisione sarebbe o (immediatamente) casuale, fortuita, oppure determinata dal come si era al momento di compierla, comunque non per propria libera scelta ma fortuitamente (oppure per scelta altrui deliberata, per chi creda in un Dio creatore o qualcosa di simile: in ogni caso non per una libera scelta propria).
 
 
N.B.: Da questo "fatalismo di ultima istanza" non consegue affatto necessariamente una passività pratica, come molti erroneamente credono.
Il fatto che si sia nati "virtuosi" (per dirlo con gli antichi Stoici) oppure malvagi (o tali da decidere di diventare "virtuosi" oppure malvagi) non per merito proprio (ma casualmente, per "puro culo" o "pura sfiga" a seconda dei casi) non implica affatto necessariamente che se si é in maggiore o minor misura "virtuosi" ci si impegni di meno (che se non si fosse consapevoli di questo fatto) nell' operare bene, nel combattere il male, nel cercare di imporre ai malvagi le giuste punizioni e ai buoni i giusti premi in maggiore o minor misura (né che se si é più o meno malvagi ci si impegni di meno nell' operare più o meno male, nel combattere il bene, nel cercare di realizzare ingiustizie).


Che ne pensate?
 
#7
Tematiche Filosofiche / Filosofia e vita vissuta
03 Marzo 2018, 09:50:53 AM
Mi sono sempre considerato innanzitutto un filosofo ("naif", non un professore di filosofia, che é ben altra cosa).

Da gran tempo seguo Epicuro nel considerare desiderabile la felicità e non la (quantità della) vita purchessia (ma invece la sua qualità), e detestabile, da evitare l' infelicità, non la morte in ogni caso.
E, come più volte scritto anche in questo forum, mi é "sempre" piaciuto immaginare (ottimisticamente!) di finire la mia complessivamente felice esistenza dandomi la morte (magari dopo aver mangiato del' ottimo cioccolato gianduia alle nocciole, bevuto un buon bicchiere di vino e ascoltando piacevolissime musiche) con una forte dose di barbiturici o analoghi sonniferi allorché mi accorgessi che il tempo che mi rimanesse fosse ragionevolmente da ritenersi con ogni probabilità più carico di dolore che di felicità.

Recenemente sono stato affetto fa una influenza particolarmente forte, con complicazione batterica, che molto mi ha fatto soffrire soggettivamente e che credo di poter dire (alla mia non più tenera età di 65 anni, per cui avevo deciso di vaccinarmi; ma poi, rimanda oggi e rimanda domani, é arrivata prima l' infezione!) mi ha fatto correre il rischio di morire.

Credo di avere imparato da questa esperienza qualcosa di non banale, che ha scosso notevolmente il mio precedente ottimismo.

Innanzitutto i casi della vita sono così imprevedibili che non é improbabile che una malattia mortale accompagnata da non trascurabili sofferenze mi (ci) colga "all' improvviso", senza che vi sia il tempo di prevenire il relativo carico di dolore con l' eutanasia.

Inoltre prima probabilmente, sentendomi presuntuosamente forte e sano, ero anche troppo freddo e indifferente, troppo duro verso i miei cari, la cui meravigliosa presenza e il cui sostegno morale ho apprezzato proprio nel momento in cui si palesava la mia debolezza e fragilità.

Giunto a questo punto della mia vita mi sentirei appagato di ciò che ho fatto, a posto con a mia coscienza e complessivamente felice, ragion per cui sarebbe del tutto ragionevole provvedere subito a darmi l' eutanasia, dal momento che ulteriori gioie e soddisfazioni non aumenterebbero sostanzialmente la complessiva felicità della mia vita (non me ne potrei aspettare alcun "salto di qualità" in tal senso), mentre é del tutto ragionevole pensare che dalla mia ulteriore sopravvivenza potrebbero derivare in netta preponderanza sofferenze e dolori.
Ma in questo modo (cosa che prima di questa dura esperienza tendevo colpevolmente a ignorare) arrecherei dolore ai miei cari e li danneggerei in molti modi (dalla banale ma non irrilevante, a essere realisti, perdita della mia discreta pensione a quella certamente più importante della mia presenza, della mia saggezza -per quel poco che ne ho- del mio possibile aiuto in caso di bisogno, del mio affetto).
E questo lo sento come profondamente ingiusto, cattivo, "infelicitante (anche me stesso)" se da me attuato.
Credo di avere imparato amaramente (dalla vita, e non dallo studio, non dalla filosofia) che la vita può anche essere crudele, anche la mia propria che finora é stata complessivamente molto fortunata e felice.
E che non esistono, come prima mi illudevo fosse, scorciatoie in grado di evitare il rischio del dolore e dell' infelicità in futuro.
Che bisogna rassegnarsi e cercare di essere sempre pronti ad affrontarla.
D' altra parte, secondo quanto ne raccontano i discepoli, Epicuro stesso accettò di vivere fino a tarda età malgrado gli inevitabili acciacchi e sofferenze che ciò avrebbe comportato e morì tra atroci dolori per insufficienza renale ostruttiva (da ipertrofia prostatica probabilmente, oppure da ostruzione litiasica dell' uretra, come é facile diagnosticare dal loro racconto), ma serenamente per aver coltivato a lungo l' amicizia dei frequentatori del Giardino ed averli aiutati a vivere a loro volta felicemente.
#8
Tematiche Filosofiche / sull' etica
06 Ottobre 2017, 10:56:13 AM
 
CitazioneNella discussone su "L' Osservatore, chi o cos' é cosa fa? l' ultima vivace schermaglia polemica fra me e Carlo Pierini termina con questo scambio di battute (si era andati alquanto fuori tema):

CARLO
(citando Sgiombo): <<...non essendo responsabile del fatto di essere responsabile di ciò che fa, allora (transitivamente) non é responsabile di ciò che fa>>!!!!
Mi sembra incredibile leggere cose come queste in un forum di filosofia!
Cos'è che hai sniffato? ...Un sacchetto di cemento a presa rapida?

Citazione
CitazioneUn tossicomane sarai casomai tu ! ! !

Per lo meno in senso metaforico.

Infatti la differenza filosofica fondamentale fra me e te é che io cerco la verità (le credenze vere), quale che sia, (meglio se anche soddisfacente o piacevole, ma) fosse pure insoddisfacente o spiacevole, mentre tu cerchi credenze soddisfacenti o piacevoli, quali che siano  (meglio se anche vere, ma) fossero pure false. 


Vorrei meglio precisare, molto schematicamente, i termini dell questione per come la vedo io.

E riproporla a tutti gli amici del forum perché mi pare importante (e francamente mi stupisco di non avere trovato finora (in quella discussione) argomentazioni critiche (ma solo la taccia di "pesantissimo tossicomane"). 

 
a)    Libero arbitrio = casualità delle scelte = impossibilità di valutare eticamente le scelte stesse.
 
b)    Determinazione estrinseca = impossibilità di valutare eticamente le scelte di chi la subisca (ma casomai quelle di chi la imponga).
 
c)    Determinismo con determinazione intrinseca delle scelte (da parte di chi le compie, autonomamente, "liberamente -?-) = valutabilità etica delle scelte stesse: sono più o meno buone (e dimostrano la maggiore o minore bontà di chi le compie) oppure, in alternativa sono più o meno cattive (e dimostrano la maggiore o minore malvagità di chi le compie) in conseguenza non dal caso (come accadrebbe in caso di libero arbitrio) ma invece, per l' appunto, delle qualità etiche dei loro autori.
 
Ma nessuno è creatore di se stesso, tutti ci si trova ad essere come si è (più o meno buoni o più o meno malvagi) non per proprio merito etico ma invece indipendentemente dalla propria volontà. E dunque le scelte che si compiono o rientrano nel caso "b" (siamo stati deterministicamente fatti così come siamo fatti da "altro" -in generale: un Dio personale o il determinismo naturale- e in conseguenza di ciò agiamo più o meno bene oppure male), oppure nel caso "a" (siamo stati fatti come siamo casualmente e dunque il nostro agire è casuale, non eticamente valutabile).
 
Queste considerazioni non sono scalfite dal fatto che ci si può impegnare a cambiare se stessi, dal momento che: o lo si fa casualmente (e dunque in maniera eticamente irrilevante: libero arbitrio), oppure deterministicamente, ma allora si decide di (cercare di) cambiare e di essere diversi da come ci si è trovati ad essere non per propria responsabilità a seconda (deterministicamente in conseguenza del fatto) di come nel momento in cui si decide di farlo ci si è trovati ad essere non per propria responsabilità.
Dunque in ultima analisi il nostro agire più o meno bene o più o meno è casuale, oppure è determinato dal nostro essere più o meno buoni oppure più o meno malvagi che comunque è a sua volta determinato non da noi, bensì da noi subito (casi "a" oppure "b").
 
Queste mi sembrano comunque considerazione meramente teoriche, senza alcuna conseguenza pratica apprezzabile (ma non per questo meno interessanti, almeno per chi sia razionalista): non per questo chi ha la fortuna -?- di essere nato buono, onesto, coraggioso, generoso, ecc. (o di essere nato tale che lo é diventato di conseguenza) ha alcun motivo per non continuare ad agire meno bene, onestamente, coraggiosamente, generosamente, ecc. di come ha fatto in precedenza, né chi ha la sfortuna -?- di essere (nato o diventato) malvagio, disonesto, vigliacco, egoista ha alcun motivo per non continuare ad agire meno malamente, disonestamente, vigliaccamente, egoisticamente, ecc. di come ha fatto in precedenza.

Sono solo un attore che recita un copione scritto da altri (dovrei essere un Dio perché le cose stessero altrimenti).
Ma non per questo non sono contento di recitarlo al meglio delle mie possibilità.
#9
Le recenti discussioni sul modi di intendere la filosofia e su questioni logiche, come il paradosso del mentitore, sono state per me particolarmente stimolanti (anche per le felici provocazioni Trauma e di Epicuro, che ringrazio).

Fra l' altro mi hanno indotto a chiedermi in che senso e fino a che punto la logica sia, oltre che una rispettabilissima scienza particolare fra le altre (accanto a matematica, fisica, chimica, astronomia, geologia, biologia, ecc.; avente ovviamente, come ogni altra scienza, ineliminabili aspetti e implicazioni filosofiche e "generalmente culturali"), anche una pratica teorica (nessun ossimoro: "pratica" nel senso di attività di pensiero o riflessione critica razionale) fondamentalmente e dunque almeno in qualche misura, o al limite anche solo potenzialmente, "umana generale"; cioè genericamente propria di ogni uomo in quanto tale, quale che sia la sua specifica attività professionale.

La correttezza formale dei ragionamenti è ovviamente necessaria a tutti per poter affrontare in modo positivo, valido, proficuo, vero qualsiasi problema, e dunque anche i problemi più generalmente umani o "filosofici".
E nel mio istintivo (non razionalmente fondato, com' è inevitabile ed ovvio) forte razionalismo, davo come per scontato che nella vita si evitano errori (di cui spesso si è destinati a pentirsi più o meno amaramente) anche e soprattutto grazie alla correttezza formale del ragionare.

Questa convinzione spontanea e un po' ingenua è andata alquanto in crisi riflettendo sulle recenti discussioni aventi implicazioni relative alla logica.
In seguito alle quali mi sembra di rilevare due cose:

a)Esiste un' "istintiva" (comunque "naif", già presente un ognuno, salvo casi più o meno gravemente patologici, semplicemente in conseguenza del normale sviluppo psicofisico e culturale: esperienze scolastiche, ecc.) capacità di ragionare correttamente più o meno conseguentemente e universalmente diffusa, che mi sembra più che sufficiente per affrontare bene i problemi della vita, senza bisogno di conoscenze "tecnicamente logiche"; le quali sono ovviamente importantissime in quanto tali, come teoria pura e per le loro applicazioni pratiche, ad esempio in informatica (che consentono fra l' altro la soluzione di molti importanti problemi scientifici e tecnici di difficoltà e complessità tale che sarebbero assolutamente insormontabili "a mani nude", cioè con la sola forza del pensiero razionale umano naturale), e dunque da coltivarsi, svilupparsi, incrementarsi professionalmente da parte di "addetti ai lavori", esattamente come quelle proprie di ogni altro campo della ricerca scientifica.

b)Gli errori veramente importanti, gravi che si compiono nella vita -circa particolari scelte o anche circa una valutazione generale della nostra esistenza e scelte fondamentali per la nostra autorealizzazione- di fatto non dipendono tanto da carenze nell' istintivo e ingenuo modo di ragionare (per esempio da deduzioni o altre inferenze logiche errate), quanto piuttosto dal fatto che la realtà in cui ci troviamo, pensiamo ed agiamo non è unicamente materiale, e dunque non è integralmente passibile di misurazione e di "trattamento teorico" o di "considerazione" matematica (la cui correttezza è garantita dalla mera scrupolosa osservanza delle regole logiche di ragionamento e di dimostrazione: tant' è vero che le si possono anche affidare a "macchine" e procedure in ultima analisi "meccaniche" con garanzia di correttezza maggiore che svolgendole in prima persona da esseri umani).

La realtà nella quale "ci dobbiamo destreggiare" implica anche enti ed eventi "cogitans" o comunque non materiali, e dunque non misurabili e non calcolabili: sentimenti, inclinazioni, soddisfazioni, insoddisfazioni, ecc.
E generalmente gli errori più o meno gravi che si compiono nella vita non sono dovuti a scorrettezze logiche, inferenze sbagliate, ecc., ma invece all' impossibilità di calcolo del rapporto costi/benefici che ci si può ragionevolmente attendere dalla scelta dell' una o dell' altra alternativa che di volta in volta ci si presenta.

E' relativamente facile calcolare (almeno in linea torica, di principio) i mezzi tecnici attraverso i quali uno scopo può essere conseguito nelle determinate circostanze in cui ci si trova ad agire; e comunque la correttezza di questi calcoli non è significativamente inficiata dall' ignoranza della scienza della logica e delle sue "tecniche specialistiche".
Il difficile è "soppesare " o "ponderare" (e non letteralmente "pesare", cioè propriamente misurare, che è impossibile!) la quantità di "soddisfazione complessiva" (la "pseudosomma algebrica qualitativa" di soddisfazioni e insoddisfazioni, per dirlo paradossalmente ma mi pare ben comprensibilmente) che potremmo conseguire perseguendo un determinato insieme di scopi complessivamente realizzabli e non reciprocamente incompatibili ("botte piena") piuttosto che altri insiemi alternativi ("moglie ubriaca").

Perché ad esempio (per la cronaca: del tutto campato in aria e non avente alcuna implicazione mia personale; oltre che alquanto banale e caricaturale; ma spero utile a spiegarmi) posso al massimo capire che l' amore di mia moglie e la stima dei miei figli sono per me soddisfazioni maggiori dei piaceri "carnali" e delle soddisfazioni personali in termini di orgoglio che potrei ricavare da un rapporto con una giovane bella ragazza che "ci starebbe"; ma di quanto sia maggiore non mi è proprio possibile stabilirlo (il doppio? Il 50% in più? Mille volte di più", Il 5% in più? Infinitamente di più?), contrariamente, per esempio, sia pure con ineliminabili elementi di approssimazione ed incertezza, ai soldi che mi costerebbe invitare a cena la ragazza qualche volta, farle qualche regalo, eventualmente affittare una stanza di albergo, ecc.

E se le ragazze abbordabili fossero più di una (qui l' esempio evidenzia tutta la sua "pacchianità", ma spero anche la sua "capacità esplicativa"), desiderabili in diversa misura in quanto qualcuna più bella, qualche altra più intelligente, più colta o con un temperamento più "eccitante", come potrei stabilire se la somma delle soddisfazioni ricavabili da un certo numero di rapporti con loro (quale numero? E di quali di loro?) sarebbe o meno (e men che meno: di quanto?) maggiore o minore delle insoddisfazioni derivanti dalla perdita dell' amore di mia mogie e della stima dei miei figli (per non parlare di eventuali sensi di colpa e sinceri, disinteressati rimorsi)?
#10
Tematiche Filosofiche / essere e divenire
01 Maggio 2017, 16:36:46 PM
Copio-incollo dall' altra discussione aperta, perché mi sembra si stia "spontaneamente delineando" un argomento diverso da quello su Nietzsche: : l' uomo e il suo diritto al futuro

Re:Nietzsche: l' uomo e il suo diritto al futuro.
« Risposta #123 il: Oggi alle 13:21:01 » (DONQUIXOTE)


CitazioneCitazione da: Sariputra - Oggi alle 12:40:17

CitazioneMa può "essere" un soggetto che continuamente muta? In quale momento del mutamento il soggetto "è"? Se diciamo che l'essere "è" proprio perché diviene dobbiamo necessarmente inserire il non-essere nell'essere del soggetto, altrimenti il mutamento è impossibile...almeno così, a naso, mi sembra. Temo però che siamo andando fuori dalla discussione proposta dall'amico Garbino...



Solo un accenno per evitare l'OT: non "tutto" l'essere muta, ma solo ciò che è passibile di mutazione. Vi è, necessariamente, una "parte" (notare le virgolette che sono importanti) dell'essere che è immutabile poichè eterno (ovvero fuori dal tempo, non condizionabile da esso) Quindi l'essere sempre è e sempre muta (e non è affatto una contraddizione).



CitazioneSecondo me il divenire o mutamento può essere (inteso come) assoluto, integrale, senza alcunché di fisso e immutabile, caotico; cioé come l' esatto contrario dell' immutabilità ovvero dell' "essere fisso, immutabile (altrettanto) assoluto, integrale, senza alcunché di cangiante" (l' "essere parmenideo", perfettamente uniforme, non distinguibile in diverse "parti", per lo meno  per quanto riguarda il tempo; non necessariamente in senso "parmenideo" anche per quanto riguarda lo spazio).

Oppure si può considerare una sorta di sintesi dialettica fra "essere fisso, assoluto o integrale" da una parte (tesi) e "divenire assoluto, integrale dall' altra parte (antitesi), e cioé un "divenire o mutamento relativo, parziale" ovvero ordinato secondo modalità o leggi generali-astratte universali e costanti, astraibili da parte del pensiero rispetto ai particolari-concreti mutevoli.
Analogamente alle vocali o ai colori "intermedi" (le vocali "e" intermedia fra "a" e "i", "o" intermedia fra "a" e "u" e l' "uipsilon" dell' alfabeto greco -non esiste in  italiano, venendo traslitterato talora con una "u" sormontata da due puntini, similmente a una dieresi- intermedio fra "i" e "u"; i colori "verde" intermedio fra "blu" e "giallo", "aracione" intermedio fra "rosso" e "giallo" e "viola" intermedio fra "rosso" e "blu"), la sintesi fra essere fisso assoluto-integrale e mutamento assoluto-integrale, cioé il divenire relativo o parziale ovvero fissità relativa parziale può essere inteso in due accezioni, l' una relativamente più affine all' essere completamente fisso e immutabile (divenire "maggiormente" ordinato secondo leggi "meccanicistiche laplaciane" tali da consentire in linea terica o di principio il calcolo e la conoscenza indiretta -anche- di ciascun singolo evento particolare concreto passato o futuro a partire dal presente), l' altra più affine al mutare caotico (divenire "in minor misura" ordinato secondo leggi "probabilistiche statistiche" tali da consentire in linea teorica o di principio solo il calcolo e la conoscenza indiretta delle proporzioni in cui accadono diversi eventi particolari concreti reciprocamente alternativi in serie "abbastanza numerose" di singoli casi).

Non é dimostrabile né mostrabile quale di queste tre (o quattro, considerando i due possibili sottoinsiemi di divenire ordinato o parziale - relativo = di essere fisso parziale - relativo) caratteristiche presenti la realtà di fatto (ciò che é reale/accade realmente, al di là di ciò che invece é solo pensabile essere reale/accadere realmente).
Ma credo di poter dire che possibilità di conoscenza scientifica e di (sensata) valutazione etica dell' agire possa darsi solo ed unicamente in caso di divenire ordinato secondo modalità o leggi universali e costanti.
#11
Attualità / La geologia é una scienza?
29 Ottobre 2016, 21:40:10 PM
I recenti luttuosi terremoti e le immancabili interviste-lampo di professori di geologia e "sismologia" nei telegiornali, nonché i loro più estesi interventi nelle trasmissioni televisive di intrattenimento più o meno sciocco commisto ai commenti di fatti e notizie vari (che in generale apprezzo assi poco: gli uni e le altre; e il giornalismo in generale) di mi hanno insinuato questo dubbio.

Gli esperti e competenti in materia alla fine, dopo vaghe considerazioni teoriche più o meno saccentemente accennate, non fanno che dire cose chiunque sia dotato di buon senso e di un minimo di cultura pensava già da sé: in sostanza che i terremoti sono singolarmente imprevedibili per sede e gravità e statisticamente tendono a colpire più frequentemente e più fortemente aree geografiche già più frequentemente e gravemente colpite in passato: garzie tante, ci volevano proprio dei professoroni per farcelo sapere!

Non solo: mi colpisce il fatto che, se ho ben capito, due terremoti avvenuti a distanza di poche settimane, con epicentri distanti poche decine di chilometri, e di intensità ("magnitudo" per dirlo con maggior sussiego) molto simile abbiano provocato danni materiali e umani piuttosto diversi; questo mi induce a pensare che le stesse unità di misura impiegate per studiare la materia (geologia-sismologia) non siano attendibili, che siano soggette ad "allungarsi" o "accorciarsi" nelle diverse circostanze (il che vorrebbe dire che di scientifico non ci sono proprio nemmeno i minimi, più elementari rudimenti, che siamo più o meno a livello dell' alchimia).
E allora tanto varrebbe ripristinare la vecchia scala "Mercalli". che onestamente ammetteva di essere "soggettiva", che dava per lo meno un' idea immediata e intuitiva dei danni occorsi.

Può darsi che un certo pessimismo e la mia totale sfiducia e cordialissimo disprezzo per le "eccellenze" e "meritocrazie" (per non parlare dell' "innovazione"!) costantemente sbandierate in tutti campi come trappole ideologiche per abbindolare il popolo da giornali e TV mi impedisca di vedere i fatti con serena obiettività, ma la mia impressione é che di scientifico ci sia poco o nulla

Se così fosse però onestà intellettuale imporrebbe di ammetterlo serenamente; ma forse é la più generale ideologia "scientista" oggi dominante in Occidente, secondo me accanto ad altre forme di irrazionalismo non meno ingannevoli, come superstizione (anche nell' ambito delle religioni: da San Gennaro a Padre Pio), astrologia, chiromanzia, cartomanzia, "paranormale", "new age", medicine alternative", ecc. che lo impedisce.
Ideologia scientista che é fondamentale per dar credito agli economisti che propinano da decenni sempre le stesse ricette a base di privatizzazioni, spostamento della ricchezza dai lavoratori ad imprenditori e banchieri, aumento delle tasse per i primi agevolazioni e riduzioni per i secondi, riduzioni di diritti e tutele per lavoratori e per l' ambiente e i consumatori, ecc., l' applicazione delle quali ha portato e porta a un costante peggioramento delle condizioni di vita del popolo a vantaggio di una "casta" sempre più ristretta, gretta, meschine, incapace e schifosamente privilegiata.
#12
La lettura (ad essere sincero molto parziale e un po' distratta) della discussione sulla nave di Teseo e quella più puntuale e partecipata all' altro argomento della conoscenza e critica della conoscenza (si vede che sono allergico ai termini tecnici in inglese come "topic" o "nick name" quando esistono parole italiane che esprimono chiarissimamente ed anche piuttosto elegantemente i relativi concetti) mi hanno suggerito la considerazione che vado ad esporre sotto questo titolo alquanto pomposo di "principio di arbitrarietà mereologica" (non mi sembrava si potesse inserire con sufficiente coerenza in quelle altre due discussioni).
 
Secondo me la realtà può essere presa in considerazione teoricamente (cioè pensata, fatta oggetto di predicato -ad esempio predicata accadere realmente in un certo o in un certo altro modo-, conosciuta -cioè predicata correttamente, conformemente al suo effettivo accadere; oppure predicata falsamente, ecc.-, desiderata accadere in questo o quest' altro modo, ecc.) in quanto suddivisa in parti stabilite con assoluta arbitrarietà.
 
La realtà accade così come accade e non altrimenti indipendentemente dall' eventuale essere pensata linguisticamente (attraverso concetti di cui sia denotazione, simboleggiati da vocaboli).
Il pensiero può anche sbizzarrirsi del tutto arbitrariamente ad immaginare indefinitamente enti ed eventi non reali, ma se ambisce a conoscere la realtà (veracemente; di fatto inevitabilmente in modo solo parziale e relativo, cioè non senza qualche necessariamente ineliminabile elemento di errore e falsità "mescolato" all' eventuale verità "sostanziale" delle conoscenza; ma in linea di principio ciò varrebbe a maggior ragione nel caso di una conoscenza integrale, assoluta) deve (per definizione) descrivere la realtà stessa così come è o accade.
E dunque la conoscenza è pensiero della realtà vincolato oggettivamente alla realtà stessa e non arbitrario.
E tuttavia vincolato oggettivamente solo in modo relativo, limitato, parziale (secondo la regola generale per cui l' assoluto, la perfezione, se anche fossero reali, sarebbero comunque incompatibili con ciò che è umano, con ciò che l' uomo fa, compreso il suo conoscere: nulla di assoluto -se anche fosse- può essere oggetto di sensata considerazione umana, men che meno di conoscenza).
Il pensiero (umano; o di eventuali altri soggetti) se vuole essere conoscenza deve essere pensiero della realtà oggettiva (da esso indipendente), ma può comunque "applicarsi del tutto arbitrariamente ad essa", prendendone in considerazione elementi, insiemi di elementi, componenti, parti da esso stesso stabilite, "scelte  del tutto arbitrariamente, ad libitum".
Per esempio si può del tutto correttamente, "lecitamente" considerare l' evento costituito dall' esistenza (divenire, muoversi, mutare) del sistema solare negli ultimi 500 000 anni ("oggetto" di conoscenza comunemente considerabile piuttosto "naturale", "ragionevole", non "astruso", ma soprattutto utile a ricavare ulteriori conoscenze di tipo scientifico e ad agire praticamente con successo nel perseguimento di scopi; ovviamente realistici).
Ma si possono altrettanto "lecitamente", correttamente prendere in considerazione "oggetti" o eventi ("pezzi di realtà") ben più "astrusi", costituiti per esempio dai tre quarti settentrionali del pianeta terra negli anni dal 237 a. C. al 1729 d. C unitamente a tre galassie diverse dalla Via lattea in tre arbitrarie posizioni del cosmo dagli anni dal 7429 d. C. al 15711 d. C.; oppure da Napoleone Bonaparte dall' età di tre anni a quella di 12 anni e dall' età di 27 anni a quella di 31 anni unitamente alla gamba sinistra di Giulio Cesare dall' età di 7 anni a 38 anni, unitamente al monte Cervino dal 7429 d. C. al 9555 d. C. alla mia moto dal 2011 al 2117, unitamente all' Unione Sovietica dal 1929 al 1967, ecc., ecc. ecc.
Come può considerare ad libitum enti ed eventi "immaginari", non reali, così il pensiero altrettanto ad libitum può "ritagliare" nelle sue considerazioni la realtà oggettiva esistente-diveniente dal pensiero stesso indipendentemente (anche se non fosse pensata) in parti spaziotemporali altrettanto arbitrarie.

Ciò che "fa la differenza", per così dire, fra le diverse partizioni in cui il pensiero può "ritagliare" la realtà nelle sue considerazioni è unicamente l' efficacia di fatto che tali "ritagli" possono avere o meno nella conoscenza (eventualmente anche scientifica, oltre che "episodica" o "aneddottica") della realtà stessa e conseguentemente l' efficacia della loro utilizzabilità pratica nel perseguimento di scopi (ovviamente realistici): l' oggetto lecitissimamente considerabile "Napoleone Bonaparte dall' età di tre anni a quella di 12 anni e dall' età di 27 anni a quella di 31 anni unitamente alla gamba sinistra di Giulio Cesare dall' età di 7 anni a 38 anni, unitamente al monte Cervino dal 7429 a. C. al 9555 d, C. alla mia moto dal 2011 al 2117, unitamente all' Unione Sovietica dal 1929 al 1967" non serve proprio a nulla, teoricamente e praticamente, al contrario dell' oggetto "sistema solare negli ultimi 500 000 anni" o all' oggetto "specie biologica 'felis catus' " o all' oggetto "pendolo galileiano", ecc.
#13
Attualità / sulla giovane suicida di Napoli
14 Settembre 2016, 18:47:39 PM
CitazioneOvviamente il suicidio della ragazza che aveva mandato in rete un proprio filmato pornografico è un fatto estremamente tragico che, come ogni suicidio, tanto più se perpetrato in giovane età, lascia sgomenti.
Ciò non toglie che, con il doveroso rispetto e la necessaria pietas verso chi si è dato la morte, si presti anche a considerazioni sullo stato di profonda degenerazione, di decadenza civile e morale in cui versano le odierne società occidentali.
Non mi stupirei se Diego Fusaro ne prendesse lo spunto per interessanti considerazioni. Intanto cerco di abbozzarne una da parte mia.
Uno degli aspetti più eclatanti di questa avanzata "putrefazione sociale" che viviamo qui e oggi è a mio parere la rimozione, secondo me di origine sostanzialmente "freudiana" sul piano culturale (per me che sono marxista ha cause più profonde e in ultima istanza determinanti nella struttura economica della società), è la rimozione, il sostanziale "divieto" (alla faccia della pretesa "apertura" -Popper- della nostra società) del senso di colpa, della vergogna, del pentimento, dell' autocritica, del disprezzo per se stessi in quanto autori di azioni esecrabili.
Questo estremamente fisiologico "senso di colpa" che l' ideologia dominante (e in particolare la "premiata ditta psicoanalisi e c.") pretendono di trasformare in patologico "complesso di colpa", da curare se è proprio il caso, ma ancor meglio da prevenire, da evitare ad ogni costo, aveva diverse declinazioni, tanto religiose (ammissione del peccato, pentimento, confessione, buoni propositi per il futuro, ecc.), quanto laiche (basti pensare alla pratica marxista-leninista e "stalinista" dell' "autocritica"), ed era (ed è, nella pure scarsa misura in cui ancora la società non è completamente fradicia) la premessa indispensabile per qualsiasi autocorrezione, progresso interiore, miglioramento personale, per potere evitare o comunque limitare per quanto possibile in futuro gli errori e le infamie che tutti, chi più chi meno, inevitabilmente almeno in qualche misura commettiamo.
In una società più moralmente sana probabilmente questa ragazza non sarebbe stata convinta che ogni suo gesto è da rispettare, che nessuno può permettersi di disprezzarla lecitamente e meritatamente per nessun motivo (come vanno ripetendo sul suo tragico gesto i soliti giornalisti "frugatori di merda", come li chiamo io; ma letteralmente il termine "gossip", di cui vanno fieri -sic!- ha un significato non troppo diverso in sostanza, anche se è un po' più eufemistico; o meglio: era tale in origine, mentre ora, a dimostrazione delle mie convinzioni sullo stato della società civile, è decisamente "encomiastico": si può andare fieri di coltivarlo!); probabilmente avrebbe avuto maggiori opportunità di trovare chi (laico o prete; parente, conoscente, amico, ecc.: tutto fuorché "psicologo di professione"!) avrebbe potuto farle capire che il disprezzo e il ridicolo che aveva attirato su di sé erano giusti e meritati, e che riconoscerlo (e autodisprezzarsi innanzituttto in prima persona per il proprio gesto) sarebbe stato il primo indispensabile passo per superare i propri limiti e difetti e diventare migliore.
Invece l' ideologia dominante (come confermato dai commenti penosamente "buonisti" al suo tragico gesto da parte dei gazzettieri, come sprezzantemente li chiamava Palmiro Togliatti) le ha inculcato la convinzione che di nulla si deve vergognare, nulla di sé si deve ritenere spregevole e infame per poterlo evitare in futuro e poter migliorare come persona; che nessun biasimo, disprezzo, nessuna condanna morale verso di sé è ammissibile da parte di se stessa o di altri.
Cosicchè, dopo non essersi accorta di avere agito in maniera spregevole, non ha capito che il disprezzo che aveva suscitato era meritato e che ammetterlo in prima persona sarebbe stato giusto e necessario per rimediare e cambiare in meglio.
Anziché capire che vi sono cure dolorose (come "la famigerata chemioterapia per ciarlatani new age"), tanto più dolorose quanto più è grave il proprio stato di infermità, cure che consentono comunque di guarire da qualsiasi male morale se assunte con la necessaria tenacia e forza d' animo (non gratuitamente, ma appunto al prezzo di sofferenze proporzionate alla gravità della propria condizione iniziale), ha vissuto il disprezzo e il ridicolo che inevitabilmente aveva suscitato come una delle conseguenza del suo gesto come un' ingiusta, immeritata (mai ammettere di meritare disprezzo e sarcasmo!), insopportabile persecuzione, con quello che purtroppo ne è conseguito...
E' stata due volte vittima del "buonismo politicamente corretto di ascendenza freudiana": nel non rendersi conto della schifezza che aveva commesso e nel sentirsi vittima di pretese ingiuste persecuzioni insuperabili e intollerabili anziché della propria leggerezza e dei propri errori (di cui nessun uomo è esente del tutto, in cui tutti, chi più chi meno, inevitabilmente cadiamo); e nel non rendersi conto che errori e colpe -noi stessi e non altri essendone i principali responsabili-  sono invece superabili per il futuro migliorando noi stessi; ma alla conditio sine qua non di innanzitutto vergognarsene, sentirsene in colpa, autodisprezzarsene con la dovuta severità.
CitazioneNon dubito che i buonisti politicamente corretti più o meno freudiani mi considerino un turpe moralista (magari -orrore!- addirittura "cattocomunista"!).
Per parte mia mi considero uno che ancora possiede valori etici.
#14
Sono medico dissidente rispetto alla concezione della vita e della salute corrente fra i miei colleghi, molto perorata fra gli altri pubblicamente, grazie alla sua enorme disponibilità di "tribune mediatiche", dal celebre porf. Veronesi, del quale non sono per niente un "fan", e la "filosofia di vita" del quale mi sentirei di sintentizzare caricarturalmente nello slogan:

"non mangiate, non bevete, non fumate, non trombate, non godetevi in alcun modo la vita, che così camperete 150 anni" (di noia e sacrifici).

E' chiaro che non bisogna esagerare in nessun senso e che generalmente si può sbagliare in due modi, per eccesso o per difetto.

La concezione corrente della medicina a mio parere, anche per corposi interessi materiali delle case farmaceutiche e "parafarmaceutiche" (produttrici di "integratori alimentari", "abbassatori del colesterolo", cosmetici, ecc.) nonchè di varie corporazioni di operatori sanitari (medici, tecnici della riabilitazione, dietisti, allenatori e gestori di palestre, ecc.), é errata per eccesso di "igienismo", per così dire.
Vengono continuamente abbassati i limiti considerati accettabili (e comunque consigliabili) di lipdemia, colesterolemia, glicemia, sali minerali plasmatici perché (anche perché...) così si allungherebbe la probabile durata della vita.

Prescindendo dal fatto che si tratta di prospettive mal calcolabili e solo statisticamente-probabilisticamente (può sempre darsi la sfiga di ricevere una tegola in testa avendo colesterolemia e lipidi plasmatici e sodiemia bassissmi; c' é anche quello con un culo "sperverso", come si diceva ai miei tempi, che campa cent' anni fumando due pacchetti di sigarette al giorno; mentre il 99,9% degli altri che lo fanno schiattano di tumore polmonare o infarto cardiaco o ictus cerebrale entro i cinquanta), da epicureo credo che il mio scopo non sia di procrastinare quanto possibile la morte, o di vivere quanto più a lungo possibile, bensì di godermi quanto più e meglio possibile la vita.

Facciamo un esempio molto banale e strampalato.
Ammettiamo che sia provato statisticamente che se dall' età di 20 anni si mangiano 5 barattoli di nutella al' anno si ha la fondata probabilità di campare 100 anni e mangiandone 30 all' anno di campare 60 anni.
In questo caso ritengo di gran lunga preferible la seconda ipotesi: poiché non mi interessa vivere quanto più a lungo possibile e male ma invece quanto meglio possibile complessivamente (godermi quanto più possibile la vita), non c' é contronto fra il gustarmi complessivamente soltanto 80 x 5 = 400 barattoli di nutella e gustarmene ben 40 x 30 = 1200 barattoli!
L' esempio é ovviamete molto banale e parziale (potrei desiderare fortissimamente di poter seguire l' infanzia e l' adolescenza di un nipote per dargli conoscenze e consigli ed essere dispostissimo a rinunciare volentieri a questo scopo  agli 800 "barattoli spplementari" di nutella).

Quel che intendo dire é che non ci si dovrebbe preoccupare tanto di allungare la vita a qualsiasi costo, ma solo al prezzo di non doversi ritrovare alla fine ad avere goduto di meno soddisfazioni che se fosse stata più breve ma più intensa (contrariamente all' "ideologia medico-sanitaria corrente").
#15
Tematiche Spirituali / pentimento ed espiazione
10 Luglio 2016, 18:52:28 PM
(Spero di non far perdere la pazienza a tutti con una nutrita serie di "premesse" di interesse per lo meno dubbio; invito chi faticasse a seguire le mie considerazioni a "saltare" oltre i cinque asterischi rossi che porrò alla fine delle premesse medesime, per entrare nel "sodo" delle considerazioni che mi sento di proporre).

Frequento di solito il forum di filosofia, che però in questi ultimi tempi mi sembra impegnato in discussioni alquanto "poco filosofiche" (e comunque per me soggettivamente poco interessanti).

Apro la presente discussione in questa sezione (dal titolo per me assai poco allettante!) perché, avendo cercato nel forum con la parola chiave "pentimento", vi sono stato indirizzato (in particolare a un intervento di Paul11 nella discussione sul perdono; e avendo constatato che quanto vorrei proporre all' attenzione dei frequentatori del forum non si prestava bene ad esservi inserito).

Spesso si pone il problema del vero o presunto "pentimento" da parte di chi ha compiuto delitti, soprattutto se particolarmente esecrabili (contro bimbi, oppure con motivazioni decisamente abbiette come intenti razzisti o indiscriminatamente terroristici).
Ricordo che la questione si pose alla mia attenzione per la prima volta negli anni '70 - '80 del secolo scorso di fronte ai primi pentimenti dei terroristi di (quelle che mi dispiace per i politicamente corretti, ma per me sono sempre state e continuano ad essere) le "sedicenti Brigate Rosse" (che, a parte l' eventuale buona fede di qualche utile idiota, di fatto hanno sempre egregiamente, diligentemente e molto efficacemente servito "il re di Prussia". Almeno nel caso delle "prime brigate rosse"; sospenderei invece il giudizio sui giustizieri dei nemici del popolo Biagi e D' Antona, che mi sembrano paragonabili a quegli anarchici di fine '800 che, come Bresci, in modo ingenuo e politicamente inefficace ma per lo meno eticamente apprezzabile -da parte mia ovviamente!- cercavano appunto per lo meno di vendicare il popolo dei soprusi dei suoi peggiori e più miserabili oppressori; ma prego i certamente numerosi politicamente corretti fra i frequentatori del forum di ignorare queste utlime mie considerazioni, certamente assai discutibili, che non ho saputo trattenere ma che non vogliono essere l' argomento principale di questo mio intervento e che non mi sembra si prestino ad essere serenamente discusse nel forum stesso: spero vi limiterete a manifestare il vostro deciso, magari sdegnato e scandalizzato dissenso senza argomentare, cosa che comunque mi guarderò bene dal fare da parte mia, anche in caso di vostre considerazioni più o meno dettagliate in proposito).



*  *  *  *  *



Per tornare a quella che a mio parere é invece una questione, oltre che interessante, anche tale da prestarsi a una serena discussione nel forum, noto che queste professioni di "pentimento" sono solitamente (direi "di regola"; e con scarsissime, "più uniche che rare" eccezioni) associate a richieste di riduzioni delle pene comminate o in attesa di essere decise dalla giustizia legale (e hanno tutta l' aria di essere suggerite dagli avvocati difensori per poterne trarre vantaggio nei processi).
E questo me le fa inevitabilmente ritenere dei puri e semplici e alquanto miserabili escamotages per cercare appunto di "farla franca" nei limiti del possibile.
Infatti le mie convinzioni in proposito, che credo fra le poche rimaste intatte dall' educazione cristiana alquanto tradizionalista che ho ricevuto in famiglia fin dalla più tenera età (mentre ho decisamente superato criticamente quasi tutte le altre da quando ho cominciato a ragionare con la mia testa), ma che potrebberio avere "radici giudaiche", oltre e forse più che "cristiane", sono che

il "pentimento" implica necessariamente come una conditio sine qua non per essere realmente tale, per essere autentico, la richiesta di "epiazione".

Senza richiesta di "espiazione" non si da sincero, reale "pentimento" (ma casomai solo furbesco tentativo di attenuare le meritate pene).
Non per niente negli ultimi anni in cui sono stato credente (nella mia ormai lontana adolescenza) il "sacramento" che prima era comunemente denominato "confessione" (dal suo aspetto più superficialmente evidente) cominciava ad essere chiamato "penitenza", che é un sinonimo di "espiazione", di sofferenza etero- o anche auto- inflitta per placare un bisogno di giustizia.

Solo chiedendo inasprimenti (e non affatto attenuazioni!) delle pene si può dimostrare un autentico pentimento per il male perpetrato, cioé il fatto di rendersi conto che il proprio agire é stato malvagio e dunque degno di punizione secondo etica e giustizia (oltre ovviamente che cercando se e per quanto possibile di rimediare, di riparare i "danni materiali, morali ed etici" perpetrati).
E solo in questo modo si può almeno in qualche misura (difficilmente valutabile) riacquistare rispettabilità etica e umana e chiedere (e auspicabilmente ottenere) "perdono" anche da parte delle vittime o dalle persone care sopravvissute alle vittime: solo alla conditio sine qua non di esigere per primi, anche indipendentemente dalla giustizia legale, di essere adeguatamente puniti, e dunque di "pagare" per ciò che si é fatto, di pagare comunque più di quanto la legge prescriva e ci si potrebbe limitare a subire, così annullando il "debito morale" (verso le vittime dirette e indirettamente verso tutta l' umanità onesta e devota alla giustizia che si sono offese) in cui si é precipitati.
#16
Premessa (doverosa).
Questa é  una questione che non interesserà, se non eventualmente per mera "curiosità intellettuale", chi non ha una concezione "nauralistica" della vita (per esempio chi crede a "disegni più o meno intelligenti", "provvidenze più o meno divine", "reincarnazioni di qualsivoglia genere"; mi scuso con tutti costoro, anche se mi piacerebbe che anch' essi si cimentassero sul probema che sto per porre considerandone le premesse sotto la condizione "come se" o "se per assurdo" o "ammesso e non concesso che", come in una sorta di divertissement raziocinativo).

La questione é questa.
Si può pensare ragionevolmente (secondo me non dimostrare) che alla vita animale corrisponda l' esperienza coscente (alcuni credono anche alla vita vegetale, altri anche a quella batterica e magari virale, taluni perfino agli enti ed eventi del "regno minerale" -pampsichismo- ma comunque é difficile trovare persone che "a la Descartes" ritengano gli animali o per o meno buona parte di essi del tutto privi di qualche pur rudimentale barlume di coscienza: mere "macchine naturali").
Inoltre grazie all' invenzione del linguaggio (secondo me, anticonformisticamente, non una "dotazione naturale" geneticamemnte determinata ma un' "invenzione artificiale", un grandioso, "fondamentale" evento culturale fra i primi cronologicamente e probabilmente il più "decisivo" in assoluto per le sorti umane), l' uomo é anche dotato di autocosienza (non solo sente e sa, come per lo meno gli animali dal sistema nervoso più complesso, ma anche sa di sentire, di sapere, di "esserci"; e sa pure di dover soffrire, oltre che gioire, in maggiore o minor misura, nonché di dover morire).
Ma all' enorme sviluppo del sistema nervoso centrale e delle connesse facoltà cognitive umane (e di qualsiasi altra specie vivente che ovunque e in qualsiasi momento nell' universo venisse ad essere dotata di un sistema nervoso similmente o magari anche più complesso) sono connesse alcune conseguenze inevitabli fortemente negative ai "fini" della nostra sopravvenza come specie biologica.
Una é la realizzazione, in conseguenza della conoscenza scientifica che inevitabilmente si svilupperebbe date le premesse, prima o poi della possibilità di autodistruggersi per la possibile (e purtroppo alquanto probabile) inadeguatezza dell' organizzazione sociale ad un uso sufficientemente razionale dei mezzi di trasformazione della natura (di produzione ma anche di distruzione) scientificamente fondati (le "tecniche"); é la fase che attualmente sta attraversando la "nostra umanità terrestre", la quale si trova nelle condizioni di un bambino che si sia venuto a trovare in possesso di una bmba a mano o di un mitra carico: o cresce presto e ragguinge una  maturità e delle conoscenze teorche e pratiche adeguate, oppure prima o poi amazza se stesso e magari altri: e infatti molte altre specie le abbiamo di già ammazzate e le stiamo forsennatamente, dissennatamente ammazzando a tutto spiano).

Un' altra si porrebbe comunque anche qualora si riuscisse (e se si crede, come me, che l' universo sia infinito nel tempo e nello spazio si pone certamente poiché una qualche percentuale di specie autocoscienti ci riuscirà pure "da qualche parte e in qualche momento") a raggiungere per tempo una maturità e razionalità adeguata allo sviluppo della scienza e delle tecniche (per la cronaca implicante secondo me necessariamente la collettivizzazione-socializzazione sostanzialmente intergrale dei mezzi di produzione/distruzione).
Anche in tal caso infatti nella vita di ogni individuo autocosciente si potranno dare inevitabilmente gioe e dolori, felicità e infelicità in maggiore o minor misura (misura non prevedibile a priori). E allora vigerebbe (e a un tale ipotetico livello di civiltà non potrebbe di fatto certamente essere ignorato da nessuno) un principio etico per il quale non sarebbe giusto imporre ad alcun soggetto autocosciente, senza chiedergliene peventivamente il consenso (cosa di un' impossibilità letteralmente "logica"), il rischio di una vita in cui l' infelicità potrebbe anche prevalere sulla felicità; anche nel caso la probabilità di questo "triste destino individuale" fosse infima rispetto a quella di vivere più o meno felicemente.
Dunque mi sembra di poter concludere che l' autocoscienza (in realtà sarebbe per me corretto dire: "i correlati materiali, neurofisiologici dell' autocoscienza") sia una condizione predisponente e prima o poi determinante l' estinzione delle specie animali che ne fosssero dotate (sempre ed ovunque nell' unverso).
Del tutto naturalisticamente. Un po' come qualsiasi altra forma di "eccessiva" specializzazione, "eccessivo adattamento ambientale"; eccesivo "in tempi lunghi",  relativamente alla necessaria flessibilità e dunque non specializzazione adattativa eccessivamente complessa e perciò inevitabilme troppo poco e poco rapidamente "rimaneggiabile", non modificabile in tempi sufficientemente brevi, come l' inevitabile continuo mutare dell' ambiente stesso impone perché una specie possa sopravvivere a lungo; é infatti noto che i procarioti o batteri, una fra le più "antiche", "primitive" e meno specializzate e complesse forme di vita, siano tuttora i più adattati, estesi (come quantità complessiva di biomassa che li costituisce), variegati (variabilità genetica che li caratterizza) e diffusi (molteplicità e diversità degli ambienti fisici e biologici occupati) esseri viventi.