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Discussioni - Mario Barbella

#1
E' possibile che l'uso rigoroso e razionale del linguaggio scientifico possa costituire anche una qualche forma di  freno per lo sviluppo almeno di certi particolari e complessi temi scientifici moderni? 
Grazie.
#2
COME VA LETTA E  RECEPITA LA PAROLA DI DIO?

           Al titolo aggiungeremmo anche: "chi ha scritto la parola di Dio..." dandone particolare rilievo in questa riflessione e facendone, anzi, il tema principale, perché la  Parola "di Dio", ritenuta già da tempo scritta, continua, invece, ad essere tuttora in lenta elaborazione e ancora sotto scrittura per mani umane ancorché sotto ispirazione più o meno divina; sta proprio in questa ispirazione una delle chiavi importanti da sottolineare, per quanto possibile, in questo non semplice argomento.
           Innanzi tutto diciamo che chi deve "leggere, comprendere, concepire o respingere la Parola di Dio " è, come per ogni altra cosa dell'universo, l'"Osservatore", anzi, l'Osservatore universale unico ovvero l'IO cosciente. Per capirci: l'Osservatore non è questo o quel tale, così come può essere inteso dal senso comune, ma, diciamo, una rappresentazione concettuale di una specie di mente o coscienza media di tutte le menti dell'universo, ciò può forse rendere un'idea del concetto ma è ben lungi dall'essere la definizione del termine evidentemente trascendente di "Osservatore" o di "Osservatore universale"; si può tuttavia dire, per esempio, che il legislatore non è chi materialmente scrive le leggi di uno stato, bensì un parlamento che le elabora politicamente; analogamente il comune "io", qui scritto in minuscolo, è il funzionario incaricato di redigerle per la gazzetta ufficiale.
           Qui sosterremo il concetto che la Parola di Dio è materialmente scritta da mano umana ma, è bene ribadirlo, soprattutto è scritta grazie alle fusioni ma anche agli scontri complessi di menti, idee, coscienze e di tante altre manipolazioni ed evenienze delle collettività umane, il tutto generando un flusso super complesso e assolutamente impersonale di idee e di fatti che scorre come un fiume disordinato o turbolento con tutte le relative influenze, anzi, auto-influenze, che operano nell'ambito del fluido medesimo ed in funzione delle situazioni ambientali, locali e temporali autodeterminantesi in esso. Questo fluido evidenzia in qualche modo e come si può intuire, la natura nella sua estrema complessità ed il pensiero del mondo. Dettagliare analiticamente questo flusso da parte dell'Osservatore è difficile per la presenza, appunto, dell'Osservatore stesso che vi è immerso in tutto e per tutto come fattore determinante ed auto-integrante del Tutto. Questo è proprio uno dei problemi che incontrò la fisica quantistica ai primi del '900 in conseguenza dei quali si presentarono certe fenomenologie apparse subito strane o contraddittorie e, almeno all'inizio, qualcuno legò inspiegabilmente all'Osservatore che, secondo la posizione "classica" della fisica di allora, avrebbe dovuto essere semplicemente la persona fisica dello sperimentatore, che, si badi bene, mai sarebbe stato considerato parte integrante dell'evento scientifico in sé stesso ma, al più, una causa disturbante e accidentale esterna!
           Ma, allora, cosa può fare l'Osservatore per captare ed esporre la parola di Dio barcamenandosi nella turbolenza della storia delle idee, con le connesse esigenze della ragione, per tentare di autodefinire, fidando nell'adattabilità di un linguaggio che si vorrebbe accettabilmente concreto, il senso profondo della parola di Dio? E' qui il problema.
           Un'idea di questo problema, cioè la risposta alla domanda "chi ha scritto la parola di Dio", la ravvisiamo nel fatto che essa non è semplicemente "stata scritta" ma è da sempre in corso di elaborazione, di critica, di riflessione e, quindi, di scrittura, ad opera non solo di specialisti coscienti di farlo, ma di tutti: credenti, miscredenti, asceti, promotori, avversatori, negazionisti, scettici, non importa di quale religione, se mai ne avessero avuto o ne abbiano avuto una, e, ancora,  apatici di qualsiasi ideologia o gruppo che mai si sarebbe pensato esservi compartecipi attivi della scrittura sacra. Un esempio concreto di questo "continuare a scrivere la Parola" ce la dà, molto semplicemente, la mera omelia di un sacerdote che, con la sua personale interpretazione di quanto già è scritto e inteso come "Parola di Dio", vi lascia pur sempre una sua traccia, il tempo e la storia faranno il resto.
           Concluderemmo, se così ci è lecito dire, che è l'IO, cioè l'Osservatore universale, che, meditando e studiando, seppure nei limiti spesso minimi e controversi delle sue disponibilità intellettuali e materiali ed altro (essendo l'Osservatore una sintesi del mondo degli "osservatori"), contribuisce  a sostanziare la Parola di Dio già scritta o ancora da scrivere. Ma... non sarà forse proprio l'IO l'obiettivo, la "singolarità"  universale, portata a termine dal Cristo, il Figlio dell'Uomo? ;)

m. barbella    (323013) 06530 12405
#3
L'Osservatore, chi o cos'è e cosa fà?

           L'uso comune di questo termine è notoriamente riferito al "tale" che guarda, con attenzione a qualcosa; se parliamo nell'ambito del linguaggio scientifico e segnatamente di fisica di laboratorio, il termine allude al responsabile che programma, gestisce e controlla un esperimento o uno studio di ricerca; però ciò è limitativo seppur sufficiente per allargare enormemente il significato del termine come subito vedremo.

           Un esperimento di laboratorio o una ricerca qualsiasi necessitano di una ben precisa finalità per cui un primo compito dell'Osservatore è la precisazione di questa  per organizzare il suo lavoro e valutarne il risultato. Potrebbe già bastare questa iniziale considerazione per spalancare la finestra sull'importanza enorme e decisiva dell'Osservatore. Alla fine dell'esperimento deve giudicarne l'esito che può o meno soddisfare le esigenze o le sue aspettative sia nel senso della "qualità" che per le finalità della ricerca voluti sempre da Lui. Se l'esperimento doveva fornire la prova o la smentita di una affermazione o di una teoria allora la chiarezza del risultato, ai fini dell'una o l'altra alterativa, deve necessariamente "piacere" all'Osservatore per giudicare valido o no  l'esperimento, la ricerca o la dimostrazione da Lui data o ricevuta. Quest'ultima precisazione è importante per mettere in chiaro che l'Osservatore è chi cerca, vuole interpreta e giudica qualsiasi cosa, in questo caso, la dimostrazione o la negazione di qualcosa, soprattutto va aggiunto che ciò non è affatto limitato a fatti di scienza ma è esteso a qualsiasi azione connessa al suo ruolo assoluto, parlo, ben inteso, del ruolo dell'IO cosciente, ovvero dell'Osservatore, nell'Universo.
#4
DOBBIAMO DAVVERO TEMERE
IL DOMINIO DEL COMPUTER?
(Le paure dell'ignoranza)


Sembra prender piede, nel sentir comune, il timore di dover cedere il naturale dominio della nostra mente alla stravagante presunta sopraffazione di quella artificiale del computer! Ha qualche ragion una tale ridicola preoccupazione? Tutto sta nel definire a quale tipo di sopraffazione alludiamo e parallelamente definire cosa debba intendersi col termine qui usato di "computer". Per prima cosa vediamo come intendere il senso generale di questo termine. Nella preistoria dell'uomo, cioè prima che la sua intelligenza e la sua autocoscienza si sviluppassero in misura da potersi sufficientemente confrontare con quelle che riteniamo essere del livello attuale: a quel primitivo livello, un sasso opportunamente scelto e adattato per rompere noci da mangiare, sarebbe, appunto, e con pieno diritto, un computer. Infatti un computer odierno non è altro che uno strumento, più o meno complesso ed elaborato, costruito, scelto o adattato in modo da svolgere, con sufficiente rapidità e minor fatica per l'Osservatore e compatibilmente con le migliori attese di quest'ultimo, funzioni che senza quest'aiuto tecnico non sarebbero realizzabili così bene da soddisfare le esigenze dell'autore stesso, appunto, l'Osservatore.
           Abbiamo, dunque,  scolpito il significato generale del termine 'computer'. Mantenendoci, quindi, sull'esempio del modestissimo computer che qui chiameremo "sasso schiaccianoci", analizziamone le possibili minacce, non importa di quali entità e tipo, che l'Osservatore potrebbe temere: una è la ovvia possibilità che lo strumento scelto, il sasso, in presenti, allora, come oggi, problemi di sicurezza per l'utilizzatore che potrebbe ferirsi o subire altri danni fisici. Non è poco, è infatti necessario investire in tempo e lavoro per sostituire quel sasso con un altro o con qualche altro attrezzo che si ritenga possa ridurre rischi simili. Esisterebbe qualche possibile ulteriore rischio meno diretto e di altra natura? Sì, se pensiamo, per esempio, agli effetti sociali ed economici delle evoluzioni tecnologiche in generale: potremmo, infatti, pensare all'eventualità che, a quel tempo, potesse darsi luogo ad una potenziale competizione sollecitata anche dall'invenzione di un mero quanto vitale (allora) "computer schiaccianoci", cioè di qualcosa che richiamava, con parole di oggi, l'evoluzione tecnologica e che modificava, non importa in quale senso ed con quale intensità, i comportamenti individuali, da una parte, e gli approcci con le piante di noci ed altre fonti alimentari, dall'altra, e così in generale. E' facilissimo allargare ragionevolmente il campo delle conseguenza sociali, economiche e politiche intorno a questo esempio sì da giustificare possibili conseguenze significative nei rapporti tra le persone, si tratta sempre di timori conseguenziali all'evolversi generale delle tecnologie, nelle le quali il computer, seppur solo un sasso modificato, poteva essere, allora, un esempio notevole; ma oggi i timori nei confronti del "computer" (intelligenza artificiale) sembrano trascenderequeste conseguenze dirette e indirette che, al più, sarebbero non altro che ovvi rischi della vita quotidiana con gli strumenti della tecnica. L'opinione comune sembra temere ben altro: alludiamo, nientemeno, che ad un fantomatico dominio intellettivo del computer sull'Osservatore! Computer che, da oggetto controllato dall'Osservatore, si invertirebbe in dominatore di questo! Il computer, secondo queste opinioni, si accingerebbe a dominarel'Osservatore senza il consenso di quest'ultimo, sarebbe credibile una siffatta idea? Rispondiamo subito con un secco NO; ma se pur solo supponessimo che ci possa essere qualcuno al mondo tanto sprovveduto da credervi, allora dobbiamo spendere qualche parola per cercare di riorientarlo nel senso giusto, che poi significa solo richiamarlo al buon senso logico. Si potrebbero subito mettere a tacere queste stravaganti e sciocche supposizioni ricordando semplicemente che i computer, per quanto complessi ed avanzati, sono pur sempre inventati, progettati, elaborati, costruiti e poi scartati dalla mente dell'Osservatore o, indirettamente, da intelligenze artificiali che sono ancora cose progettate e realizzate dalla mente cosciente dell'Osservatore. Ciò assicura che non è il prevalere dello "strumento" sulla mente osservante che dobbiamo temere, ma la ben risaputa incostanza o "flaccidità" della forza conoscitiva dell'Osservatore, debolezza, questa, che ha lasciato che il sasso schiaccianoci ferisse il dito del poveraccio, nonostante ben sapesse dell'esistenza di un tale rischio e, forse, già pensava a future possibili migliorie dell'attrezzo. Ma d'onde nascono simili paure? Se riportiamo quest'esempio al mondo dei computer di oggi o futuri, ben più gravi conseguenze ci sarebbero da temere, ma sempre da considerarsi come conseguenze accidentali dell'uso delle tecnologie di ogni tempo e, no, va ribadito con forza, dovute sempre alla "flaccidità" ovvero, alla debolezza conoscitiva dell'Osservatore che dovrebbe auto-cautelarsi mettendo in conto i rischi dovuti sempre ai suoi stessi errori sovente di valutazione. Un'intelligenza artificiale non è, ovviamente, almeno a giudizio delle persone di buon senso, superiore all'intelligenza che l'ha realizzata, non dimentichiamo mai questo principio generale! Questo punto è da chiarirlo bene: la debolezza dell'Osservatore non sta nell'incapacità di dominare una mente più forte (che non esiste), ma nel non riuscire a dominare sempre e puntualmente la sua per sottrarla dalla minaccia del caos universale: l'entropia. L'Universo dell'Osservatore non è "chiuso" sì da potersi coprire e dominare con un'ampia e forte coperta conoscitiva da stendervi sopra e tutto includervi per dominare il caso ed il caos. Per grande che sia, ai margini di questa coperta incalza sempre il caos universale incontrollabile. Il teorema di Gödel insegni.
#5
Tematiche Filosofiche / leggi fisiche e leggi mtematiche
14 Settembre 2017, 17:57:02 PM
Le plurinominate "leggi della fisica" sono "percezioni dell'"Osservatore" (più semplicemente dell'IO cosciente). L'Osservatore, però dispone di  un ventaglio, direi continuo, di linguaggi (comunicativi-elaborativi e di autoregistrazione o memorizzazione) che va ,per dirla in breve, dal linguaggio interiore e/o familiare al linguaggio matematico passando, quasi con continuità, da una precisione minima (linguaggio personale e comune) ad una massimamente rigorosa, ma entro i limiti consentiti dalla "flaccidità" della Conoscenza imperfetta dell'Osservatore, che è quello del rigore matematico. Tale spettro di linguaggi consente all'Osservatore di agire  in funzione: a) della percezione grezza di un evento del Suo universo, b) delle circostanze ambientali (tra cui la stessa entità dell'Osservatore); l'esito di questa elaborazione è, niente meno, che la vita dell'Osservatore, cioè dell'Universo. 
Tutti i linguaggi, quale che sia la relativa "precisione", sono denominabili, appunto  linguaggi, se è possibile e facile(vedi nota (1)) all'Osservatore la concatenazione e la definizione  delle cause e degli effetti (percorsi detti "logici" solo se, diciamo, "graditi" al giudizio dell'Osservatore che, come si capisce, è la chiave di comprensione ed auto-spiegazione dell'Universo!  
;)(il resto.....mancia) :)

Nota (1) Gli aggettivi "possibile" e "facile" dicono che la "Conoscenza" dell'Osservatore è estesissima ma "flaccida", per esempio: so bene quanto fa più due più due ma non garantisco che tale perfetta puntuale conoscenza la sappia sempre e senza errori applicare anche su eventi banali, questa è la flaccidità di cui dico.
#6
Tematiche Filosofiche / Dove c'è l'IO c'è Dio
10 Settembre 2017, 12:34:32 PM
Per comprendere il significato di questa particolare credenza e della sua fondatezza o meno potremmo richiamarci a molte riflessioni scientifico-matematiche, qui sceglieremo quella suggerita dal computer ideale immaginato da Turing (niente a che vedere con la famosa macchina che decriptava le comunicazioni militari tedesche nella seconda guerra mondiale). Ci riferiamo, invece, al suo astratto computer ideale pensato, sempre idealmente,per teorizzare e gestire,almeno in via di principio, calcoli aritmetici di qualunque complessità mediante sistemi combinati di computer elementari di quel tipo; accenneremo al funzionamento di questo computer elementare ideale evidenziandone i dettagli per questa discussione:

a)E' una scatola-computer capace di contenere ed interpretare dati di input grazie ad un programma di calcolo che l'Osservatore vi ha inserito, programma applicabile a sequenze di dati in entrata nel computer mediante un nastro di lunghezza infinita che la stessa scatola computer muove, in avanti e indietro a scatti in funzione sia dei dati stessi che del programma pensato ed inserito dall'Osservatore. I dati in sequenza del nastro, che transitano nella scatola, verrebbero così trasformati in nuove sequenze destinate all'uscita dalla scatola stessa e registrate sul nastro.
b)I dati in uscita consistono di sequenze che tenderebbero a quella risolutiva del problema e attesa dell'Osservatore.
c)Il nastro dei dati si muove, in avanti e/o indietro, per scatti interi, secondo le esigenze del programma ed in funzione di quanto si svolge nella scatola-computer, il tutto per le necessità del calcolo imposte dal programma dell'Osservatore.
d)Una volta terminato il calcolo, il nastro si arresterebbe secondo il programma, segnalando così all'Osservatore la disponibilità della soluzione rappresentata dall'ultima sequenza, quella risolutiva.  

        L'arresto del computer ideale di Turing è, dunque, il segnale conclusivo del programma di calcolo atteso dall'Osservatore che ha pensato e realizzato il programma che, appunto, dovrebbe fermarsi solo quando sono soddisfatte le condizioni di soluzione volute, programmate e trasferite sul nastro.

        Con l'ateso arresto del computer e del suo nastro, cessa la descrizione tecnica del computer ideale di Turing, ma ora è da analizzare il conseguente importante approccio dell'Osservatore cioè di chi ha voluto e gestito un qualcosa del Suo universo come questo computer attendendo un risultato conoscitivo.
        Nel significato ordinario del termine si pensa all'Osservatore come ad un tale che guarda, pensa ed agisce su qualcosa, quindi, un intelligenza che agisce nel Suo ed unico universo, ma è anche molto di più: è proprio l'Universo stesso che si auto-osserva. Supponiamo che l'Osservatore abbia avviato e sia in attesa dell'arresto del computer di Turing da lui programmato ed avviato. Si può verificare il caso fortunato che dopo pochi scatti il computer si arresti e contenga l'attesa soluzione del calcolo programmato. Ma, escludendo il caso di errori verificabili e riparabili, può verificarsi anche che il computer non si arresti o tardi ancora a lungo a farlo, cosa fare? Qui è il problema: come può, l'Osservatore capire se trattasi di ritardo nel completamento del ciclo risolutivo o che la voluta soluzione non ci sia? Non dimentichiamo, infatti, che il teorema di incompletezza di Gödel non assicura l'esistenza di una soluzione per ogni problema matematico. L'Osservatore può ricorrere all'arresto forzato della macchina perché potrebbe essere almeno utile  per escludere eventuali errori di programma o guasti della macchia stessa onde ripararli e riavviare il calcolo; in mancanza di arresto dovrà comunque decidere se attendere ancor a lungo l'arresto risolutivo o lasciar perdere tutto.

Così si evidenzia che la "macchina computer" o intelligenza artificiale è incompleta perché non garantisce tutte le soluzioni in tempi finiti, ciò ripete e concorda col teorema di incompletezza di Gödel. La incompletezza della macchina ha una travolgente importanza filosofica che ci lancia fuori dalla stupidissima idea che l'intelligenza artificiale possa prevalere su quella dell'IO cosciente (ovvero: l'Osservatore), ma soprattutto ci dice che l'Osservatore e la vera ed unica macchina intelligente e conclusiva dell'Universo, anzi, se ci si sforza a pensare, l'Osservatore è proprio l'Universo in sé e, se ci si sforza a pensare ancora meglio, è molto di più! A questo punto, però, e giusto che si lasci la palla di questa riflessione proprio a chi si sente di pensarci.
#7
COME VA LETTA E  CONCEPITA LA PAROLA DI DIO?

           Al titolo aggiungeremmo anche: "chi ha scritto la parola di Dio..." dandone particolare rilievo in questa riflessione e facendone, anzi, il tema principale, perché la  Parola "di Dio", ritenuta già da tempo scritta, continua, invece, ad essere tuttora in lenta elaborazione e ancora sotto scrittura da mani umane ancorché sotto ispirazione più o meno divina; sta proprio in questa ispirazione una delle chiavi importanti da sottolineare, per quanto possibile, in questo non semplice argomento.
        Innanzi tutto diciamo che chi deve "leggere, comprendere e concepire la Parola di Dio " è, come per ogni altra cosa dell'universo, l'"Osservatore", anzi, l'Osservatore universale unico ovvero l'IO cosciente. Per capirci: l'Osservatore non è questo o quel tale, così come è inteso dal senso comune, ma, diciamo, una rappresentazione concettuale di una specie di mente o coscienza media di tutte le menti dell'universo; si può anche dire, per esempio, che il legislatore non è chi materialmente scrive le leggi di uno stato, bensì la rappresentazione di un parlamento che le elabora politicamente; mentre un comune "io", qui scritto in minuscolo, è il funzionario incaricato di redigerle sulla gazzetta ufficiale.
        Qui sosterremo che la Parola di Dio è materialmente scritta da mano umana ma, è bene ribadirlo, soprattutto scritta grazie alla fusione o gli scontri complessi di menti, idee, coscienze e di tante manipolazioni umane, il tutto generando un flusso super complesso e assolutamente impersonale di idee e di fatti che scorre come un fiume disordinato o turbolento con tutte le relative influenze, anzi, auto-influenze, che operano nell'ambito del fluido medesimo ed in funzione delle situazioni ambientali, locali e temporali autodeterminantesi in esso. Questo fluido evidenzia, in qualche modo, la natura nella sua estrema complessità. Il dettagliare analiticamente questo flusso è difficile per la presenza dell'Osservatore che ne è immerso in tutto e per tutto essendone auto-integrante. Questo è proprio lo stesso problema che incontrò la fisica quantistica ai primi del '900, con quei suoi aspetti apparsi subito strani o contraddittori e, almeno all'inizio, inspiegabilmente legati all'Osservatore che, secondo la posizione "classica" della fisica di allora, avrebbe dovuto essere semplicemente la persona fisica dello sperimentatore, che, si badi bene, mai sarebbe considerato parte integrante dell'evento scientifico in sé stesso!
        Ma, allora, cosa può fare l'Osservatore per captare ed esporre la parola di Dio barcamenandosi nella turbolenza della storia delle idee, con le connesse esigenze della ragione, per tentare di autodefinire, fidando nell'adattabilità di un linguaggio che fosse accettabilmente concreto, il senso profondo della parola di Dio? E' qui il problema.
        Un'idea di questo problema, cioè la risposta alla domanda "chi ha scritto la parola di Dio", la cerchiamo nel fatto che essa non è semplicemente "stata scritta" ma è da sempre in corso di elaborazione, di critica, di riflessione e, quindi, di scrittura, ad opera non solo di specialisti coscienti di farlo, ma di tutti: credenti, miscredenti, asceti, promotori, avversatori, negazionisti, scettici, non importa di quale religione, se mai ne avessero avuto o ne abbiano avuto una, e, ancora,  apatici di qualsiasi ideologia o gruppo che mai si sarebbe pensato esservi compartecipi attivi della scrittura sacra. Un esempio concreto di questo "continuare a scrivere la Parola" ce la dà, molto semplicemente, la mera omelia di un sacerdote che, con la sua personale interpretazione di quanto già è scritto e inteso come "Parola di Dio", vi lascia pur sempre una sua traccia, il tempo e la storia faranno il resto.
        Concluderemmo, se così ci è lecito dire, che è l'IO, cioè l'Osservatore universale, che, meditando e studiando, seppure nei limiti spesso minimi e controversi delle sue disponibilità intellettuali e materiali ed altro (essendo l'Osservatore una sintesi del mondo di osservatori), contribuisce  a dar senso alla Parola di Dio già scritta o ancora da scrivere. Ma non sarà proprio l'IO l'obiettivo, la "singolarità"  universale, portata a termine dal Cristo, il Figlio dell'Uomo?


        ::)  
#8
IL RUOLO DOMINANTE E DECISIVO  DELL'OSSERVATORE NELL'UNIVERSO
Chi è l'Osservatore e chi, invece, l'osservatore (quest'ultimo nel senso comunemente inteso del termine)?
            Mentre l'osservatore, ovvero proprio ciò che comunemente s'intente con questo termine, è semplicemente colui o colei che osserva, discute, manipola, pensa, in una parola, osserva in senso pratico e quotidiano le molteplici evoluzioni delle cose del mondo, la notazione di Osservatore, invece, vuole alludere ad un'entità più astratta intesa come una specialissima sintesi dell'insieme di ciò che comunemente s'intende col termine al plurale di osservatori (cioè l'insieme degli oggetti comunemente noti, appunto, come tali e facenti inevitabilmente parte dell'universo). Con una metafora aritmetica si direbbe che: "l'Osservatore sta all'osservatore come il Legislatore sta al gruppo di funzionari addetto a redigere i testi delle leggi decise da un organo legislativo ufficiale". Da questo tentativo metaforico di definizione deriva, prima di ogni altra cosa, l'unicità dell'Osservatore col e nel suo Universo, inteso, questo, in tutta la sua complessità, totalità e, appunto, unicità, talché il solo ipotizzare la possibilità, non dico di un altro universo, ma di qualsiasi cosa ideale o reale che non sia inclusa nell'unico Universo,è semplicemente una banale contradizione logica anche perché il fatto stesso che l'Osservatore accenni o pensi ad una tale possibilità subito include, quanto pensato o immaginato, nell'unico Suo Universo facendone un oggetto di questo, non importa se classificabile come immaginario, reale oppure semplice errore.
            Per quanto detto, l'Osservatore è necessariamente ente interno del Suo universo e non esterno, come si è indotti a pensare per ovvie motivazioni pratiche, infatti è più facile per l'Osservatore supporre di poter gestire (osservare) un sistema standone al di fuori, cioè senza coinvolgersi nelle involuzioni del sistema che osserva e che proprio l'osservazione (intesa, in senso lato, come azione attiva su qualcosa)modifica. Se si fa attenzione al senso fondamentale di ciò che stiamo dicendo, l'Osservatore non solo è parte, ma, è proprio l'Universo stesso e non lo si potrebbe pensare diversamente.
Quando dice "sistema" l'Osservatore allude automaticamente ad una qualche struttura logicamente intrecciata di "sentiti" percepiti ovvero "principi", questi, intesi come anelli di catene logiche di cause ed effetti. Se si pensa al sistema Universo, i sentiti non sono che i normali principi di base o di riferimento scelti in modo che la logica del sistema sia soddisfacente per l'Osservatore, giudice unico del suo universo ancorché consapevole della debolezza della sua Conoscenza, cioè del suo dominio sull'Universo. Qui si potrebbe addurre la facile obiezione classica che bandisce tassativamente, nel parlar di cose con qualche riguardo scientifico, concetti non matematizzabili come soddisfazione, gradimento, bellezza, semplicità, facilità e così via. Ciò poteva valere prima dei tempi –non remoti- di Planck, W. Pauli, di W. Heisenberg ed altri notevoli geni del primo ventennio del '900, cioè dell'avvento e lo sviluppo storico del "quantum" energetico; oggi bisognerebbe fare attenzione su questo punto per evitare gaffe prima impensabili. Per convincersi di questo problema bisogna soprattutto abituarsi ad accettare l'inevitabile centralità ed onnipresenza dell'Osservatore in ogni passo della vita dell'Universo, il ché implica il ripensamento della storica e sacrale certezza attribuita alla "prova sperimentale", detta pure "prova oggettiva" quale conferma estrema della verità di qualsivoglia affermazione.
Chi potrebbe mettere in discussione tale prova? Ebbene, la sua validità sussiste solo se convince appieno l'Osservatore, ma è limitata alla durata ed alla forza di questo convincimento (si noti, per inciso, l'uso, appena fatto, di termini come durata e forza, che sono i sentiti difficilmente definibili in senso generale e che perciò indebolirebbero le certezze formali di cui discutiamo). L'Osservatore è, dunque, consapevole delle complesse difficoltà che minano il suo già flaccido "dominio" (= Conoscenza) dell'Universo, parimenti  parziale e flaccida.Una prova, quale che sia, è tale solo dopo il convincimento dell'Osservatore universale.
A proposito del termine "flaccidità" valga questa metafora: immaginiamo un non vedente che stringa in una mano un grosso fascio di guinzagli di lunghezza da pochi centimetri a diversi chilometri, ciascuno con un cagnetto all'estremità; questi guinzagli sanciscono sicuramente l'assoluta titolarità formale del tale sui suoi cani ma pure sanciscono la incertezza del suo dominio o potere su di essi: l'incertezza ordinaria ma continua del controllo a distanza mediante guinzagli è aggravata dalla flaccidità, cioè della discontinuità del controllo stesso che s'interrompe quando i guinzagli non sono percepiti in tensione. Va meglio per il dominio sui pochi cani con brevissimo guinzaglio. La metafora simulerebbe, senza pretese di rigore, soprattutto l'idea della struttura Universo-Osservatore-Universo. Da precisare che nella metafora, la parte osservabile dell'Universo, va dal corpo del proprietario dei cani fino ai cani stessi, tramite il braccio, lo spazio, i guinzagli e i cani stessi, il tutto, però è completato e consacrato dalla mente cosciente, cioè dalla singolarità dell'IO (l'Osservatore universale unico) che è anche il centro di riferimento assoluto del sistema ma è anche l'altra faccia della moneta Universo. La flaccidità, o conoscenza debole e discontinua dell'Osservatore, potrebbe essere anche misurata dall'inverso della lunghezza media dei guinzagli, ma ciò lo diciamo qui  ai soli fini esplicativi del concetto di "Conoscenza" (ovvero: capacità di dominio dell'Osservatore), argomento su cui insistiamo.
Il problema fondamentale della lamentata debolezza complessiva dell'Universo, quindi, dell'Osservatore universale, appare evidente proprio nel linguaggio usato in questa riflessione: nessuna parola usata, infatti, risulta rigorosamente definita nei suoi significati precisi né prima né dopo l'uso stesso, ma se pure avessimo voluto farlo, a quali altri termini avremmo dovuto e potuto ricorrere se non abbondantemente agli stessi già qui usati e ad altri della stessa natura? Però qualcuno potrebbe innocentemente rispondere: "alla matematica!", altri, con maggior riflessione, farebbero invece riferimento ai più vaghi contesti circostanziali in cui le stesse parole sono state o potrebbero esserlo, anche rimescolandole con altre, in nuovi contesti di difficoltà pratiche e teoriche. Se prendessimo per buona la prima risposta, "la matematica", dichiareremmo solo di non aver approfondito l'analisi di cosa sia il linguaggio matematico, infatti, pur senza entrare nei dettagli delle sue definizioni, che pure mostrerebbero qualche punto deboluccio: definizioni e teoremi si avvalgono di termini, idee e concetti non esprimibili solo con termini rigorosamente matematici ma, anche dagli stessi termini usati in queste riflessioni (non rigorose) e in altre argomentazioni simili.
Una conclusione importante di questa parte della riflessione ci porta direttamente alla questione centrale del come considerare abbastanza correttamente il sistema, anzi, l'auto-sistema universale unico "IO-Universo". Sistema la cui caratteristica essenziale sta nell'auto-referenza e nell'autocoscienza globali, il tutto incentrato sulla singolarità di riferimento universale assoluto che è l'Osservatore universale cioè sull'IO, unico responsabile e giudice assoluto delle scelte del suo agire (osservare). Va qui evidenziato che l'Osservatore giudica "vera" qualsiasi cosa che giudica logicamente coerente col Suo sistema.  L'Osservatore è bensì cosciente della debolezza del suo potere conoscitivo sicché rimane disponibile per possibili revisioni del Suo giudizio, revisioni che potrebbero riguardare , si, una precedente accettazione, ripudiandola o adattandola mediante variazioni opportune, ma anche adattando il sistema (universo) sicché possa ospitare quell'oggetto logico che vorrebbe "vero". Insomma l'Osservatore vuole un Universo il più possibile di suo gradimento. Forse ciò è una risposta alla meraviglia di Einstein e di altri, per la inspiegabile ottima coerenza della matematica con moltissimi fatti naturali.
La centralità dell'Osservatore si evidenzia concretamente nel quadro scientifico e matematico, e non solo, se consideriamo almeno che sono sue decisioni o scelte:
·        La scelta e la decisione dell'azione e/o della ricerca in rapporto agli scopi voluti dall'Osservatore stesso
·        La definizione di una teoria dimostrativa che dovrebbe fornire dati o segni che sono, a priori, giudicati idonei perché l'Osservatore possa stabilire il grado di successo della sua teoria, ovvero della prova sperimentale, tenuto conto dei mezzi operativi disponibili
·        Il giudizio conclusivo sul grado di soddisfazione conseguito dall'Osservatore grazie all'esito della procedura sperimentale attuata e dell'efficacia dimostrativa effettiva dei fatti e dei segni che sono derivati dal ciclo sperimentale.
Bastano queste poche note per capire che anche le così dette "scienze esatte" sono tali solo se così vengono sentite ovvero percepite dal giudice assoluto ed autocritico che è l'Osservatore. E' chiaro che il valore positivo o gradimento dell'Osservatore deriva dal grado di soddisfazione delle prove stabilite e valutate sempre dall'Osservatore medesimo. L'autoreferenza circolare dell'Universo è evidente.
Va notato che il termine di "sentito", qui spesso usato, è cruciale per queste considerazioni; lo è per il fatto che, pur percezione intima e generalmente indefinibile ed indiscussa, proprio per questo il sentito viene accettato come principio o riferimento base per l'Osservatore e l'osservazione. I sentiti, quando sembrano non collegati l'un l'altro, possono essere assunti come principi di riferimento, sono convincenti agganci in tutti gli ambiti logici compreso il linguaggio matematico; basti, in proposito, menzionare la definizione di "retta" negli "Elementi" di Euclide dove si legge, pressappoco, che la linea retta è definita tale se permane immutata (all'Osservatore) quando viene ruotata su se stessa, più tardi si sono cercati criteri più rigorosi per questa parte della definizione. Si capisce, comunque, che forse sarebbe valso dire che il concetto di "retta" è semplicemente un sentito e così accettato come credibile dall'Osservatore e senza tema di contro-osservazioni.
Va, per inciso notato, lasciando tuttavia a chi legge le sue interpretazioni e le sue riflessioni, che un "sentito è pure quello di "spiritualità".
Abbiamo qui pensato l'Osservatore come l'Universo nella sua totalità ma anche come l'osservatore di Sé stesso, oppure come centro nonché sistema di riferimento assoluto che compendia e, nello stesso tempo, inquadra la struttura logica quale è, appunto, l'Universo. Potremmo dilungarci in un mare, sempre incompleto, di definizioni, ciò però rafforza la convinzione che questo mostro di autoreferenzialità, quale è l'Osservatore, cioè l'IO cioè l'Universo,non può essere definito, ma come potrebbe esserlo rigorosamente se una eventuale definizione è pur essa un oggetto facente parte dell'universo? Per uscire questo difficile impasse ecco che l'Osservatore conclude definendo l'Universo un sentito di Sé stesso, sulla base o riferimento del quale tutti gli altri tanti sentiti trovano sostegno, riferimento e giustificazione. Con questa conclusione abbiamo conferito autorevolezza all'Osservatore ma così lo abbiamo anche messo in difficoltà peggiori di quanto qui potremmo pensare. Penso immediatamente alla instabilità dell'importantissimo riferimento che è il linguaggio e segnatamente il linguaggio matematico, un emblema ideale di stabilità. L'instabilità di questo particolarissimo sistema sta nel suo essere ancorato nell'interno del sistema Universo che si modifica anche in conseguenza del linguaggio stesso, quasi come una barchetta in mare che cambia, spesso in modo incontrollabile, il suo assetto in conseguenza dei movimenti di chi, in piedi sul di essa,  cerca di guidarla verso una precisa direzione. Questo fatto fu vissuto, forse senza una precisa consapevolezza di operare in questa sorta di difficoltà, proprio da Einstein alle prese con la Relatività generale. Questo problema fu brillantemente risolto grazie, fra l'altro, alla valorizzazione del concetto di tensore. Einstein era però consapevole di operare (osservare) dal di dentro il sistema in osservazione, non dall'esterno come avveniva ed avviene secondo i canoni della fisica classica, forse qui stanno buona parte delle radici del successo delle idee di Einstein. Il tensore, lo preciso brevemente per chi non avesse nessunissima conoscenza del lavoro di Einstein, è una specie di vettore-guida che contiene in sé le informazioni necessarie per dirigere un corpo in movimento nello spazio-tempo determinandone la traiettoria di fatto. Il tensore è, dunque, un guidatore automatico di un automezzo, che percorre uno spazio aperto, senza strade tracciate, decidendo, punto per punto, l'evoluzione della traiettoria effettiva, in base ad elaborazioni delle situazioni puntuali del percorso di massima, obiettivo voluto dall'Osservatore, e secondo le informazioni che il tensore ha in sé.   
Va notato un fatto importante: l'Osservatore decide sia gli obiettivi del percorso, sia il contenuto del tensore, il tutto tenendo conto degli obbiettivi fissati. Si noti come il cerchio si chiude (sperabilmente bene) secondo il giudizio conclusivo dell'Osservatore. Questa conclusione è riassunta in questa equazione paradigmatica:
                         Rab- (1/2)Rgab = -8πGTab'.
Per semplice curiosità, In questa equazione T è il simbolo del tensore.
Qualsiasi giovane studente di fisica ben presto capisce che questa equazione è poco adatta ad un'applicazione di calcolo diretto, perché è solo una sintesi rappresentativa, seppure elegante, del complesso filo logico della relatività a cui lo studioso applicativo deve ispirarsi per poi fissare i limiti e i dettagli da studiare, sulla base dei quali scrivere poi le equazioni effettive per il calcolo applicativo.

:)  
#9
:)
COSA DOVREMMO INTENDERE CON
"REGNO DI DIO"?

Nei Vangeli Gesù promette ed invita ad attendere l'imminente avvento del "Regno di Dio"; non vi aggiunge molto di più, proprio come avviene quando un evento è molto atteso e, quindi, di condivisa necessità e di sufficiente chiarezza. Possiamo abbastanza facilmente arguire che il Cristo dei vangeli alludesse all'incombente presenza del peccato originale" sull'Umanità, con tutto il peso della irreversibilità entropica della condanna divina, ovvero della perdita assoluta della speranza di riuscire ad approssimare almeno la direzione della "Conoscenza Assoluta" cioè Dio, cioè l'eterna sussistenza in Me dell'IO cosciente. La locuzione "Conoscenza Assoluta" qui è usata per approssimare il significato del termine "Dio", con cui, ma con gravissima inappropriatezza di linguaggio, è da sempre usato in senso oggettivo, come ci induce a fare la consueta cultura dell'oggettivazione di tanti concetti. Ma l'entità divina  non è trasportabile fuori dall'IOcoscienteproprioper l'inoggettività sia del concetto di divinità sia di quello di IO cosciente". A questo riguardo va notato come il linguaggio degli stessi Vangeli porti ad oggettivare, materializzandola, la natura del Cristo per avvicinare l'umanità povera e bisognosa di amore e aiuto. Ma veniamo al concetto di "Regno di Dio", a cosa alludono esattamente i Vangeli? Potrem-mo pensare, come minimo, ad un mondo quale sarebbe dopo la cancellazione del peccato originale o, almeno, nel carattere dell'irreversibilità di questo e delle sue temute conseguenze. Ciò, penso, definirebbe in qualche modo il Regno; ma si potrebbe anche aggiungere che il Regno inizi con la morte e la resurrezione del Cristo. Tutto questo appare ragionevole, ma bisogna fare sempre attenzione al rischio di oggettivare l'inoggettivabile il che, alla lunga, porta (e, nei fatti, ha da sempre portato) all'ateismo banale e, spessissimo,
palesemente stupido. Come evitare questo? Ricorrendo all'auto-analisi dell'IO cosciente concepito come baricentro dell'Universo, in modo da puntare ogni attenzione verso la singolarità della propria autocoscienza, in altre parole, verso l'universalità,  l'unicità e la responsabilità universale dell'IO. Ciò dovrebbe essere colto come il senso profondo della preghiera. Un bel dire!..  Ma basterebbe forse a far sperare di riuscire a cogliere qualcosa del senso profondo e della complessità dell'argomento di questa discussione ed anche questo è un bel dire! Un interessantissimo libro che allude a queste argomentazioni, anzi, le include, penso a: "La grande domanda" di McGrath, edito nel 2016. :)  
#10
DOMANDA DELLO SPIRITO
(MA QUANTO DISTA DA ME LA CONOSCENZA ASSOLUTA?)l


Quasi tutte problematiche teologiche che comportano lo studio delle Sacre Scritture, con riguardo allo specifico mondo della cristianità, paiono poggiare su pochissimi semplici passi dei Vangeli canonici. L'evidenziazione del pronome ME (nel sottotitolo di questa riflessione) per puntualizzare che il destinatario di questa riflessione è l'IO cosciente nella sua unicità e universalità, in breve, nella auto-coscienza che si vorrebbe capace di percepire l'onere della responsabilità totale del Mio(=dell'IO) Universo nonostante la chiara e perseverante sensazione di desolante debolezza (in termini di Conoscenza cioè, di capacità di dominio sull'Universo stesso il quale, poi si richiude sullo stesso IO). Si, perché il termine Conoscenza qui trascende il solito comune significato di insieme di informazioni acquisite ed organizzate ad uso dei Miei (o dei miei) archivi mentali e d'altro genere ma assume quello di sentito (leggasi percezione) di  dominio effettivo sul Mio (dell'IO) Universo, sentito al netto dell'altrettanto sentito di flaccidità (o debolezza) che marchiano tale dominio.
Veniamo ora al sottotitolo di questa riflessione "Ma quanto dista da ME la Conoscenza assoluta?" Abbiamo appena sopra accennato al fatto che il concetto  di Conoscenza è, al netto di tutta la discussione filosofica che ne giustificherebbe la conclusione la capacità, cioè, non importa in quale misura, di dominio che l'Osservatore può vantare sul Suo Universo.

L'avvento del Cristianesimo lo datiamo dalla divulgazione dei vangeli che puntano direttamente sul valore fondamentale del sentimento di carità verso il debole. Tale supremo valore ci, anzi, Mi, induce a rispondermi all'auto-domanda di questa riflessione: "Ma quanto dista da Me...", è, allora, sufficiente semplicemente pensare, per esempio, alla parabola de "Il buon samaritano" e chiedermi, se mi sentirei capace di ripetere quell'atto di carità; dovrei però tener conto che oggi dispongo di un auto e che non sarei costretto a girare in strade così pericolose, ma allora, forse, risponderei di si, (ma solo per portare il ferito al primo ospedale pubblico senza spese, o quasi, a mio carico e lì lasciarlo e andarmene). Senza disturbare quel noto personaggio evangelico, potrei sostituire la domanda con l'altra, quella se mi sentirei analogamente disponibile a sostituirmi a Teresa di Calcutta quando si dedicava in toto al soccorso di quei tanti ultra derelitti sparpagliati sui marciapiedi di quella città. Orbene –ma basterebbe molto meno- capisco subito che la "distanza" che mi separa dalla Conoscenza assoluta potrei ben misurarmela da  me.
#11
:)
DOMANDA DELLO SPIRITO
(MA QUANTO DISTA DA ME LA CONOSCENZA ASSOLUTA?)l


Quasi tutte problematiche teologiche che comportano lo studio delle Sacre Scritture, con riguardo allo specifico mondo della cristianità, paiono poggiare su pochissimi semplici passi dei Vangeli canonici, passi qui riportati con qualche breve commento. La sottolinetura del pronome ME nel sottotitolo sta  per sottolineare che il destinatario di questa riflessione è l'IO cosciente nella sua unicità e universalità, in breve, nella coscienza che si sente capace di percepire l'onere che è la responsabilità totale del Mio Universo nonostante una chiara sensazione di desolante debolezza (in termini di Conoscenza). Si, perché il termine Conoscenza qui trascende il solito comune significato di insieme di informazioni acquisite ed organizzate ad uso dei Miei archivi mentali e d'altro genere, per assumere quello di sentito (= percezione) di potenza o, se si preferisce, di dominio effettivo sul Mio Universo, al netto dell'altrettanto sentito di flaccidità (o debolezza) di tale dominio.
Veniamo ora al sottotitolo di questa riflessione "Ma quanto dista da ME la Conoscenza assoluta?" Abbiamo, appena sopra, accennato al fatto che Conoscenza è, al netto di tutta la discussione filosofica che giustificherebbe questa conclusione, la capacità, non importa in quale misura, di dominio che l'Osservatore ha sul Suo Universo. L'avvento del Cristianesimo, che qui riteniamo  datare dalla pubblicazione dei vangeli ("pubblicazione", termine da non prendere alla lettera come la pubblicazione di un libro di oggi) nei quali si sottolinea la cultura del sentimento caritatevole nei confronti del più debole. Per rispondere all'auto-domanda: "Ma quanto dista da Me..." è sufficiente il semplice caso della parabola: "Il buon samaritano", orbene sarei capace, io personalmente, di ripetere quell'atto di carità in toto, tenendo conto che oggi dispongo di un auto che non gira in ambienti non sicuri? Forse si, ma solo per portare il ferito al primo ospedale pubblico senza spese, o quasi, a mio carico. A questa domanda ho già tenuta per me la mia risposta. Ma, pure senza disturbare il personaggio evangelico, mi sentirei disponibile a sostituire Madre Teresa di Calcutta in qualcuna delle sue opere di carità. Orbene la "distanza" dalla Conoscenza assoluta posso misurarmela da me.
#12
COME VA LETTA E  CONCEPITA LA PAROLA DI DIO?

Al titolo aggiungeremmo anche: "chi ha scritto la parola di Dio..." dandone particolare rilievo in questa riflessione e facendone, anzi, il tema principale, perché la  Parola  "di Dio", ritenuta già da tempo scritta, continua, invece, ad essere tuttora in lenta elaborazione e ancora sotto scrittura da mani umane ancorché sotto ispirazione più o meno divina; sta proprio in questa ispirazione una delle chiavi importanti da sottolineare, per quanto possibile, in questo non semplice argomento. 
Innanzi tutto diciamo che chi deve "leggere, comprendere e concepire la Parola di Dio " è, come per ogni altra cosa dell'universo, l'"Osservatore", anzi, l'Osservatore universale unico ovvero l'IO cosciente. Per capirci: l'Osservatore non è questo o quel tale, così come è inteso dal senso comune, ma, diciamo, una rappresentazione concettuale di una specie di mente o coscienza media di tutte le menti dell'universo; si può anche dire, per esempio, che il legislatore non è chi materialmente scrive le leggi di uno stato, bensì la rappresentazione di un parlamento che le elabora politicamente; mentre un comune "io", qui scritto in minuscolo, è il funzionario incaricato di redigerle sulla gazzetta ufficiale.
Qui sosterremo che la Parola di Dio è materialmente scritta da mano umana ma, è bene ribadirlo, soprattutto scritta grazie alla fusione complessa di menti, coscienze e delle tante mani umane, il tutto in un flusso super complesso e assolutamente impersonale di idee e di fatti che scorre come un fiume disordinato e turbolento con tutte le relative influenze, anzi, auto-influenze che operano nell'ambito del fluido medesimo ed in funzione delle situazioni ambientali e temporali autodeterminatesi. Questo fluido evidenzia, in qualche modo, la natura nella sua estrema complessità. Il dettagliare analiticamentei questo flusso è reso difficile dalla presenza dell'Osservatore che ne è immerso in tutto e per tutto essendone parte integrante, anzi, auto-integrante. Questo è proprio lo stesso problema che incontrò la fisica quantistica ai primi del '900, con i suoi aspetti apparsi subito strani e contraddittori e, almeno all'inizio, inspiegabilmente legati all'Osservatore che, secondo la posizione di allora, era semplicemente la persona fisica dello sperimentatore, che mai sarebbe stato preso in considerazione come parte integrante del fatto scientifico in sé stesso!
Ma, allora, cosa può fare l'Osservatore per captare ed esporre la parola di Dio barcamenandosi nella turbolenza della storia delle idee, con le connesse esigenze della ragione, per tentare di autodefinire, fidando nell'adattabilità di un linguaggio che fosse accettabilmente concreto, il senso profondo della parola di Dio? E' qui il problema. 
Un'idea di questo problema, cioè la risposta alla domanda "chi ha scritto la parola di Dio", la cerchiamo nel fatto che essa non è semplicemente "stata scritta" ma è da sempre in corso di elaborazione, di critica, di riflessione e, quindi, di scrittura, ad opera non solo di specialisti coscienti di farlo, ma di tutti: credenti, miscredenti, asceti, promotori, avversatori, negazionisti, scettici non importa di quali religioni, quando e se ne avessero una, apatici di qualsiasi ideologia o gruppo che mai penserebbero di essere compartecipi attivi della scrittura sacra. Un esempio concreto di questo "continuare a scrivere la Parola" ce la dà, molto semplicemente, la mera omelia di un sacerdote che, con la sua personale interpretazione di quanto già è scritto e inteso come "Parola di Dio", vi lascia pur sempre una sua traccia, il tempo e la storia fanno il resto.
Concluderemmo, se così ci è lecito dire, che è l'IO, cioè l'Osservatore universale, che, meditando e studiando, seppure nei limiti spesso minimi e controversi delle sue disponibilità intellettuali e materiali ed altro (essendo l'Osservatore una sintesi del mondo di osservatori), contribuisce  a dar senso alla Parola di Dio già scritta o ancora da scrivere. ::)
#13
IL RUOLO DOMINANTE E DECISIVO  DELL'OSSERVATORE NELL'UNIVERSO
Chi è l'Osservatore e chi, invece, l'osservatore (quest'ultimo nel senso comunemente inteso del termine)?
            Mentre l'osservatore, quello comunemente inteso con questo termine, è semplicemente colui o colei che osserva, discute, manipola, pensa, in una parola, osserva in senso pratico e quotidiano le molteplici evoluzioni delle cose del mondo, la notazione di Osservatore, invece, allude a un'entità più astratta intesa come una specialissima sintesi dell'insieme di ciò che comunemente s'intende col termine al plurale di osservatori (cioè l'insieme degli oggetti comunemente noti, appunto, come tali e facenti inevitabilmente parte dell'universo). Con una metafora aritmetica si potrebbe dire che: "l'Osservatore sta all'osservatore come il Legislatoresta al gruppo di funzionari addetto a redigere i testi delle leggi dopo che queste vengono decise da un organo legislativo ufficiale". Da questo tentativo metaforico di definizione deriva, prima di ogni altra cosa, l'unicità dell'Osservatore col e nel suo Universo inteso, quest'ultimo, in tutta la sua complessità, totalità ed, appunto, unicità, talché il solo ipotizzare alla possibilità, non dico di un altro universo, ma di qualsiasi cosa ideale o reale che non sia inclusa nell'unico Universo,è semplicemente un banale errore logico anche perché il fatto stesso che l'Osservatore accenni o pensi ad una tale possibilità subito include quanto pensato o immaginato nell'unico Suo Universo facendone un oggetto di questo, non importa se classificabile come immaginario oppure semplice errore.
            Per quanto detto, l'Osservatore è necessariamente ente internodel Suo universo e non esterno, come si è indotti a pensare per comode motivazioni pratiche, infatti è più facile per l'Osservatore supporre di poter gestire un sistema standone il più possibile al di fuori, cioè senza coinvolgersi nei mutamenti e nelle involuzioni del sistema che osserva e che proprio l'osservazione (intesa, in senso lato, come azione attiva su qualcosa)modifica. Se si fa attenzione al senso fondamentale di ciò che stiamo dicendo, l'Osservatore non solo è parte, ma, è proprio l'Universo stesso e non si potrebbe pensarlo diversamente.
Quando dice "sistema" l'Osservatore allude automaticamente ad una qualche struttura logicamente intrecciata di "sentiti" percepiti, questi, come catene logiche di cause ed effetti. Se si pensa al sistema Universo, i sentiti non sono che i normali principi di base o di riferimento scelti in modo che la logica del sistema sia giudicata soddisfacente dall'Osservatore, giudice unico del suo universo ancorché consapevole della debolezza della sua Conoscenza, cioè del suo dominio sull'Universo. Qui qualcuno potrebbe addurre la facile obiezione classica che bandisce tassativamente, nel parlar di cose con qualche riguardo scientifico, concetti come soddisfazione, gradimento, bellezza, semplicità, facilità e così via. Ciò poteva valere prima dei tempi –non certo remoti- di Planck, W. Pauli, di W. Heisenberg ed altri notevoli geni del primo ventennio del '900, cioè dell'avvento del "quantum" energetico; oggi bisognerebbe fare attenzione su questo punto per evitare gaffe prima impensabili. Per convincersi di questo problema bisogna soprattutto abituarsi ad accettare l'inevitabile centralità ed onnipresenza dell'Osservatore in ogni passo della vita dell'Universo, il ché implica il ripensamento della storica e sacrale certezza attribuita alla "prova sperimentale" quale conferma estrema della verità di qualsiasi affermazione.
Chi potrebbe metterla in discussione? La validità di questa prova sussiste solo se convince appieno l'Osservatore, ma è limitata alla durata ed alla forza di questo convincimento (si noti, per inciso, l'uso, appena fatto, di termini come durata e forza, che sono i sentiti difficilmente definibili in senso generale e che indeboliscono le certezze formali di cui discutiamo). L'Osservatore è, dunque, consapevole delle complesse difficoltà che minano il suo già flaccido "dominio" (= Conoscenza) sull'Universo, pur parziale e flaccido.
A proposito di ciò che qui intendiamo per flaccidità valga questa metafora: immaginiamo un tale che stringe in una mano un grosso fascio di guinzagli di lunghezza da pochi centimetri a diversi chilometri, ciascuno con un cagnetto all'estremità; questi guinzagli sanciscono sicuramente l'assoluta titolarità formale del tale sui suoi cani ma pure rappresentano la incertezza del suo dominio o potere su di essi: l'incertezza ordinaria ma continua del controllo a distanza è aggravata dalla flaccidità, cioè della discontinuità del controllo stesso quando i guinzagli non vengono percepiti in tensione. Va meglio per il dominio sui pochi cani con brevissimo guinzaglio. La metafora simulerebbe, senza pretese di rigore, soprattutto l'idea della struttura Universo-Osservatore-Universo. Da precisare che nella metafora, la per la parte osservabile dell'Universo, va dal corpo del proprietario dei cani fino ai cani stessi, tramite il braccio, lo spazio, i guinzagli e i cani stessi, che però è completata e consacrato dalla mente cosciente, cioè dalla singolarità dell'IO (l'Osservatore universale unico) che è anche il centro di riferimento assoluto del sistema ma è anche come l'altra faccia della moneta Universo. La flaccidità, o conoscenza debole e discontinua dell'Osservatore, potrebbe qui anche assimilabile all'inverso della lunghezza media dei guinzagli, purché si consideri ciò ai soli fini esplicativi del concetto di "Conoscenza" (ovvero: capacità di dominio dell'Osservatore), argomento su cui insistiamo.
Il problema fondamentale della lamentata debolezza complessiva dell'Universo, quindi, dell'Osservatore universale, appare evidente proprio nel linguaggio usato in questa riflessione: nessuna parola usata, infatti, risulta rigorosamente definita nei suoi significati precisi né prima né dopo il uso stesso, ma se pure avessimo voluto farlo, a quali altri termini avremmo dovuto e potuto ricorrere se non abbondantemente agli stessi già qui usati e ad altri della stessa natura? Qualcuno potrebbe innocentemente rispondere: "alla matematica!", altri, con maggior riflessione, farebbero invece riferimento ai più vaghi contesti circostanziali in cui le stesse parole sono state o potrebbero esserlo, anche rimescolandole con altre, in nuovi contesti di difficoltà pratiche e teoriche. Se prendessimo per buona la prima risposta, "la matematica", dichiareremmo solo di non aver approfondito l'analisi di cosa sia il linguaggio matematico, infatti, pur senza entrare nei dettagli delle sue definizioni, che pure mostrerebbero qualche punto deboluccio:. definizioni e teoremi, si avvalgono di termini, idee e concetti non esprimibili solo con termini rigorosamente matematici ma, anche degli stessi termini usati in queste riflessioni (non rigorose) e in altre argomentazioni simili.
Unaconclusione importante di questa parte della riflessione ci porta direttamente alla questione centrale del come considerare abbastanza correttamente il sistema, anzi, l'auto-sistema universale unico "IO-Universo". Sistema la cui caratteristica essenziale sta nell'auto-referenza e nell'autocoscienza globali, il tutto incentrato sulla singolarità di riferimento universale assoluto che è l'Osservatore universale cioè sull'IO, unico responsabile e giudice assoluto delle scelte del suo agire (osservare). Va qui evidenziato che l'Osservatore giudica "vera" qualsiasi cosa che giudica logicamente coerente col Suo sistema.  L'Osservatore è bensì cosciente della debolezza del suo potere conoscitivo sicché rimane disponibile per possibili revisioni del Suo giudizio, revisioni che potrebbero riguardare , si, una precedente accettazione, ripudiandola o adattandola mediante variazioni opportune, ma anche adattando il sistema (universo) sicché possa ospitare quell'oggetto logico che vorrebbe "vero". Insomma l'Osservatore vuole un Universo il più possibile di suo gradimento. Forse ciò è una risposta alla meraviglia di Einstein e di altri, per la inspiegabile ottima coerenza della matematica con moltissimi fatti naturali.
La centralità dell'Osservatore si evidenzia concretamente nel quadro scientifico e matematico, e non solo, se consideriamo almeno che sono sue decisioni o scelte:
·        La scelta e la decisione dell'azione e/o della ricerca in rapporto agli scopi voluti dall'Osservatore stesso
·        La definizione di una teoria dimostrativa che dovrebbe fornire dati o segni che sono, a priori, giudicati idonei perché l'Osservatore possa stabilire il grado di successo della sua teoria, ovvero della prova sperimentale, tenuto conto dei mezzi operativi disponibili
·        Il giudizio conclusivo sul grado di soddisfazione conseguito dall'Osservatore grazie all'esito della procedura sperimentale attuata e dell'efficacia dimostrativa effettiva dei fatti e dei segni che sono derivati dal ciclo sperimentale.
Bastano queste poche note per capire che anche le così dette "scienze esatte" sono tali solo se così vengono sentite ovvero percepite dal giudice assoluto ed autocritico che è l'Osservatore. E' chiaro il valore positivo o gradimento dell'Osservatore deriva dal grado di soddisfazione delle prove stabilite e valutate sempre dall'Osservatore medesimo. L'autoreferenza circolare dell'Universo è evidente.
Va notato che il termine di "sentito", qui spesso usato, è cruciale in queste considerazioni; lo è per il fatto che, pur percezione intima e generalmente indefinibile ed indiscussa da chiunque, proprio per questo viene accettato come principio o riferimento base per l'Osservatore. I sentiti, quando sembrano non collegati l'un l'altro, possono essere assunti come principi di riferimento, sono convincenti agganci in tutti gli ambiti logici compreso il linguaggio matematico; basti, in proposito, menzionare la definizione di "retta" negli "Elementi" di Euclide dove si legge, pressappoco, che la linea retta è definita tale se permane immutata (all'Osservatore) quando viene ruotata su se stessa, anche se si sono, più tardi, cercati più "scientifici" termini per questa parte della definizione. Si capisce, comunque, che forse sarebbe valso dire che il concetto di "retta" è semplicemente un sentito e così accettato come credibile dall'Osservatore e senza tema di contro-osservazioni.
Va, per inciso notato, lasciando tuttavia a chi legge le sue interpretazioni e le sue riflessioni, che un "sentito è pure quello di "spiritualità".
Abbiamo qui pensato l'Osservatore come l'Universo nella sua totalità ma anche come l'osservatore di Sé stesso, oppure come centro nonché sistema di riferimento assoluto che compendia e, nello stesso tempo, inquadra la struttura logica quale è, appunto, l'Universo. Potremmo dilungarci in un mare, sempre incompleto, di definizioni, ciò però rafforza la convinzione che questo mostro di autoreferenzialità, che è l'Osservatore, cioè l'IO non può essere definito, ma come potrebbe esserlo se una eventuale definizione è pur essa un oggetto facente parte dell'universo? Per scrollarsi di dosso questo difficile impasse ecco che l'Osservatore conclude definendo l'Universo un sentito di Sé stesso, sulla base o riferimento del quale tutti gli altri tanti sentiti trovano sostegno, riferimento e giustificazione. Con questa conclusione abbiamo conferito autorevolezza all'Osservatore ma così lo abbiamo messo in difficoltà peggiori di quanto qui potremmo pensare. Penso immediatamente alla instabilità dell'importantissimo riferimento che è il linguaggio e segnatamente il linguaggio matematico, l'instabilità di questo particolarissimo sistema sta nel suo essere ancorato nell'interno del sistema Universo che si modifica in conseguenza del linguaggio stesso, quasi come una barchetta in mare che cambia, in modo incontrollabile, il suo assetto in conseguenza dei movimenti di chi, in piedi sul di essa,  cerca di guidarla in una precisa direzione. Questo fatto fu vissuto, forse senza una precisa consapevolezza di operare in questa sorta di difficoltà, da Einstein alle prese con la Relatività generale, problema in qualche modo brillantemente risolto grazie al concetto di tensore. Einstein era però consapevole di operare (=osservare) dal di dentro del sistema in osservazione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
#14
Chi è l'Osservatore e chi, invece, l'osservatore 
(quest'ultimo nel senso comunemente inteso del termine)?
           Mentre l'osservatore, quello comunemente inteso con questo termine, è semplicemente colui o colei che osserva, discute, manipola, pensa, in una parola, osserva in senso pratico e quotidiano le molteplici evoluzioni delle cose del mondo, la notazione di Osservatore, invece, allude a un'entità più astratta intesa come una specialissima sintesi dell'insieme di ciò che comunemente s'intende col termine al plurale di osservatori (cioè l'insieme degli oggetti comunemente noti, appunto, come tali e facenti inevitabilmente parte dell'universo). Con una metafora aritmetica si potrebbe dire che: "l'Osservatore sta all'osservatore come il Legislatoresta al gruppo di funzionari addetto a redigere i testi delle leggi dopo che queste vengono decise da un organo legislativo ufficiale". Da questo tentativo metaforico di definizione deriva, prima di ogni altra cosa, l'unicità dell'Osservatore col e nel suo Universo inteso, quest'ultimo, in tutta la sua complessità, totalità ed, appunto, unicità, talché il solo ipotizzare alla possibilità, non dico di un altro universo, ma di qualsiasi cosa ideale o reale che non sia inclusa nell'unico Universo,è semplicemente un banale errore logico anche perché il fatto stesso che l'Osservatore accenni o pensi ad una tale possibilità subito include quanto pensato o immaginato nell'unico Suo Universo facendone un oggetto di questo non importa se classificabile come immaginario oppure semplice errore.
           Per quanto detto, l'Osservatore è necessariamente ente internodel Suo universo e non esterno, come si è indotti a pensare per comode motivazioni pratiche, infatti è più facile per l'Osservatore supporre di poter gestire un sistema standone il più possibile al di fuori, cioè senza coinvolgersi nei mutamenti e nelle involuzioni del sistema che osserva e che proprio l'osservazione (intesa, in senso lato, come azione attiva su qualcosa)modifica. Se si fa attenzione al senso fondamentale di ciò che stiamo dicendo, l'Osservatore non solo è parte, ma, è proprio l'Universo stesso e non si potrebbe pensarlo diversamente.
Quando dice "sistema" l'Osservatore allude automaticamente ad una qualche struttura logicamente intrecciata di "sentiti" percepiti, questi, come catene logiche di cause ed effetti. Se si pensa al sistema Universo, i sentiti non sono che i normali principi di base o di riferimento scelti in modo che la logica del sistema sia giudicata soddisfacente dall'Osservatore, giudice unico del suo universo ancorché consapevole della debolezza della sua Conoscenza, cioè del suo dominio sull'Universo. Qui qualcuno potrebbe addurre la facile obiezione classica che bandisce tassativamente, nel parlar di cose con qualche riguardo scientifico, concetti come soddisfazione, gradimento, bellezza, semplicità, facilità e così via. Ciò poteva valere prima dei tempi –non certo remoti- di Planck, W. Pauli, di W. Heisenberg ed altri notevoli geni del primo ventennio del '900, cioè dell'avvento del "quantum" energetico; oggi bisognerebbe fare attenzione su questo punto per evitare gaffe prima impensabili. Per convincersi di questo problema bisogna soprattutto abituarsi ad accettare l'inevitabile centralità ed onnipresenza dell'Osservatore in ogni passo della vita dell'Universo, il ché implica il ripensamento della storica e sacrale certezza attribuita alla "prova sperimentale" quale conferma estrema della verità di qualsiasi affermazione.
Chi potrebbe metterla in discussione? La validità di questa prova sussiste solo se convince appieno l'Osservatore, ma è limitata alla durata ed alla forza di questo convincimento (si noti, per inciso, l'uso, appena fatto, di termini come durata e forza, che sono i sentiti difficilmente definibili in senso generale e che indeboliscono le certezze formali di cui discutiamo). L'Osservatore è, dunque, consapevole delle complesse difficoltà che minano il suo già flaccido "dominio" (= Conoscenza) sull'Universo, pur parziale e flaccido.
A proposito di ciò che qui intendiamo per flaccidità valga questa metafora: immaginiamo un tale che stringe in una mano un grosso fascio di guinzagli di lunghezza da pochi centimetri a diversi chilometri, ciascuno con un cagnetto all'estremità; questi guinzagli sanciscono sicuramente l'assoluta titolarità formale del tale sui suoi cani ma pure rappresentano la incertezza del suo dominio o potere su di essi: l'incertezza ordinaria ma continua del controllo a distanza è aggravata dalla flaccidità, cioè della discontinuità del controllo stesso quando i guinzagli non vengono percepiti in tensione. Va meglio per il dominio sui pochi cani con brevissimo guinzaglio. La metafora simulerebbe, senza pretese di rigore, soprattutto l'idea della struttura Universo-Osservatore-Universo. Da precisare che nella metafora, la per la parte osservabile dell'Universo, va dal corpo del proprietario dei cani fino ai cani stessi, tramite il braccio, lo spazio, i guinzagli e i cani stessi, che però è completata e consacrato dalla mente cosciente, cioè dalla singolarità dell'IO (l'Osservatore universale unico) che è anche il centro di riferimento assoluto del sistema ma è anche come l'altra faccia della moneta Universo. La flaccidità, o conoscenza debole e discontinua dell'Osservatore, potrebbe qui anche assimilabile all'inverso della lunghezza media dei guinzagli, purché si consideri ciò ai soli fini esplicativi del concetto di "Conoscenza" (ovvero: capacità di dominio dell'Osservatore), argomento su cui insistiamo.
Il problema fondamentale della lamentata debolezza complessiva dell'Universo, quindi, dell'Osservatore universale, appare evidente proprio nel linguaggio usato in questa riflessione: nessuna parola usata, infatti, risulta rigorosamente definita nei suoi significati precisi né prima né dopo il uso stesso, ma se pure avessimo voluto farlo, a quali altri termini avremmo dovuto e potuto ricorrere se non abbondantemente agli stessi già qui usati e ad altri della stessa natura? Qualcuno potrebbe innocentemente rispondere: "alla matematica!", altri, con maggior riflessione, farebbero invece riferimento ai più vaghi contesti circostanziali in cui le stesse parole sono state o potrebbero esserlo, anche rimescolandole con altre, in nuovi contesti di difficoltà pratiche e teoriche. Se prendessimo per buona la prima risposta, "la matematica", dichiareremmo solo di non aver approfondito l'analisi di cosa sia il linguaggio matematico, infatti, pur senza entrare nei dettagli delle sue definizioni, che pure mostrerebbero qualche punto deboluccio:. definizioni e teoremi, si avvalgono di termini, idee e concetti non esprimibili solo con termini rigorosamente matematici ma, anche degli stessi termini usati in queste riflessioni (non rigorose) e in altre argomentazioni simili.
Una conclusione importante di questa parte della riflessione ci porta direttamente alla questione centrale del come considerare abbastanza correttamente il sistema, anzi, l'auto-sistema universale unico "IO-Universo". Sistema la cui caratteristica essenziale sta nell'auto-referenza e nell'autocoscienza globali, il tutto incentrato sulla singolarità di riferimento universale assoluto che è l'Osservatore universale cioè nell'IO, unico responsabile e giudice assoluto delle scelte del suo agire (osservare). Va qui evidenziato che l'Osservatore giudica "vera" qualsiasi cosa che giudica logicamente coerente col Suo sistema.  L'Osservatore è bensì cosciente della debolezza del suo potere conoscitivo sicché rimane disponibile per possibili revisioni del Suo giudizio, revisioni che potrebbero riguardare , si, una precedente accettazione, ripudiandola o adattandola mediante variazioni opportune, ma anche adattando il sistema (universo) sicché possa ospitare quell'oggetto logico che vorrebbe "vero". Insomma l'Osservatore vuole un Universo il più possibile di suo gradimento. Forse ciò è una risposta alla meraviglia di Einstein e di altri, per la inspiegabile ottima coerenza della matematica con moltissimi fatti naturali.
La centralità dell'Osservatore si evidenzia concretamente nel quadro scientifico e matematico, e non solo, se consideriamo almeno che sono sue decisioni o scelte:
·La scelta e la decisione dell'azione e/o della ricerca in rapporto agli scopi voluti dall'Osservatore stesso
·La definizione di una teoria dimostrativa che dovrebbe fornire dati o segni che sono, a priori, giudicati idonei perché l'Osservatore possa stabilire il grado di successo della sua teoria, ovvero della prova sperimentale, tenuto conto dei mezzi operativi disponibili
·Il giudizio conclusivo sul grado di soddisfazione conseguito dall'Osservatore grazie all'esito della procedura sperimentale attuata e dell'efficacia dimostrativa effettiva dei fatti e dei segni che sono derivati dal ciclo sperimentale.
Bastano queste poche note per capire che anche le così dette "scienze esatte" sono tali solo se così vengono sentite ovvero percepite dal giudice assoluto ed autocritico che è l'Osservatore. E' chiaro il valore positivo o gradimento dell'Osservatore deriva dal grado di soddisfazione delle prove stabilite e valutate sempre dall'Osservatore medesimo. L'autoreferenza circolare dell'Universo è evidente.
Va notato che il termine di "sentito", qui spesso usato, è cruciale in queste considerazioni; lo è per il fatto che, pur percezione intima e generalmente indefinibile ed indiscussa da chiunque, proprio per questo diventa principio o riferimento di base per l'Osservatore. I sentiti, quando sembrano non collegati l'un l'altro, vengono assunti come principi di riferimento, sembrano convincenti in tutti gli ambiti logici compreso il linguaggio matematico; basti, in proposito, la menzione della definizione di "retta" negli "Elementi" di Euclide dove si legge, pressappoco, che la linea retta si definisce tale se permane immutata (all'Osservatore) quando viene ruotata su se stessa, anche se si sono, più tardi, cercati più "scientifici" aggiustamenti della definizione. Si capisce, comunque, che forse sarebbe valso dire che il concetto di "retta" è semplicemente un sentito accettato e difendibile dall'Osservatore senza tema di contro-osservazioni. Va inoltre anche notato, lasciando a chi legge le sue interpretazioni, che un "sentito", non diverso dagli altri, è anche quello della "spiritualità".
#15
[font="Segoe UI", "Helvetica Neue", "Liberation Sans", "Nimbus Sans L", Arial, sans-serif]IL TENSORE[/font] :)
(PER I NON ADDETTI AI LAVORI)
 
            Vorrei rendere semplice con un esempio il significato pratico del termine oggi altisonante di "Tensore" reso famoso dalla "Relatività" di Einstein ed oggi più popolare grazie soprattutto al lavoro di divulgatori, come, per citarne uno, Carlo Rovelli, in occasione del centenario della pubblicazione einsteiniana.
Mi rivolgo a chi sia animato da normale curiosità scientifica e non abbia rigetto dei ricordi di nozioni matematiche apprese alle medie superiori, non importa se oggi annebbiate o dimenticate. Nessuna pretesa di rigore e precisione scientifica in questa mia breve riflessione che spero di qualche utilità per un curioso  "non addetto ai lavori"
Immagino, allora, d'essere un qualsiasi normale automobilistica, in normali condizioni di salute e di spirito (seppur un po' noioso almeno in questa spiegazione), che si accinge a percorre un normalissimo  tratto di autostrada di una cinquantina di chilometri, che si sa  ben servito dagli ordinari sistemi autostradali, un tratto che si sa essere perfettamente rettilineo e pianeggiante, inoltre il percorso dovrebbe svolgersi in condizioni di bel tempo, di giorno, disponendo di tempo più che sufficiente alle  esigenze della circostanza, con l'uso di una normale autovettura che finora non ha mostrato alcun problema di funzionamento. Si dispone, dunque, di un insieme di informazioni, un pacchetto di conoscenze giudicabile come sufficiente per assicurare un grado di ordinaria tranquillità a chiunque si accingesse, come me, ad affrontare quel percorso in auto. Tale tranquillità, i buona parte garantita dal su riportato pacchetto informativo, fa dire a me ma anche ad altri automobilisti, che si sta trattando di un percorso "facile", un aggettivo, questo, uso a sintetizzare praticamente le caratteristiche di sviluppo un processo privo di problemi e difficoltà particolari, anche se, nel caso in esempio, nessun automobilista serio oserebbe illudersi, di poter bloccare i comandi dello sterzo e dell'acceleratore e quant'altro occorresse sicché l'auto potesse auto-guidarsi fino a destinazione mentre il guidatore si permette un pisolino dopo aver solo attivato un qualche allarme di prossimo arrivo a destinazione.
Perché nessun serio automobilista oserebbe pensarlo? Ma perché il pacchetto di conoscenze descritto, anche se molto rassicurante, non copre (ovviamente) tutto quanto occorre sapere ad un automobilista circa i dettagli reali e/o potenziali del percorso reale e tant'altro, e poi, si è detto, si usa una "normale" autovettura, quindi, non certo adattata per una guida satellitare che fornirebbe le informazioni puntuali mancanti che giungerebbero ai comandi esattamente alla bisogna senza che l'automobilista debba preoccuparsene.
In sintesi abbiamo un pacchetto iniziale di informazioni che copre, diciamo, il 70% del necessario per il compimento del percorso, l'altro 30% mancante sarebbe da acquisire ed applicare, assieme al precedente, dall'Osservazione cioè dall'azione della guida; è inutile dire che il totale effettivo delle due percentuali è comunque sempre minore di 100 se non altro, ma ne siamo ben lontani,  per il noto principio di indeterminazione. La differenza fra le due parti qui sintetizzate della Conoscenza dicono:
-quota del 70%: è la linearizzazione del percorso, ovvero il conferimento di un grado di facilità al percorso così che l'Osservatore non debba darvi piùche l'ordinaria attenzione;
-quota del 30%:  è la quota non linearizzata che, per questo, richiede l'attenzione particolare dell'Osservatore (del guidatore) il quale provvederà a linearizzarla, per quanto possibile, grazie alla serie di provvedimenti che andrà ad elaborare grazie alle successive informazioni (conoscenze) acquisite via via con l'Osservazione (guida) stessa. E' bene precisare che per linearizzazionequi intendiamo la facilitazione di un concetto complesso quasi rendendolo come una linea continua, non necessariamente retta, purché di semplice andamento, in altre parole, una linea di facile sviluppo e comprensione, Il o i pacchetti di tali informazioni sono ciò che ad un "non addetto ai lavori" potrebbe esse reso sotto il concetto di tensore.
Gli aggettivi semplice, facile, soddisfacente più adatto  ed altri simili vengono qui usati ed evidenziati in corsivo non solo perché utili per un più semplice argomentare sulla divulgazione scientifica ma sopratutto perché adducono ad un argomento scientifico ben più rilevante benché trascurato o, meglio ancora, dimenticato nella quotidianità operativa di moltissimi fisici odierni, sto dicendo dell'Osservatore! Tuttavia, in questa riflessione senza pretese rigorose sull'argomento "TENSORE", l'argomento "Osservatore" può essere convenientemente rinviato e trattato a parte come mi riprometto.
 
           
            
#16
L'oggettivazione dell'inoggettivabile
Prospettive per un moderno approccio 
 alla questione scienza- fede

 Il titolo di questa riflessione è suggerito da considerazioni sia religiose che scientifiche, mi affretto a dire che l'idea prese forma dall'attualità di certi importanti eventi scientifici; c'è chi crede di poter sostenere il suo scetticismo religioso fidando sull'argomento che né la scienza né altro approccio avrebbero finora trovato una prova oggettiva ed inattaccabile della così detta "esistenza di Dio", quasi che una tale prova si possa trovare frugando nei cassetti o negli armadi.

 All'inizio del 900, grazie all'estrema fantasia di alcuni giovani, ed oggi ben ricordati scienziati, si verificò l'incrinatura, niente meno, che delle catene imposte dal realismo oggettivistico tramandatoci  dalle necessità pratiche dii approccio alla quotidianità; ancor oggi, nonostante tutto, queste catene rimangono ed almeno per certi importanti aspetti, problematiche.
 L'incrinatura ha agito su due fronti: uno, quello della relatività einstaniana (che generalizzava quella Galileiana), relatività che indebolì, senza rinnegarla del tutto, l'elegante immagine del mondo classico Newtoniano-Lagrangiano; l'altro fronte, invece, si è manifestato con le scosse che la fisica quantistica ha inflitto al pensiero razionale storico, che era ben solido già prima che Galileo ne consacrasse la fede assoluta con la così (poi) detta "prova oggettiva", il solo certificato di validità di una teoria. Va anche detto che la scossa prodotta dalla scoperta del "quantum" energetico e delle sue conseguenze è stata notevole anche perché è giunta quando ancora imperava il positivismo del pensiero filosofico ottocentesco, che esasperava la concretezza oggettiva non soltanto in fisica. 

 Ciò che non tutti sanno, o non ne sono convinti, o non hanno ben afferrato, è che quella rivoluzione scientifica di inizio '900 ha aperto, fra tanto altro, un varco che consentirebbe, ma non immediatamente, di giungere ad archiviare la vecchia e fuorviante questione dell'inconciliabilità tra scienza e fede. Non è però  cosa facile: mi è appena capitato di leggere in internet l'impressione di un tale che, riferendosi alla recente conferma del bosone di Higgs, conclude che finalmente si è avuta la prova dell'"inesistenza di Dio"! 

Tutta questa premessa per richiamare l'attenzione sulla diversità tra la visuale realista e quella idealista del mondo da parte dell'IO cosciente (o Osservatore universale). Realismo e idealismo furono posizioni opposte che animarono il dibattito filosofico ottocentesco, estintosi senza in seguito alla constatazione che nessuna delle parti poteva provare o smentire la validità di una o dell'altra posizione, ciò per riconosciuta pratica equivalenza. 
 Secondo la posizione "realista" (o oggettivistica) il mondo delle cose del pensiero (Res cogitans) è "dentro" la mente dell'Osservatore mentre il mondo della così detta "realtà fisica" (Res extensa) ne è "fuori" e la sua esistenza o realtà è indipendente dall'Osservatore e dall'osservazione. Secondo la posizione idealista (soggettivistica), invece, il mondo è interamente "dentro" la mente dell'Osservatore il quale ne è la singolarità origine. In tale mondo sia la Res cogitans che la Res extensa si fondono nell'impasto dell'iper-complessità della struttura logica dell'universo; sicché nulla è indipendente dal tutto; la sostanza dell'impasto è la Conoscenza che potrebbe essere, in qualche modo, descritta come uno "spazio" che, al pari di quello comunemente inteso, farebbe da contenitore del tutto, compreso il tempo e lo spazio ordinario. La Conoscenza, tuttavia, l'Osservatore la percepisce, direi, come di consistenza flaccida nel senso che l'azione osservante, ovvero il dominio che l'Osservatore vorrebbe avere sull'universo, non è precisa ed immediata ma, appunto, flaccida, differita e spesso errata, tanto da dar ragione al realista che sostiene la sostanziale indipendenza, piuttosto che legami, tra le varie cose nel mondo.

 Perché la fisica quantistica aprirebbe ad una visione più idealistica del mondo? Per rispondere è necessario ricordare che la fisica classica si è sviluppata poggiando, quasi interamente, sulla così detta "realtà materiale o oggettiva" la cui "esistenza" si ritiene auto-dimostrata proprio dalla materialità, ritenuta in sé prova oggettiva per eccellenza.
 Già da prima del 1901, anno della scoperta del quantum energetico ad opera di Planck, si percepivano segni che preludevano eventi importanti nella struttura del pensiero scientifico. Si verificarono effettivamente nel ventennio successivo alla scoperta di Planck e furono la "relatività" e la "meccanica quantistica". 

A circa un secolo dall'avvento della meccanica o, meglio, fisica quantistica, come mai sopravvive la consueta rigidità oggettivistica nel pensiero scientifico e persino teologico? E' molto difficile rispondere, però spero di riuscire almeno a compendiare il mio punto di vista. Non si può pensare che si abbandoni facilmente il realismo, entro cui ci siamo radicalmente forgiati. 
Se considerassimo una particella sub atomica, per esempio, un fotone, descrivibile, come le altre cose fisiche del genere, solo secondo elaborati modelli matematici, allora questo sarebbe un oggetto materiale (Res Exstensa) o ideale (Res cogitans)? Se fossero ancora vivi i grandi Heisenberg o Shroedinger, la loro risposta sarebbe senza dubbio, la seconda (almeno per Heisenberg), ma non da tutti quei grandi ricercatori potremmo attenderci altrettanto; se oggi interrogassimo un pur preparato giovane studioso di fisica quantistica, la sua risposta sarebbe, quasi certamente, oggettivistica. Questo giovane insisterebbe nel dire che di ogni particella si è sempre trovata la prova "oggettiva"  mediante molteplici esperimenti presso ben noti centri di ricerca, Credo che questa lettura dei fatti andrebbe interpretata più o meno così: mediante un percorso logico, di per sé abbastanza convincente per l'Osservatore, che chiamiamo teoria T1, si perviene alla probabile verità e descrizione di una particella P avente le proprietà p; bisogna provare questa verità, come? Non certo cercando di vederla apparire fisicamente da qualche parte ma creando, invece, un secondo percorso logico di prova, cioè un'altra teoria T2 che comprenda, fra l'altro, l'impiego di strumenti e macchine adattati per funzionare secondo il nuovo percorso logico T2 che, generando eventi E, interpretabili seguendo questo stesso percorso, ci si avvicini sufficientemente alla verità di P. Se l'esito di questo avvicinamento soddisfa l'Osservatore, allora P è verificata entro i limiti di certezza attesi, diversamente si dovrà procedere ancora nella ricerca attraverso altri percorsi logici e teorie T.

 Si evince da quanto detto, che neppure la così detta prova scientifica fornisce una certezza maggiore di quanto si attende l'Osservatore, quindi, anche per queste cose, che generalmente si ritiene esulino dal campo religioso, è indispensabile la fiducia (fede) dell'Osservatore sul programma di ricerca. 
 Per le questioni di fede religiosa, invece, le prove di tipo scientifico, si dice, non valgano perché richiedibili solo quando l'oggetto di indagine, che pur è dentro la mente cosciente dell'IO, vi si trovi ad una certa distanza da questa singolarità-origine. Allora la Conoscenza dell'Osservatore (l'IO) è più o meno debole nei riguarda dell'oggetto di indagine, e può essere rafforzata solo con serie di prove che riducano questa distanza. Invece, diversamente dai comuni osservabili dell'universo, che pur sono dentro lo spazio conoscitivo dell'IO ma più o meno distanti da questo, Dio è proprio dentro la singolarità IO perciò è, come dire, una Singolarità dentro la Singolarità senza una "distanza" ulteriormente riducibile.
 Chiunque solo parli di prova di esistenza di Dio è fuori strada perché dovrebbe cercare, niente meno, che la prova che egli stesso, come Osservatore, esiste: Sembra pazzesco, ma a costui va comunque riconosciuta l'attenuante fortissima di vivere incastrato, come tutti, salvi pochissimi asceti, ma, questi, per tempi limitati, nell'oggettivismo più retrivo. Persino l'Aquinate era oggettivista! 
 Per liberarsi, almeno un poco, da questo stato di prigionia intellettuale, sarebbe auspicabile un compromesso cosciente con la vigente impostazione oggettivistica; molto di più non si può fare, almeno per ora. D'altra parte, ammesso che si riuscisse ad abbandonare completamente la mentalità oggettivistica, ci si ritroverebbe, non potendo far conto sulla "Conoscenza assoluta" (prerogativa per ora solo divina) nell'impossibilità pratica persino di scrivere un'equazione di un evento scientifico; una situazione che proprio non mi augurerei!. Il compromesso cosciente tra Realismo e Idealismo servirebbe, dunque, proprio per facilitare il lavoro di accrescere gradualmente, ma con migliori aperture, la Conoscenza che è la sostanza di cui è fatto l'Universo. ::)
#17
Tematiche Spirituali / il perdono: quanto costa?
23 Aprile 2016, 22:38:29 PM
[font='Times New Roman', serif]Nel cercare, con un motore di ricerca in internet, la frase "Settanta volte sette", che è in Mt. 18,21-35, mi sono imbattuto in un sito in cui appariva una serie di considerazioni di un sacerdote, certo Don Virgilio Covi, che non conosco, il quale, citando Luca 6.37, rifletteva sul significato del perdonare affermando, fra l'altro, che "Solo chi ha in sé lo Spirito di Dio Padre può perdonare" ed ancora: "Solo un Dio che sia Padre può perdonare". Queste frasi hanno attratto la mia attenzione perché talvolta è capitato anche a me di riflettere, come Don Virgilio, sui significati che possono essere dati alle parole "perdono" e "perdonare", non trascurando, in queste riflessioni, ciò che i Vangeli comunicano (o sottintendono) col loro linguaggio notoriamente asciutto e, per questo, un po' spiazzante.

Nel comune intendimento il verbo "perdonare" significa non dar luogo ad atti di vendetta o, comunque, di rivalsa nei confronti di chi ci abbia arrecato danno od offesa di qualche gravità. Questo stesso concetto potrebbe essere esteso, non ad un'offesa, ma, per esempio, ad un credito reale a cui il perdonante vi rinunci in assoluta gratuità per debitore. Per brevità lasciamo da parte quest'ultima importante accezione e fermiamoci alla prima, quella relativa del perdono di un'offesa. Cerchiamo di andare a qualche episodio di perdono che abbiamo effettivamente sperimentato. Immaginiamo il caso di una offesa, non molto grave, che riteniamo di aver ricevuto da un conoscente o un amico; se non intendessimo perdonarlo potremmo scegliere di redarguirlo, di mostrargli il nostro disappunto togliendogli la consueta amicizia, oppure possiamo fingere di niente ma decidendo, anche se non dichiaratamente, di chiudere ogni rapporto con lo stesso. L'offesa potrebbe essere anche molto più grave di quanto appena detto sicché, proporzionalmente, anche il nostro desiderio e le modalità di rivalsa vi s'adeguerebbero. Fatta questa puntualizzazione sulle possibili situazioni immaginiamo di voler, invece, perdonare chi ci ha offeso.
Nel caso di offesa non molto grave ma comunque significativa, il nostro perdono potrebbe risolversi nel non dar luogo a nessuna, seppure lieve, forma di contro-offesa, mantenendo, sì, immutati i rapporti apparenti, ma conservando in animo un certo rancore, per esempio, perdendo la primitiva simpatia o la stima nei confronti dell'offensore. Questo tipo di perdono imperfetto è, perché lascia in animo una traccia del rancore. Va ancora considerato il fatto che un perdono, pur senza rancori residui, come si auspicherebbe, perde pur sempre ogni valore morale o, se si preferisce, di sacralità evangelica che lo renderebbe prezioso, infatti, per un vero perdono è necessario tener presente queste possibilità:

* L'offesa è troppo piccola o è trascorso del tempo sicché il senso di gravità dell'offesa, anche se originariamente importante, si è estinto o grandemente attenuato al punto da non giustificare più i costi morali e/o materiali connessi al mantenimento o alla gestione di una qualsiasi situazione di tensione e, soprattutto, del persistere l'idea di un'azione di rivalsa. E' evidente che, in tali casi, nessun merito può essere riconosciuto a chi ha, diciamo così, perdonato senza alcun vero sacrificio grazie agli effetti del tempo ed alla esiguità dell'offesa, specie se si tiene conto che questo perdono avrebbe potuto essere dato quando ancora il bruciore dell'offesa era ancora vivo, ma ciò non fu fatto per ragioni che è facile comprendere.

* L'offesa è più importante di quella del caso precedente sicché la spinta verso un'azione di rivalsa potrebbe essere effettivamente forte; tuttavia l'eventuale azione di rivalsa si presenterebbe problematica sia per pavidità dell'offeso, sia per la mancanza di mezzi atti allo scopo e per tema di pericolose contro-reazioni e, infine, anche per il "costo" che richiederebbe il mantenimento di uno stato conflittuale. Per quest'insieme di cose l'offeso decide allora che conviene perdonare (diciamo così) l'offensore. E' appena il caso di ribadire che un tale perdono, forzato da queste circostanze, non vale molto anche in assenza di qualsiasi tangibile rivalsa ai danni della controparte, e non vale neppure se, nel tempo, sbiadendosi significativamente il rancore, si desse finalmente luogo ad una completa riconciliazione.
Vorrei ancora una volta sottolineare che il "raffreddamento" del peso dell'offesa, dovuto al trascorrere del tempo, raffredda pure l'essenza dell'eventuale perdono annullandone il valore; nessun merito allora rimane a chi avrebbe dovuto già da prima perdonare, ma mancò di farlo. Vorrei altresì sottolineare il fatto notevole che il valore sacrale del perdono cresce col diminuire dei rischi, fatiche ed altri "costi" per una qualsiasi forma di rivalsa nei confronti dell'offensore; infatti, il perdono varrebbe moltissimo se il perdonante, pur potendo, senza rischi e senza costi, vendicarsi con un semplice atto di volontà, ciò non ostante vi rinunci in totale gratuità. Da ciò si evince immediatamente che il perdono di Dio non può che avere una valenza infinita proprio perché l'infinità di quella potenza rende infinitamente piccolo –cioè nullo- il sacrificio divino e, conseguentemente infinitamente grande il valore del Suo perdono.

Dopo questa rassegna sul "bilancio" tra costi e benefici, è il momento di un cauto avvicinamento al senso cristiano e teologico del perdono. Il perdono divino è solo il modello limite verso cui tendere per cercare di dare qualche granello di merito al nostro atto di perdonare che, come abbiamo visto, spesso potrebbe esserne privo.
Ma il perdono umano, per la sua ideale riuscita, che lo renderebbe un po' simile a quello divino, dovrebbe, per quanto detto, lasciare pulita la memoria del perdonante come se l'offesa ricevuta non fosse stata neppure percepita, quindi, senza che veruna traccia vi resti nel ricordo del perdonante salva, però, la coscienza del perdono dato. Un bel dire!
E' così che dovremmo pensare al vero perdono? No, perché un tale perdono -abbiamo detto- non costerebbe sacrifici al perdonante, quindi, non avrebbe valore. Ma soprattutto peserebbe quella totale ed assoluta dimenticanza dell'offesa che annullerebbe il valore del perdono anche per il solo fatto che ogni perdita di informazione, in qualunque circostanza, anche lontana da questo argomento di riflessione, ci allontana dall'aspirazione di tendere ad imitare Dio, proprio perché Dio, in quanto Conoscenza assoluta, è privo della debolezza della dimenticanza, quindi, non può perdere alcuna informazione in questo ed in qualsiasi altro senso.
Ma se è così scoraggiante la nostra condizione come dovremmo o potremmo comportarci per seguire al meglio il comando evangelico del perdonare? Abbiamo visto come qualunque risposta alla domanda inciamperebbe in palesi contraddizioni o sarebbe così complessa da farci smarrire fra le innumerevoli ramificazioni delle possibili argomentazioni, dunque è difficile affrontarla di petto, ma forse è possibile aggirarla fidando nella buona fede. Questa buona fede, applicata all'atto del perdono, fa sì che l'atto stesso, al di là delle scoraggianti considerazioni fatte, che comunque non ne pregiudicano l'utilità sociale, anche se non si carica di valore sacrale, non di meno si scarica di parte delle insufficienze connesse a qualunque azione umana. In fondo la fiducia nella buona fede non è altro che un aspetto della Fede, cioè l'unico strumento che potrebbe condurci all'imboccatura di un provvidenziale tunnel che, quando inaspettatamente lo si trovasse, si aprirebbe una fantastica scorciatoia capace collocarci, se divinamente graziati, niente meno che nella giusta direzione verso la Conoscenza assoluta. Questo tunnel-scorciatoia sarebbe ciò che per taluni mistici è l'esperienza del rapimento estatico, per qualcun altro è la percezione di una grazia ricevuta, per un uomo di scienza o un matematico è la fortunosa ed improvvisa intuizione che, gratuitamente e di colpo, lo coglie aprendo loro inaspettatamente la via per la soluzione dei annosi problemi di ricerca, per un artista, infine, è la grande ispirazione artistica che lo renderà più che pienamente soddisfatto.
 ::)
#18
TRE FUCILI AL BIVACCO
Qualche riflessione sulla preghiera


         Le preghiere più accorate, sincere e di intima emozione sono quelle recitate in silenzio sotto il peso di angosciose preoccupazioni; ma questo è una limitazione a quanto spetterebbe al più importante momento della religiosità genuina. La limitazione starebbe nel fatto, per altro normalissimo, che le angosciose preoccupazioni siano la quasi sola (o almeno la prevalente) motivazione che spinge alla preghiera e la sola causa che coinvolge più intensamente l'orante.
Ma ci sono altre motivazioni per un pregare spontaneo ed intimo? Si, forse quella  per le anime dei cari che ci hanno lasciato da poco, a distanza seguono tutte le altre motivazioni di preghiera, spesso poco coinvolgenti, tra cui quelle recitate per rispetto dei doveri verso la comunità religiosa di appartenenza e per altre motivazioni di circostanza quali le tradizioni connesse a liturgie ed alle abitudini personali. Ma qualche volta vedremo che non è così.
Invidio coloro, che non sono pochissimi, i quali, durante la preghiera, sono  palesemente pervasi dall'emozione, fino alle lacrime. Ancor più invidio -e mi impressionano- i mistici, veramente pochissimi, come, per esempio, Giovanni Paolo II o san Pio da Pietralcina, che conosciamo più da vicino, i quali, mi pare, non abbiano mai mostrato  lacrime nei  momenti di preghiera che i mezzi televisivi ci hanno trasmesso, tuttavia  il loro coinvolgimento nella preghiera era tale che gli oranti apparivano palesemente contriti, contratti e contorti come da forte sofferenza interiore, quasi per intensa necessità di espiazione. Oso credere che le motivazione di questo tipo di preghiera siano molto diverse da quelle consuete della implorazione, ma soprattutto sembrano difficilmente comprensibili ai più.
Si dice che la preghiera sia  parlare con Dio, molti aggiungerebbero, "per implorare qualcosa", ma è sempre così oppure ci potrebbero essere motivazioni che solo molto  indirettamente sarebbero riconducibili ad una richiesta? Credo di si, azzarderei col dire che la preghiera sia anche studio, riflessione interiore, ricerca. Ricordo di aver letto, condividendone il senso, che è preghiera anche l'attenta e cercata lettura di un brano biblico o evangelico. Se ciò è vero, come non dire che la preghiera sia anche studio e ricerca?
     Sono convintissimo che lo studio sia, almeno in un certo senso, assimilabile alla preghiera perché Dio è Conoscenza, anzi, Conoscenza assoluta; la C maiuscola  di Conoscenza è necessaria, perché l'accezione comune di questa parola è piuttosto fuorviante non rendendo assolutamente l'idea sul  vero e ben complesso significato né sulla importanza  che merita il termine stesso. Lo studio è, nella preghiera ma pure in ogni altro rapporto con la sacralità, un percorso conoscitivo, difficile e complesso, che si sviluppa lungo la via della Verità, verso la Conoscenza assoluta, cioè nella direzione di una meta posta all'infinito. Invidio il mistico perché il suo studio per appressarsi alla Verità o la sua preghiera è sorretto dalla intima speranza di incontrare un aiuto straordinario, come di un'imprevedibile imboccatura di un tunnel-scorciatoia o un'illuminazione estatica, che lo ponga gratuitamente sulla direzione giusta e rapida, che gli consenta di scorgere nientemeno che i bagliori dell'agognata ma remotissima luce della Verità.
     Il senso mistico è, dunque, il dono che consente a pochi eletti, di trasformare i lentissimi progressi della Conoscenza, che arranca lungo la tortuosa ed incerta via della razionalità, in qualcosa di molto più diretto ed efficace, appunto un tunnel, che potremmo forse definirlo via dell'Amore. Il fatto che Conoscenza e Amore siano aspetti diversi della stessa sostanza ne ebbero intuizione già gli autori biblici e certezza l'evangelista  Giovanni il quale ne colse e ne amplificò il senso riconducendo l'Amore al Logos. In parole povere, ed in prima approssimazione,  la similitudine tra Amore e Conoscenza possano riassumersi nel fatto che entrambi i termini alludono alla unione o alla fusione di cose che, diversamente, sarebbero disperse ed ingovernabili. Per quanto riguarda l'Amore  il concetto sembra abbastanza comprensibile mentre, per quanto attiene al termine Conoscenza, la spiegazione potrebbe essere che, "conoscere" un sistema di cose, percepite dell'Osservatore, cioè dell'IO cosciente, come indipendenti e caotiche, significa trovare una relazione logica che leghi le cose stesse sicché i loro movimenti divengano chiaramente interdipendenti e, tutte le cose, connesse all'IO osservante.
Tuttavia Amore e Conoscenza non sono esattamente sovrapponibili benché l'uno sia un'allotropia dell'altra, come il diamante e la grafite non hanno lo stesso valore, nonostante siano forme allotropiche della stessa sostanza chimica, infatti il diamante è più prezioso della grafite, analogamente potremmo dire dell'Amore (con la A maiuscola) e della Conoscenza.
      Queste considerazioni mi incoraggiano a sostenere che, così come si suol dire che ogni occasione è buona per far del bene, altrettanto si può dire che le occasioni di approccio religioso, come omelie, preghiere collettive, catechesi, siano occasioni di ricerca, di studio e di riflessione, ciò può valere anche per le occasioni di preghiera individuale. Mi rendo conto delle difficoltà di razionalizzare questa similitudine.
     La creazione di Adamo coincide con la creazione dell'IO, che non è l'io individuale comunemente inteso, l'IO è unico ed è il solo titolare dell'Universo, infatti tale fu Adamo; ecco perché il peccato di Adamo equivale al peccato dell'IO cioè il peccato dell'umanità tutta, anzi, dell'Universo; quest'ultima considerazione chiuderebbe definitivamente l'annosa polemica sulla presunta illogicità dell'attribuzione ad ogni nato umano del peccato originale.
L'Universo è un costruzione logica dell'IO nello spazio della Conoscenza, la cui metrica è pensabile, appunto, in termini di Conoscenza. Questa costruzione logica si auto-sorregge su ed in sé stessa proprio come i famosi tre fucili al bivacco che vedevamo da ragazzi in certi vecchi film western: essi si auto-sostenevano l'un l'altro col calcio poggiato sul suolo e le punte delle canne l'una contro l'altra senza poter dire quale fucile sostenesse gli altri. La metrica di questo spazio della conoscenza presuppone una misurabilità quantitativa della Conoscenza, non la conosciamo, ma se già la scienza la conoscesse[1] avremmo costruito un pezzettino, seppure infinitesimo, di quella "D" che potremmo immaginare di scrivere davanti alla parola "IO"; questa è una conseguenza del fatto che DIO  è Conoscenza. Una bestemmia? No, le Scritture lo lasciano in più parti capire,  prendiamo,  per esempio,  i versetti Es.,3,17-14 che così recitano: "Mosé disse a Dio: <<Io arrivo dagli israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: come si chiama?  E io che cosa risponderò loro?>>  Dio disse a Mosé: << Io sono colui che sono!>>, Poi disse <<Dirai agli israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi>>"; secondo questa istruzione data a Mosé, questi doveva presentarsi al suo popolo dicendo che tutto ciò diceva lo diceva, appunto,  "IO-SONO", come dire che Dio parla all'Universo dell'"IO" tramite l'IO!.  

Dio conferì ad Adamo la titolarità o, se si preferisce, la "proprietà" dell'Universo. La titolarità di qualcosa presuppone il diritto del proprietario di "dominarla" in toto  come ciò che è suo, ma non è detto che questo sia sempre facile o possibile, lo sanno benissimo i proprietari di appartamento in stabili condominiali. Il dominio che Adamo, cioè l'"IO", ha del suo universo è, come dire, flaccido, cioè simile a quello che un tale ha su una miriade di cagnolini collegati a lui da altrettanti guinzagli diversamente lunghi, alcuni solo di qualche centimetro, altri sempre più lunghi, fino a vari chilometri, il fascio è tenuto stretto in una mano dal povero proprietario. Il  dominio che l'Osservatore, che nella metafora è il padrone dei cagnolini, è effettivo solo nei confronti dei cagnetti con guinzaglio cortissimo, poi si fa sempre più flaccido fino a diventare puramente nominale. Tuttavia un dominio parziale, vale a dire una Conoscenza parziale, benché piccola, comunque c'è. Ciò che l'umanità, cioè l'IO, teme massimamente è l'entropia, cioè la perdita graduale ed irreversibile della conoscenza cioè di questo pur debole dominio sull'Universo, soprattutto ne teme l'irreversibilità, che è il vero significato terrificante della Morte.
L'atavica paura dell'irreversibilità entropica, della Morte, si riflette esattamente e completamente nella paura, più o meno inconscia, dell'Inferno con la sua disperatissima irreversibilità[2] con cui lo si definisce; è forse proprio per attenuare e convivere con la paura dell'irreversibilità che nasce il Purgatorio, esso lascia sperare nella possibilità, pur remota, di cogliere in limite all'irreversibilità assoluta che, grazie a lunghissimi e penosi sacrifici e all'indispensabile aiuto divino, consenta di riguadagnar quota interrompendo il terrificante e sempre più precipitoso scivolamento nel baratro entropico, verso il nulla. Orbene il Purgatorio darebbe l'idea di una concretizzazione  del tentativo costosissimo e remotissimo di sperare nel rimedio estremo di un danno come la ricostituzione dei cocci di una vaso frantumato..

Queste considerazioni invitano a riflettere su come dovremmo atteggiarci nella preghiera: non è sempre cosa facile, non lo è assolutamente per chi è poco incline –e siamo in tanti- verso sentimenti mistici, è invece molto più facile per chi è in cuor suo sensibile ed aperto verso sentimenti di commozione nella preghiera anche quando non si è pienamente immersi in circostanze dolorose. Per i primi sarebbe consigliabile preferire la riflessione e lo studio  razionali, anche con l'aiuto di testi, alla preghiera tradizionale; per i secondi, senz'altro più fortunati, non sarebbero necessari suggerimenti, se mai dovrebbero essere questi a darli.

M.B.





[1] La misura della  Conoscenza, al pari di una grandezza  fisica come l'energia, l'entropia richiederebbe, prima di tutto, una precisa definizione scientifica, il ché non sembra facile, poi cercare di penetrare, fin quanto è possibile -qui si concentrerebbe tutta la difficoltà-, nell'aggrovigliatissimo gomitolo della complessità dell'Universo.
[2] Questo è un esempio di come certi argomenti, significativamente irrazionali e lontani da ogni approccio scientifico, riflettano argomenti razionali ben noti alla quotidianità del lavoro scientifico  e non solo.