Le critiche mosse da Nietzsche ai filosofi e ai metafisici nel primo saggio di "Al di là del bene e del male" intitolato appunto "Dei pregiudizi dei filosofi" sono quelle di coltivare il "pregiudizio" che esista la verità e che questa sia comprensibile dall'uomo. Questo è, del resto, il "pregiudizio" o meglio l'assunto di fede che consente ai filosofi di essere tali, ovvero di andare alla ricerca della verità, poiché se si parte dal presupposto contrario nessuna ricerca potrebbe esistere e non esisterebbe ad esempio nemmeno la scienza visto che nessuno vorrebbe andare alla ricerca della falsità poiché questa se la può inventare da solo. Tale assunto pare abbia retto almeno fino a quando lo stesso Nietzsche ha, come dicono i critici, distrutto ogni metafisica in occidente (anche se Heidegger smentisce questa visione definendolo "l'ultimo metafisico"), ma la negazione di tale "pregiudizio" è anche la negazione dell'uomo stesso, che per natura ha sempre inseguito il sapere, come diceva Aristotele. In ogni caso tale pregiudizio, ammesso (e non concesso) che lo sia veramente e non sia nei fatti solo un necessario strumento intellettuale, non potrà mai essere smentito poiché sarà impossibile mostrare a chiunque che la verità esiste ed è comprensibile come anche che non esiste, e la sua negazione sostituisce la nozione di verità con quella di "utilità" che è di fatto un pregiudizio di secondo livello, estremamente arbitrario (chi decide cosa è utile? Per chi? Se qualcosa è utile a qualcuno e dannoso per altri cosa prevale?) e ha fatto danni immensi negli ultimi secoli.
La critica di Nietzsche pare comunque rivolta in particolar modo a Kant (e poi anche a Spinoza) tanto che cita due o tre concetti chiaramente inventati da lui (ad es. i giudizi a priori, la cosa in sé, l'imperativo categorico) e in generale ai filosofi "sistematici" che andavano tanto di moda ai suoi tempi e che sicuramente erano ben dotati dei pregiudizi illuministi e scientisti che animavano quell'epoca. Ma questo non significa che "tutti" debbano avere dei pregiudizi, anche se tutti devono necessariamente partire, per poter ragionare, da premesse vere o almeno ritenute tali. Si tratta eventualmente di discutere la verità di tale premesse e confutarle, se si riesce e se si è animati da un serio desiderio di esprimere un pensiero di verità. Del resto in quelle poche pagine lo stesso Nietzsche fa proprio un pregiudizio tipico della sua epoca quando afferma: «La falsità di un giudizio non è ancora, per noi, un'obiezione contro di esso; è qui che il nostro linguaggio ha forse un suono quanto mai inusitato. La questione è fino a che punto questo giudizio promuova e conservi la vita, conservi la specie e forse addirittura concorra al suo sviluppo». Questo della lotta per la sopravvivenza (e addirittura dello sviluppo) della specie è un pregiudizio tipicamente darwiniano e malthusiano molto in voga nella seconda metà dell'ottocento, e Nietzsche pur consapevole della sua falsità e conseguentemente all'assunzione del già citato concetto di utilità in luogo di quello di verità lo pone a paradigma per l'espressione dei giudizi, di cui non è dunque interessato alla veridicità ma solo alla loro funzionalità ad uno schema che abbia a fondamento tale paradigma.
Se quindi Nietzsche nega, inizialmente, che possa esistere una verità e qualunque giudizio è frutto di pregiudizio, poi però nel corso della sua evoluzione intellettuale si trova ad esprimere tali verità, addirittura in forma evangelica. Se dunque il "pregiudizio" che critica Nietzsche all'inizio è necessario per lo stesso darsi dell'esistenza di un pensiero che abbia senso, ogni pensiero che voglia affermare una verità deve partire da premesse certe e vere (secondo il sillogismo aristotelico), e queste sono i veri "pregiudizi"; si tratta solo di riconoscere quelli falsi e distinguerli da quelli veri, e se è vero che la quasi totalità degli intellettuali (e lo vediamo molto bene oggi) tende a condividere le idee che vanno di moda nella propria epoca bisognerebbe anche, fra questi, fare la distinzione tra coloro che sono sinceramente convinti della veridicità di tali idee e coloro che le portano avanti solamente per poter essere accettati all'interno di un determinato gruppo che consenta loro di aumentare il proprio consenso, il proprio prestigio, i propri guadagni o la propria "onorabilità". Quelli che piegano le idee ai propri "interessi personali", qualsiasi essi siano e non è nemmeno il caso di individuarli esattamente, si distinguono da quegli altri perché semplicemente non sono in grado di sostenere tali idee e non fanno altro che rifiutare a priori ogni verità alternativa, spesso con argomenti risibili e inconsistenti, quando non addirittura insultanti.
Gli altri, ovvero quelli apparentemente dotati di onestà intellettuale e sinceramente convinti delle idee che professano, sono solo una variabile dei primi e se pur sono in grado di ragionare correttamente e di giustificare logicamente le proprie asserzioni non riescono comunque ad andare oltre le basi, ovvero i pregiudizi, da cui sono partiti per costruire il ragionamento: in pratica utilizzano, più correttamente di altri, la logica aristotelica, ma questa afferma che se anche il procedimento è corretto quando le premesse sono errate anche la conclusione lo sarà (è il caso ad esempio di Kant). Questi pregiudizi (non sono i medesimi per tutti ovviamente, anche se la gran parte sono condivisi) non sono messi in discussione praticamente da nessuno, e Nietzsche li chiama "istinti" in quanto sono talmente radicati nella coscienza individuale da apparire quasi innati (ma anch'essi sono ultimamente giudizi falsi, solo più profondi ma ugualmente falsi, come quelli concernenti la morale; del resto per quanto profondamente radicata possa essere una falsità questa non perde di per sé la sua natura). Poi vi sono quelli, rarissimi a quanto pare, che sono in grado di effettuare un lavoro talmente profondo da riconoscere ogni loro pregiudizio (incluso ad esempio il significato delle parole che usano per esprimersi, poiché anch'esso è parte dei pregiudizi) e metterlo in discussione alla luce della verità, fino a giungere alla comprensione di qualcosa che si possa esprimere in giudizi incontrovertibili, incontestabili, assolutamente veri. Durante tale percorso intellettuale si fanno delle esperienze che alcuni definiscono ispirate, mistiche, intuitive, illuminanti, rivelative; esperienze intellettuali che cambiano totalmente il punto di vista e di conseguenza la prospettiva del giudizio sul mondo, che non viene più visto a partire dall'io personale e dai suoi istinti, dai suoi bisogni, dai suoi interessi, dai suoi tiramenti, dalla sua educazione e formazione, ma lo si vede per quello che è effettivamente, a prescindere da tutto quanto sopra, e si riesce quindi a verificare come spesso l'io si immagini, attraverso i propri pregiudizi, un mondo in contrasto e in conflitto con quello che effettivamente è. Se dunque è vero che nella quasi totalità dei casi gli intellettuali, e i filosofi in particolare in quanto teoricamente al livello più alto di tale categoria, sono animati da pregiudizi falsi e se ne innamorano talmente tanto da costruire intorno ad essi tutti i loro sistemi, è altrettanto vero che il "quasi" presuppone un numero, per quanto ridottissimo, di persone che non fanno parte di tale categoria, e anziché inventarsi delle tesi "originali" derivanti da banali suggestioni per alimentare il proprio ego e i propri pregiudizi trovando, come dice Nietzsche, degli argomenti a posteriori per giustificare un pensiero "personale" e individuale, proseguono la loro ricerca fino ad esprimere un pensiero universale, che prescinde da ogni pregiudizio ed è valido in tutti i luoghi e in tutti i tempi, al di là di ogni contingenza: un pensiero di verità.
In un punto del saggio Nietzsche scrive: «fanno tutti le viste d'aver scoperto e raggiunto le loro proprie opinioni attraverso l'autonomo sviluppo di una dialettica fredda, pura, divinamente imperturbabile (per differenziarsi dai mistici di ogni grado, che sono più onesti di loro e più babbei - giacchè parlano d' "ispirazione")» Poi però in "Ecce homo", a proposito di ciò che gli ha consentito di concepire lo Zarathustra scrive: «...noi siamo soltanto incarnazione, soltanto strumento sonoro, soltanto medium di poteri che ci sovrastano. Il concetto di rivelazione, nel senso di qualcosa che, subitamente, con indicibile sicurezza e sottigliezza, si fa visibile, udibile, qualcosa che ci scuote e sconvolge nel più profondo, è la semplice espressione della verità. Si ode, non si cerca; si prende, non si domanda da chi ci sia dato; un pensiero brilla come un lampo, con necessità, senza esitazioni nella forma - io non ho mai avuto scelta. Un rapimento in cui la enorme tensione d'animo si risolve talvolta in un torrente di lacrime, in cui il passo involontariamente ora precipita, ora rallenta; un essere completamente fuor di sè stessi, con la percezione distinta d'una infinità di sottili brividi che ci scuotono fino alla punta dei piedi; una felicità profonda in cui il dolore e l'orrore non agiscono per ragione di contrasto ma sono parti integranti, indispensabili, sono come una nota di colore necessaria in quest'oceano di luce; [...]Tutto avviene in modo involontario al massimo grado, ma come in un turbine di senso di libertà, di incondizionatezza, di potenza, di divinità. [...] Questa è la mia esperienza dell'ispirazione; non dubito che si debba tornare indietro di millenni per trovare qualcuno che possa dirmi "è anche la mia"». Da quanto scrive in "Al di là del bene e del male" sembra che l'onestà di coloro che definisce "mistici" stia nel confermare con il termine "ispirazione" quegli "istinti" di cui parlava prima che invece i "razionalisti" negano pretendendo l'oggettività, ma poi a quanto pare si mostra anche lui "onesto e babbeo", quindi a suo dire mistico, quando descrive come nasce l'opera sicuramente più importante che ha scritto, l'unica che abbia la dignità di poter essere tramandata, quella che egli stesso definisce "il regalo più grande che l'umanità abbia mai ricevuto". Gli psicologi e i pedagoghi (anche se lo possono notare i normali osservatori che non godono di tali qualifiche moderne) ci raccontano che l'uomo, normalmente, acquisisce il proprio carattere, la propria visione del mondo, la propria "moralità" e i propri schemi mentali a partire dalla più tenera età fino all'incirca alla maturità che coincide tecnicamente con il termine dell'adolescenza (18/20 anni) attraverso i meccanismi dell'identificazione, della ribellione, della proiezione eccetera, e poi li mantiene per il resto della vita servendosene per giudicare i fenomeni del mondo. Vi sono poi alcuni (gli "intellettuali", gli eruditi e i colti latu sensu) che di tali schemi mentali ne fanno un mestiere approfondendoli, utilizzandoli, analizzandoli e insegnandoli mentre altri, i pochissimi, li metteranno in discussione chiedendosi se tali schemi hanno una qualche connessione con la Verità che l'uomo ricerca da sempre: di questi ultimi faceva parte Nietzsche, che con il suo riflettere ha contribuito ad aprire la sua mente in modo da lasciare uno spazio in cui l'ispirazione (o intuizione, o illuminazione che dir si voglia) si è insinuata e gli ha dato modo di esprimere i discorsi dello Zarathustra.
Ogni "ispirazione" è diversa dalle altre, più o meno intensa, più o meno durevole, più o meno "ispirata"; può essere una luce che si accende per un certo periodo di tempo o una serie di lampi, di flash, che mostrano solo per un attimo, in momenti diversi, frammenti di verità. Questo secondo caso mi pare più aderente a quella avuta da Nietzsche, che nello Zarathustra esprime verità taglienti e profondissime e poi le sviluppa a volte in maniera ingenua e a volte filtrandola attraverso pregiudizi falsi (tipo quello darwiniano) traendo deduzioni incomplete e superficiali con l'intento di dare sistematicità ad un pensiero che è evidentemente carente di un principio che unifichi tutte le sue intuizioni e le giustifichi in una visione complessiva (e a mio avviso questa è stata una delle ragioni alla base della sua pazzia).
Ogni pensiero è dunque frutto di un percorso, ogni pensatore ha una sua evoluzione che parte dall'educazione ricevuta e dalle suggestioni del mondo in cui vive e iniziando con la loro rielaborazione e il loro ripensamento giunge a compimento; dunque la critica ai filosofi, pur essendo in sé esatta nella quasi totalità dei casi, non è affatto applicabile a coloro che, anche se nell'accezione moderna possono essere comunque definiti tali, seguono un percorso intellettuale che da un certo punto in poi prende strade completamente diverse dagli altri, che portano fatalmente a destinazioni diverse: e per tutti costoro, il cui pensiero da orizzontale si eleva e si fa improvvisamente verticale, la destinazione è sempre la medesima perché coloro che hanno raggiunto la verità la riconoscono ovunque questa sia espressa: in ogni cultura, in ogni luogo, in ogni tempo, in ogni pensiero, in ogni simbolo, e a loro volta si riconoscono tra loro, quando capita che si incontrano (non personalmente ma attraverso le opere e l'espressione del pensiero) anche se inevitabilmente la manifestazione di tale pensiero assumerà forme diverse a seconda del periodo, delle persone a cui è rivolto e alle caratteristiche di chi lo esprime. Ma la sostanza rimane la medesima. È molto più probabile che fornisca un'interpretazione corretta dello Zarathustra un induista o un buddhista che non sa nulla di filosofia occidentale che non un occidentale che ha passato la vita a studiare Nietzsche; anzi un induista o un buddhista, o un saggio pellerossa (di quelli capaci, s'intende, non il primo che passa) sarebbero in grado di comprendere il pensiero di Nietzsche meglio di Nietzsche stesso e chiarirgli i punti oscuri e controversi, mentre la medesima cosa non potrebbe accadere con i famosi "filosofi" che Nietzsche critica nel suo saggio in quanto il loro pensiero possono comprenderlo soltanto loro e quelli che hanno preventivamente condiviso i medesimi pregiudizi e i medesimi schemi mentali da cui sono partiti per svilupparlo. Come accade ad esempio anche con la scienza, che non è nulla di "evidente" in sé e di cui si possono condividere le interpretazioni dei fenomeni e gli enunciati solo se si è scelto di condividere a priori i pregiudizi che la muovono e gli schemi di cui si serve.