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Discussioni - davintro

#1
Tematiche Filosofiche / Contro il rasoio di Ockham
04 Gennaio 2025, 23:36:39 PM
Saluto con piacere il forum, dato che era un pò di tempo che non passavo a scrivere, e ogni tanto mi prende un pò la nostalgia.

Un consueto cavallo di battaglia nelle discussioni sull'esistenza o meno di entità metafisiche come "Dio", "anima", "sostanza" ecc. da parte del "fronte" antimetafisico, di fronte all'ammissione dell'impossibilità di dimostrare l'inesistenza di tali entità, è chiamare in causa il "rasoio di Ockham". Non moltiplicare gli enti se non necessario, cioè in assenza di dimostrazioni a sostegno o contro l'esistenza di un ente, sarebbe più ragionevole la tesi della non esistenza, in quanto più semplice e meno necessitante di spiegazioni. Vorrei provare a spiegare i motivi che suscitano in me molta perplessità su un' autentica validità epistemica di tale argomento.

La concezione classica della verità la intende come corrispondenza tra proposizione e stato di cose oggettivo, cioè la verità sarebbe data dall'adeguamento dell'intelletto alla realtà. Nel rasoio i termini del rapporto vengono invertiti, si pretende che sia la realtà a doversi adeguare alle esigenze soggettive di comodità di ricerca, una visione della realtà semplice da verificare sarebbe più ragionevolmente vicina al vero di una complessa e impegnativa da indagare. Ciò inaugura quella deriva soggettivista e relativista che via via si imporrà nella modernità. I teorici del rasoio cercano di giustificare ciò affermando che quanto maggiori sono le condizioni necessarie al realizzarsi di un evento, tanto più tale realizzazione sarà ostacolata e resa improbabile, per cui l'esistenza di un evento "semplice", necessitante di minori condizioni di realizzabilità, sarà più probabile. Questo è il fondo di verità del rasoio, solo che è estremamente limitante per garantirne la validità epistemica. Io e Mozart concorriamo per la vittoria di un premio di musica, e viene stabilito che per vincere mi sarebbe sufficiente ottenere il voto anche solo di 1 dei 5 giurati che compongono la commissione valutante. Ora, un utilizzatore del rasoio non si farebbe problemi a scommettere sulla mia vittoria, essendo un evento con molte meno condizioni di realizzazione rispetto a quella di Mozart. Invece, ovviamente, Mozart stravince. L'errore del rasoio sta nel limitarsi a valutare, in termini meramente quantitativi, gli ostacoli esteriori da dover superare per realizzare un certo evento ignorando ciò che è più importante, la qualità interna dei singoli fattori di realtà (nell'esempio, il genio di Mozart paragonato alla mia difficoltà di mettere insieme tre note giuste al flauto imparato alle Medie), tale per cui, una causa particolarmente potente può con più facilità realizzare un evento superando un maggior numero di ostacoli rispetto a una causa più debole che pure avrebbe di fronte meno condizioni da assolvere per ottenere il suo effetto. La validità del rasoio implicherebbe l'assunzione di un modello di realtà materialista nel quale tutto ciò che accade è frutto di rapporti di forza quantitativi e misurabili, entro cui è possibile un calcolo delle probabilità, ignorando tutti i fattori qualitativi e immateriali, la natura delle singole cause, da analizzare una alla volta, tali per cui un a maggior numero di condizioni atte a realizzare un evento si può assolvere sulla base di un grande talento o una morte motivazione psicologica, mentre una volontà debole può avere difficoltà a realizzare azioni apparentemente semplici.

La seconda obiezione è più radicale: la prima voleva andare a riconoscere la grande limitatezza del margine di applicabilità del rasoio, questa vorrebbe andare a colpire proprio il cuore del rasoio, la presunta distinzione tra visioni "semplici" e "complesse". Il rasoio indica di non "moltiplicare gli enti se non necessario" e in questo modo assume un modello di realtà rozzamente intesa come una sorta di lista della spesa in cui ogni attribuzione di esistenza conduce a un allungamento della lista. Secondo me non esistono visioni più semplici o più complesse, in quanto i limiti delle umane visioni sono dati dalla prospettiva da cui i soggetti vedono la realtà, non dalla quantità di oggetti compresi in quelle visioni. Tizio e Caio si affacciano alla stessa finestra, Tizio vede un campanile, Caio, guardando nella stessa direzione, non lo vede. Ora, un teorico del rasoio direbbe che, fintanto che non si vada ad accertare l'esistenza del campanile, la prospettiva di Caio dovrebbe essere preferibile, in quanto più "semplice ed economica". Ma, come insegna Husserl, il pensiero è sempre "pensiero di qualcosa", questo vuol dire che l'assenza del campanile dalla visione di Caio presuppone che al posto del campanile ci sia qualcos'altro che riempirebbe lo stesso spazio che nell'ottica di Tizio è riempita dal campanile. Il nulla non è altro che nulla, dunque ogni negazione dell'esistenza di un ente implica l'affermazione "in positivo" di un altro ente che riempie il posto lasciato vuoto nella visione, senza così che tale negazione renda la visione più semplice. Il teorico del rasoio a questo punto potrebbe ribattere dicendo che la prospettiva di Caio resta più semplice (dunque preferibile) in quanto al posto del campanile si vede il cielo, cielo che è già presente nella visione di Tizio, il quale, vedendo anche il campanile, sta rendendo la sua prospettiva più complessa, più ricca di esistenza, più ontologicamente costosa. Ma non è così: il materialista che, usando il rasoio ed eliminando entità metafisiche, ritenendo di poterle sostituire con oggetti presi dal mondo delle scienze come "natura", "big bang" "evoluzione" ecc. presenta la sua visione come più "semplice" ed "economica" in quanto quelle categorie indicherebbero realtà che anche il metafisico può riconoscere, sta in realtà giocando su un ambiguità linguistica semantica. Infatti, nel momento in cui vengono utilizzate come sostitutive delle entità metafisiche, subiscono uno stravolgimento semantico rispetto al significato entro cui erano state pensate per rispondere alle questioni scientifiche, distinte da quelle metafisiche. La prospettiva materialista è solo apparentemente più semplice ed economica rispetto a quella metafisica, in quanto l' eliminazione delle categorie della metafisica è ottenuta a condizione di rendere più "costose" le categorie naturalistiche con cui vengono sostituite, che, nell'esser presentate come risolutive di questioni filosofiche e non solo scientifiche, diventano qualcosa di totalmente diverso dalla loro accezione scientifica originaria, molto più complesse così come il "cielo" nella visione di Caio è molto più complesso del cielo di Tizio, in quanto presume di invadere anche lo spazio entro cui quest'ultimo vede il campanile. il livello di complessità è lo stesso, non aumenta o diminuisce e l'onere della prova che ha Tizio nel dimostrare l'esistenza del campanile è pari a quello di Caio nel dimostrare la realtà del tratto di cielo che nella sua visione occupa lo spazio in cui Tizio vede il campanile, così come l'onere della prova per il metafisico di dimostrare l'esistenza di Dio, anima, sostanza, è pari a quello del materialista per dimostrare l'esistenza di realtà mondane chiamate a render ragione di ciò che invece il metafisico ritiene di poter spiegare tramite le sue categorie.

In realtà, non voglio dire che il rasoio non abbia alcun valore, solo che penso che tale valore sia accettabile in un'ottica meramente pragmatica e non teoretica, cio una sorta di regola producerale per le ricerca. Essendo il tempo della nostra vita limitato, si può accettare di fissare parametri in base a cui evitare di prolungare ricerche inerenti ipotesi comportanti tempi eccessivamente lunghi di verifiche, ma ben consapevoli che ciò non va in alcun modo ad intaccare il presunto valore teoretico/veritativo dell'ipotesi scelta, ma si tratta solo di una scelta pragmatica di razionalizzazione del tempo e dei costi dello studio, insomma trattare il rasoio non molto diversamente dall'accorgimento di vestirsi pesante se si va a fare esplorazioni al polo nord... insomma più che "contro il rasoio di Ockham" sarebbe più corretto dire che volessi argomentare contro gli abusi del rasoio, abusi purtroppo molto frequenti.
#2
Tematiche Filosofiche / l'equivoco dell'inconscio
04 Agosto 2023, 23:55:08 PM
Tutta la storia della psicoanalisi muove da un grande equivoco: la confusione tra razionalità e coscienza, tipica del clima positivista ottocentesco in cui Freud è vissuto. Per combattere, cosa corretta, l'idea positivista di un controllo, di un sapere pieno della ragione, della scienza su noi stessi, e riducendo, scorrettamente, la coscienza al controllo razionale e riflessivo dell'Io sul Sé, ecco che Freud ha dovuto inventarsi "l'inconscio", un'area della psiche esterna alla coscienza, senza rendersi conto dell'assurdo logico di una studio (riconduzione alla coscienza) di qualcosa, l'inconscio, che per definizione, non può essere "conscio", contenuto di un sapere della coscienza. Ecco che la psiche viene descritta con la metafora dell'iceberg, la punta che fuoriesce, la coscienza, e la gran parte in ombra sotto il mare, l'inconscio, quando in realtà la metafora più indicata sarebbe quella del pozzo e della torcia. La psiche è un pozzo illuminato dalla luce della coscienza emanata da una torcia (l'Io), ma sempre e solo parzialmente, essendo lo speleologo necessitante di non staccare per troppo tempo il contatto col mondo esterno, necessario alla sopravvivenza. Le zone d'ombra che restano è l'inconscio, della cui esistenza non abbiamo però esperienza  (coscienza è appunto lo sfondo entro cui ogni esperienza è resa possibile e ha significato, non solo la ragione e la riflessione), ma solo un concetto astratto derivato per via negativa, dall'avvertimento dei limiti della luce della coscienza. L'inconscio è il buio, il freddo, il Nulla, il Male, concetti di cui non abbiamo un sapere intuitivo, ma che possiamo solo ricavare dialetticamente dai loro opposti, che invece riempiono lo spazio della nostra esperienza, la luce, il caldo, l'Essere, il Bene. Per quanto sembri paradossale, l'inconscio è un concetto molto più "razionale" della coscienza, proprio perché a differenza di quest'ultima, di cui abbiamo, per definizione, per essenza, una costante esperienza intuitiva, esso è solo un concetto astratto ricavabile per deduzione logica, senza che possa mai darsi come concreto contenuto di esperienza significativa (altrimenti diverrebbe coscienza, ciò a cui si contrappone). Checché se ne dica, S. Agostino e Husserl resteranno sempre guide per la nostra interiorità infinitamente più preziose che Freud e i suoi seguaci.
#3
Presentazione nuovi iscritti / Saluto
18 Marzo 2022, 15:02:28 PM
Buongiorno a tutti

Avevo piacere dopo diverso tempo di assenza dalle discussioni dal forum di ripassare a fare un saluto ai partecipanti del forum, compagni per diversi anni di piacevoli e interessanti conversazioni. Non so se in futuro torneranno il tempo e gli stimoli giusti per tornare a partecipare in modo più attivo, ma per il momento mi era sembrata una bella cosa salutare e ringraziare i membri questa comunità virtuale dove ho passato bei momenti di ricezione di energie per la mente e lo spirito, e nel caso fossi riuscito con la mia partecipazione a offrire un contributo, seppur minimale e con tutti i miei limiti, alla crescita del forum come luogo di confronto intellettuale, lo reputerei un onore.

A Presto, speriamo!
#4
Sempre più comune è la moda, soprattutto mediatica, di utilizzare una terminologia bellica nei discorsi che si riferiscono alle gravi malattie nelle quali le persone incappano. Il malato è presentato come "guerriero" che deve "combattere" la sua "battaglia" contro la malattia. In questo sempre più frequente atteggiamento linguistico si nascondono alcuni aspetti di una mentalità che meriterebbe quantomeno di essere oggetto di una sana critica. Il punto focale di questa mentalità, il più evidente, è una certa sovrastima della rilevanza della forza di volontà, della volontà di vivere, come fattore determinante il raggiungimento o meno della guarigione: definendo il malato come "guerriero",  si vuole lasciare intendere che, quanto più la "volontà di vivere" del paziente sia forte, tanto più aumenta la possibilità di "vincere la battaglia", di guarire. Conseguenza di ciò, chi muore, è perché "non ce la fatta", ha "perso la battaglia", perché magari, tutto sommato, non aveva abbastanza forza e voglia di vivere. Oltre a essere un concetto irrispettoso e offensivo per i morti, è evidente che, al di là della retorica volta all'incoraggiamento, funzionale per molti malati a non lasciarsi oltremisura abbattere e demotivare nelle loro attività quotidiane, ad essi si tende ad inculcare, tramite condizionamento linguistico, un eccessivo peso e senso di responsabilità, attribuendo alla loro volontà un esito della malattia nei cui confronti, realisticamente, hanno un peso ben maggiore il destino, l'entità della malattia, la qualità delle cure mediche. E mi pare evidente come tutto questo addossare la responsabilità del loro stato di salute a pazienti, rischi di produrre uno stress dovuto all'assumere se stessi come protagonisti del loro destino, che in persone che vivono situazioni così estreme può rivelarsi psicologicamente controproducente. Connesso a tutto ciò, c'è la proposizione in chiave moralista di un certo modello antropologico, da parte di chi tende a usare questo linguaggio militaresco, che si vuole subdolamente imporre, caratterizzato da  forza, coraggio, estroversione, le prerogative del "guerriero", posto come unico modello da seguire, a scapito della sensibilità, della ricettività, della timidezza, dello spirito contemplativo, che caratterizzano altri modelli di personalità, che in questo modo finiscono con l'essere quasi colpevolizzati, tacciati di arrendevolezza, come fosse colpa di chi in questi modelli caratteriali si riconosce, "la sconfitta", la morte. Più in generale si propone un'antropologia nella quale sembra venir meno la componente, fondamentale, della finitezza ontologica, il malato-guerriero incarna una concezione dell'essere umano che sembra potenzialmente invincibile, i cui momenti di debolezza e di sofferenza, anziché riconosciuti come dimensioni interne e connaturate, sono espressioni accidentali della malattia, un nemico esterno da combattere, l'esercito nemico che, per l'appunto, accidentalmente si è insediato nella cittadella del corpo, ed ora occorre raccogliere tutte le nostre forze per ricacciarlo (antesignana di questo approccio mentale/linguistico può esser considerata Oriana Fallaci, che definiva il suo tumore "l'alieno"). La fragilità, invece di essere riconosciuta come dimensione costitutiva dell'umano, diventa una colpa da condannare in nome del modello del guerriero che per vincere non può permettersi debolezze. Se per un aspetto questa retorica ha quantomeno il merito di recuperare un margine di autonomia dello psichico e dello spirituale all'interno dell'antropologia, per cui il malato cessa di vedersi come "ridotto" alla sua malattia, cioè ha la possibilità di essere, seppur secondariamente rispetto al lavoro dei medici, poter contribuire psichicamente al suo percorso di guarigione, dall'altro questo  ruolo dello psichico e dello spirituale, della volontà, viene per un verso come sopravvalutato ed esasperato, conducendo la persona a individuare un modello di personalità irrealistico, che per ottenere la guarigione "basta volerlo veramente", nei cui confronti svalutare l'effettiva realtà imperfetta della sua vita, sempre in buona parte in balia di fattori non dipendenti dalla sua forza di volontà, dall'altro viene moralisticamente identificato come qualcosa da orientare verso un certo tipo di approccio alla malattia posto come l'unico "corretto possibile" sulla base di un aderire a una tipologia caratteriale che non può e non deve essere la stessa per tutti.
#5
Tematiche Filosofiche / citazionismo intimidatorio
13 Aprile 2020, 20:58:06 PM
]ieri notte vedevo il bellissimo film di Rossellini su Socrate. Ho provato una grande ammirazione verso quelle modalità di impostazione del dialogo filosofico, quando l'unica cosa che contava nelle dispute filosofiche era l'argomentazione logica, la capacità di cogliere la contraddizione nei discorsi altrui, la coerenza interna dei propri, anziché riempire i discorsi di citazioni, di princìpi di autorità per intimorire l'interlocutore, senza argomentare sul perché le posizioni citate sarebbero vere, quando ancora quello contava era COSA si diceva, COME si diceva, anziché CHI lo diceva. Filosofare come ragionare con la propria testa invece che delegare alla storia e alle opinioni altrui il fondamento delle proprie pretese di verità. Certamente il fatto di situarsi nelle prime fasi storiche della storia della filosofia consentiva ai greci di percepirsi pionieri e liberi pensatori molto più dei pensatori della nostra epoca, perché meno gravati dal peso di una tradizione storica che ci influenza presentandosi come principio di autorità. Peso che se da una parte costituisce una ricchezza, un patrimonio di stimoli per poter pensare, dall'altro finisce con il divenire arma di chi usa il citazionismo, l'erudizione, la conoscenza dei filosofi del passato come strumento di convalida delle loro tesi e dileggio verso quelle degli altri, accusati di ignoranza, anziché utilizzare la logica e l'intuizione delle "cose stesse". Se si vuole, questo è un topic, in parte, di sfogo, considerando quanto ho sempre sofferto il sentirmi nella vita in modo più o meno esplicito accusato di non tener conto di tanti autori, proprio perché, riallacciandomi, a modo mio, a questa impostazione maieutica, basata sulla logica deduttiva e sul vedere gli autori del passato come stimoli, ma non come oggetto primario del mio interesse filosofico, ritengo che i richiami storici agli autori debbano aver un peso e un'utilità di livello ben diverso, se si parla di contesti di discussione di filosofia teoretica, discussioni riguardo le proprie personali tesi, oppure di discussione filologica, in cui l'obiettivo non è la formazione di un proprio pensiero, ma l'analisi delle tesi altrui
#6
 La presunzione d'innocenza è il capisaldo dello stato di diritto, ma esistono ampie fascine dell'opinione pubblica che sempre più percepiscono questo principio come un formalistico e astratto cavillo che impedirebbe, secondo loro, un'azione giudiziaria e polizesca veramente efficace nella lotta al crimine. Si aggiunga la frequenta accusa, per i difensori della presunzione di innocenza di essere sostanzialmente degli ipocriti, che possono permettersi di essere "buonisti" e "pietisti", in un comodo idealismo che non tiene conto di come nella realtà sarebbe necessario agire. In queste discussione vorrei provare, molto sinteticamente a mostrare perché in realtà sarebbe proprio la razionalità, e non un irrazionale sentimentalismo, seppur applicata ai rapporti di valori, a legittimare il rispetto di questo principio. Privare una persona della libertà è di per sé un male, che può giustificarsi solo come "male minore" se viene accertata la pericolosità di chi, lasciato in libertà può nuocere ad altri. Ora, incarcerare un innocente è senza dubbio un male, ingiustificato e certo. Lasciare un colpevole in libertà è un male solo potenziale, in quanto non è detto che commetta di nuovo un reato, e non è detto che non glielo si possa impedire prima di portarlo a termine. Quindi, soppesando le due situazioni, l'innocente in galera resta il male maggiore. Il principio garantista non è "buonismo" o "pietismo", come superficialmente si può credere ma si basa su una coerente razionalità del calcolo costi-benefici e certezza-possibilità applicato ai valori che sono in gioco, cioè benessere dei cittadini, espressione della libertà. Anzi, credo che spesso la retorica pietista stia maggiormente dalla parte di chi contesta il garantismo, chiamando in causa la necessità di appagare un sentimento di rabbia delle vittime (o parenti delle vittime) di un reato, fornendo rapidamente un qualunque capro espiatorio
#7
Tematiche Filosofiche / Il merito. Esiste davvero?
13 Dicembre 2019, 17:11:28 PM
Siamo soliti contrapporre in modo apparentemente netto ciò che otteniamo o che si potrebbe ottenere tramite "merito", cioè tramite impegno, le nostre scelte liberamente attuate, rispetto a ciò che si otterrebbe per mera fortuna, di fronte a cui non ci sembra di avere alcun merito, in quanto l'ottenerlo non appare conseguenza di un nostro agire, ma un possesso che preesiste ad esso (la famiglia in cui si nasce, l'aspetto fisico entro i limiti in cui non è oggetto di una cura nel corso della vita, il talento innato...). Quello che vorrei discutere è... quanto è davvero sensata questa distinzione? Se analizziamo razionalmente si nota come la distinzione appaia sfumare. Le nostre azioni, il nostro impegno cioè l'ambito in cui comunemente collochiamo ciò che si otterrebbe per merito, non è mai un apriori con niente alle spalle, ma sempre la conseguenza a sua volta di un carattere, di una personalità, costituita da un sistema di valori soggettivo da cui far derivare le motivazioni che ci energizzano e ci spingono a  impegnarci e a raggiungere gli obiettivi che ci paiono "meritati" e non "fortunosi". Ora, i casi sono due: o questa personalità, questa sensibilità ai valori, queste motivazioni sono originariamente costitutive dell'identità soggettiva, cioè innate, e allora non potremmo considerare tutto ciò che da loro consegue come più "meritato" rispetto al fatto di avere gli occhi azzurri invece che verdi o il biondo naturare dei capelli, oppure in tutto ciò non vi è nulla di innato, ma solo prodotto delle influenze ambientali esteriori, e allora direi, a maggior ragione, non ha alcun senso parlare di "merito"  di cui andar fieri, dato che la causa responsabile del nostro agire e dei nostri eventuali successi non starebbe nella nostra identità interiore, ma in qualcosa di esterno a noi. Appare inoltre evidente come una terza soluzione, intermedia, per cui ogni aspetto della personalità non è mai né puramente innato né puramente derivato dall'ambiente, ma come un misto di questi due fattori, al di là della sua credibilità, non sposti in alcun modo i termini della questione, in quanto, questo miscuglio sarebbe pur sempre composto dalle stesse fonti "interno/innato" e "esterno/ambientale" che rimandano ai primi due casi già trattati in precedenza,  anche se non sarebbero più nello loro singolarità sufficienti a spiegare il dinamismo vitale.

La mia convinzione personale, sulla base di questo accenno di analisi, è che il "merito", inteso  nel senso che gli attribuisce la maggior parte delle persone, cioè qualcosa di separato rispetto alla fortuna, non esiste. Non ha alcun senso andar fieri di ottenere delle cose "per merito e non per fortuna", in quanto i successi che riflettono davvero il nostro talento, la nostra identità non fuoriescono dall'ambito della fortuna, in quanto riflettono sempre una condizione innata, che proprio perché "innata" è davvero rivelatrice di noi, ciò che ciascuno di noi è prima di subire le influenze ambientali, la sua essenza per così dire (chiarisco che in questa discussione non mi sto focalizzando sul tema se esista effettivamente qualcosa di innato o no, ma sto considerando l'ipotesi innatista a livello ipotetico in rapporto al concetto di merito). Quello che contesto non è tanto l'esistenza del "merito" in generale, ma solo l'esistenza nell'accezione che lo distingue e contrappone alla fortuna. Ciò che può essere considerato come uno specchio rivelatore del nostro valore non è il merito astratto dalla fortuna, ma ciò che è interiore/innato contrapposto a ciò che è conseguenza di un'esteriorità, al di là del fatto che ciò che noi siamo innatamente non sia "meritato" nell'accezione comune del termine, nell'accezione che si riferisce alla sua possibilità di esistenza che sto qui contestando. Ma allora, viene spontaneo chiedersi, perché tante persone sono così affezionate a intendere il merito di cui poter andare orgogliosi contrapposto alla fortuna? La mia personale opinione è che ciò sia dovuto a una sorta di residuo attaccamento all'etica del risentimento. Cioè a quella percezione autoconsolatoria per cui le persone che hanno dovuto fare sacrifici per raggiungere un obiettivo avvertono l'esigenza di sentirsi moralmente ripagati dei sacrifici fatti, percependo i loro risultati come moralmente superiori, perché "meritati", nei confronti degli stessi obiettivi raggiunti da persone che avrebbero avuto la fortuna di raggiungerli più facilmente. Inorgoglirsi del merito contrapposto alla fortuna nasce dall'invidia verso le persone che avendo avuto meno bisogno di fare sacrifici, vengono in questo modo svalutate, perché solo "fortunate", non tenendo conto che la tenacia nell'affrontare i sacrifici riflette a sua volta una personalità innata che si è stati fortunati ad avere. Quindi, direi, se motivo di orgoglio deve esserci nei sacrifici fatti non sta nel senso che i sacrifici avrebbero colmato un'assenza pregressa di fortuna, ma che essi hanno offerto l'occasione di rivelare delle doti come la determinazione, che però proprio in quanto possiamo andarne fieri, siamo stati FORTUNATI a trovare innatamente in noi stessi, come parte integrante dell'identità personale
#8
L'opinione comune, riflessa nei principali manuali di storia scolastici è che l'esito della Guerra di Secessione, la completa vittoria del Nord, fosse già in partenza inevitabile, e che solo la grande abilità dei generali confederati abbia potuto favorire una resistenza di ben 4 anni di conflitto. La motivazione di tale ineluttabilità viene fatta coincidere con il largo divario di risorse economiche e umane in favore di una società già industrializzata in contrapposizione alla società rurale del Sud. Ho sempre trovato questa motivazione perfettamente valida ma al contempo limitata e non esauriente. La storia insegna di conflitti dove la parte più debole in termini di risorse umane e materiali è riuscita a prevalere, pensiamo alla Guerra del Vietnam, o andando su epoche e contesti più vicini e anche più attinenti al periodo qui in questione alla guerra di Indipendenza Americana, con l'esercito coloniale ben più scarso di soldati e risorse ma vincente rispetto alla soverchiante potenza britannica. Quindi quello che mi chiedo è, davvero l'esito militare del conflitto era scontato in partenza? Davvero non ci sono stati altri fattori oltre quelli comunemente considerati a determinare la sconfitta del Sud?

La mia personale impressione è che la motivazione principale della sconfitta degli Stati Confederati coincida paradossalmente con la motivazione del suo sorgere (da qui si può parlare di destino e di ineluttabilità), l'autonomia dei singoli stati "states'rights" rispetto al potere centrale federale di Washington, come condizione di preservazione della struttura sociale latifondista e schiavista, alternativo al modello industriale protezionistico, necessitante di un forte potere centrale. Se l'istanza autonomista degli stati è stata il motore della secessione, è stata anche la condanna che ha condotto alla sconfitta militare. La necessità di non scontentare le esigenze dei singoli stati confederati, gelosi della loro autonomia, ha condizionato la strategia militare del Sud, impedendo un comando unitario delle operazioni, costringendo ad una dispersione delle forze armate a difesa dei singoli stati, senza possibilità di una concentrazione delle forze nelle zone strategicamente più rilevanti. Questa concentrazione di forze avrebbe consentito delle offensive nei territori unionisti, che anche se probabilmente fallimentari sul piano militare, avrebbero potuto portare successi dal punto di vista psicologico-politico, intimorendo l'opinione pubblica nordista, spingendola a togliere l'appoggio alla linea lincolniana di tenace perseguimento del recupero dell'Unione, favorendo un cambio di amministrazione in favore del Partito Democratico (ricordiamo che nel pieno della guerra si svolsero in territorio nordista le elezioni presidenziali, fino alla caduta di Atlanta, molto incerte, in cui Lincoln rischiò seriamente di perdere), da sempre molto più bendisposto verso gli interessi sudisti, rispetto ai repubblicani dell'epoca. La sproporzione di uomini e risorse a favore del Nord non era affatto necessariamente decisiva, in quanto il Sud non aveva bisogno di vincere la guerra militarmente, gli bastava danneggiare il Nord quel che bastava per logorarlo appunto da indurlo a chiedere una pace che sancisse la sua indipendenza, vincere sul piano psicologico, esattamente come il fatto che l'offensiva del Tet si fosse rivelata un fiasco militarmente per i Nordvietnamiti, non precluse affatto ad essi la vittoria finale, perché si rivelò vincente sul piano propagandistico e morale nei confronti dell'opinione pubblica Usa, sorpresa e intimorita da tale operazione. Un governo centrale confederato forte, avrebbe avuto la forza di permettersi di sacrificare la difesa di qualche territorio strategicamente secondario, per concentrare e coordinare le forze per una strategia offensiva ben più sistematica, ampia e continuata del tempo, che quella realizzata nei fatti, ridotta all'estemporanea invasione della Pennsylvania da parte del generale Lee, conclusasi con la battaglia di Gettysburg. Se ciò non è stato possibile, forse è perché le istanze localiste dei singoli stati secessionisti hanno impedito una centralizzazione della strategia militare che avrebbe potuto essere foriera di quei successi, se non strettamente militari, comunque politici e propagandistici, come stimolo all'opposizione pacifista al Nord (la creazione di un comando militare unificato sotto Lee fu creato troppo tardi, a guerra ormai persa, mentre l'Unione attribuì a Grant il comando unificato al momento giusto) In definitiva, la mia impressione che è la ragione di fondo della sconfitta confederata sia stata il mancato sviluppo di un  vero e proprio nazionalismo Dixie, un senso di appartenenza che andasse al di là del sentirsi, in ordine sparso, virginiani, texani, missisipiani ecc. Cosa ne pensate di queste interpretazioni? Un nazionalismo, un'autocoscienza sudista, al di là dei singoli stati è davvero esistita ai tempi del conflitto?
#9
supponiamo che un giorno un movimento di ultradestra xenofobo, ancora più estremista della Lega salviniana, salisse al governo, e sulla base della sua ideologia razzista, antisemita od omofoba, arrivasse al punto di emettere un'ordinanza restrittiva sui luoghi pubblici, negozi, locali, ristoranti, a cui imporre divieto d'accesso per immigrati, ebrei, coppie omosessuali ecc. In un contesto economico di tipo totalmente collettivista/statalista, ove la proprietà dei mezzi di produzione appartiene allo stato, tutti i locali sarebbero obbligati ad aderire all'ordinanza,. In un contesto caratterizzato dal libero mercato, cioè da una molteplicità di proprietà private concorrenziali, invece ciascun privato resterebbe libero di introdurre o meno il divieto nel suo locale, e coloro che non condividono le folli idee dei governanti, manterrebbero aperto il locale a tutti. Nel secondo contesto i governanti non potrebbero che limitarsi a proporre appelli, pareri personali, senza alcun potere di obbligare i proprietari a imporre divieti di accesso nei loro locali (mi interessa tentare un raffronto tra due opposti modelli economici, intesi nella loro purezza ideale, non considerando eventuali sistemi misti, come l'Italia, dove locali seppur privati nella loro proprietà possono comunque essere vincolati a certi obblighi sulla base di leggi comunali o nazionali). Appare chiaro come nel modello liberale l'impatto delle ideologie discriminatorio di chi governa sarebbe molto minore rispetto all'impatto in un modello dove lo stato ha il pieno controllo dei mezzi di produzione,  come un monopolista che può' fare il bello e cattivo tempo nella consapevolezza che i cittadini non avrebbero alcuna alternativa, non essendo permessa alcuna fonte alternativa di produzione dei beni. Questa è la funzione, il ruolo fondamentale che in un sistema democratico svolge il libero mercato: preservare i cittadini dal ricatto di dover accettare le condizioni di vendita di un bene da parte di un ente monopolista, lo stato, che sfruttando l'assenza di qualunque concorrente può permettersi di produrre beni di scarsa qualità, a prezzi alti, nonché nell'esempio, fortunatamente surreale, di partenza, di fissare discriminazioni, razziali, sessuali, morali,  nell'accesso dei beni in questione. Il libero mercato ( magarsi  supportato da buone leggi antitrust) preserva da tale situazione tramite la dispersione del potere di proprietà in una molteplicità di enti in concorrenza, ciascuno dei quali, consapevole che l'insoddisfazione dei clienti, porterebbe al loro rivolgersi ad altri produttori, e per  evitare il fallimento sono spronati a fornire le migliori condizioni, in rapporto qualità-prezzo, e accessibilità ai loro clienti. Il libero mercato è dunque un sistema nel quale l'interesse personale del produttore viene di fatto a coincidere con la soddisfazione delle esigenze dei clienti, ai quali, avendo riconosciuta una varietà di scelte, hanno maggiori possibilità di incontrare un ente produttore su misura delle loro esigenze personali, in questo modo il libero mercato appare essere come il meccanismo più efficace di massimizzazione, sia in termini di distribuzione quantitativa, che di qualità assoluta, di benessere materiale all'interno di una collettività costituita dall'insieme dei cittadini consumatori.

La stessa situazione non riguarda solo i cittadini in quanto consumatori, ma anche come lavoratori. Esattamente come il principio concorrenziale impone ai produttori la soddisfazione dei clienti, per evitare si rivolgano ad altri produttori, esso impone anche la tutela di condizioni vantaggiose ai lavoratori, per evitare che possano dimettersi per andare a cercare occupazione in altre aziende o enti, finendo con il danneggiare la loro produzione in assenza di personale. Non vedo perché il principio per cui all'aumentare della varietà di opzioni (corrispondenti alla varietà di enti produttivi) aumentino anche le possibilità di realizzazione delle esigenze, valente per i consumatori, non dovrebbe valere anche per i lavoratori. La stessa funzione dei sindacati avrebbe ragion d'essere solo all'interno di un modello liberale: nel momento in cui si riconosce la distinzione tra la proprietà (privata) di un'azienda, e la platea dei lavoratori, ha un senso che le istanze di questi ultimi siano rappresentati da comitati contrattanti le loro condizioni di lavoro con i datori di lavoro, alla ricerca di una sintesi, sempre potenzialmente aggiornabile o migliorabile nel tempo tra i diversi interessi in gioco, mentre in modello collettivista, in cui proprietà e collettività del pubblico dei lavoratori coincidono, questi ultimi perdono la possibilità di un realmente autonomo organo di rappresentanza, in quanto proprietà e insieme dei lavoratori coincidono nello stato, e i lavoratori in quanto considerati in linea teorica come "proprietari" (perché membri dello stato) non potrebbero spontaneamente organizzarsi in opposizione alle modalità di gestione pubblica delle aziende, teoricamente espressione dell'interesse pubblico, ma praticamente attuata dalla burocrazia e dall'elite dei dirigenti statali, contestandole in nome di istanze autonomamente poste., e dunque di fatto non avrebbero strumenti di critica nei confronti della proprietà.


Di fronte a queste argomentazioni, il collettivismo potrebbe contrapporre l'idea della distinzione fra "stato" e "governo", o "maggioranza parlamentare", rivendicando il carattere universalistico dello stato, che rappresentando la totalità degli interessi popolari non opererebbe mai come ente proprietario dei mezzi di produzione, in opposizione alla tutela del benessere e dei diritti del "popolo", di fatto coincidendo con esso. A mio avviso tale posizione è limitante nella sua astrattezza: per quanto formalmente lo stato, almeno nel modello democratico, si presenti come "cosa pubblica", rappresentante di tutti, nella pratica le decisioni vengono sempre prese dal gruppo ristretto di persone che scelgono la carriera politica e si trovano in ruoli di responsabilità nei quali, anche ammettendo le buone intenzioni, l'idea di "interesse pubblico" sarà sempre ricercato filtrandolo sulla base dei loro soggettivi interessi e giudizi di valori, mentre l'interesse pubblico, nella sua concretezza e completezza, resta sempre coincidente con l'insieme degli interessi dei singoli individui nella loro totalità, insieme impossibile da sintetizzare sulla base dell'ideale di interesse pubblico che hanno in mente i rappresentanti dello stato, che avendo la gestione dei mezzi di produzioni, si riserverebbero un potere che andrebbe inevitabilmente in conflitto con gli effettivi interessi dei cittadini (da qui l'esigenza tipicamente liberale di limitazione del potere di intervento dello stato nei confronti dei cittadini). Il punto è che lo slogan "lo stato siamo noi" resta retorica: in realtà "noi" non siamo lo stato, siamo un popolo che riconosce la necessità di darsi un'organizzazione statuale, per avere garantiti dei benefici che in una condizione di totale caos, in assenza di legge e stato, non sarebbero garantiti, ma questo non esclude affatto la contingenza di una cattiva gestione dello stato che entri in conflitto con le istanze popolari, istanze che meglio sarebbero tutelate preservando la più possibile gamma di scelte a disposizione dei singoli individui componenti il popolo, anche nell'ambito economico. Se lo stato fossimo davvero "noi", dovremmo dedurre per assurdo, ad esempio che l'esistenza del popolo ebraico sia cominciata con l'indipendenza dello stato d'Israele nel 1948, come se anche precedentemente, in assenza di un proprio stato, gli ebrei non avessero continuato a sentirsi parte di una comunità di spirito, cultura e tradizione, anche se geograficamente dispersa e senza formalizzazione sancita da un passaporto. In definitiva, anche considerando, come, da come ho avuto modo di intuire, le posizioni liberali in questo forum tendano a essere minoritarie, sarei curioso di come secondo i fautori di una società postcapitalista tali questioni potrebbero risolversi, in assenza delle soluzioni che il libero mercato appare presentare come massimamente efficaci
#10
Ho sempre avuto difficoltà e dubbi nell'individuare la differenza tra una semplice ammirazione e l'innamorarsi in senso stretto, all'interno delle nostre esperienze vissute. Negli ultimi tempi penso di essere arrivato, anche riferendomi a esperienze personali, a un'ipotesi riguardo il tratto peculiare ed essenziale dell'innamorarsi, che lo contraddistinguerebbe da ogni altro vissuto, apparentemente simile. Penso possa notarsi come nell'essere innamorato ci si accorga come caratteristiche, di per sé solitamente non gradite, cominciano ad apparire quasi gradevoli proprio perché appartengono alla persona di cui ci si innamora. L'ammirazione valuta la persona sulla base delle sue caratteristiche comunicabili, potenzialmente appartenenti a chiunque altra: la ammiro per la sua bellezza, per la sua intelligenza, per il suo umorismo, la sua dolcezza, le sue idee. Se le caratteristiche positive prevalgono su quelle negative scatta l'ammirazione. La persona che si ammira resta ancora, nella rappresentazione associata a quest'ottica, somma delle sue parti, resta pur sempre un calcolo (per quanto possa essere immediato e intuitivo) di luci e ombre, pro e contro a determinare il giudizio. L'innamoramento capovolge questa logica: non sono più le sue caratteristiche particolari a determinarne l'affetto, ma al contrario, le caratteristiche a diventare godibili perché caratteristiche di QUELLA persona. Perché quando amiamo non siamo rivolti alle "parti" di chi amiamo, ma al suo cuore, al nucleo profondo della sua in-dividualità (non divisibilità), il centro della sua unità. La persona che amiamo non si presenta più come somma di parti, ma un'unità di senso, di relazioni, nei quali i singoli tratti risplendono, non più di luce propria, ma come ruotanti attorno a un Sole che la contraddistingue come individuo unico e irripetibile, la sua qualità incomunicabile, indefinibile sua e basta. Nell'innamoramento la persona destinataria di questo sentimento svela il proprio essere olistico, l'unità della personalità è colta immediatamente, con un atto di sentimento specifico, perché primariamente rivolto al suo principio individualizzante, la qualità che colora di uno stile inconfondibile le singole "parti". In realtà non sono ancora sicuro le cose stiano davvero così, che non sia invece sempre le singole caratteristiche a determinare ogni tipo possibile di affetto, e a darci l'illusione che anche quelle solitamente non gradite appaiano piacevoli. Ma se, come penso, esista un principio individualizzate, qualitativo che contraddistingue ogni persona, allora (a prescindere dalle effettive confusioni a cui possiamo incorrere nell'empirico) dovremmo anche, almeno a livello ideale, ammettere la possibilità di un vissuto ad hoc, rivolto a tale principio, altro rispetto a quello rivolto a valutare le caratteristiche comunicabili, e allora l'amore non può essere solo un grado quantitativamente superiore rispetto all'ammirazione, ma un vero e proprio salto qualitativo.
#11
è molto comune, e purtroppo lo si registra spesso e volentieri  anche in questo forum, negare ogni validità razionale alla metafisica, anche usando toni a volte offensivi e spregiativi, considerando la metafisica come qualcosa di obsoleto (come se l'essere aggiornati fosse di per sé un criterio di validità del discorso filosofico, come se cioè la filosofia avesse come suo oggetto, invece che i principi primi della realtà, indipendenti dal divenire spazio temporale, qualcosa di mutevole, materiale, che dovrebbe costringerla ad aggiornarla continuamente, riducendosi a moda conformistica), irrazionale, dogmatico, mentre la vera razionalità dovrebbe portare a concepire la materia come l'unica realtà possibile.

la domanda che vorrei fare é: ma una volta eliminata l'idea di una "meta-fisica" che senso ha occuparsi o interessarsi di filosofia (eventualmente anche partecipare ad un forum di filosofia)? Se si ritiene che non ci sia nulla di "oltre", "meta" rispetto alla fisica, quale sarebbe il valore aggiunto della filosofia? Non sarebbe del tutto sufficiente fermarsi allo studio della fisica e delle sue derivate scienze naturalistiche sulla base epistemica dell'osservazione dei sensi, senza alcuna possibilità di concepire un contenuto altro da essi? Personalmente io trovo che ogni filosofia senza metafisica sia inconcepibile e assurda. A meno, che non si intenda come "metafisica" qualcosa di molto vicino alla dottrina religiosa, cioè il tentativo di definire una realtà trascendente la fisica sulla base di una fede, di un sentimento, di una esperienza soggettiva, senza quell'approccio razionale per cui i giudizi sull' "oggetto" sono mediati da una valutazione epistemologica sulla validità delle forme soggettive in cui ne facciamo esperienza. Una volta che invece questo approccio razionale viene seguito coerentemente, l'inscindibilità del nesso filosofia-metafisica mi pare necessario: esiste infatti un nesso di adeguatezza e corrispondenza fra modalità soggettiva di apprensione e natura dell'oggetto verso cui dirigiamo le nostre pretese conoscitive. Cioè, un discorso è razionalmente fondato quando riconosciamo come "adeguato" e "proporzionato" il nostro punto di vista soggettivo  rispetto all'oggetto a cui il discorso è riferito. Quindi la possibilità di fare filosofia implica necessariamente che al punto di vista soggettivo e filosofico si associ un ambito oggettivo di indagine corrispondente e adeguato ad esso, alla sua metodologia, cioè distinto da ciò che si osserverebbe dagli altri punti di vista non filosofici, compreso quello fisico. Se non ci fosse nulla di ulteriore alla fisica, ogni punto di vista trascendente la fisica, operante con una metodologia distinta da essa, come la filosofia, sarebbe vuoto, non aggiungerebbe nulla, non avrebbe alcuno specifico contenuto di conoscenza, dato che la realtà essendo totalmente fisica sarebbe pienamente esauribile dalla fisica stessa. In sintesi, in ogni forma di interesse filosofico dovrebbe essere già implicito il pensiero che la filosofia mi porti a conoscere qualcosa della realtà che le altre scienze non saprebbero farmi conoscere, e se tra queste scienze comprendiamo la fisica, o addirittura queste scienze condividono il modello della fisica, allora dovrebbe essere implicita l'ammissione di una realtà metafisica.

Da ciò discende anche la contraddittorietà di ogni materialismo antimetafisico filosofico. L'idea per cui "tutto è materia", "tutto è indagabile in termini fisicalisti", implica il giudizio sul "tutto", sulla "totalità", che però è una categoria di cui non possiamo avere alcuna esperienza fisica e sensibile. Chi identifica la realtà nel suo complesso come "materia", dovrà per forza concepire i sensi come l'unica fonte dell'esperienza come tale. Il problema è che i sensi non hanno alcun titolo a presumere che tutto ciò che fuoriesce dal loro ambito non esista, perché non offrono alcuna esperienza della "totalità". I sensi ci fanno entrare a contatto con il singolo oggetto fisico che impatta fisicamente i campi percettivi del nostro corpo, l'esperienza di qualcosa di individuale, non formano alcun punto di vista entro cui la realtà si manifesta nella complessità dei suoi livelli, come espressione di principi necessari ed esaustivi. Quindi la tesi "tutto è materia" giudica riguardo un punto di vista non sensibile, ma oggettivante qualcosa di intelligibile, l'idea di totalità, quindi è una tesi a tutti gli effetti "metafisica", ed in questo modo finisce per contraddire se stessa, svela la sua infondatezza epistemologica, cioè la sua arbitrarietà. Infatti nel materialismo filosofico viene a mancare quella proporzione, quella adeguatezza della prospettiva soggettiva, del metodo, con l'oggetto, manca l'adeguatezza tra la modalità gnoseologica posta come fondamento del discorso, i sensi, e l'oggetto verso cui il discorso si riferisce, cioè la totalità. L'errore è quello di intendere la metafisica come un'opinione, una tesi, che potremmo verificare e confutare, quando a mio avviso, la metafisica non è un'opinione, ma un livello della realtà, una disciplina di cui è lecito disinteressarsi, che si può ignorare preferendo occuparsi di altre cose, ma non negarne l'esistenza, perché la sua negazione richiama necessariamente le stesse categorie che solo a quel livello avrebbero un senso
#12
Attualità / uno stato binazionale
05 Febbraio 2019, 18:30:03 PM
la formula "due popoli due stati" ho l'impressione stia perdendo sempre più forza nel porsi come modello di risoluzione del conflitto arabo-israeliano. Gli insediamenti ebraici in Cisgiordania continuano a svilupparsi, o  quantomeno il governo israeliano (e forse nemmeno l'opposizione laburista) non sembra intenzionato a ridurli o smantellarli. Dall'altro lato ancora gran parte dell'opinione pubblica palestinese e le fazioni che la rappresentano non sembrano volersi rassegnare ad accantonare la speranza, magari su lunghi tempi, di veder scomparire lo stato d'Israele, e riconquistare la cosiddetta "Palestina storica" pre-1948, non accontentandosi di uno stato entro i confini del 1967, e stando così le cose gli israeliani hanno le loro ragioni nel temere la prospettiva di uno stato sui loro confini del 67 ancora capeggiato da fazioni ostili, fazioni che, anzi, potrebbero vedere rafforzata la loro fiducia nella possibilità di ottenere sempre di più, interpretando i cedimenti della controparte come un segno di debolezza di cui approfittare (come si dice, ti do un dito e tu vorrai prenderti tutto il braccio). Gaza è la conferma empirica della cosa. Il ritiro totale delle colonie ebraiche dalla striscia indetto da Sharon non è stato affatto interpretato come gesto distensivo da sfruttare per riaprire un negoziato, ma un ulteriore incentivo per proseguire la lotta armata: in breve tempo la Striscia di Gaza è diventata una continua base per il lancio di missili sul territorio israeliano ad opera di Hamas

Stando così le cose penso che lo soluzione migliore e più realistica per porre fine al conflitto sia quello di uno "stato unico binazionale", strutturato come una confederazione su base etnica con pari peso politico fra la comunità ebraica e quella araba. Ho provato, un po' per gioco, a immaginarmi uno scenario utopico che possa essere il più funzionale possibile in vista della preservazione della pace, e resto in curiosa attesa di vostre eventuali impressioni sull'idea (che sicuramente non sarà affatto originale, ma immagino già teorizzata da molti altri). Il territorio consisterebbe nell'unità dell'attuale Israele e dei territori palestinesi (Gaza e Cisgiordania). Occorrerebbe classificare giuridicamente ogni cittadino della Confederazione come ebraico o arabo (nel caso di figli di eventuali coppie miste, il figlio una volta maggiorenne dovrebbe decidere a quale delle due comunità aderire, immagino che man mano che i rancori cominceranno a diminuire coppie miste potrebbero diventare casi sempre più frequenti, ma al contempo diminuirebbero anche i motivi di tensione, favorendo da parte dei genitori la serena accettazione delle libere decisioni dei loro figli) e creare due parlamenti ben distinti, uno ebraico (immagino con sede a Tel Aviv) composto solo da membri di etnia ebraica ed eletto da cittadini della stessa stirpe, e un parlamento arabo (immagino con sede a Ramallah) composto solo da membri arabi ed eletti da cittadini arabi. Ogni legge per essere promulgata deve passare per l'approvazione di entrambi i parlamenti, nessuna esclusa. Il presidente della repubblica, incarnazione dell'unità dello stato, potrebbe essere a rotazione scelto tra la comunità ebraica e quella araba, mentre il capo del governo dovrebbe appartenere all'etnia diversa da quella a cui appartiene il capo dello stato. Il capo dello stato andrebbe eletto da entrambi i parlamenti in seduta comune, di modo che venga riconosciuta come figura stimata e riconosciuta anche dall'etnia diversa da quella di appartenenza. Anche il governo per restare in carica dovrà godere della fiducia di entrambi i parlamenti. Il punto decisivo in questo scenario è che le due principali questioni che ostacolano più fortemente la possibilità di un accordo, lo status di Gerusalemme e il "diritto al ritorno" dei profughi palestinesi nei territori che dovettero abbandonare in seguito alla guerra del 1948 verrebbero risolte in modo ottimale (furono soprattutto queste due questioni quelle su cui Arafat si impuntò facendo fallire i negoziati di Camp David nel 2000): Il problema di come spartire Gerusalemme tra due stati non si porrebbe più perché non ci sarebbe alcuna necessità di spartizione. Come capitale confederale di un unico stato, Gerusalemme resterebbe unita e aperta, patrimonio in comune fra ebrei e arabi, distinta dalle due diverse sedi dei due parlamenti etnici. Per quanto riguarda il rientro dei profughi, il motivo che oggi rende impossibile a Israele accettare il riconoscimento di tale "diritto" è il timore di stravolgere completamente i rapporti di forza demografici, lasciando che gli arabi, stante anche un maggior tasso di natalità, in breve tempo diventino anche in Israele maggioranza, e lasciando gli ebrei sempre più in minoranza, quindi sempre più deboli. Una volta che le due comunità avranno lo stesso identico peso politico, essendo rappresentate da due parlamenti aventi tale peso politico come identico e la stessa possibilità di intervenire nel processo di formazione delle leggi, i rapporti di forza demografici diverranno irrilevanti: indipendentemente dalla forza numerica delle due comunità, il loro peso politico sarà distribuito in modo eguale, cioè anche l'ostacolo principale alla risoluzione del problema del ritorno dei profughi verrà meno. Unico dovrebbe essere l'esercito e soprattutto il sistema d'istruzione, i cui programmi dovranno essere fortemente mirati all'integrazione e all'educazione al reciproco rispetto e alla reciproca conoscenza della storia e della cultura dei due popoli. Unica la costituzione, incentrata sul richiamo alla funzione di tutela e rappresentazione del popolo e della cultura ebraica e del popolo e della cultura araba di Palestina, nell'eguaglianza dei diritti e dei doveri. Per quanto riguarda il nome troverei bella la scelta del nome "Terrasanta", fermo restando la laicità dello stato, che del resto sarebbe ben tutelata dal tipo di struttura politica che ho provato a tratteggiare

Personalmente, in linea di principio avrei molta poca simpatia per un sistema politico così incentrato sulle divisioni etniche anziché sull'individualità dei singoli, ma occorre ammettere che una soluzione del genere sarebbe l'unica possibile per risolvere i problemi di un contesto contingente così speciale, e in casi come questi sia lecito in parte deviare un po' dai principi assoluti, per prendere pragmaticamente in considerazione i problemi del contesto particolare. Poi la speranza sarebbe che, a lungo andare, man mano che le cose prendano a funzionare sempre meglio e i rapporti tra le due comunità procedano verso la normalizzazione, diventi opportuno pensare a stemperare il peso delle differenze etniche nei meccanismi istituzionali per giungere a una più coerente fusione in un unico popolo. Ma per quello ci vorrà tempo
#13
Attualità / sul diritto d'autore
10 Dicembre 2018, 15:57:28 PM

Il dibattito sulla recente votazione della riforma del Copyright al parlamento europeo, ha accesso i riflettori su un tema che, anche sulla base di quello che vorrebbe essere il mio percorso di vita, trovo estremamente interessante: quello del diritto d'autore, della sua tutela, dei suoi fondamenti teorici-ideologici, sulla necessità di una sua conciliazione con l'esigenza di una massima diffusione possibile della cultura, dell'informazione, dell'arte, utilizzando nuovi strumenti mediatici come internet. Le voci critiche che si sono levate contro la riforma si sono caratterizzate per la rivendicazione, a volte, per mia personale impressione, da toni eccessivamente allarmistici, di uno spazio di condivisione totalmente libero, con regolamentazioni blande, se non inesistenti, tutta finalizzata a rappresentare gli interessi dei fruitori di oggetti culturali, senza necessariamente porsi il problema di una tutela sia sul piano economico che morale degli autori di tali oggetti. Il mantra ideologico è "la cultura è un bene pubblico, appartiene a tutti, deve essere condiviso senza alcun limiti", alcuni arrivano addirittura ad auspicare, in nome di questo collettivismo estremo ideologico, una futura eliminazione del diritto d'autore in nome del totale accesso libero alla conoscenza che Internet offre. Sembra quasi che i due valori fondamentaliin campo in tale tema: creatività e condivisione rischino di entrare in conflitto reciproco: certamente un autore, nel momento in cui sceglie di pubblicare un suo lavoro, mostra in tutta evidenza di aver piacere che le sue produzioni siano diffuse, godute da più persone possibile, ma, al di là delle ovvie e sacrosante esigenze di remunerazione economiche, c'è sempre anche una condizione inerente un bisogno più profondo, che l'opera rispecchi la sua interiorità, le sue intenzioni, idee, sentimenti, cioè la sua personalità, e il diritto d'autore è chiamato a tutelare questa esigenza specificandosi anche come diritto morale all'integrità dell'opera, come diritto a impedire modifiche che snaturino il senso fondamentale del suo lavoro, trasformandolo in qualcosa di radicalmente diverso da quelle che erano le intenzioni originarie del suo autore. Questo limite alla libertà di condivisione è un fondamentale incentivo alla creatività: non sarebbe estremamente demotivante per un autore pubblicare qualcosa, sapendo che poi il frutto del suo lavoro può essere alterato e successivamente diffuso in forme radicalmente diverse se non opposte all'idea originaria con cui il lavoro era stato progettato, in modo che l'opera non sia più qualcosa di realmente esprimente la sua soggettività, senza alcun efficace strumento legale per opporsi a ciò? Riflettendo sulla possibilità di limiti alla condivisione di link sulle piattaforme online come Google o Facebook, paventato nella riforma discussa a Strasburgo, mi è venuto da pensare... siamo sicuri che eventuali limitazioni in merito abbiano solo effetti negativi in relazione alla creatività culturale e allo scambio di idee? E se proprio limiti alla condivisione finiscano per stimolare più persone a tradurre il loro bisogno di espressione, anziché in semplici e meccaniche condivisioni di link altrui, cercando un loro personale linguaggio per comunicare le proprie idee su determinati argomenti? Questa sarebbe certamente un risvolto positivo: invece che lasciar parlare qualcun altro in nostra vece, ci responsabilizziamo a esprimerci direttamente e in prima persona, con i nostri ragionamenti, le nostre parole, anziché rifugiarci nel citazionismo, nel copia-incolla delegando ad altri il compito di manifestare le nostre idee... Questo è solo un esempio, un altro lo si potrebbe trovare nella musica: ho sempre avuto l'impressione che l'abuso di cover, rivisitazioni di canzoni del passato, testimoni sempre una certa povertà creativa: anziché sperimentare ex novo, nuove forme artistiche davvero originali, si preferisce veicolare il proprio estro in rielaborazioni di cose del passato, con effetti spesso considerabili come stravolgimenti del senso presente nelle intenzioni dell'autore originario. Ecco anche qui come certi limiti alla fruizione dell'opera possano determinare un duplice effetto positivo: da un lato si difende il diritto dell'autore originaria a ritrovare la sua soggettività nell'opera prodotta, dall'altro si stimola lo spirito creativo a manifestarsi in opere davvero originali, e proprio lo stimolo all'originalità arricchisce la varietà del panorama artistico di una comunità, differenziandone il più possibile le forme espressive.

Insomma, nella dialettica tra "creatività" e "condivisione" trovo che il primato debba andare alla prima, anzi, come ho provato a dimostrare, proprio alcuni limiti alla condivisione, possono incentivare la creatività, portandola a esprimersi in forme il più possibili personali e originali, piuttosto che a impantanarla nella modifica di qualcosa di già dato. D'altra parte mi rendo conto che interpretazioni eccessivamente repressive del diritto d'autore, che ostacolano oltre ragionevoli limiti la diffusione della cultura, finiscano con l'essere contropruducenti per la motivazione degli autori di pubblicare i loro lavori con la speranza siano il più possibili conosciuti e apprezzati. Allora la domanda che proverei a porre, anche in questa discussione oltre a me stesso sarebbe: esisterebbero dei margini di azione, a livello politico, nei quali entrambi i valori, diritto dei creativi, e diritto dei fruitori, creatività e condivisione, possano essere armonizzati?
#14
Problemi utilizzo forum / Problema accesso tramite pc
21 Novembre 2018, 18:27:51 PM
Buonasera
Da molto tempo non riesco ad accedere col mio profilo  tramite pc nel forum, il login viene negato anche quando provo a trovare una nuova password. Solo tramite cellulare riesco ad accedere ma spero che il problema si possa risolvere  anche  tramite pc, essendo ovviamente molto scomodo scrivere post articolati su smartphone. Sarebbe possibile trovare una soluzione?
Grazie
#15
Tematiche Filosofiche / In difesa del povero Eutifrone
30 Settembre 2018, 17:59:56 PM
Qualche giorno fa, leggendo un saggio del teologo tedesco Romano Guardini su Socrate e Platone, ho colto uno spunto di riflessione riguardo un'eventuale fallo logico non secondario all'interno delle maglie solitamente così rigorose e consequienziali della maieutica socratica, e credo possa essere uno stimolo interessante da discutere qua. Il punto è il tema centrale del primo dei quattro dialoghi platonici dedicati alla morte di Socrate, l' "Eutifrone". Per chi non lo sapesse, Eutifrone è un uomo che Socrate incontra causalmente mentre sta per recarsi in tribunale per difendersi dall'accusa di corruzione. Eutifrone racconta di trovarsi nello stesso luogo per accusare suo padre dell'assassinio di un servo, e presenta la sua decisione come improntata ad un criterio di santità. Ben presto, la discussione vira sulla ricerca di una corretta definizione del concetto di "santità", in perfetta con l'impostazione socratica (e platonica), mirante a cogliere l'essenza universale dei concetti come presupposto fondamentale della ricerca razionale della verità delle questioni, in contrapposizione con la trascuratezza e il dogmatismo nell'utilizzo di questi concetti tipica degli esponenti della sofistica ateniese, filone in cui certamente va inquadrato Eutifrone.





Dopo esser stato redarguito da Socrate circa l'impossibilità di definire il "santo" come "ciò che è amato dagli Dei", in virtù dei continui litigi e conflitti tra le diverse divinità della religione olimpica che impedirebbero a tale definizione di indicare l'idea di santità in modo univoco e condiviso, Eutifrone corregge il tiro, precisando che il santo dovrebbe definirsi come "ciò che è amato da TUTTI gli dei". Ma Socrate non è soddisfatto nemmeno da quest'ipotesi di soluzione, respingendo la possibilità che la definizione essenziale di un concetto, la santità, possa coincidere con un qualcosa, l'amore degli Dei, che considera un fatto accidentale, un effetto secondario, che presupporrebbe l'essenza del concetto, senza dunque poterla rappresentare adeguatamente. Nell'approccio idealistico (nel senso di un idealismo classico, si intende, ben distinto da quello moderno tedesco) platonico, che si esprime per mezzo della figura di Socrate, il fatto empirico non può fondare il senso ideale di un concetto, ma viceversa, occorre prima definire quest'ultimo, in modo che possa illuminare tutti i fatti possibili immaginabili, in cui il concetto potrebbe realizzarsi. Dunque Socrate ribatte al suo interlocutore che l'amore degli Dei non può davvero definire la santità, dato che dovrebbe essere "l'essere amato dagli Dei" una conseguenza della santità di ciò che si ama, e non viceversa, e non si può utilizzare una conseguenza come definizione dell'essenza di qualcosa che della conseguenza ne è la ragion d'essere. Qua inizia la mia perplessità: a me pare che la critica socratica si accanisca sulla soluzione del "povero" Eutifrone in modo gratuito e pregiudiziale, cioè che si confonda una relazione logica di reciproca implicazione, la soluzione di Eutifrone, con la pretesa individuare il senso di qualcosa sulla base di una presunta produzione causale di questo senso a partire da ciò con cui si vorrebbe definirlo. Cioè, se l'amore degli Dei producesse in modo performativo la santità degli oggetti amati, se la santità fosse un mero effetto secondario dell'amore divino che la creerebbe dal nulla, attribuendola a degli oggetti in cui entrerebbe come attributo accidentale a posteriori, Socrate avrebbe ragione nel rigettare l' "essere amato" come definizione del santo, perché la "Santità in sè," intesa come Idea generale, non coinciderebbe con la santità fattuale che si realizza in una certa circostanza particolare, il fatto che sia amato da qualcuno. Il significato della Santità resterebbe tale indipendentemente dal fatto che nella realtà empirica gli oggetti diventino santi a causa della forza produttiva dell'amore. Ma se invece si considera non un rapporto causativo, ma di pura e reciproca implicazione logica fra amore degli dei e santità, cioè si pone l'amore come criterio riconoscitivo della santità delle cose, allora non vedo come la proposta di Eutifrone non possa presentarsi come possibile definizione della santità nella sua valenza essenziale. L'amore degli dei definirebbe l'idea di Santità, come attributo universale, senza produrla arbitrariamente in uno specifico contesto particolare. La definizione di Eutifrone è ovviamente contestabile (un ateo non la accetterebbe, come un credente in una fede monoteista respingerebbe l'accezione di pluralità degli Dei), ma logicamente legittima, non contraddittoria, rispettosa dei canoni di universalità richiesti dall'approccio socratico-platonico. Socrate può contestarla solo sulla base di premesse diverse da quelle di Eutifrone, ma a questo punto è chiaro che la sua critica, pur a sua volta legittima, è una critica estrinseca, pregiudiziale, non frutto stavolta dell'Ironia o della Maiuetica, Socrate non può considerare non valida la soluzione di Eutifrone, simulando ironicamente di accettare le sue premesse, per poi individuare una contraddizione interna al discorso, può contestarla perché sin dal principio fonda la sua critica su un rigetto della visione religiosa-mitologica del suo interlocutore.



La questione che ho provato a esporre potrebbe sembrare solo un rompicapo intellettualistico fine a se stesso e autoreferenziale, ma occorre considerare che il tema del Dialogo coinvolge un tema, quello del rapporto tra critica razionale-filosofica, impersonata da Socrate e tradizione mitologica incarnata da Eutifrone, e quanto la prima comporti più o meno il rigetto della seconda è una questione di larghissimo respiro che coinvolge tutto l'impianto metafisico che poi sarà di Platone, in particolar modo il suo livello di compatibilità con una visione religiosa nella quale gli Dei sono presentati come princìpi del reale caratterizzandoli in modo ben più concreto che non le Idee (e questo è un problema che riguarderà anche il tentativo cristiano, una volta operato il passaggio dal politeismo al monoteismo, di inserire l'idea specificamente personale di un Dio all'interno del sistema metafisico platonico modellato su base razionale). L'impressione è che Socrate potesse appagarsi solo se Eutifrone fosse pervenuto a una definizione di "santo" quasi tautologica, del tipo "santo è ciò che ricade sotto il concetto di santità", un'idea di Santità che si costituisce in totale autonomia con qualunque altro concetto. Ma questa la ritendo una deriva eccessivamente astrattista dell'idealismo platonico, che rischia di considerare il mondo delle Idee, come un sistema atomistico dove ogni singola Idea è solo un'unità logica semplice, semanticamente chiusa in se stessa, slegata da ogni relazione con le altre, perché ogni relazione viene relegata a livello dell'accidentalità, e dunque ad esempio il Santo esprime il suo senso nella sa pura formulazione astrattiva, riducendo a fattore accidentale la sua relazione con qualcosa di concreto come l'amore degli Dei verso esso, e finendo col porsi in contrapposizione con un modello metafisico nel quale invece si ricercano le connessioni concettuali tra Idee e realtà personali, come le divinità, l' unire l'ontologia formale astratta con quella concreta e "materiale". Molto più appropriatamente invece, noi intendiamo le definizioni come valide proprio nella misura in cui utilizzano concetti e parole distinti da quello del soggetto a cui la definizione è chiamata a riferirsi. Per definire un albero cerchiamo di trovare un'espressione in cui il termine "albero" non sia presente, pena cadere in un circolo vizioso infinito, in cui anche la definizione stessa dovrebbe chiarirsi sulla base di cui a sa volta si sente il bisogno di definire.
#16
In sede di interpretazione degli autori del passato è comune il costante richiamo alla contestualizzazione, al riconoscere quanto le loro idee fossero condizionate dal periodo storico in cui sono vissuti, il contesto sociale-culturale di provenienza, la lingua nella quale le loro idee sono espresse, le loro vicende biografiche. L'opportunità di questo richiamo è un'ovvietà, sarebbe assurdo non ammettere quanto fattori extrateoretici come l'epoca storica, la vita e la lingua influenzino il pensiero dei filosofi, come di qualunque essere umano. Il punto che volevo sollevare e su cui poter eventualmente discutere però è: assolutizzare il momento della contestualizzazione, negare la possibilità di poter cogliere degli aspetti sovrastorici e sovracontingenti nel pensiero degli autori non finisce con il rinchiudere il giudizio sulla validità teoretica di un certo pensiero all'interno del limitato contesto storico in cui è sorto, separandola da qualunque legame con l'attualità? Non rischia, all'interno dell'impegno interpretativo, di sovrapporre le finalità dello storico della filosofia (ricostruzione filologicamente puntale delle vicissitudini storiche dell'evoluzione del pensiero) rispetto a quelle del filosofo teoretico (valutazione critica e personale della verità o falsità di un certo modello teoretico in riferimento alla capacità di rispecchiare le cose stesse oggettive), perdendo totalmente di vista queste ultime? Se l'obiettivo dello storico della filosofia dovrebbe essere quello di arrivare a una precisa conoscenza degli autori del passato, quello del filosofo teoretico dovrebbe invece essere quello di sviluppare un'originale e personale punto di vista in cui si cercano risposte aventi base razionale alle questioni filosofiche, ed in questo senso l'interesse verso la conoscenza dei filosofi del passato non è, come invece è per lo storico della filosofia, fine a se stesso, ma teso a considerare questi filosofi come degli interlocutori, utili fonti di ispirazione per una visione razionale del reale nelle sue strutture universali, sovratemporali, e dunque perennemente attuali. Appare chiaro come l'attualità perenne di un pensiero è presente nella misura in cui quel pensiero non è riconducibile alla limitatezza del contesto storico in cui è sorto, cioè supera la necessità di una contestualizzazione che lo vincola alla relatività del periodo storico, o alla biografia empirica del pensatore che lo ha espresso. Non si tratta di negare la componente storica-personale all'interno delle filosofie del passato, la cui presenza è ovvia, ma porci il problema di come una contestualizzazione senza limiti, assuma tale componente come l'unica effettiva arrivi a spezzare il legame tra la perenne attualità delle cose stesse e i filosofi, in tutto e per tutto "figli del loro tempo" rinchiusi in un relativismo per il quale il loro pensiero si è sviluppato come determinato da circostanze particolari e irripetibili, in assenza delle quali si sarebbe sviluppato in modo nettamente diverso, con la conseguenza di togliere ogni carattere di oggettività e razionalità nella loro prospettiva, perché condizionata dalla loro particolare situazione. Dal punto di vista non storiografico ma teoretico, un pensatore del passato è interessante nella misura in cui non è solo "del passato", nella misura in cui la sua visione ha saputo trascendere lo steccato della sua contingenza storica, legato alla sua vita, alla sua epoca, alla sua lingua, per rispecchiare con fedeltà le cose stesse, la realtà oggettiva, fedeltà garantibile a livello di argomentazione razionale, la capacità di cogliere la componente di sovratemporalità di queste cose stesse, solo così possono dirci qualcosa di attuale per noi, fornire spunti di riflessione e suggerimenti sul mondo in cui OGGI viviamo, e tutto ciò è possibile nella misura in cui non c'è bisogno di contestualizzazione, la loro visione è attuale e oggettiva in quanto resterebbe valida anche fosse stata formulata in un'epoca diversa da quella in cui effettivamente è stata posta. Insomma il dialogo teoretico con i pensatori del passato presuppone un limite alla necessità di contestualizzarli, mentre l'esasperazione della contestualizzazione può a mio avviso, indicare un predominio della storia della filosofia, mirante alla ricostruzione del passato come obiettivo in sé, rispetto alla filosofia vera e propria, cioè dialogare con la storia come ispirazione per sviluppare un discorso di verità sulla realtà attuale, punto di vista quest'ultimo che, personalmente, trovo molto più stimolante
#17
è diventato un luogo comune considerare la tassa di successione sulle eredità come "tassa liberale", anche facendo leva sul pensiero di alcuni teorici, comunemente ascrivibili alla corrente del liberalismo economico, che si sono favorevolmente espressi sulla legittimità di tale imposta. A me pare che ciò offra lo stimolo per rivedere e chiarire in modo decisamente più puntuale il significato che si dovrebbe attribuire a tale categoria politica. Di quale "liberalismo" staremmo parlando? A me pare che qualunque idea di "tassa liberale" non possa che essere un ossimoro. Qualunque tassa, senza eccezioni. Il liberalismo, almeno come da me inteso, consiste nel difendere le libertà individuali dal potere arbitrario del governo, e la tassa di successione, nella misura in cui impedisce a un individuo di destinare i propri averi post-mortem a chi desidera, non può che essere una contravvenzione ai principi ideologici di un liberalismo coerente, che dovrebbe identificarsi con l'idea di uno stato che interferisce con le scelte individuali dei singoli, solo nella misura in cui tale intervento è funzionale alla tutela dei diritti fondamentali, vita e proprietà privata, cioè una limitazione della libertà è lecita solo nella misura in cui è tutela di una libertà più importante ed urgente rispetto a quella che verrebbe limitata (che poi in certe situazioni di emergenza una tassa di questo tipo possa divenire necessaria è un altro discorso che ora non mi interessa toccare, una questione pragmatica-economica, che non tocca il tema della valutazione circa la coerenza delle implicazioni rispetto a una base valoriale-ideologica). I sostenitori della tassa di successione come "tassa liberale" fanno leva sul fatto che tale tassa, minimizzando la rilevanza della provenienza familiare sul destino economico delle persone, favorisca "l'uguaglianza dei punti di partenza", come se il compito della politica fosse quello di determinare un'idea di vita come una competizione sportiva dove "vinca il migliore", e la tassa di successione dovrebbe far sì che ciascuno scatti da dei blocchi di partenza posti nella stessa linea orizzontale. Ora, a mio avviso, questa concezione ideologica col liberalismo non ha nulla a che fare. Non è "liberalismo", ma "darwinismo sociale", una sua deviazione e (giudizio di valore personale soggettivo) degradazione in senso materialistico e calvinista, una mentalità che vede il successo economico come l'unica possibile dimostrazione della propria autorealizzazione personale, e come unica forma di contributo al progresso della società. Il vero liberalismo, un liberalismo coerente con l'idea di considerare la libertà individuale come valore centrale assoluto, dovrebbe invece avere una base spirituale, giusnaturalista, l'idea che ogni individuo abbia una dignità e diritti indipendentemente da ciò che combina nella società tramite il lavoro, perché sono la società e il lavoro che esistono in funzione del benessere e della libertà degli individui, non viceversa. Al liberale coerente non interessa l'uguaglianza dei punti di partenza nella competizione economica della vita, (solo quella formale di fronte alla legge, che impedisce che singoli o gruppi di persone possano assumere un potere politico superiore agli altri, che consentirebbe di essere legittimati a calpestare i diritti fondamentali degli altri), ma la libertà di ciascuno di vivere come meglio desidera, dunque anche di non partecipare alla corsa per il profitto, di non sentirsi costretti a imbarcarsi in lavori che non piacciono e che non corrispondono ai nostri reali interessi e capacità, quando si ha la fortuna di poter vivere bene anche con ciò che si ha sulla base della propria situazione familiare, godersi la vita, le proprietà in santa pace, lasciarle in eredità a chi vuole, avere tempo per dedicarsi, anche con impegno alle proprie passioni, indipendentemente dalla retribuzione economica, senza essere criminalizzati ed etichettati come "parassiti nullafacenti", come se il valore di ciò che si realizza dipendesse solo dal guadagno economico, e non dalla passione che ci si mette per l'azione in sé. A questo punto sembrerebbero profilarsi due antitetici modelli etico-ideologici del liberalismo, con il modello che incentra il liberalismo sul rispetto dei diritti naturali, compreso il rispetto del sentimento naturale familiare di voler permettere ai propri discendenti di poter godere, tramite l'eredità, una serenità economica, che rimanda ai valori umanistici della classicità, che vedono come fine più nobile per l'uomo la vita contemplativa e considera il denaro come semplice strumento per ottenere ciò di cui si ha bisogno, e non come traguardo, dimostrazione del proprio valore sulla base di ciò che tramite il lavoro si è riuscito a guadagnare (vedi Aristotele che poneva la vita contemplativa come ben  più elevata e nobile, rispetto alle attività pratiche, mercantili finalizzate al guadagno), contrapposto a un modello tipicamente anglosassone, pragmatico e materialista, per cui il denaro non è mezzo, ma fine, traguardo della realizzazione personale in base a cui misurare le proprie capacità, mentre ogni attività non remunerativa economicamente è relegata all'idea di vizio e parassitismo. Una visione del denaro quasi feticista. Due figure ben simboleggianti questa deriva sono il personaggio di Zio Paperone, ispirato al dickensiano Scrooge, che ama il denaro non perché gli consenta di spenderlo per cose piacevoli, ma come valore in sé, in cui fare il bagno nel deposito, godendoselo come frutto delle sue fatiche, e Bill Gates, non solo favorevolissimo alla tassa di successione, ma che ha annunciato addirittura di non voler lasciar nulla in eredità ai suoi figli, perché "devono mostrare di meritarsi la ricchezza partendo da zero". In nome di questa mentalità, che vede solo nell'attività finalizzata al successo economico l'unico impegno degno di questo nome, si dovrebbero disprezzare, e tacciare di ozio parassitario un Platone, o la quasi totalità dei letterati della classicità, che con le loro opere, hanno gettato le basi della nostra identità culturale occidentale, quasi tutti provenienti da famiglie nobili e possidenti, che non avendo bisogno di lavorare per vivere, vivevano di rendita, ma che proprio per questo avevano la possibilità di dedicare il loro tempo non certo alla nullafacenza, ma allo studio e alla creazione di cultura, non per guadagno, ma per amore del sapere come virtù fine a se stessa (meno male che Platone non era figlio di Bill Gates verrebbe da dire...)





Inoltre i fautori della tassa di successione come "tassa liberale" utilizzano l'argomento della meritocrazia, che tale tassa dovrebbe favorire, sulla base dell'idea che la ricchezza che si eredita non è il prodotto del merito, dell'impegno della persona, ma dalla fortuna di essere nato in una certa famiglia. Che non ci sia alcun merito nella ricchezza ereditata è certamente un'ovvietà, ma il punto è... in che misura il valore della meritocrazia deve essere centrale in un'ottica di liberalismo coerente? A me pare che spesso la rilevanza del "merito" come fondamento di una visione liberale, sia un po' sopravvalutata. Il liberale vede lo stato come funzione, non come valore etico in sé, un servizio per garantire le esigenze degli individui, e che dunque ha il dovere di assicurare servizi il più possibili efficienti. E quindi la meritocrazia diviene ovviamente necessaria, e consisterà nel attuare criteri di selezione dei ruoli lavorativi per persone che sono per quei ruoli le più adatte, in modo che i servizi possa funzionare in modo più efficiente possibile per i bisogni degli individui. Questa è la meritocrazia che interessa al liberale, una meritocrazia che resta su un piano di necessità strumentale, non moralistica. Un conto è la meritocrazia nella selezione dei ruoli lavorativi, un'altra quella come selezione della redistribuzione del benessere economico. Cioè un conto è il riconoscimento della necessità che siano i più meritevoli a svolgere un'occupazione di un certo tipo, perché possa essere svolta al meglio, un altro l'idea che anche il benessere debba essere appannaggio dei meritevoli. Qui si entra nel campo dei giudizi morali soggettivi, che un vero liberale dovrebbe tenere ben separato da quello politico. L'idea di uno stato che si arroga la pretesa di imporre dei criteri meritocratici presunti oggettivi, in base a cui redistribuire il benessere (operando anche tramite tasse sulle eredità), è a mio avviso quanto di più lontano possibile dall'idea di stato liberale, ha a che fare piuttosto con l'idea di uno stato paternalistico che vuole "educare" gli individui, una figura quasi assimilabile a un Dio biblico Giudice supremo che distribuisce premi e punizioni, anziché limitarsi alla massimizzazione del benessere tra tutti i suoi cittadini, senza imporre giudizi moralistici soggettivi e arbitrari sul "merito". "Chi non lavora non mangia" è un assunto morale, soggettivo, condivisibile o meno, ma che un vero liberale non dovrebbe mai utilizzare come principio politico in base a cui limitare la libertà delle persone, compresa quella di lasciare in eredità ricchezze ai propri cari, anche se questi ultimi non se lo sono "meritate". Cioè il liberalismo si basa sulla distinzione fra giudizio morale personale e azione pubblica mirante all'incremento oggettivo del benessere e della libertà tra tutti i cittadini



Concluderei con un'ovvietà, anche se ribadirla può sempre essere utile... un conto sono le ideologie, un altro la coerenza delle persone, le prime non si misurano in base alle seconde, quindi il fatto come teorici etichettati come "liberali" come Einaudi o Mill possano essersi espressi favorevolmente sulla tassa di successione, non implica affatto che tutto ciò che hanno effettivamente sostenuto debba ricondursi  al quel determinato filone ideologico, e che dunque sia lecito considerare quella tassa come "liberale". Appare inevitabile come la totale coerenza tra le idee di persone concrete e filoni ideologici a cui quelle persone dicono di richiamarsi non sia mai realizzabile tout court, e che solo un'analisi strettamente concettuale, e non riferimenti citazionisti, sia uno strumento valido di giudizio della coerenza fra una singola opinione e l'ideologia complessiva di riferimento
#18
La teologia negativa nel contesto del cristianesimo occidentale (da intendersi ora nei suoi aspetti generici, al di là delle differenti sfumature in cui è stata storicamente concepita) si base sulla contestazione alla positiva, accusata di ridurre Dio alla limitatezza della mente umana, pretendendo di applicare a Dio dei concetti tipicamente umani come "sapienza, "bontà" ecc. Di fatto la accusa di una mentalità antropocentrica che pretenderebbe di innalzare l'uomo al livello divino, annullando l'infinita distanza che li separa. Ma a mio avviso, nel considerare questi concetti come solo "tipicamente umani", la teologia negativa non si accorge di cadere nello stesso errore che imputa a quella positiva: l'antropocentrismo. Perché se i concetti con cui quest'ultima cerca di descrivere Dio fossero inappropriati perché "tipicamente umani" allora vorrebbe dire che l'uomo è in fondo il criterio assoluto di senso dei concetti che utilizza, cioè questi concetti al di là della sfera dell'esperienza umana non avrebbero senso, e quest'esperienza umana verrebbe assolutizzata, posta come unico ambito possibile entro cui questi concetti manterrebbero il loro significato. Ecco cancellata la distanza ontologica Dio-uomo, proprio sulla base delle premesse della teologia negativa! Se invece, contrariamente a tali premesse, i concetti con cui l'uomo parla di Dio avessero un significato che resta tale al di là della differenza tra sfera umana e divina, ecco che le cose cambiano. Dire che "Dio è buono" non sarebbe più un assoggettare l'idea di Dio a un concetto "tipicamente umano", ma una possibilità legittima, data dall'universalità del significato della "bontà" che resta qualitativamente lo stesso, che si parli di Dio o dell'uomo, anche se cambiano le proporzioni quantitative in cui la bontà è più o meno presente. Nell'utilizzare i concetti con cui descrivere Dio, la mente umana non pretenderebbe di esserne l'origine, assolutizzandosi, ma esprimerebbe la partecipazione all'ordine divino da cui deriverebbe la possibilità di usare concetti riferiti a qualità comuni a Dio e all'uomo. Ciò in quanto i concetti che utilizza non avrebbero la loro ragion d'essere da un' indipendente attività concettualizzatrice che si realizza storicamente,  ma da un legame di dipendenza con cui la mente e i concetti umani parteciperebbero in qualche misura con la mente divina, causa ultima della possibilità del pensare umane (poi le varie correnti interne alla teologia cristiana "positiva" si sbizzarriscono nel descrivere tale rapporto di dipendenza, dall'illuminazione interiore agostiniana, all'azione dell'Intelletto agente divino tomista, all'intermediazione dell'Idea dell'Essere rosminiana tra mente umana e Dio ecc.) E da tale partecipazione deriverebbe quel rapporto di proporzione e analogia (analogia, non identità), che rende possibile un discorso teologico POSITIVO, seppur limitato e imperfetto, dunque rispettante lo scarto Dio-uomo. Insomma, la teologia negativa sembra in un certo senso fondarsi su una polemica che, fosse seguita rigorosamente e coerentemente, dovrebbe anzitutto rivolgere contro se stessa, da qui il rilievo di una sua certa paradossalità. Concluderei per ora precisando che in questo contesto non mi interessa tanto considerare le eventuali ragioni o torti della teologia positiva nell'elaborazione delle soluzioni con cui intuisce il legame tra mente umana e Dio, ma più che altro la ragion d'essere di questa autocontraddizione che rilevo all'interno della critica che queste soluzioni subiscono da parte della teologia negativa.
#19
Tematiche Filosofiche / materialismo storico e morale
23 Febbraio 2018, 18:42:42 PM
Volevo sottoporre un quesito riguardo ad un'eventuale argomento che mi pare possa essere visto in opposizione all'idea di un materialismo storico rigidamente inteso, base teorica del marxismo. Premetto che l'argomento è, quantomeno apparentemente, banale e semplicista, e personalmente sono anche ostacolato dal fatto di avere una conoscenza ancora abbastanza vaga dal marxismo. Tuttavia non sempre la semplicità è fattore invalidante a livello teoretico un'argomentazione, e una tesi, proprio in quanto affrancata da condizionamenti legati al timore reverenziale, che ci spinge a "non credere ai nostri occhi" di fronte alla possibilità che anche giganti della storia del pensiero possano aver compiuti errori evidenti e grossolani, può essere in grado di cogliere tali errori. Il bambino che nel suo candore e nella sua semplicità ha avuto nella favola il coraggio di gridare "il re è nudo" in fondo diceva la verità.

 

Il fatto che Marx, e molti altri seguaci (come anche ai giorni nostri) provenissero da ceti sociali benestanti e borghesi, non potrebbe essere sintomo dell'errore di impostazione della dialettica materialistica per la quale la struttura (interesse economico) determina la sovrastruttura (tutto ciò che a che fare con lo "spirito", morale, religione, diritto ecc.)? Nel caso di Marx e dei tanti marxisti borghesi di origine appare del tutto evidente come questo schema dialettico appaia invalidato: la "sovrastruttura", la loro coscienza morale, la loro concezione (condivisibile o meno) di giustizia, di anelito verso una società senza più sfruttati e sfruttatori, li ha spinti a elaborare e diffondere una filosofia chiaramente sovversiva finalizzata alla promozione di una coscienza di classe proletaria, che avrebbe nel tempo condotto all'estinzione del dominio sociale della borghesia, vale a dire del loro ceto di origine. Dunque agendo contro gli interessi della loro classe di appartenenza, i marxisti borghesi mostrano di aver anteposto i loro ideali etici-politici (sovrastruttura) rispetto al loro interesse di classe, che avrebbe dovuto mirare a non fare nulla che potesse incrinare l'egemonia borghese nella società (struttura). Come appare evidente, tutto ciò dovrebbe essere impossibile tenendo per valido lo schema materialistico della sovrastruttura del tutto vincolata alla struttura, in quanto la possibilità di individui pensanti ed agenti in contrapposizione agli interessi economici della loro classe, mostra un margine di autonomia della "sovrastruttura", la coscienza morale capace di condurre l'individuo a contrapporsi ai propri interessi economici particolari in nome di valori universali, rispetto alla "struttura", consistente nella figura del borghese che difende i suoi interessi, e così chiama in causa un'antropologia non schiacciata sul materialismo, un'idea di coscienza umana che, alla luce di una dimensione spirituale, seppur immanente quanto si voglia, sappia porre come valore assoluto un'ideale di giustizia, al di là degli interessi di parte, che la porta a svincolarsi dal condizionamento classista ed economicista. La coscienza di un borghese che pensa ed agisce nella storia sulla base di un ideale che contrasta gli interessi della borghesia, non può più essere definita "coscienza borghese", ma solo "coscienza umana". Ne discenderebbe una visione della storia, dove il motore degli eventi non può più identificarsi unilateralmente con gli interessi economici, le lotte fra classi, la "coscienza di classe", ma dove i fattori economici (ovviamente sempre fondamentali) agiscono nell'interazione con fattori non economici come un'intenzionalità morale, che porta gli individui a perseguire dei concetti di "bene" e "giustizia", anche quando questo implica il sacrificio degli interessi economici della classe sociale a cui appartengono. Si può dire che l'esempio di marxisti non proletari da un lato nobilitano una visione della storia a cui viene restituito quel carattere di complessità che rischiava di venir perso in un eccessiva rigidità materialistica determinista, per la quale ogni espressione dello spirito umano andava interpretata sulla base della "classe", ma dall'altro sembrerebbe porli di fronte ad una contraddizione, o almeno ad un paradosso teoretico, meritevole di riflessione e autocritica.

Sarebbe interessante invitare chi conosce molto meglio di me il marxismo, le sue evoluzioni storico-filosofiche, a chiarire questo punto, chiedendo scusa per le inevitabili cantonate a cui in virtù delle mie superficiali conoscenze di questo tema, sarò andato incontro nell'esposizione della questione.
#20
Attualità / antimafia e stato di diritto
21 Novembre 2017, 00:41:45 AM
Già poco tempo prima della sua morte accaduta in questi giorni si era aperto un dibattito riguardo la necessità di assicurare una morte in carcere pietosa e dignitosa a Toto Riina. Molte voci si sono levate scandalizzate al pensiero di tale necessità mettendo in discussione l'idea che la dignità dovesse essere riservata a un individuo resosi responsabile di crimini talmente efferati, affermando che Riina "non è un detenuto come gli altri". Su questo punto in particolare mi piacerebbe soffermarmi: in cosa consisterebbe specificatamente "non essere un detenuto come gli altri?". A me pare che un discorso circa la validità di un trattamento verso un detenuto possa essere impostato in modo razionale, vale a dire ricercando negli atteggiamenti concreti la coerenza con i princìpi fondamentali dello stato di diritto, vale a dire carattere rieducativo e non punitivo-vendicativo della detenzione, umanità e rifiuto di barbarie come tortura o pena di morte, oppure da un punto di vista emotivo e istintivo per il quale apparirebbe del tutto lecito provare una rabbia verso uno spietato criminale, come certo Riina era, al punto da non tener conto di alcuna umanità nel trattamento, ma al contrario auspicando in nome dello spirito di vendetta che soffra il più possibile, quando i crimini compiuti superano una certa soglia di gravità. Dunque mi pare che il concetto "Riina non è detenuto come gli altri" cada totalmente nel secondo approccio al problema, quello nel quale la rabbia e l'emotività offuscano la lucidità e il distacco necessari all'applicazione coerenti dei princìpi dello stato di diritto. Il problema che pongo è, accettato come legittimo tale approccio emotivo e demagogico, chi si arroga il diritto di stabilire in cosa consisterebbe la soglia che dovrebbe separare la categoria dei "detenuti normali" (per cui varrebbe ancora il rispetto della dignità come uno stato di diritto coerentemente richiede) e la categoria dei "detenuti speciali" a cui apparterrebbe Riina e per cui sarebbe considerata lecita tortura, pena di morte, sospensione delle garanzie giuridiche? Quali sarebbero i criteri di demarcazione? Se fossi un detenuto con 2 omicidi alle spalle dovrei essere considerato ancora nella prima categoria, mentre con 3 omicidi dovrei passare alla seconda, quella dei "superdetenuti"? (come, volendo ironizzare un po', in una sorta di videogioco con dei livelli da superare, da normale a super...). Son chiare le derive pericolose che si annidano all'interno di un approccio di tal genere... lo stato di diritto, imperniato sul principio della finalità rieducativa e su una visione della giustizia non vendicativa perderebbe il suo carattere di riferimento universale, ma verrebbe relativizzato sulla base di differenziazioni riguardo la gravità dei delitti commessi, differenziazioni però totalmente arbitrarie, in quanto fondate su criteri puramente emotivi, soggettivi, umorali, basate sulla "giustizia" di piazza, da social, dove impera la demagogia e la rabbia popolare. Sarebbe il caos. La difesa dello stato di diritto in nome del quale si reputano tortura, pena di morte, linciaggio popolare, come incivile forme di barbarie, non potrebbe più porsi come riferimento universale ed una società priva di riferimenti etico-giuridici aprioristici e fondativi cadrebbe nel caos e nella confusione, segnando la fine dello stato democratico così come ora lo conosciamo. Questo è il rischio che vedo. Soffermandoci un attimo su ciò che alimenta l'approccio emotivo al tema, trovo sarebbe interessante iniziare una riflessione critica non sull'Antimafia intesa come complesso del lavoro in cui magistrati, forze dell'ordine, società civile cercano di combattere il fenomeno mafioso, ma su una certa "retorica" intorno ad essa, portata avanti a livello mediatico, tra libri, film, serie tv che da molti anni, se certamente ha avuto un ruolo estremamente positivo nella sensibilizzazione dell'opinione pubblica riguardo i valori della legalità, nella formazione di una coscienza civile per la quale la mafia non viene più vista come realtà alla cui presenza rassegnarsi, se non legarsi in forme di complicità, bensì nemico da abbattere e che può davvero essere abbattuto col tempo, ruolo certamente da lodare e valorizzare, ha però anche provocato a mio avviso l'effetto collaterale di instillare nella percezione popolare l'idea di un'esasperata separazione tra il concetto di "mafia" e di "mafioso" da un lato e tutto il resto della comune criminalità, attribuendo alla lotta alla mafia un carattere eccessivamente speciale, al punto che in molti si sentirebbero in diritto di considerare tale lotta da portare avanti con mezzi, appunto, speciali, per i quali lo stato di diritto non appare più come necessità vincolante e potrebbe in fondo essere sospeso senza troppi rimpianti. E nel momento in cui il "mafioso" non è più un criminale comune di fronte al quale mirare alla rieducazione, ma diviene quasi una figura antropologica a se stante, una sorta di categoria di mostri irrecuperabili allora apparirebbe lecito per gran parte dell'opinione pubblica poter auspicare vendette, linciaggi, sedie elettriche ecc.  mentre parlare di "morte dignitosa" appare come uno scandalo inaccettabile.  Insomma, la questione non è ovviamente, continuare a ritenere la mafia come un male da combattere, certo che lo è, ma chiarire se la guerra (già il termine "guerra" rischia di creare pericolose ambiguità, ma per ora lasciamo stare) debba restare azione contestualizzata all'interno della cornice dello stato di diritto, oppure condotta sulla base di una nuova concezione dello stato e della giustizia, più simile all' "occhio per occhio", che tradisce la sua natura liberale e garantista per adeguarsi al nemico da combattere. La mia speranza è che la classe politica non debba mai mostrare su questo ambiguità da poter far pensare a una sorta di cedimento verso la seconda opzione, magari condizionata dal timore di apparire impopolare e "buonista" agli occhi dell'emotività popolare di cui ricerca il consenso, emotività che porta a confondere "giustizia" e "vendetta" e a sacrificare principi giuridici universali in nome di una rabbia che fa perdere lucidità