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Messaggi - Phil

#1036
Sui differenti modi di intendere la filosofia, usando immagini dal (defunto) sito projectcartoon.com (che lasciava personalizzare le didascalie), propongo questo poster (cliccarci per ingrandirlo):

#1037
Citazione di: Lou il 09 Ottobre 2020, 09:32:01 AM
una conoscenza può essere fondata sui principi, come nel caso della filosofia. Un tipo di conoscenza razionale.
Andrei anche oltre fino ad affermare che tanto la filosofia quanto la scienza (quanto la filosofia della scienza e le scienze filosofiche) si fondano più sui principi (del metodo, del paradigma, etc.) che sui dati, poiché ogni dato è (in)formato dai principi metodologici (e prospettici) di chi se ne occupa. Come si suol dire, la realtà viene fatta a fette a seconda del coltello che si usa, dalla mano che lo stringe e dalla mente che la guida.
Ciò non significa certo che la realtà in sé sia "creata" da principi o idee umani, ma solo che nel rapportarci al mondo vediamo categorie se siamo uomini, vediamo pixel se siamo computer, vediamo altro se siamo altro; il metodo condiziona il risultato (come ben rappresentato dalle scene di pesca e caccia di Dante e Viator); senza che ciò comprometta una fruizione funzionale e funzionante del mondo (funzionalità pragmatica che ci conferma che un paradigma non vale l'altro, ma ce ne possono essere molteplici).
Il famigerato "mito del dato" (Sellars) appartiene ad una "mitologia (non teologia)" umanistica e corrispondentista che è quanto di più ontologicamente spontaneo e legittimo possa esserci per un pensatore umano: la ragione intersoggettiva non può che produrre convenzionalità euristica, con il rischio di confondere la sintesi passiva (Husserl) con la neutralità cognitiva (confondere il darsi degli oggetti con il riceverli senza deformazioni dovute al proprio esser-uomo). Tuttavia, nella consapevolezza di tale mitologia esplicativa (prima che produttiva/performativa), l'ontologia diventa, secondo me, una questione di conoscenza fruibile, non di conoscenza assoluta e perfetta (come anelato dalla cultura antropocentrico-umanista, ancora ben pulsante, nata prima dell'autocomprensione analitica e "meta-umanista" del tardo novecento).
#1038
Citazione di: green demetr il 07 Ottobre 2020, 21:38:39 PM
Tu stesso cioè ammetti che il pixel oggetto alteri il mondo che circonda, ossia quello saputo.

Ma tale conoscenza avviene solo dopo che hai riconosciuto quell'oggetto.


Dunque l'oggetto viene prima del sapere. Naturalmente la conoscenza dell'oggetto stesso è funzionale alla fondazione dell'episteme da cui partire.
Il «sapere fatto dall'uomo» (episteme) che «funziona nella realtà» non è in contraddizione con un'«ontologia che funziona», ne è anzi il fondamento; per questo affermavo la priorità dell'episteme (su un'ontologia postulata come assolutistica), poiché «è l'episteme, più o meno raffinata, a individuare ciò che c'è, astraendolo dalla realtà indistinta e dinamica» (tutte autocit.). Non è il pixel o qualunque altra identità concettualizzata ad "alterare il mondo" ontologico: essi sono l'unità di misura che usa il soggetto (o il computer) per relazionarsi con il mondo, conoscendo, agendo, e quindi producendo cambiamenti (ovvero, «pixel» e «identità» sono categorie epistemiche che raffigurano la realtà, circoscrivendola, non sono enti ontologici che costituiscono o alterano la realtà).
Una volta che i miei sensi, episteme allo stato brado, individuano il pixel, l'identità dell'ente, etc. allora può iniziare il discorso ontologico sull'ente, sull'essere dell'ente, etc. Se l'ontologia si basa sull'individuazione di un'identità (dell'ente, dell'Essere, etc.), è l'episteme a fornirgliela; per dirla parafrasando Aumkaara (forse oltre le sue intenzioni): è il metodo a fondare il sapere, come è l'individuazione a fondare l'ente. Ogni ontologia regionale ha infatti i suoi enti e i suoi metodi.
Direi quindi che è piuttosto il sapere, strutturato in un'episteme (che spazia dalla mera percezione ai calcoli quantistici) a circoscrivere (prima di descrivere) l'oggetto; prima di (ri)conoscere l'oggetto lo si identifica, e ciò dipende dal paradigma, dal metodo, dall'episteme con cui si guarda alla realtà.
Affermare che l'oggetto venga prima del sapere che lo individua è una postulazione legittima, ma che poi si smentisce nella scomposizione analitica dell'oggetto in sotto-oggetti, sovra-oggetti, differenti percezioni/ontologie dell'oggetto (come nel caso dell'immagine scansionata), etc. pluralità di messa a fuoco che rivela la convenzionalità dell'identità dell'ente (e dell'ontologia che essa imposta, per quanto possa risultare di fatto funzionale).
#1039
Citazione di: Aumkaara il 07 Ottobre 2020, 13:37:07 PM
Ogni volta che si crede di aver sfondato (in realtà è solo un'osservazione più precisa e nitida) questa dualità compresente, la si ritrova di nuovo. Come si può quindi stabilire che solo uno di questi due poli è ontologico mentre l'altro solo epistemico, come era appunto stato affermato con sicurezza da Ipazia?
La mia risposta (lasciando ad Ipazia la sua) è che la dualità più che «compresente» è onnipresente (nella mente-che-legge-il-mondo, non nel mondo), perché l'unita di misura logica fondamentale umana è l'identità concettuale-convenzionale (non ontologica) che quindi pone l'alterità, ovvero almeno un dualismo (se non un pluralismo).
Il discorso ontologico presuppone quello epistemico, la cui versione più grezza, e al contempo inaggirabile, è la percezione/sensazione. La stessa ontologia, nonostante la sua velleità di essere asintoticamente veritativa, è discorso umano, quindi inevitabilmente "viziato" dalle categorie umane (leggi logiche, spettro delle percezioni, uso della tecnica, etc.) per cui ogni verità/dimostrabilità è tale per l'uomo (che ragiona appunto con le categorie di «dimostrabilità», «verità», etc.). Concordo dunque, anche sulla scia dell'esempio precedente dello scanner, sul primato dell'epistemico umano sull'ontologico assoluto (quest'ultimo inteso come meta-umano, Verità, etc.), essendo il secondo solo un ideale percepito sempre sotto forma di analitiche "ipotesi di lavoro" (detto in altri termini, è l'episteme, più o meno raffinata, a individuare ciò che c'è, astraendolo dalla realtà indistinta e dinamica). Tuttavia riguardo all'osservazione che
Citazione di: Aumkaara il 07 Ottobre 2020, 13:37:07 PM
è solo un'azione valida esclusivamente nel proprio ambito, vera solo grazie alle premesse che poniamo e ai risultati che ci attendiamo. Quale sia il motivo della concordanza tra premesse e risultati, non lo si può stabilire dal metodo usato: è appunto soprattutto un metodo, non soprattutto un sapere.
pur concordando sull'autoreferenziale circolarità fra premesse/risultati(/verifica/correzione), che interpreta il reale almeno quanto lo descrive, osserverei che il sapere è il risultato del metodo, quindi sono strettamente connessi (se parliamo di un sapere immanente e non assoluto) e trovo rischiosa la domanda implicita su «quale sia il motivo della concordanza tra premesse e risultati», poiché finché parliamo di «motivo» restiamo ancora dentro la logica, la scienza e le categorie umane (il che non è certo un difetto, ma un vincolo di cui essere consapevoli). Cercando il motivo-causa ci riferiamo ed affidiamo all meccanicismo, al causalismo, etc. per cui tale motivo-causa, anche se trovato e verificato, sarà sempre "antropocentricamente" prospettico, ovvero epistemico, ovvero (@green demetr) non "realmente" ontologico, salvo intendere per ontologia il suddetto sapere fatto dall'uomo e dalle sue categorie per funzionare nella sua realtà, non qualcosa di assoluto.


@viator
Il senso del mio parallelismo è che pare non esserci una ontologia (assolutamente vera) a cui tendere, ma che tanto il computer (antropomorfizzato per amor di parallelismo) che l'uomo hanno ognuno la propria prospettiva ontologica: il primo a base di bytes, pixels e sintassi/semantica di programmazione, mentre il secondo a base di concetti quali sostanza, forma, causa/effetto, etc. e, nocciolo di senso del parallelismo, entrambi i "soggetti", l'uomo e il computer-che-gioca-a-fare-l'-uomo, possono interagire con successo, studiare, comprendere e modificare il mondo esterno usando le rispettive, ben differenti, ontologie (quindi ciascuno dei due potrebbe affermare che la sua ontologia è quella reale, perché funziona; tuttavia nel momento in cui capisce che funziona anche quella dell'altro... illuminante relativismo?).
#1040
Citazione di: Aumkaara il 06 Ottobre 2020, 02:30:05 AMcome si spiegano, in assenza di divinità esterne o di un panteismo (presumendo che non crediamo ad entrambi), le regolarità riscontrate nei rapporti tra elementi di un'esistenza realmente frammentaria (e non frammentata artificiosamente per finalità di approssimazione conoscitiva)?
Se una certa filosofia ci suggerisce che ogni domanda non è mai singola, perché ha un "doppio fondo" che contiene una seconda domanda implicita (una "protodomanda") sulle condizioni di possibilità della riposta, in questo caso nel "doppio fondo" c'è il rapporto fra «spiegare», «regolarità» e «elementi». La scienza, e più in generale la ragione umana, ha una visione meccanicistica e causale della realtà: circoscrive un'identità, un elemento, e ne studia l'interazione con altri, spiegandone la regolarità (se pertinente), tramite il concetto di sistema chiuso, o almeno stabile. Il fulcro implicito del discorso è l'«elemento» inteso come identità (non a caso, primo principio della logica); ontologicamente circoscritta oppure questo è solo il modo (e il solo modo) in cui viene percepita/elaborata dalla nostra ragione?
Qui il linguaggio convenzionale traballa un po': cos'è che allora viene identificato-circoscritto, percepito ed elaborato (in modo da risultare elemento che interagisce con regolarità)? Basta riscontrarne la strumentale funzionalità a posteriori per avere controprova della sua isolata e discreta identità ontologica?
La risposta può arrivare dal mondo non umano: quando un computer acquisisce un quadro l'immagine di un quadro con uno scanner, la vede e la elabora sotto forma di bytes, pixels, etc. per il computer queste "unità di percezione" sono il suo modo di conoscere la realtà fuori da lui. Tuttavia, il computer ci direbbe che la sua ontologia di bytes e pixels è ben radicata e reale, perché funziona: l'immagine acquisita può essere con successo modificata e alterata (da braccia artificiali guidate dallo scanner), riprodotta, condivisa con altri pc (tutte caratteristiche del sapere scientifico: alterazione controllata, riproducibilità, intersoggettività). Se bytes e pixels non avessero un fondamento ontologico, tutte queste operazioni non potrebbero avvenire (quindi, a posteriori, il computer trova conferma che il suo paradigma ontologico è reale).
Eppure, noi che non siamo computer, sappiamo che tradurre un'immagine in bytes e pixels è un'operazione certamente funzionale, ma sappiamo anche che quell'immagine dipinta non è fatta ontologicamente da pixels e bytes (bensì da carta, colpi di pennello, luce, etc.); nondimeno la modalità percettiva del computer (e del suo software) rende inevitabile al computer percepire la realtà con i suoi mezzi (lo scanner) e i rispettivi vincoli gnoseologici, tramite convenzionali, non ontologiche, "unità (identità) di misura"; ciò non gli impedisce di fatto l'utilizzo di tali input per fondarci un'ontologia che funziona, interagendo ed alterando il mondo circostante.
#1041
Citazione di: Eutidemo il 05 Ottobre 2020, 15:36:51 PM
Per cui la miglior tutela del nostro indirizzo IP non può in nessun caso nasconderlo al nostro PROVIDER; il quale, se ci fornisce anche la fonia, conosce sia il nostro indirizzo IP sia il nostro connesso numero telefonico.
Non è il provider, che infatti paghiamo, ad essere un'insidia per il nostro IP (anche perché c'è un contratto in essere), ma quei servizi online che non paghiamo e che sembrano lavorare gratis per noi (e con i quali non c'è un contratto paragonabile a quello con il provider).
#1042
@Eutidemo

Forse già lo sai e l'hai già verificato: alcuni modem-router consentono di impostare una black list di numeri di telefono da bloccare; alcuni modem-router possono anche mandare fax, evitando di ricorrere a siti che offrono il servizio "gratuitamente", probabilmente con miglior tutela del tuo indirizzo IP (poiché, come dice l'adagio della nostra epoca, «se non paghi il servizio, è perché sei tu il prodotto», anche se ci sono comunque pregevoli eccezioni "filantropiche").
#1043
Citazione di: Ipazia il 04 Ottobre 2020, 10:02:33 AM
Promemoria convenzionale è pure la tecnica meditativa che usa espedienti come i koan zen per isolarci dal rumore di fondo del samsara e avvicinarci alla condizione estatica della dissoluzione del proprio io nella "chiara luce del vuoto" nirvanico.
I koan o la meditazione sono promemoria convenzionali quando se ne parla, non quando li si pratica (come per ogni pratica, il vissuto del praticante è differente dalla narrazione del praticante riguardo suo vissuto; ciò vale anche per un giro in bici o una corsetta). Eviterei il riferimento all'estasi, sia per la sua deformazione culturale in occidente (si rischia di scivolare sul "piano inclinato" verso santità, anima mundi, Spirito Universale e altri non pertinenti dintorni), sia perché più che uno star-fuori (ek-stasi), si tratta semplicemente di uno stare, ovvero essere incentrati nel proprio centro vuoto; dimenticando per un attimo il proprio io ci si può ricordare della vacuità di (s)fondo (quindi senza proiezioni, ascesi o simili, ma, attenzione, nemmeno riducendosi alla vita attiva di un animale puramente istintivo, condizione che il nostro cervello biologico ci pre-clude, aprendo invece lo spazio della suddetta intuizione del vuoto di (s)fondo).
Nel (mio?) zen non c'è (popolarizzazioni a parte) postulazione, non c'è trascendenza, non c'è, consentimelo, meta-fisica; e non c'è nemmeno scienza, perché abbiamo detto che si tratta di una consapevolezza che non vuole avversare o falsificare la conoscenza razionale e convenzionale, ma solo essere un "introverso" promemoria del vuoto aconcettuale su cui la scienza, egregiamente, si (s)fonda dando tangibili lezioni, risolvendo problemi e costruendo meraviglie. In (s)fondo lo zen indica una consapevolezza che non serve (nonostante la sua versione clerical-popolare sia stata impacchettata con luminosa, e talvolta numinosa, soteriologia; non di sola consapevolezza vive il meditante...). Infatti, la differenza di tale prospettiva rispetto al fare la spesa e lo scrivere sul forum è evidentemente, come detto, che tale vuoto è chiamato a riempirsi di contenuti convenzionali per poter comunicare con il cassiere o per interagire con altri presunti utenti (mentre l'Altro viene meno nel non-dualismo, venendo meno l'Io solido e razionalizzato).

Citazione di: Ipazia il 04 Ottobre 2020, 10:02:33 AM
La scienza fa bene ad istituire un Universo non duale di (s)fondo come referente di tutto ciò, ma è un referente con livelli di postulazione ben superiori a quelli degli enti della prassi quotidiana, tant'è che deve postulare oggetti particolari correlati da formule per agire la sua rappresentazione.
La scienza, dimensione convenzionale e razionale per eccellenza, più che «istituire un Universo non duale di (s)fondo»(cit.) può, come osservi, postularlo (v. topic), più meta-fisicamente e convenzionalmente di qualunque "sbirciata zen" sul mondo (che è non metafisica, non meta-fisica e non convenzionale).
La scienza concepisce solo il fondo, da scavare con analitica arché-ologia alla ricerca di principi e leggi universali. Non a caso, la scienza "vede" lo sfondo inteso come superficie-di-fondo, ma non può intravvedere lo (s)fondo inteso come sfondare (ovvero il contrario del mero essere-sullo-sfondo), se non in ciò che essa rifugge: il regresso all'infinito e le impudenze di Zenone (suo malgrado più simili, tartaruga a parte, a koan che a "provocazioni gnoseologiche").
Restiamo certamente concordi sul fatto che la scienza, proprio guardandosi dallo (s)fondo per andare invece al "fondo" della materia e del suo funzionamento, sia ben più utile alla vita quotidiana dell'intera specie, rispetto ad un vuoto spiraglio di consapevolezza zen, che non sazia, non cura, non dà riparo, etc. dunque, parafrasando un'espressione che hai usato in precedenza: mettere una toppa è più utile ed urgente che guardare nel (vuoto del) buco.
#1044
Citazione di: Ipazia il 03 Ottobre 2020, 14:33:48 PM
Se usciamo dal concetto non resta che una realtà postulata, subdolamente noumenica: la toppa che è peggio del buco.
Se usciamo dal concetto per andare ancor più "avanti" nell'analisi convenzional-razionale, dove la ragione si solleva dal reale e si fa postulante (come da topic), allora rischiamo di incappare nei miraggi del noumeno, delle idee platoniche, etc., tuttavia, se invece usciamo dai concetti per andare in un'altra direzione, non-convenzionale e, soprattutto, non postulante (v. il rifiuto della razionalizzazione indicato-ma-non-detto dai koan zen, come quello famoso del suono dell'albero che cade con nessuno che lo ascolta, indegnamente parodiato da me), allora abbiamo un "illuminante" antidoto proprio alla postulazione e ai noumeni, sotto forma di esperienza/intuizione della non-dualità di (s)fondo. Prospettiva di cui il (mio) relativismo è appunto un "promemoria convenzionale", e che, importante ribadirlo, va accantonata dietro le quinte quando si tratta di fare la spesa o scrivere su un forum, quindi ancor più quando si fa scienza.
#1045
Citazione di: Ipazia il 03 Ottobre 2020, 11:08:56 AM
Citazione di: Phil il 02 Ottobre 2020, 23:35:50 PM
Risposta (con domanda) zen: quante realtà c'erano prima che tu o chiunque le contasse?
Nessuna (così completiamo la triade pirandelliana). Nessuna, perchè allora non esisteva il concetto di realtà, nato con l'universo antropologico (En arché en o logos) che la realtà, convenzionalmente, le enumera sulla base dei propri presupposti metafisici, corretti nella misura in cui (Protagora) azzeccano il contesto della loro enumerazione.
Se prima non c'era «nessuna»(cit.) realtà, significa che anche la realtà è nata con l'universo antropologico? La realtà non va forse distinta dal concetto-di-realtà, ovvero non hanno due "esistenze" differenti il concetto e il suo referente? Se è così, la domanda resta, riferendosi essa alla realtà, non al concetto-di-realtà.
Nella riga sotto la mia domanda che hai citato, avevo già anticipato: «se rispondi «nessuna», come fai a saperlo?»; esempio di paradossalità zen che indica quel vuoto di (s)fondo, seppellito da tutte le convenzioni e le necessità del vivere.
Concordo ovviamente sul fatto che dopo (la domanda era infatti sul «prima») il consolidarsi di convenzioni, più o meno razionali, la realtà si declina al singolare o al plurale a seconda della disciplina che se ne occupa.
#1046
Risposta (con domanda) zen: quante realtà c'erano prima che tu o chiunque le contasse?
Se rispondi «una», meriti una bastonata zen; se dici «due», due bastonate zen, etc. se rispondi «nessuna», coma fai a saperlo?
Risposta "convenzionale": il problema dell'assolutezza (o meno) e/o del numero delle realtà è un problema nel/del "samsara" (per come lo intendo da "eretico"), della visione razionalizzata e convenzionale, che ha tutta la sua "sacrosanta" ragion d'essere e la sua utilità pragmatica nel vivere quotidiano e sociale. Tuttavia, per una prospettiva (che, per dirla con il chatuskoti, è: non-duale, non-monistica, né duale e monistica, né non-duale e non-monistica) che non sa contare, il problema dei "centomila" è fittizio tanto quanto quello del contare "correttamente" (ovvero convenzionalmente).
A suo modo è un punto di vista in cui, per così dire, forse c'è solo lo zero (o, riprendendo il traballante parallelismo, c'è solo l'Ipazia-X a prescindere dalle centomila Ipazie che possano proliferare nei vari forum). Certamente, per poter scrivere in un forum, per fare la spesa, etc. questo punto di vista vuoto richiede di essere riempito convenzionalmente; nondimeno, se mi sono espresso almeno un po' chiaramente, ciò non comporta necessariamente dualismo o pluralismo (dipende fino a che punto si resta «memori di quanto sia (s)fondata la pienezza che ci circonda», ovvero, con altro esempio banale, quando gioco a carte non creo necessariamente una seconda realtà dualistica rispetto a quella in cui le carte sono solo pezzetti di cartone colorato e non hanno valore intrinseco, se non, appunto, nel gioco convenzionale; posso giocare anche restando memore della convenzionalità del gioco, che quindi non produce dualismo).
#1047
Citazione di: Ipazia il 02 Ottobre 2020, 13:48:48 PM
Suppongo siano dualistici anche visti dalla parte degli illuminati quando li teorizzano. Quando li vivono non fanno storia universale
Il dualismo è infatti teorico, ovvero deriva dalla teorizzazione, non dallo sguardo sul/dal vuoto; nel momento in cui vengono teorizzati «samsara» e «nirvana» si parla il linguaggio convenzionale (Nagarjuna), che è quello che appunto «sospende/accantona»(autocit.) il punto di vista dal/del vuoto.
Il primo passo per "fare storia universale" è infatti parlare il linguaggio convenzionale-dualistico, quello più diffuso sulla Terra, grazie al quale siamo qui a parlare e dare un (non?)senso a teorie di tremila anni fa (il che, storicamente, non sarà "universale", ma non è nemmeno insignificante, fosse anche solo per motivi psico-antropologici più che gnoseologici).
Come dire: per me-utente, l'Ipazia-utente è dualisticamente differente da Ipazia-persona, o meglio, da X (vero nome dell'utente Ipazia), ma per Ipazia-persona/X non c'è differenza "ontologica" fra il suo esser-persona e il suo esser-utente, lei è quindi fuori del dualismo Ipazia/X. Quando X sta nel piano convenzionale del forum, lo fa in quanto Ipazia-utente ma senza scissione dal suo essere Ipazia-persona (non c'è per lei dualismo), invece per gli altri utenti il dualismo delle due Ipazie è un dualismo inevitabile: non sanno nemmeno se "Ipazia" siano in realtà più persone, o un bot, o la vera Ipazia che scrive dall'al di là (come potrebbe ironizzare Jean...).
Restando in questo parallelismo (parziale, non perfettamente simmetrico al tema, ma spero renda l'idea) l'Ipazia-persona è "illuminata" (circa il suo essere X non-duale), tuttavia quando parla con i non-illuminati usa come «abile mezzo» (espediente funzionale) il dualismo Ipazia-utente/Ipazia-persona (che per lei non sussiste) per spiegare loro che tale dualismo può essere risolto/dissolto, perché convenzionale ma non "reale" (e l'obiettore di turno potrebbe rimproverarle che lei stessa si sta basando su tale dualismo, parlandone... al che lei potrebbe rispondere con questo stesso messaggio).
#1048
@Aumkaara

Per come la "vedo", fra i dualismi logico-concettuali che danno forma sia all'empirico che alla teoresi, c'è una «via di mezzo», che è perlopiù una via di fond(ament)o, che ha nel vuoto (sunyata) il suo alveo. "Sotto" il linguaggio, sotto la convenzionalità, sotto "i mezzi-abili"(upaya), sotto il chatuskoti, sotto il soggetto che afferma "io" (affermando così l'alterità dell'Altro in quanto non-io), c'è l'assenza (non l'essenza) del "comune vivere", visione della vita che esige tutto ciò che sovrasta tale assenza-vuoto. Pensare il/al comune vivere può significare sospendere/accantonare il pensare tale assenza-vuoto, ma non viceversa (ovvero ciò è dualistico solo se lo si pensa a partire dal pensiero convenzionale, mentre pensando a partire dall'assenza-vuoto, non c'è dualità; come samsara-nirvana suppongo siano dualistici solo guardati dal samsara, ma non viceversa, narrazioni "popolareggianti" a parte).
Cercare di stabilire un ponte fra tale assenza e la necessità pragmatica della convivenza (sociale, culturale, etc.) è il gesto che, "demagogicamente", giustifica l'antico appello alla valenza soteriologica della non-dualità (compromesso teorico eccessivamente sbilanciato verso le esigenze psicologico-mondane). Dopo duemila anni di lento disincanto, oggi è possibile guardare a tale vuoto (dove semplicemente ed essenzialmente, non c'è appunto nulla da "vedere") senza intravvederci il segnaposto della "salvezza" o dell'"illuminazione" o il fondamento di un'etica (che invece è molto più sovrastrutturale di tale vuoto). Data un'occhiata al vuoto di fondo, non resta che, memori di quanto sia (s)fondata la pienezza che ci circonda, tornare a "coltivare il nostro giardino" (come constatava candidamente il noto personaggio di un libro).
#1049
Attualità / Re:L'aiutino
01 Ottobre 2020, 13:43:41 PM
Lo sport più seguito in america è il football, con stadi la cui capienza oscilla dai 60 mila ai 90 mila posti; una peculiarità di questo sport è che, oltre agli allenatori in panchina, ogni squadra ha altri allenatori (specifici per attacco, difesa e altro) in tribuna, o meglio, in apposite cabine (booth) da cui osservano il campo dall'alto e comunicano tempestivamente informazioni su schemi e suggerimenti ai coach che sono a bordo campo; tale comunicazione avviene con cuffie microfonate.
Se consideriamo che intorno ad eventi come il dibattito presidenziale c'è una schiera di "coach", non sportivi, ma addetti alla comunicazione in tutti i suoi aspetti, dal linguaggio del corpo all'abbigliamento, dalla retorica al controllo delle reazioni dell'avversario, dalle statistiche sui dati alla profilazione degli elettori, etc. per me è quasi coerente che prendano parte all'andamento del dibattito (salvo sia proibito dal regolamento, se c'è), perché prenderanno poi parte allo svolgimento delle attività presidenziali in veste di team del presidente. Per quanto gli americani, e non solo, subiscano il fascino del maschio-alpha al comando, del leader autonomo che guida ma non viene guidato, credo che la realtà sia più simile a quella del football: il capo allenatore (head coach) è ufficialmente uno, poi c'è il team degli assistenti e dei vari collaboratori, poi c'è il team dei giocatori, e tutta questa gente è in gioco nella partita, più o meno palesemente (ovviamente c'è anche il pubblico che guarda la partita, fischiando, applaudendo, sonnecchiando o tenendo sott'occhio lo smartphone).
#1050
Citazione di: anthonyi il 30 Settembre 2020, 18:05:07 PM
con empatia si intende la coscienza di quello che prova l'altro, il provare come tu dici implica che quello che l'altro vive lo viva emotivamente anch'io, per cui in tal caso la sua felicità sarà la mia, e siccome io desidero essere felice, allora desidero la sua felicità.
[...]
Il punto è che se noi definiamo l'empatia già nel senso positivo non abbiamo più un concetto per definirne la componente neutra, cioè quella appunto della semplice presa di coscienza razionale dell'altrui felicità/infelicità senza partecipazione emotiva
Personalmente non presuppongo che l'empatia sia "positiva", tuttavia mi preme tenerla distinta dal desiderio, proprio perché non è la proiezione di ciò che vorrei in risposta alla situazione dell'altro (se fossi al posto suo), ma è soltanto l'introiezione delle emozioni altrui; quell'«io desidero essere felice, allora desidero la sua felicità»(cit.) non credo sia un meccanismo strettamente empatico, perché più che ricettivo-emotivo è propositivo-desiderante (può essere di certo conseguenza dell'empatia, me non è l'empatia in sé).
Concordo ovviamente con te quando osservi che l'empatia può essere d'ostacolo alla comprensione razionale del comportamento altrui (per questo l'ho distinta dalla razionalità).

P.s.
Ringrazio InVerno per esser stato meno pigro di me nel verificare l'esattezza di Wikipedia.