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Messaggi - Loris Bagnara

#106
Repliche a @Sgiombo:

CitazioneLa causalità non è dimostrabile (Hume!); ma per credere vera la conoscenza scientifica deve essere ritenuta ugualmente vera (letteralmente: per fede)
Mi era parso che criticassi la mia scelta in favore della intelligibilità dell'universo; ma vedo che anche tu fai lo stesso, e giustamente.

CitazioneLa deduzione logica è fatta di giudizi analitici a priori, dunque è esplicitazione di verità implicite nelle premesse (arbitrariamente assunte come assiomi o stabilite come definizioni); dunque in un certo senso non può che essere "tautologica" (nel senso di non dire nulla in più di quanto già compreso nelle premesse, però esplicitandolo).
Il problema del metodo deduttivo, come riconosci, è che non fa altro che esplicitare le verità contenute nelle premesse.
Ma le premesse le sceglie il pensatore, e a meno che non si tratti di premesse generalissime e irrinunciabili, il rischio con il metodo deduttivo è che il ragionamento finisca semplicemente per confermare il pre-giudizio del pensatore.
Nel caso specifico, non riesco a vedere da quale premessa generalissima e irrinunciabile possa discendere logicamente la verità dell'affermazione "cio che accade non può non accadere".

Ma faccio un passo oltre.
Chiarito che anche per te è valido il principio di causalità, ti prego di seguire questo ragionamento.

Una premessa. Suppongo che per te l'universo sia un insieme finito di fenomeni; lo suppongo perché ti sei espresso più volte contro il concetto di infinito. Se non è così, mi correggerai.

Quindi, assumo che per te l'universo sia finito nel tempo e nello spazio, e che pertanto abbia un'origine e una fine: prima dell'universo, non c'era nulla, e dopo l'universo, ci sarà il nulla.
Questa semplice considerazione mostra che l'universo esisterebbe in palese violazione di una delle sue leggi più fondamentali, quella della conservazione dell'energia e della materia. L'universo viola questa legge quando appare, la rispetta quando esiste, e la viola di nuovo quando scompare. A me questo pare insoddisfacente, e quando dico "insoddisfacente" non è per un mero senso estetico, ma perché si tratta di una colossale incongruenza che non si può semplicemente accettare per il semplice fatto che esiste.

Ma c'è altro da dire.
L'insieme dei fenomeni dell'universo si può allineare in una catena causale che regredisce nel tempo, fino ad un fenomeno primo (ad esempio il Big Bang, secondo la teoria prevalente) che, non avendo altri fenomeni precedenti, risulta necessariamente non-causato.
Anche questa è un'inaccettabile incongruenza: per quale motivo tutti i fenomeni dell'universo dovrebbero avere la loro causa, tranne uno?

E' il problema della causa incausata, del motore immobile di aristotelica memoria; ma nessun fenomeno finito, contingente, può essere ritenuto il motore immobile di un universo. Occorre altro. Conosci bene anche tu quali soluzioni ha proposto la filosofia, nella storia, per risolvere questo problema.

Si potrebbe ammettere una sequenza circolare di cause-effetti, dove la "prima" causa è effetto dell'ultima; ma tu hai detto di rifiutare le sequenze circolari (e anche a me non soddisferebbe l'idea di una singola catena causale finita).
Oppure ci vorrebbe un regresso all'infinito delle cause, ma ti sei espresso contro anche a questa idea.

Quindi, quale sarebbe per te la soluzione?
#107
Ho finalmente trovato qualche dato relativo a ricerche autorevoli sulla probabilità che per puro caso si producano molecole organiche e poi la vita.
Charles-Eugène Guye in L'évolution phisico-chimique (Hermann, Paris 1940), ha calcolato la probabilità che per puro caso combinatorio si sia potuta formare, nell'intera storia della Terra, la prima molecola della più semplice fra le proteine. Questa probabilità è dell'ordine di 10^600: dieci seguito da 600 zeri.
E questo è solo per la prima molecola proteica dalla struttura più semplice.
Come si vede, la scienza ha stabilito da tempo che la vita non può essere sorta per caso.

Questo il link ad una traduzione inglese del lavoro di Guye:
http://creationsafaris.com/epoi_c06.htm
#108
@Sgiombo:
CitazioneNon ha senso qualificare come più o meno "normali" le interpretazioni (filosofiche) della meccanica quantistica.
Il significato di "normale" era, ovviamente, quello di "opinione più diffusa". Io credo che il consensus abbia la sua importanza, quando non vi sono elementi per stabilire con sicurezza quale interpretazione sia la più valida. Non mi pare sia corretto, come fai tu, prendere una delle interpretazioni più originali e personali, come quella di Bohm, e di questa neppure tutto, perché di essa prendi (a tuo arbitrario) ciò che tu giudichi razionalista e scarti ciò che giudichi irrazionalista. Eppure il tardo Bohm è lo stesso pensatore di prima, e ciò che il tardo Bohm afferma non è che il compimento delle prime intuizioni colte in precedenza.

E cos'ha a che fare l'Universo, mente e materia descritto da Bohm, con il tuo universo? Piuttosto, la concezione di Bohm è ad un passo dalla coscienza universale, dal TUTTO di cui parlo io, non certo vicino alle rei extensa/cogitans più noumeno di cui parli tu.
Riporto un passo da Wikipedia:
CitazioneNel suo libro Universo, mente e materia[1], Bohm teorizza l'esistenza nell'universo di un ordine implicito (implicate order), che non siamo in grado di percepire, e di un ordine esplicito (explicate order), che percepiamo come risultato dell'interpretazione che il nostrocervellodà alleonde (o pattern) di interferenzache compongono l'universo.
Bohm paragona l'ordine implicito a un ologramma, la cui struttura complessiva è identificabile in quella di ogni sua singola parte: il principio di località risulterebbe perciò falso. Poiché Bohm riteneva che l'universo fosse un sistema dinamico in continuo movimento, mentre il termine ologramma solitamente si riferisce a un'immagine statica, Bohm preferiva descrivere l'universo utilizzando il termine, da lui creato, di Olomovimento.[2]
Dopo l'esperimento del 1982, in cui il teorema di John Stewart Bell viene confutato da Alain Aspect, rivelando una comunicazione istantanea fra fotoni a distanze infinitamente grandi, Bohm, che si era già confrontato con lo stesso problema durante la sua riformulazione del paradosso di Einstein-Podolsky-Rosen, ribadì come non vi fosse alcuna propagazione di segnale a velocità superiori a quella della luce, bensì che si trattasse di un fenomeno non riconducibile a misurazione spaziotemporale.
Il legame tra fotoni generati da una medesima particella sarebbe dovuto all'ordine implicito, nel quale ogni particella non è separata o "autonoma", ma fa parte di un ordine atemporale e aspaziale universale, cioè l'Olomovimento, il cui modello matematico implica un insieme di variabili nascoste. Bohm scrisse che «dobbiamo imparare a osservare qualsiasi cosa come parte di un'Indivisa Interezza» (Undivided Wholeness),[3] cioè che tutto è uno.
Quanto alla tua affermazione "ciò che accade non può non accadere = deve accadere = è necessario", non è logica, come tu dici, ma tautologica, una pura banalità, se non la agganci alla realtà fisica:
"cio che accade deve accadere" - "perché deve accadere?" - "perché accade" - "ma perché accade" - "perché deve accadere" - ...
Invece, se la agganci alla realtà fisica, t'invito a riflettere, tale affermazione è valida solo in un'ottica di assoluto e rigido determinismo. Solo in questo caso è lecito qualificare il "possibile" come "pensabile", cioè come dici tu. Ma in un'ottica "probabilistica", non posso non considerare tutte le possibilità come altrettanto reali, se voglio essere coerente; altrimenti di che probabilità si parla? Si tratterebbe solo di un puro artificio matematico.

E poiché la m.q. è essenzialmente probabilistica (nell'opinione della stragrande maggioranze dei fisici), è assolutamente in contrasto con la tua affermazione di cui sopra, non vedo come le si possa conciliare.

A questo proposito, non mi è a ancora chiara la tua posizione riguardo alla causalità, perché spesso oscilli fra il metterla in dubbio (citando Hume) e il sostenerla (citando Bohm).
#109
@Sgiombo:
CitazioneNon confondiamo comunque le interpretazioni filosofiche irrazionalistiche, prevalenti fra gli scienziati, della meccanica quantistica con la scienza.
Esiste per lo meno una rispettabilissima e seria interpretazione (non da "ciarlatani new age" o da "dilettanti allo sbaraglio") della meccanica quantistica "a variabili nascoste" deterministica e realistica, oggettivistica circa gli enti ed eventi fisici, quella di David Boehm.
[...]
Hawking (ancor più di altri scienziati quando tentano di fare della filosofia) non è nuovo a farneticazioni irrazionalistiche, ciò che ne racconti non mi stupisce affatto.
Mi limito a replicare a questo, e tralascio tutto il resto, perché su questo proprio non se ne può fare a meno.
Quel che ho detto sul collasso della funzione d'onda è la più normale fra le interpretazioni date della meccanica quantistica: l'interpretazione di Copenaghen.
Invece, proprio l'interpretazione di David Bohm è una di quelle più originali ed "esotiche", e meno diffuse fra gli scienziati. Fra l'altro, David Bohm ha avuto un intenso rapporto intellettuale con Jiddu Krishnamurti, un grandissmo maestro spirituale e, in gioventù, teosofo. La teoria di Bohm nasce anche dalla sua conoscenza della visione orientale, e se la studi bene vedrai che difficilmente può portare, come si dice, "acqua al tuo mulino", ma molto più probabilmente al mio.
Quanto al qualificare "irrazionalista" Hawking, direi che la farneticazione, più che sua, è tua.
In ogni caso le interpretazioni della meccanica quantistica sono tante, nessuno sa quale sia quella giusta, ma ti assicuro che nessuna delle interpretazioni che conosco avalla la tua affermazione che
Citazione[...] ciò che accade non può non accadere = deve accadere = è necessario, mentre "possibile" può soltanto significare "pensabile (correttamente, non autocontraddittoriamente, sensatamente)".
#110
@maral:
CitazioneIl discorso invece non ha più senso se riferito a una coscienza pensata come qualcosa che può nascere in un corpo anziché in un altro, perché è chiaro che è quel corpo in cui essa nasce che a determinarla come tale, non un io già esistente che gli viene trapiantato da fuori.
Provo a dire così. In ottica materialista, il corpo-maral appena nato comincia a dare vita ad una coscienza. così come il corpo-Loris appena nato comincia a dare vita ad un'altra coscienza. Poiché, in ottica materialista, né il mio io né il tuo io esisteva prima della nascita, non c'era alcun rapporto di necessità fra io-maral e la coscienza in formazione nel corpo-maral, tanto che nulla vieta di pensare che invece io-maral potesse "aprire gli occhi" nella coscienza formatasi dal corpo-Loris, e viceversa, io-Loris nella coscienza del corpo-maral.
Insomma, io avrei potuto aprire gli occhi trovandomi nel tuo corpo, e tu nel mio ( ??? ), perché non vi è nulla di necessario in ciò che invece si è effettivamente verificato: tu, là dove sei, e io, qui dove sono.
E' questa considerazione, la nascita di una coscienza dal nulla, a lasciarmi profondamente perplesso.

@maral:
CitazionePerò questa posizione corrisponde a una soluzione ad hoc: ossia mi serve una coscienza universale per risolvere il problema dell'esistenza delle coscienze particolari che altrimenti resterebbe irrisolvibile, quindi la postulo. Da un punto di vista logico le soluzioni ad hoc (che postulano ciò che risolve il problema) sono una fallacia, per quanto comode e largamente impiegate (spesso anche nel discorso scientifico, mantenute in attesa di verificarle).
Postulare qualcosa è inevitabile. Sappiamo forse cosa sono, in sé, la materia e l'energia? No, le postuliamo come entità, benché siano indimostrabili e inattingibili. Perché non fare altrettanto con la coscienza?

@maral:
CitazionePer quanto riguarda il discorso di una coscienza che non può nascere dal nulla né tramontare nel nulla sono perfettamente d'accordo (è del tutto illogico pensare che qualcosa esca dal nulla e vi ritorni, ossia torni a essere quel nulla che era prima di essere ciò che è, ed è illogico in quanto nessuna cosa può mai essere il nulla di quella cosa, né prima né dopo). Ma è anche illogico che la coscienza individuale entra ed esca in una coscienza universale, perché per farlo sarebbe la sua individualità a dover sorgere dal nulla e finire nel nulla, dunque il paradosso resta lo stesso: se si conviene che nulla può nascere dal nulla e finire nel nulla (ossia se solo il nulla può farlo) nemmeno l'individualità della coscienza può sorgere dal nulla e tramontare nel nulla. Ma qui il discorso (di sapore severiniano) si fa troppo filosofico per l'ambito di questa sezione.
Le coscienze particolari non entrano ed escono dalla coscienza universale. Potremmo dire che sono punti di vista all'interno della coscienza universale. In qualche modo, illusioni. Modi di esplorare se stessa, che la coscienza universale impiega, creando infiniti punti di vista all'interno di sé e ponendoli in un'illusoria cornice spazio-temporale. Lo spazio e il tempo in effetti non esisterebbero.
E' chiaro che una visione del genere si può solo tentare di intuirla, poiché un essere umano non può uscire dallo spazio-tempo in cui è "ingabbiato".
#111
@Sgiombo:
CitazioneNon sono d' accordo che "Sarebbe come dire che il nostro universo è l'unico universo possibile. Ma è ovvio che questo non è l'unico universo possibile: oltre agli infiniti universi diversi che potremmo pensare, ci sarebbero ancora tutti quelli che nemmeno riusciamo a immaginare".
Tutti questi universi "ci sono", esistono unicamente nei nostri pensieri, nella nostra immaginazione.
Poiché per definizione (di "negazione", di "essere", "non essere", "accadere" e "non accadere") ciò che é reale (o accade realmente) non può non essere reale (o non accadere realmente) e ciò che non é reale non può non essere reale (o non accadere realmente), il contrario essendo autocontraddttorio, insensato, nulla é possibile (essere o accadere realmente o non essere o non accadere realmente), ma tutto é necessario (essere o accadere realmente o non essere o non accadere realmente: tutto é necessario in quanto é reale o in quanto non é reale.
Sintetizzato in una breve formula, tu in pratica sostieni:
Solo ciò che accade è reale | Solo ciò che è reale accade
Uno ha naturalmente tutto il diritto di ritenerla soddisfacente, ma io no: non solo per l'evidente circolarità (tautologicità), ma anche per il fatto che non getta luce né su cosa sia l'accadere né su cosa sia il reale.
E non solo è una posizione insoddisfacente da un punto di vista filosofico, ma è anche in contrasto con la visione offerta dalla scienza moderna.
Per la fisica quantistica, i fenomeni "possibili" sono reali quanto quelli osservati. Sappiamo infatti che ogni fenomeno fisico (e quindi al limite l'intero universo) resta in uno stato indefinito finché non avviene l'osservazione compiuta da un individuo cosciente: solo a quel punto, l'onda "collassa", le innumerevoli alternative possibili svaniscono e resta l'unica alternativa effettivamente osservata. A quest'ultima, diamo comunemente il nome di "realtà", ma la verità è che le alternative non osservate sono reali quanto quella osservata. Sono tutte reali, benché una sola si manifesti.
Se vogliamo fare un esempio più terra terra, potremmo immaginare di essere alla guida di un'auto, e a un bivio ci si propone la scelta se svoltare a destra o a sinistra. Svoltare a destra è lo scenario (universo) A, svoltare a sinistra è lo scenario (universo) B. Se in effetti poi svolto a destra e quindi si verifica lo scenario (universo) A, è assurdo per questo dire che lo scenario (universo) B non si è verificato perché "non reale". E' evidente che lo scenario (universo) B è reale quanto l'altro (o anche immaginario quanto l'altro, potremmo dire). Peraltro, se così non fosse, a quel bivio non ci sarebbe nemmeno scelta: avremmo solo l'illusione di scegliere liberamente la strada, quando invece sarebbe stato l'unico scenario (universo) reale a verificarsi da sé. Francamente trovo anche questo del tutto insoddisfacente.
Stephen Hawking è giunto ad affermare che l'intero universo si è trovato in uno stato indefinito (cioè una sovrapposizione di infiniti universi) fino a quando il primo essere cosciente non ha compiuto un'osservazione sull'universo stesso. Solo a quel punto, l'onda dell'universo è collassata, manifestando quell'universo che ora osserviamo, con tutta la sua storia dalle origini ad oggi. In altre parole, la storia dell'universo si è costruita a posteriori, al momento dell'osservazione cosciente. Questo poi significa che altri eventuali (probabili) esseri coscienti nell'universo, coi quali non siamo in comunicazione, potrebbero osservare un universo diverso da quello che osserviamo noi, perché il modo in cui collassa l'onda quantistica non è deterministico, ma probabilistico.
Insomma, esistono realmente, per la fisica moderna, infiniti universi; non sono solo nell'immaginazione.

@Sgiombo:
CitazioneMa ogni insieme "totale" di enti o eventi che si consideri, in qualto tale non può essere spiegato, dal momento che oltre ad esso per definizione non può darsi alcunché che lo possa spiegare.
C'è differenza fra una totalità e l'infinito vero e proprio. L'infinito non richiede di essere definito, ma una totalità si.
A meno che non si parli di infinito, ogni totalità è solo una delimitazione arbitraria all'interno di un insieme più ampio. Pertanto richiede una spiegazione. La totalità dei mammiferi, ad esempio, nasce da una definizione, come tale arbitraria; ed eccome se necessita di spiegazione...
Ma anche l'universo osservato non è un infinito, è solo una totalità, definibile arbitrariamente appunto come la totalità dei fenomeni osservati. Ma tale definizione è solo temporanea e contingente, tant'è vero che nuove teorie e nuovi strumenti potrebbero allargare il perimetro della totalità universale. Finché non siamo nemmeno certi del perimetro di questa totalità, come si può affermare che l'universo non necessita di qualcosa che lo spieghi? E d'altronde, se anche fossimo certi del perimetro di questa totalità, l'universo resterebbe un'entità finita, non un infinito. Seguendo a ritroso la catena delle cause ad un certo punto mi ritroverei necessariamente di fronte ad un fenomeno che non avrebbe una causa. Non sarebbe questo un motivo di forte perplessità? Perché tutti i fenomeni dell'universo avrebbero una causa, tranne uno? Allora dovrei pensare, piuttosto, che il principio di causalità è un'illusione, che i fenomeni avvengono per caso. Ma questo significa negare alla radice l'intelligibilità del mondo che ci circonda. Se uno si ritiene soddisfatto lo può fare, certo. Io, no.

@Sgiombo:
CitazioneInoltre mi sembra che le risposte che in concreto dai a queste domande siano fondate su un presupposto infondato e infondabile (indimostrabile logicamente, né mostrabile empiricamente), quello di un determinismo o causalismo per lo meno "debole": come genialmente rilevato da David Hume, nulla dimostra che le regolarità finora rilevate negli eventi non siano semplicemente apparenti, mere coincidenze fortuite, che i mutamenti della realtà non siano in verità casuali (e che questo non possa anche palesemente manifestarsi alla prossima osservazione empirica del reale: sempre alla "prossima", quante che siano state le precedenti che suggeriscano una invero apparente, fortuita regolarità causale dei mutamenti della realtà stessa).
Come detto sopra, uno deve scegliere fra intelligibilità e inintelligibilità del mondo che ci circonda. Io scelgo l'intelligibilità, e dunque il principio di causalità. E più ancora che causalità in senso fisico (spazio-temporale), la causalità in senso ontologico: cioé ogni cosa deve avere una spiegazione che la rende necessaria, ontologicamente. Questa è la mia posizione, che ho più volte ribadito.

@Sgiombo:

CitazioneParli inoltre di "principio unico, cioè quel principio che, rendendo innanzitutto conto di se stesso, è capace di rendere conto di tutte le leggi e caratteristiche dell'universo osservato", ma logicamente di ogni evento o sequenza di eventi si può trovare una spiegazione (una dimostrazione logica), e ontologicamente ogni concatenazione causale di eventi (indimostrabile) può essere fondata:
o su una circolarità (B spiega logicamente o causa ontologicamente A; C spiega o causa B; A spiega o causa C);
oppure su un regresso all' infinito.
Premetto il "principio unico" non è una mia invenzione, ma ci sono realmente numerosi scienziati che si trovano in imbarazzo di fronte all'arbitrarietà delle leggi fisiche e pertanto sono alla ricerca di una Teoria del Tutto, da cui appunto tutto possa discendere come necessità.
Detto questo, hai ragione: la soluzione secondo me sta proprio in una circolarità di cause, in cui l'ultima è effetto della prima, per così dire. Ovviamente ciò può essere vero se si ritiene, come io ritengo, il tempo un'illusione.
O meglio, secondo me, il TUTTO non manifestato contiene infinite sequenze (infinite) di questo genere, e la manifestazione di una di queste sequenze è la manifestazione di un universo.

@Sgiombo:
CitazioneLa soluzione del problema da te proposta, "L'universo osservabile è solo l'infinitesima parte di un TUTTO infinito. Perché solo l'infinito può includere tutte le cause, e dunque anche le cause di tutto. Viceversa, ciò che è finito è necessariamente contingente, incompleto incapace di rendere conto della propria esistenza" mi sembra identificarsi con quella del regresso all' infinito: l' infinito può effettivamente includere tutte le cause (e le spiegazioni e dimostrazioni logiche).
Ma regredendo all' infinito non si raggiunge mai alcun "fondamento causale" di quanto si postula essere causato (ovvero, sul piano logico, alcuna dimostrazione di quanto si pretenderebbe dedotto, dimostrato, spiegato ma invece é un ultima analisi arbitrariamente postulato).
L'assurdità del regresso all'infinito sparisce se ti poni nell'ottica del vero Infinito, quel TUTTO come sopra descritto, che è in un eterno presente senza tempo.
#112
@Hollyfabius
CitazioneNon credo poi che si possa chiedersi neppure "perché esisto in questo modo" perché non esiste un modo persistente di me, in ogni momento cambio e il nostro essere persone non è mai definitivo. E' esistito un me in molte altre forme concrete diverse da quella presente ed esisterà in molte altre forme.
@maral
CitazioneMa questa seconda domanda non ha senso, non ha senso in quanto se io non fossi questo che sono, non sarei questo io che sono, sarei qualcos'altro. A meno appunto di ammettere che io ci sia prima di essere io e questo è assurdo. Io sono io perché sono questa forma, se fossi ad esempio un cane, non sarei io, ma quel cane.
Hollyfabius propone una concezione più "indefinita" dell'esistere, mentre maral una più "definita". Non abbiate da ridire su questa mia inevitabile schematizzazione, è solo per intenderci.
Io rispondo a entrambi invitandovi a cogliere un concetto un po' più sottile.
Immaginate, come accade nella fantascienza, un'apparecchiatura che trasferisca la coscienza da una persona all'altra. Supponiamo così che io-maral si trasferisca in corpo-hollyfabius, e io-hollyfabius in corpo-maral: ciascuno di voi due sentirà di essere sempre se stesso, soggettivamente, ma si troverà in una condizione differente da prima, oggettivamente. Non so dirlo altrimenti. Cercate di cogliere il fatto che il vostro io-sono avrebbe potuto manifestarsi entro condizioni differenti da quelle attuali, pur voi restando voi stessi. E attenzione alla parola "manifestarsi", perché ci tornerò sopra in seguito.

@hollyfabius
CitazioneL'esistenza del TUTTO come principio è senza senso, è auto-contradditorio. Non puoi abbracciare il tutto perché mancheresti sempre tu che dall'esterno lo abbracci. Non può esistere un linguaggio che descriva se stesso, occorre operare ad un livello di sovra-linguaggio ma non si può uscire da questa contraddizione.
Nessuno pretende, infatti, di comprendere o descrivere l'infinito, o assoluto, o il TUTTO: tre sinonimi a cui potremmo affiancarne un quarto, cioé Dio, termine che invece io preferisco evitare perché richiama troppo il Dio personale delle religioni storiche.
Per conoscere il TUTTO dovremmo essere il TUTTO, cosa evidentemente impossibile per una creatura che è solo parte del TUTTO. Ma non è questo che si chiede.
Il TUTTO lo si postula come necessità logica e ontologica, come condizione affinché esista un senso; ma non vi è nessuna pretesa di cogliere analiticamente e razionalmente questo senso. E' sufficiente sapere che esiste, e fa già una bella differenza dal sapere che non esiste un senso. E ciò che è finito, limitato, un senso non ce l'ha, non è autosufficiente. Questo la filosofia l'ha già stabilito da qualche migliaio di anni.
Semmai, il TUTTO lo si può rappresentare, anche se molto parzialmente, solo in negativo, dicendo ciò che non è; oppure lo si può intuire utilizzando facoltà sovrarazionali. Ma certamente non comprenderlo, su questo siamo d'accordo.

@maral
CitazionePer dire in concreto (e non come una postulazione astratta da prendere in termini generalissimi) che esiste una coscienza universale che ci comprende bisognerebbe uscire da questa coscienza, ma se essa ci dà la coscienza in quanto ne siamo parti, non potremo mai effettivamente trovarla.
Vedi sopra, la risposta è identica. Non c'è bisogno di descrivere la coscienza universale, che ovviamente resta inaccessibile ad ogni coscienza limitata come siamo noi esseri umani. Ma è sufficiente sapere che esiste, che essa è la sorgente di ogni coscienza particolare, perché se non postulassi una coscienza universale ed eterna non vi sarebbe alcuna possibile spiegazione per la mia (vostra) presenza qui, ora.
E' già una grandissima differenza, rispetto al non-senso che deriva dal non postularla.
E' la differenza che vi è fra sapere che la risposta non esiste, oppure sapere che la risposta invece esiste, anche se non la conosciamo.

Aggancio a questo punto anche una risposta a Sgiombo:
CitazioneNon sono d' accordo che sia "impossibile rendere conto della mia apparizione dal nulla, come soggetto autocosciente", che "la coscienza NON sorga dal nulla, ma sia irriducibile, increata, eterna, e che assuma infinite manifestazioni soggettive": non vi é nulla di contraddittorio, ovvero assurdo, nell' ipotesi che io e chiunque altro come soggetto autocosciente non sia esistente per sempre, che inizi ad esistere (appaia dal nulla), e anche che finisca completamente, definitivamente di esistere (ritorni nel nulla); e dunque é correttamente pensabilissima come ipotesi alternativa e altrettanto plausibile a quella dell' eternità della coscienza e dell' autocoscienza.
Cerco di farti capire la difficoltà che avverto io.
Immagina il sacchetto con i 90 numeri della tombola, e un persona che estrae i numeri ad uno ad uno. Quei numeri sono individui autocoscienti. Tu, supponiamo, sei il numero 3. Ad un certo punto esce proprio il 3, e la tua coscienza "apre gli occhi": si manifesta. Nel sacchetto, era solo una possibilità; ora, è una manifestazione.
Immagina ora che il sacchetto sia vuoto: dentro non c'è neanche un numero. Però arriva un mago, prende il sacchetto, ci mette la mano dentro, la tira fuori, e cos'ha in mano? Il numero 3.
E nemmeno esisteva come possibilità!
A me, questo secondo caso, prova un fortissimo disagio intellettuale. Ti prego di coglierlo (non dico di accettarlo) perché non saprei spiegarlo con altre parole.

@hollyfabius
CitazioneSono piuttosto convinto che esista l'eternità di qualcosa, le forme però, le intenzionalità di questo qualcosa non sono accessibili alla mente umana. Dal mio piccolo cantuccio la definitiva irrazionalità del qualcosa di eterno è palese: lo stesso principio di causalità potrebbe dissolversi per ragioni misteriose.
Il qualcosa di eterno però deve garantire la molteplicità, deve appoggiarsi almeno al suo contrasto, è forse l'eterna lotta tra una parvenza di yin e yang.
E' così, quell'eternità inaccessibile di cui parli è quel che intendo per il TUTTO.
E nel TUTTO è compreso il passato, il presente e il futuro di tutte le infinite manifestazioni. Il TUTTO non evolve, perché dovrebbe evolvere in qualcosa di diverso da se stesso, ma allora non sarebbe il TUTTO. Dunque il TUTTO è in una sorta di eterno presente senza tempo, e se non c'è tempo, non c'è causalità. Come tu dici, nell'infinito il principio di causalità si dissolve perché ogni causa è compresente con i suoi effetti.
Ma il TUTTO, in sé, non è manifestato (ecco il concetto di "manifestazione"): solo delle parzializzazioni del TUTTO possono manifestarsi.
Immaginiamo un database infinito da cui posso estrarre infiniti differenti insiemi di dati, ordinati in un'infinità di modi differenti: questi insiemi sono come gli universi osservabili, mentre il database, in sé, resta inaccessibile e incomprensibile.
Ecco gli infiniti possibili universi che possono derivare dal TUTTO. In tal modo, il TUTTO è al tempo stesso assolutamente inaccessibile e trascendente rispetto alle manifestazioni, ma al tempo stesso è immanente ad esse essendone la "radice", benché inattingibile e inconoscibile.
#113
CitazioneIo questa domanda la metterei in un altro modo, non perché io in questo corpo, ma semplicemente perché io. Infatti se io fossi in un altro degli innumerevoli esistenti di questo mondo, semplicemente non sarei io. Dunque la vera domanda è perché invece io ci sono e, per quanto si possa tentare di farsene una ragione, temo che, proprio in quanto ci sono, la risposta non posso vederla. La mia esistenza è il punto da cui mi muovo, non posso mai essere fuori di essa da poterla vedere e se la considero è solo dal punto di vista della mia esistenza dalla quale, per sapere il perché c'è dovrei esserne fuori.
Si certo, la prima domanda è perché "io esisto". Ma la seconda è, posto che esisto, "perché esisto in questo modo". Infatti, non c'è solo un modo in cui posso esistere. Se intendo l'io-sono come puro soggetto auto-senziente, senza alcuno specifico contenuto, è chiaro che io potrei esistere in infinite altre forme concrete diverse da quella presente.

Ma a parte questo, non sono d'accordo sul fatto che a queste domande non sia possibile rispondere, e che sia legittimo sentirsi esentati dal rispondervi.
il punto è questo: ammettere o meno la validità del principio di causalità. Se non il principio "forte" (assoluto determininismo), almeno il principio "debole" lo si deve ammettere, altrimenti abbiamo già finito di fare scienza e filosofia. Altrimenti basterebbe dire "le cose sono come sono", e saremmo già a posto...
Una formulazione del principio di causalità "debole" potrebbe essere questa: ogni fenomeno rappresenta uno stato che è condizionato da un altro fenomeno (stato) localmente contiguo e preesistente.
La mia esistenza soggettiva è indubbiamente un fenomeno, e se il principio di causalità è valido, deve esistere un fenomeno preesistente e contiguo che ha condizionato la mia esistenza soggettiva. Questo fenomeno preesistente e contiguo, che sto cercando, è la "causa" della mia esistenza come soggetto autocosciente.
Dove si trova questa causa?
Se credo nell'esistenza della realtà oggettiva, materiale, allora si deve trovare lì: si deve trovare in questo universo, e quindi la posso trovare come posso trovare la causa di qualunque altro fenomeno.
Se invece non credo nell'esistenza della realtà oggettiva, allora la causa della mia esistenza soggettiva si trova all'interno della mia stessa coscienza. Non devo uscire da me, pormi in una prospettiva esterna, per trovarla: si trova dentro di me, dunque è alla mia portata.
in definitiva, qualunque sia la posizione assunta non credo sia legittimo sentirsi esentati dal rispondere alle domande di cui sopra.
Anche perché la risposta c'è, ed è semplicissima.
Una volta constatato che è impossibile rendere conto della mia apparizione dal nulla, come soggetto autocosciente, ogni difficoltà sparisce se ammetto che la coscienza NON sorge dal nulla, ma è irriducibile, increata, eterna, e che assume infinite manifestazioni soggettive.

Aggiungo che le stesse considerazioni fatte per la coscienza, si possono applicare anche alle domande: perché esiste qualcosa anziché niente? E posto che qualcosa esiste, perchè si manifesta in questo modo (universo) anziché in un altro modo?
Queste sono domande che mettono in imbarazzo molti scienziati, quelli che vanno alla ricerca del cosiddetto "principio unico", cioè quel principio che, rendendo innanzitutto conto di se stesso, è capace di rendere conto di tutte le leggi e caratteristiche dell'universo osservato. E dove si troverebbe questo principio? Ma dentro l'universo stesso, è ovvio, perché se fosse fuori dell'universo allora l'universo non sarebbe tale, ci sarebbe un altrove che condiziona l'universo osservato. Se non si vuole ammettere questo altrove, bisogna ammettere che il principio unico è dentro, e se è dentro, lo si può trovare, e se lo si può trovare, quelle domande di cui sopra possono avere una risposta.
Quindi, anche in questo caso, quelle domande non possono essere eluse, perché solo rispondendovi posso considerare l'universo completamente "spiegato"; diversamente, l'universo sarebbe zoppo, puntellato da qualcosa che sta altrove...

Ora, per me è chiaro che il principio unico, come lo stanno cercando ora, non lo troveranno mai. Sarebbe come dire che il nostro universo è l'unico universo possibile. Ma è ovvio che questo non è l'unico universo possibile: oltre agli infiniti universi diversi che potremmo pensare, ci sarebbero ancora tutti quelli che nemmeno riusciamo a immaginare...
L'unica soluzione, il solo principio unico, allora, è questo: esiste TUTTO. L'universo osservabile è solo l'infinitesima parte di un TUTTO infinito. Perché solo l'infinito può includere tutte le cause, e dunque anche le cause di tutto. Viceversa, ciò che è finito è necessariamente contingente, incompleto incapace di rendere conto della propria esistenza.
#114
Sono sostanzialmente d'accordo con le osservazioni contenute nell'ultimo intervento di Sgiombo.
L'unica cosa che mi differenzia, e sulla quale abbiamo già discusso "accanitamente" altrove (per cui non vale la pena tornarci sopra qui) è il Sé. Io ritengo che non si possano dare esperienze coscienti senza il Sé: io intendo il Sé come il substrato della coscienza su cui si proiettano le esperienze coscienti. Per usare un'immagine, il Sé è come un foglio bianco su cui si "scrivono" parole, simboli, disegni etc che sono appunto le esperienze coscienti. Senza quel foglio bianco, non ci sarebbe il supporto per il verificarsi delle esperienze coscienti.

A mio avviso la coscienza è un substrato che pervade l'intero universo (forse potremmo dire che è la vera e propria "materia prima" dell'universo) e che si individualizza in maniera diversa a seconda dei diversi corpi materiali in cui si "incarna". L'individualizzazione è molto spinta nel caso dell'uomo, e lo è molto meno nel caso degli animali, e sempre meno via via che si scende nella gerarchia. Per gli animali inferiori (insetti, ad esempio) l'individualizzazione è pressoché nulla, ma esiste una sorta di coscienza collettiva di specie o di gruppo; e nell'uomo, l'ancestrale coscienza di gruppo si manifesta come inconscio collettivo.
#115
Citazione di: sgiombo il 04 Giugno 2016, 10:32:37 AM
Non potrebbe essere che, superata una certa velocità limite, allorché la contrazione relativistica "si manifesta", diviene concretamente efficace, contraendosi la lunghezza del treno questo si spezza e dunque il meccanismo che lo fa muovere si inceppa e suoi frammenti si fermano (tornando a giustapporsi reciprocamente ma senza ripristinare l' integrità funzionale del treno -come se tagliassimo a pezzi un animale vivo e poi li riaccostassimo gli uni agli altri- che dunque non ripartirebbe (sia chiaro: senza per questo dare la ben che minima conferma a preteso "olismo"!).
Per la verità bisognerebbe a questo proposito stabilire (e la mia ignoranza me lo impedisce) come vada intesa la contrazione relativistica: se come riavvicinamento nello spazio "vuoto" dei suoi "contenuti materiali" (e in questo caso credo che varrebbe questo ragionamento di cui sopra); oppure se come proporzionale rimpicciolimento (ma rispetto a che cosa?) del "tutto materiale" (spazio "vuoto" e suoi "contenuti materiali"); e in questo caso non varrebbe questo ragionamento di cui sopra, ma bisognerebbe piuttosto pensare a una "velocità soglia" del treno raggiunta la quale si manifesterebbe una "soglia di contrazione apprezzabile" tale che la "causalità fisica", gli "effetti fisici delle leggi di natura" tendenti a determinare l' ulteriore rimpicciolimento del treno si troverebbe ad essere contrastata dalla rigidità dei binari, e allora o questa impedirebbe l' ulteriore accelerazione, oppure i binari verrebbereo spezzati in vari punti determinando la fermata del treno-

Ma il moto del treno solo approssimativamente (in realtà erroneamente) potrebbe essere considerato inerziale (rettilineo uniforme); in realtà sarebbe accelerato (come sentirebbero, confortevolmente, anche i passeggeri, che riacquisterebbero uno "pseudopeso terrestre" per accelerazione centripeta; ovviamente disponendosi con la testa verso il sole e i piedi in senso opposto), e dunque il caso dovrebbe rientrare (come? In che termini?) nella relatività generale e non in quella speciale.

Considerazione epistemologica a mio parere veramente importante.
Credo comunque che il paradosso posto in eidenza da questo interessante esperimento mentale sia tale da mettere in dubbio la teoria della relatività: o lo si risolve, oppure bisogna necessariamente concludere che, malgrado le conferme empiriche finora ottenute, la teoria della relatività é almeno in qualche misura falsa (o forse sarebbe più corretto dire assurda?) e necessita di essere profondamente corretta o magari interamente sostituita da un' altra (di regola le teorie scientifiche falsificate qualche conferma empirica nel corso della loro "vita" più o meno breve la ottengono; é il caso per esempio della teoria tolemaica, che ha consentito l' esatta previsione di molte eclissi e la costruzione di calendari efficacissimi per le attività produttive umane, soprattutto agricole e di navigazione; ma basta un' osservazione "pertinente" e diligentemente confermata a falsificarle).
Grazie per il contributo a questa discussione, che languiva...
Lo scopo infatti, come dici, è quello di mettere in luce alcune problematiche nella teoria della relatività, che se irrisolte lascerebbero seri dubbi sulla sua validità generale.
Un altro effetto paradossale che potremo discutere è l'effetto Sagnac, che avviene sempre in un moto circolare.

Tornando al nostro caso, in effetti la contrazione relativistica agisce sullo spazio-tempo, e dunque l'accorciamento riguarda tanto il "pieno" quanto il "vuoto", quindi ci troveremmo nella seconda delle eventualità da te citate; anche se si fa fatica a capire quale dovrebbe essere la velocità "soglia" oltre la quale si manifesterebbero effetti apprezzabili. Comunque siamo giustamente, come dici, nell'ambito della relatività generale, anche se non mi risulta che da ciò derivino soluzioni al paradosso.

A complicare le cose resta poi sempre il problema del rovesciamento dei punti di vista: per l'osservatore a terra, è il treno a restringersi, mentre per l'osservatore sul treno, sono i binari a restringersi... In altri termini, ciascuno dovrebbe osservare il rovescio di ciò che vede l'altro. Impossibile, chiaramente.

L'unica soluzione è che in qualche modo non accada nulla, cioè che insorga un effetto esattamente uguale e contrario all'accorciamento, tale da lasciare il treno così com'è... ma non so da dove possa sorgere tale effetto.
#116
Citazione di: maral il 01 Giugno 2016, 23:58:52 PM
A meno che il Sé non sia appunto una mappa... capace di leggere se stessa.
In realtà mi pare che comunque Damasio instauri un dualismo per spiegare il Sé: nel tronco encefalico c'è la mappa, ma la rappresentazione avviene nella corteccia che la riceve e la riflette al corpo attraverso il tronco encefalico (dunque a ciò che la mappa rappresenta) come "me stesso" da mantenere. E' proprio questa continua interazione reiterata tra la mappa e la sua rappresentazione corticale che costituisce il me stesso. In questo senso il Sé non è un qualcosa di reificabile, ma una sorta di relazione continua e costante tra tronco e corteccia. Se questa costanza viene a cadere il corpo agisce per recuperarla (recuperare se stessi) e, se non ci riesce, l'organismo muore.

Gli scienziati seri comunque sanno sempre ben vedere e riconoscere i limiti delle loro discipline, a differenza degli apprendisti stregoni (anche se di successo) che si vogliono far credere scienziati, ma sono spesso solo scientisti.
Anche altre volte hai espresso chiaramente questo concetto, ossia che la coscienza possa sorgere dalle interazioni continue e reiterate delle diverse aree del cervello etc. Capisco che questa possa essere la migliore delle soluzioni congetturabili in un'ottica riduzionista, ma sinceramente non è che mi convinca molto. Faccio fatica a comprendere come dalla reiterazione di determinati processi fisici possa sorgere qualcosa di completamente diverso, come il fenomeno cosciente. Per dirla con una metafora, che non vuol essere irrisoria, sarebbe come mettere di fronte due specchi con un oggetto nel mezzo, e pensare che oltre alle infinite riflessioni di quell'oggetto possa spuntare qualche altra immagine...

Ma c'è un'altra questione irrisolta, ed è irrisolta non solo per la soluzione che proponi tu, ma anche per qualunque altra soluzione che preveda la nascita della coscienza dal nulla. Anche per la tradizionale concezione dell'anima creata da Dio.
Mi riferisco al mistero dell'individuazione. Immaginiamo gli esseri umani che escono dalla catena di montaggio della Natura (o di Dio): uno, due, tre... N... Ecco, arrivati a N, quello sono io. Non uno, o dieci o cento prima, e neanche dopo. Proprio N.
Non c'è nessun rapporto di necessità fra l'ennesimo corpo prodotto dalla natura e il mio io. Potevo nascere prima, o dopo, o in un corpo d'animale, o anche mai, che anzi sarebbe la cosa più "naturale". Eppure ci sono.
Ecco, è questa la domanda a cui io sento (tormentosamente) di dover rispondere. Tutto il resto, interessa ben poco.
#117
@Sgiombo:
CitazioneIl caso 4 (se per "l' uomo è libero nell' agire" si intende la totale assenza di costrizioni estrinseche) è evidentissimamente irrealistico (ora e in qualsiasi futuro possibile): si tratterebbe dell' "onnipotenza divina".
E non è che semplicemente postulando -ad libitum- l' impossibile si possa farlo diventare possibile (si ricadrebbe nella condizione dell' "onnipotenza divina").

E comunque, anche nel caso 4, il problema è che se di dà libero arbitrio (=non determinismo intrinseco bensì casualità di comportamento), [...]
Se nel mio elenco ho distinto il caso dal libero arbitrio c'era un motivo, non puoi ora appiattire il libero arbitrio riconducendolo al caso.
Il vero libero arbitrio non è il caso, ma è esattamente quel che hai detto: divino.
E' la manifestazione della scintilla divina che è nell'uomo.
Il percorso evolutivo dell'uomo (parlo nell'ottica della reincarnazione) porta proprio a liberarsi sempre più dai condizionamenti e a sviluppare, fino a manifestarla completamente, la libertà che è in lui. che è in ogni individuo. Ciò, ovviamente, in tempi enormemente lunghi.

Ma questa è la mia visione. "Mia" si fa per dire: diciamo quella che ho abbracciato dopo aver capito che, fra le tante visioni, questa è l'unica capace di dare un senso all'esistenza dell'uomo e dell'universo.
#118
@Sgiombo:
CitazioneLa coscienza (secondo me) non é affatto illusoria!
L' ho ribadito innumerevoli volte nel forum:

NON SONO MONISTA MATERIALISTA !!!.
Lo sappiamo bene che non sei un monista materialista, e nemmeno io lo sono.
Però nell'introdurre questo 3D hai dato un'impostazione esplicitamente "naturalista", e ho pensato che ciò fosse un invito a sviluppare delle considerazioni ponendosi nell'ottica della concezione meccanicista.
Ma se non è così, se possiamo parlare della coscienza come di una realtà non illusoria, allora tutto il discorso ovviamente cambia.

Il problema del libero arbitrio è estremamente complesso.
Io vedo quattro possibilità:
1) l'agire umano è dettato dal caso;
2) l'uomo è condizionato sia nel volere che nell'agire;
3) l'uomo è condizionato nel volere, ma libero nell'agire;
4) l'uomo è libero tanto nel volere quanto nell'agire.
Solo nel caso n. 4 si ha il libero arbitrio e pertanto si può parlare di piena responsabilità etica. Ma tale condizione di piena libertà (se non attuale, almeno potenziale e futura, come obbiettivo dell'evoluzione umana) non la si può dimostrare "naturalisticamente", la si può solo postulare come una necessità per poter parlare appunto di etica (come fece Kant, torno a dire). Un po' come non si può dimostrare naturalisticamente l'esistenza del Sé, ma lo si può solo postulare.

Il caso n. 3 potrebbe corrispondere alla posizione "compatibilista", ma in tal caso non si può parlare di piena responsabilità etica, perché l'uomo in tale ottica può solo liberamente agire secondo i suoi voleri, ma non può "volere i suoi voleri". I suoi voleri e le sue inclinazioni sono la natura dell'individuo, rispetto a cui l'individuo è passivo, è soggetto, e dunque non libero, non autonomo, non pienamente responsabile. Anche la giustizia terrena ammette questo principio quando riconosce che un individuo non può essere punito quando il suo comportamento delittuoso deriva dai condizionamenti della sua natura (ad esempio, disturbi psichici), benché il soggetto possa sempre, in teoria, comportarsi in modo da non assecondare i propri impulsi.

@Sgiombo:
CitazioneLe leggi di conservazione delle scienze naturali non sono afatto "magie" e men che meno "incoerenti",
Qui c'è stata un'incomprensione. Ovviamente la legge di conservazione non è una magia e non è incoerente. L'incoerenza a cui alludevo è nel fatto che la scienza meccanicista e riduzionista applica tale legge a tutti i fenomeni fisici ma NON al fenomeno della coscienza. Per la scienza riduzionista è perfettamente ammissibile ritenere che la coscienza sia un'illusione che sorge dal nulla e sparisce nel nulla (è questa la magia a cui alludevo); e si sente legittimata a farlo proprio perché descrive la coscienza come un'illusione e non come un fenomeno reale.

@Sgiombo:
CitazioneNon vedo come l' imposizione non concordata, forzata di un rischio ad altri non possa non essere consderata un' ingiustizia (se così fosse, lo schiavismo e l' imposizione ai figli di matrimoni concordati fra i genitori degli sposi o i loro clan sarebbero giustissimi e sacrosanti!).
Ammettiamo pure che l'imposizione della vita sia un'ingiustizia.
Mi pare allora che il problema si riduca al confronto fra due valori: uno, è il principio di giustizia di cui sopra; l'altro, è il valore che si attribuisce alla vita.
Io sono convinto che nessuna civiltà umana arriverà mai ad attribuire ad un astratto principio di giustizia un valore superiore a quello della vita, che resta il fenomeno più straordinario dell'universo.
E sono convinto, pertanto, che non sarà questo principio etico la causa dell'estinzione della specie umana.
#119
Le parole di Damasio, nel documento linkato da maral, sono interessanti.
Riporto in particolare qualche passo.

Innanzitutto, un chiaro riconoscimento dei limiti della ricerca in campo neurologico:
CitazioneDopo la meraviglia, passiamo al mistero. Questo è un mistero che è stato estremamente difficile chiarire.Fin dagli albori della filosofia e certamente attraverso la storia della neuroscienza, è stato un mistero che ha sempre resistito ai chiarimenti, e ha creato enormi controversie. Sono in molti a ritenere che non dovrebbe nemmeno essere toccato; dovremmo lasciarlo irrisolto poiché tale deve rimanere. Io non sono d'accordo e credo che le cose stiano cambiando. Sarebbe ridicolo affermare che noi sappiamo come si forma la coscienza all'interno del cervello, ma possiamo certamente studiare la questione e cominciare a intravvedere una soluzione.

Intravedere una soluzione, dice Damasio, e più avanti individua esattamente qual è il nodo cruciale: l'esistenza e la formazione del .
CitazioneMa c'è qualcos'altro che tutti stiamo vivendo in questa stanza. Noi non gestiamo passivamente le immagini visive, uditive e tattili. Noi abbiamo un sé. Noi abbiamo un Me, che è automaticamente presente nella nostra mente, proprio ora. Siamo padroni della nostra mente, e percepiamo che ognuno di noi sta vivendo questo fenomeno - non la persona seduta di fianco a voi. Quindi, per avere una mente cosciente, dobbiamo avere un sé dentro la mente cosciente. Una mente cosciente possiede un sé al proprio interno. Il sé introduce nella mente il punto di vista soggettivo, e noi siamo completamente coscienti solo quando riconosciamo il sé. Ciò che dobbiamo sapere per iniziare a studiare questo mistero è, prima di tutto, come è formata la mente all'interno del cervello e, seconda cosa, come è formato il sé.
[...]
Ma cosa possiamo dire del sé? Il sé è il vero problema inafferrabile. E per molto tempo la gente si rifiutava di affrontarlo perché diceva: "Come puoi avere il punto di riferimento, la stabilità, che è necessaria a mantenere la continuità del sé, un giorno dopo l'altro?" Io ho pensato a una soluzione a questo problema. E' la seguente: noi generiamo mappe del cervello, dell'interno del corpo, e le usiamo come referenti per tutte le altre mappe.

Condivido il ragionamento seguito da Damasio fino al riconoscimento del Sé che sta "all'interno della nostra mente".
Trovo invece che la soluzione, quella delle mappe registrate nel tronco encefalico, benché sia molto interessante, non riesca a spiegare la formazione del Sé, cioè il problema dei problemi.

Una mappa è solo una mappa.

Una mappa non è il territorio, innanzitutto. La mappa è un'astrazione del territorio, il quale muta costantemente, anche se la mappa mantiene una certa stabilità. Ad esempio una mappa di Roma può restare la stessa per anni, benché la città reale muti istante per istante...

In secondo luogo, una mappa richiede un soggetto che la legga e la interpreti. Una mappa non si legge da sola, non ha la consapevolezza di essere ciò che rappresenta, una mappa di Roma non pensa di essere Roma...

Pertanto, sarebbe un circolo vizioso affermare che le mappe registrate nel tronco encefalico formino quel Sé che è proprio il soggetto capace di leggerle...

Ripeto, non intendo sminuire il lavoro di Damasio che invece mi sembra interessante, ma vedo nelle sue idee forse la soluzione non per la formazione del Sé, ma di come il Sé si interfacci con il cervello e con il corpo.
Perché anche se, come io credo, il Sé sta altrove, un'interfaccia deve pur esserci, problema che già Cartesio si poneva e che pensava di averlo risolto con la ghiandola pineale.
#120
Paradigma materialista, monismo materialista, concezione meccanicista... Comunque la si chiami, è una concezione secondo cui l'universo, dicevano gli scienziati del XIX secolo, è come il meccanismo di un orologio: totalmente determinato da leggi fisiche.
E se l'universo è come un grande orologio, noi esseri umani non siamo altro che piccoli orologi a cucù, che credono di fare cucù quando pare a loro, mentre invece lo fanno solo quando scocca l'ora. Se vogliamo parlare di etica per gli esseri umani, allora dobbiamo parlare di etica per gli orologi a cucù, per le biciclette, per i computer etc etc. Altrimenti non c'è coerenza.
Se la coscienza è illusoria, lo sono anche i valori morali posti a fondamento di un'etica pure illusoria...
Del resto non sono io a dire che è necessario postulare il libero arbitrio affinché si possa parlare di etica: lo ha già detto Kant, ad esempio, nella Critica della ragion pratica. Ma non è certo l'unico. Piuttosto, io non conosco filosofi che ritengano ammissibile parlare di etica senza riconoscere, almeno in parte, il libero arbitrio.
E se anche volessimo attenuare la rigida concezione meccanicista, ed introdurre un'aliquota di indeterminazione nei fenomeni fisici, non cambierebbe granché: otterremmo solo il risultato di far dipendere le azioni umane, anziché da cause materiali, dal caso. Ancora, non avrebbe senso parlare di etica.

Cos'è il Grande Nulla? Nella concezione meccanicista l'io-sono è un'illusione, che sorge dal Nulla e ritorna nel Nulla.
Ecco, proprio questo è il Grande Nulla; quel mago che tira fuori dal cappello, vuoto, dei conigli bianchi, che poi saremmo noi.
Lo so che sembra assurdo, tanto più che è la stessa scienza materialista a sbandierare la scoperta che "nulla si crea dal nulla"; e invece, questa magia, la scienza la riserva proprio al solo fenomeno dell'autocoscienza... Non pare un po' incoerente?

I genitori sarebbero responsabili dell'imposizione della vita a soggetti che non l'hanno scelta; se capitasse poi che questi soggetti fossero infelici, allora si potrebbe dire che i genitori sono indirettamente responsabili dell'infelicità dei loro figli. Questo intendevo.
Ma se si considerasse tale imposizione un'ingiustizia, se dunque si giudicasse che generare figli è un'ingiustizia che sarebbe meglio non compiere, quale sarebbe il risultato? La civiltà umana che decidesse di attenersi coerentemente a questo codice etico semplicemente sparirebbe, perché naturalmente non c'è alcun modo di chiedere al "concepturus" se vuol divenire "nasciturus".
Se questa è la conseguenza, non mi porrei nemmeno la domanda se tale codice etico sia giusto o meno: semplicemente, mi parrebbe più sensato non applicarlo, a meno che non ci si voglia abbandonare ad una sorta di romantico o decadente cupio dissolvi...