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Messaggi - davintro

#106
Tematiche Filosofiche / citazionismo intimidatorio
13 Aprile 2020, 20:58:06 PM
]ieri notte vedevo il bellissimo film di Rossellini su Socrate. Ho provato una grande ammirazione verso quelle modalità di impostazione del dialogo filosofico, quando l'unica cosa che contava nelle dispute filosofiche era l'argomentazione logica, la capacità di cogliere la contraddizione nei discorsi altrui, la coerenza interna dei propri, anziché riempire i discorsi di citazioni, di princìpi di autorità per intimorire l'interlocutore, senza argomentare sul perché le posizioni citate sarebbero vere, quando ancora quello contava era COSA si diceva, COME si diceva, anziché CHI lo diceva. Filosofare come ragionare con la propria testa invece che delegare alla storia e alle opinioni altrui il fondamento delle proprie pretese di verità. Certamente il fatto di situarsi nelle prime fasi storiche della storia della filosofia consentiva ai greci di percepirsi pionieri e liberi pensatori molto più dei pensatori della nostra epoca, perché meno gravati dal peso di una tradizione storica che ci influenza presentandosi come principio di autorità. Peso che se da una parte costituisce una ricchezza, un patrimonio di stimoli per poter pensare, dall'altro finisce con il divenire arma di chi usa il citazionismo, l'erudizione, la conoscenza dei filosofi del passato come strumento di convalida delle loro tesi e dileggio verso quelle degli altri, accusati di ignoranza, anziché utilizzare la logica e l'intuizione delle "cose stesse". Se si vuole, questo è un topic, in parte, di sfogo, considerando quanto ho sempre sofferto il sentirmi nella vita in modo più o meno esplicito accusato di non tener conto di tanti autori, proprio perché, riallacciandomi, a modo mio, a questa impostazione maieutica, basata sulla logica deduttiva e sul vedere gli autori del passato come stimoli, ma non come oggetto primario del mio interesse filosofico, ritengo che i richiami storici agli autori debbano aver un peso e un'utilità di livello ben diverso, se si parla di contesti di discussione di filosofia teoretica, discussioni riguardo le proprie personali tesi, oppure di discussione filologica, in cui l'obiettivo non è la formazione di un proprio pensiero, ma l'analisi delle tesi altrui
#107
Tematiche Culturali e Sociali / Re:Eutanasia
08 Aprile 2020, 16:53:12 PM
Citazione di: niko il 08 Aprile 2020, 11:56:56 AM

L'istinto di sopravvivenza si sconfigge in favore della vita (e quindi di altri istinti), non di un ideale.


Come insegna Schopenauer ci si può suicidare al limite contro la vita, non mai contro la volontà di vivere: la disponibilità del suicidio come opzione tra le opzioni è l'intenzionalità della vita umana stessa, che va (o non va) riscelta quotidianamente perché non siamo bestie, perché il nostro vecchio (incrinato) istinto non la sostiene più in tutti i membri della specie dall'inizio alla fine in modo assoluto, e tutto questo è coscienza, è un dato di coscienza: poeticamente è la Morte che ci accompagna, lo scheletro con la falce e il volto della persona amata; filosoficamente ci accompagna -quantomeno- la disponibilità del suicidio. E continuerà a farlo, che ci piaccia o no.


Naturalmente l'intenzionalità della vita non prova (e non sconfessa) il valore della vita, è solo indice di una volontà di vivere che si fa conscia nella mente del vivente, e quindi in assoluto si affievolisce, contempla le prima incontemplate alternative: proprio perché la morte non è una soluzione, perché non esiste una felicità negativa, ci vuole auto dominio assunto come valore fine a se stesso, introiezione dell'istinto proprio e altrui, per suicidarsi. Chi si suicida vuole un'altra vita, protesta contro la sua, di vita, e quindi l'atto definitivo del suicidio è un modo con cui una vita solo virtuale e desiderata, che sta solo nella mente del suicida e magari negli archetipi e nelle priorità della sua comunità, agisce su una vita reale e materiale, distruggendola. Mai come in questo caso la morte "scende" come un fulmine da un mondo spirituale a colpire una vittima corporea, materiale. La vita desiderata e mancante, il vero io.
Si pretende che il nulla sia esperibile, e, se resta inesperibile, allora per frustrazione si nega il tutto.


La storia della de-animalizzazione, della civiltà dell'uomo.





penso di concordare nel punto fondamentale. Non è un ideale di vita degna a confliggere direttamente con l'istinto di sopravvivenza, facendolo soccombere nel caso del suicidio o richiesta di eutanasia, l'ideale indica un modello regolativo in rapporto a cui valutare il livello di adeguazione della vita biologica attualmente vissuta. Oltre un certo livello di inadeguatezza, l'istinto di vivere (che non cessa mai, dato che la prospettiva del Nulla dopo la morte, al di là delle possibili diverse credenze in tema, non può mai essere realmente oggetto di un'aspirazione, dato che ogni attribuzione di un valore positivo ne implicherebbe un qualunque livello di positività ontologica, incompatibile con l'idea di puro Nulla) non coincide più con l'istinto di sopravvivenza, in quanto il vivere a cui fa riferimento è altro rispetto al vivere nella modalità dell'attuale sopravvivenza, che viene rigettata, non perché la vita cessi di essere un valore in generale, ma perché la morte è ammessa come male minore, rispetto a una "vita" che non è più quella che viene reputata sufficientemente degna. Si potrebbe sintetizzare il discorso dicendo che la psiche è, materialmente, il complesso degli istinti/tendenze che implicano la vita e la orientano verso determinate sue modalità, e un sistema di valori/ideali che la strutturano come forma, come una scala di valori entro cui gli istinti assumono diversi livelli di intensità, consentendo di gestirli in libere scelte. La componente razionale della persona non consiste nella repressione e cancellazione degli istinti, ma in una loro gerarchizzazione sulla base di quel sistema di valori entro cui l'Io è unità organica, e non solo spazio vuoto riempito solo dal gioco meccanicistico degli istinti, che lo ridurrebbe a mero somma caotica delle parti (gli istinti, appunto)
#108
Tematiche Culturali e Sociali / Re:Eutanasia
07 Aprile 2020, 23:59:53 PM
Citazione di: Freedom il 06 Aprile 2020, 23:18:11 PM
Citazione di: davintro il 06 Aprile 2020, 20:40:14 PM
la vita umana non è mai riducibile alla mera continuazione biologica, ma comprende un livello spirituale/morale indicante un ideale personale di "vita degna di essere vissuta" a cui la vita biologica dovrebbe essere adeguata, come condizione per la sua durata.
Raramente mi trovo così in disaccordo in ogni passaggio di un post, come è accaduto in quello che hai scritto. Lo dico anche con un velo di ironia, un pò per il giusto distacco che necessariamente deve accompagnare questo genere di discussioni. Un pò perchè è come quelli che facevano, ai miei tempi, zero al totocalcio. Difficile quasi come fare tredici ;D


Ho citato tuttavia, per brevità e per non discutere sino a notte fonda, ammesso e non concesso che tu sia sveglio, solo il passaggio quotato perchè mi sembra il punto saliente del contendere. Se da un lato è vero quello che dici sul ridurre la vita umana a mera continuazione biologica, è tuttavia irrilevante ai fini delle considerazioni che stiamo facendo sull'istinto di sopravvivenza. Quest'ultimo è automatico. Ed è l'energia più potente ed irriducibile che guida la vita di un uomo. Laddove con "guida" non intendo la vita di un uomo a tutto tondo ma, solamente, quella parte di vita necessaria alla mera sopravvivenza. Noi, "fortunati" partecipanti alla civiltà occidentale moderna, quasi non ce ne accorgiamo più, ma tant'è. Non a caso, penso di poterlo dire con chiarezza in questo sito eminentemente filosofico, non si fa appunto filosofia con la pancia vuota! Nel senso che prima si devono soddisfare gli istinti primari. Quelli che, appunto, sottendono alla mera sopravvivenza. Successivamente si può filosofare.

Questa è l'incontrovertibile regola della vita.

Poi, ci sono le eccezioni: martirio, eroismo, etc.





certamente l'istinto di sopravvivenza, come ogni istinto in quanto tale, è automatico, e proprio per questo la razionalità, intesa come filtro per il quale non siamo totalmente abbandonati a un istinto, ma lo sottoponiamo a vaglio critico, dando al soggetto la possibilità di relativizzarlo e limitarlo sulla base di motivazioni concorrenti, non può porsi come oggettivamente legittimante esso. Che l'istinto di sopravvivenza sia in noi l'istinto più potente (ammesso e non concesso, considerando che gli stessi casi di persone richiedenti l'eutanasia di cui si sta discutendo sono la prova empirica che non in tutte le persone questo istinto si conferma come il più potente) sarebbe una constatazione di fatto, non un giudizio di valore, non se ne può dedurre che ogni contravvenire ad esso debba giudicarsi immorale in termini oggettivi. In realtà, anche senza scomodare martiri ed eroi, che sono eccezioni estreme in cui l'istinto di sopravvivenza viene compitamente "sconfitto", la vita della gran parte delle persone comuni mostra come la preservazione della vita biologica, anche se mantenuto, non è mai tendenza totalizzante la psiche, ma convive e resta in conflitto con tendenze alternative che portano condotte potenzialmente non del tutto salutistiche e che nonostante questo sembrano esprimere esigenze non meno rilevanti per la persona, si pensi al piacere dei sensi, la golosità del buon cibo, il fumo, l'alcol, oppure, entrando in ottica più spirituale, la dispersione di energie psicofisiche che richiede l'impegno intellettuale, o ancora il mettere a rischio la vita in certi sport. Ovviamente, non metto tutto ciò allo stesso livello di esplicito rigetto della sopravvivenza che sta dietro l'eutanasia, ma al di là delle differenze evidenti, emerge il dato comune di un istinto di sopravvivenza che non tiranneggia affatto il complesso dei nostri bisogni, ma può essere contrastato a vari livelli, in nome di legittime scale di valori personali.


"Primum vivere, deinde filosofare" è una regola che penso spesso si tenda a equivocare: non implica che le esigenze della vita biologica debbano essere poste a un superiore livello valoriale rispetto alla vita intellettuale, ma solo che è di quest'ultima il necessario presupposto. Che una certa cosa sia necessaria condizione per il darsi di un'altra non implica che quest'ultima sia meno importante della prima, il soggetto resterebbe libero di considerare la pancia piena, appunto, mezzo in vista del continuare a filosofare, e di pensare che, in un'ottica di una vita vegetativa in cui l'esercizio della vita intellettuale finisse con l'essere compromesso, la pancia piena non sia più obiettivo che meriti di continuare a esser perseguito. Si può non condividere questa posizione, questo ideale di vita degna di essere vissuta, ma non considerarlo illogico sulla base di un rapporto mezzo-fine, per cui ciò che è mezzo dovrebbe per questo presumere di porsi come oggettivamente più prezioso del fine. Sarebbe come, parafrasando De Andre, se dovessimo considerare il letame più bello dei fiori, solo perché questi fanno dipendere da quello il loro esistere. Il mezzo, proprio in quanto tale, vale solo nella misura in cui permette di raggiungere il fine a cui è associato
#109
Tematiche Culturali e Sociali / Re:Eutanasia
06 Aprile 2020, 20:40:14 PM
Citazione di: Freedom il 06 Aprile 2020, 18:05:04 PM
Secondo me l'eutanasia e cioè la morte volontaria di malati terminali o cronici in presenza di assistenza medica è l'unica eccezione possibile a quella che ritengo essere la grande battaglia tra pulsione di vita e pulsione di morte. Laddove, credo sia intuitivo esserlo, io, in compagnia del buon senso stesso, siamo schierati dalla parte della pulsione di vita.

La libertà cioè lo stato di autonomia essenzialmente sentito come diritto, e come tale garantito da una precisa volontà e coscienza di ordine morale, sociale, politico non può andare, sempre a mio avviso naturalmente, contro la ragione. Quest'ultima è rappresentata, non è un ossimoro, dall'istinto di sopravvivenza. In altre parole non si può desiderare la morte se non in presenza di una patologia, magari anche mentale o in presenza di un supremo atto di egoismo (secondo me patologico o, in subordine, malsano).

Nel caso di specie citato dall'autrice del thread penso all'ultima cosa che ho scritto. In buona sostanza non ci sono figli e nipoti che tengano. Figurarsi passioni o attività di volontariato. Men che meno l'appartenenza alla famiglia umana ed il pensare, in qualche modo, di continuare a farne parte nonostante la dipartita del partner.

Quella vena di me, molto romantica, che poi c'è in quasi tutti noi, mi fa tenere i toni bassi e mi esprimo con somma umiltà di fronte a tanto tenero amore. Ma quel che ho scritto lo penso in profondità.



la ragione è la facoltà tramite cui possiamo valutare la diversa efficacia dei vari mezzi possibili rispetto a un certo fine, ma non può giudicare in termini oggettivi l'effettivo valore del fine in sé, che resta espressione di una sensibilità morale del tutto soggettiva. Quindi non ha senso dire che l'istinto di sopravvivenza come necessario fine da perseguire sia razionale (così come non avrebbe senso intenderlo come irrazionale), ma che razionale può essere una strategia funzionale al fine che questo istinto indica, ma non il fine in se stesso. E anzi, proprio la ragione, intesa come facoltà di mediare, analizzare, collegare percezioni esprime quella facoltà di astrazione per la quale la vita umana non è mai riducibile alla mera continuazione biologica, ma comprende un livello spirituale/morale indicante un ideale personale di "vita degna di essere vissuta" a cui la vita biologica dovrebbe essere adeguata, come condizione per la sua durata. Questo ideale è ciò tramite cui lo stesso istinto di sopravvivenza finisce con l'essere relativizzato, e col non essere, per tutti, un valore assoluto e incondizionato. Lungi dall'essere espressione di irrazionalità, l'eutanasia è un problema che si pone proprio in quanto siano animali razionali. Che poi per alcune persone la continuazione della vita biologica coincida sempre e comunque con l'ideale della vita degna di essere vissuta non toglie il punto. In questi casi la coincidenza non sarà prodotto di un "istinto", ma di un'adesione a una visione religiosa o morale, che però non è mai oggettivamente più o meno razionale di visioni alternative che ispirerebbero convinzioni diverse
#110
Tematiche Spirituali / Re:Agnostici e Agnosticismo
05 Aprile 2020, 21:33:17 PM

non vedo l'agnosticismo tanto come una categoria a se stante, un' posizione realmente distinta dalle altre circa l'esistenza di Dio, ma più come quel margine di incertezza presente in ciascuno di noi stante la nostra finitezza, atei o teisti che siano. Agnostici lo siamo tutti e nessuno, per così dire. Tutti, perché anche quando un'argomentazione razionale ci sembra del tutto valida per convalidare un'affermazione o negazione dell'esistenza di Dio, la certezza che ne consegue resta di fatto sempre ad un livello meramente intellettualistico, logico, ma non davvero emotivo/psicologico. Questo, penso perché su quest'ultimo piano incidono tendenze come l'abitudine e l'influenza sociale. La forza dell'abitudine porta ad avvertire il bisogno di confermare una certa convinzione a livello di accadimenti empirici, verifiche sensibili, perché questo è il livello in cui siamo, per l'appunto, abituati a trovare i fini pratici verso cui organizzare i nostri pensieri, mentre una pura speculazione logica, anche quando ben coerente, ci appare (dico "appare", perché razionalmente per me non sarebbe così, ma emotivamente è qualcosa che posso anch'io rilevare) debole, vacua. Un altro fattore è il condizionamento sociale, per cui il peso delle convinzioni diverse dalle nostre, anche quando ci appaiano razionalmente erronee, ci influenzano, premono sulle nostre insicurezze, su un certo spirito gregario, per cui la semplice esistenza di opinioni esterne finisce col rafforzare o indebolire le nostre, si innestano tramite il varco consistente in quel senso di fallibilità che avvertiamo sempre riguardo noi stessi. Ad esempio, è una cosa che sento anche nella mia esperienza personale. Dovessi basarmi sulla pura logica sarei certo dell'esistenza di un Dio e anche di una vita dopo la morte, sulla base di "percorsi argomentativi" più volte meditati e che penso portino a delle conclusioni necessarie. Ma questa certezza "intellettuale" non si traduce in certezza emotiva/psicologica proprio perché l'influenza della stima (sia qualitativa che quantitativa) che ho verso chi ha idee diverse dalle mie mi porta ad ammettere la possibilità che i miei ragionamenti siano sbagliati, e anche quando sono stimolati a tornarci sopra per rimetterli in discussione e continuo a trovarli validi, così come colgo gli errori logici degli interlocutori, la coscienza di non essere infallibile, la mia insicurezza personale continuano a impedire alle mie certezze logiche di produrre uno stato d'animo che sia davvero coerente con esse, ed emotivamente continuo a sospettare circa le conclusioni a cui la ragione ritiene di aver sufficientemente argomentato. Per questo potrei definirmi "teista razionale" ed "agnostico emotivo" o, meglio avente una "parte" di agnosticismo nell'emotività.


Nessuno è agnostico, nel senso che ciascuno di noi, ovviamente con livelli di tematizzazione esplicita che variano da individuo a individuo, sia attraverso la ricezione di una tradizione culturale via famiglia/scuola, che attraverso una sguardo più "puro" che, nelle pause del tran tran quotidiano, mette a fuoco una visione del mondo nel suo complesso, più o meno vaga, che può apparire immanente nella sua ragion d'essere o richiedente di essere il prodotto di una causa creatrice trascendente. L'incertezza, pur sempre, presente, penso non arrivi mai al punto di determinare uno sguardo completamente neutro, in cui non ci sia mai, in qualche forma, un avvertimento, sentimentale o razionale che sia, della presenza o dell'assenza di un "Oltre".
#111
Tematiche Filosofiche / Re:Viaggio su Platone.
03 Aprile 2020, 22:11:49 PM
pur restando perplesso circa l'aspetto più strettamente ontologico del platonismo, cioè il considerare le idee universali come enti reali a tutti gli effetti (anche se credo esistano anche interpretazioni moderne nelle quali le idee platoniche sono considerate "reali" in un senso un po' diverso da quello in cui comunemente si intende "reali", diciamo più vicine all'accezione aristotelica di "forma", cioè elementi realmente incidenti nell'essere degli oggetti di esperienza, senza essere da questi davvero separati, sto pensando alla lettura che ne fa il teologo Romani Guardini, ma non vorrei dilungarmi troppo su questioni troppo tecnicamente filologiche, anche perché avrei ben poche competenze), penso di condividere il discorso sulle idee "più reali" dei sensi, dal punto di vista gnoseologico. Pensare che i sensi ci diano un accesso alla realtà che ci sarebbe precluso restando a livello di idee, implica un pregiudizio materialista in cui si da per scontato che la dicotomia sensibile-intelligibile coincida con quella reale-immaginario, cioè dando per scontato che l'unica realtà oggettiva possibile sia quella fisica. Se è vero che per definizione le idee sono contenuti mentali non necessariamente corrispondenti a enti reali oggettivi (posso avere idee di cose inesistenti come l'Unicorno), la stessa delimitazione soggettivista la "soffrono" i fenomeni sensibili. Colori, profumi, suoni ecc. sono vissuti in prima persona e solo accidentalmente possono corrispondere a entità reali (il caso dell'allucinato o del daltonico). Le sensazioni fisiche non sono affatto più oggettive delle idee, ed anzi, in un certo senso, lo sono di meno: la posizione di un mondo oggettivo extramentale avviene in noi proprio nel momento in cui passiamo dal mero vivere immediato dei sensi all'opera di formalizzazione entro cui si riconoscono le idee come nuclei unitari in cui inserire il contento sensibile. Di fronte a un albero l'esperienza sensibile si limiterebbe a vivere nell'intimo dell'osservatore la sensazione dei colori delle foglie, dei rami, i profumi ecc., mentre il giudizio sull'esistenza oggettiva della realtà si da nel momento in cui esco dall'immediatezza sensibile e affermo la realtà di una forma, l'idea di albero come substrato, quello che nel linguaggio della metafisica classica si dice "sostanza" , base a cui riferire le proprietà sensibili. Le proprietà sensibili che percepisco nella coscienza le riconosco come oggettive nel momento in cui le considero come facenti parte di un oggetto, l'albero avente una forma che gli permette di "staccarsi" dal flusso, ancora informale, di sensazioni, comprendente anche le sensazioni dell'erba, del cielo, del resto della visuale in cui l'albero è inserito. Questa forma è l'idea di albero, forma delimitante un oggetto che riconosciamo come reale fuori di noi e che ci comunica delle sensazioni fisiche, mentre non ci comunica quelle altre sensazioni (il colore dell'erba o del cielo ecc.) che invece riferiamo a ciò che sta fuori la sua forma. Non è corretto dire che il contenuto sensibile è reale, ma che appartiene a un ente reale delimitato dalla sua forma intelligibile, la sua essenza. Riducendo a mera astrazione immaginativa questa forma, senza alcun aspetto di realtà, dovremmo anche negare la realtà oggettiva dell'albero, riducendo il suo essere a contenuto fenomenico soggettivo delle sensazioni che lo proviamo. Resterebbe reale solo una sorta di flusso psichico producente queste sensazioni, mentre ogni distinzione tra gli oggetti, delimitati dalle forme, sarebbe solo illusoria, perché illusorio sarebbe il principio delimitante, la forma. Le stesse scienze naturali, che mirando a spiegare la realtà in termini di causa-effetto, necessitano di ammettere come reale la molteplicità degli enti, e dunque la realtà delle forme, devono porre come presupposto, anche quando non riconosciuto-tematizzato come invece si occupa di fare la metafisica, l'intuizione di queste entità immateriali come, se non sostanze separate come per un platonismo radicale, comunque come fattori ontologici, incidenti nella realtà degli oggetti di esperienza a cui si riferiscono
#112
Tematiche Filosofiche / Re:Filosofia è metafisica
01 Aprile 2020, 22:06:46 PM
Citazione di: giopap il 30 Marzo 2020, 22:49:45 PM
CitazioneDavintro


è vero che la logica intesa come puro formalismo poggiante su definizioni ad hoc e premesse ipotetiche non è sufficiente come base da cui dedurre certezze riguardo la realtà di fatto. Per pervenire a certezze fattuali la logica formale necessita di applicarsi a un contenuto di intuizione, in un'esperienza vissuta. Il problema è che la gnoseologia kantiana, che giunge a una troppo netta separazione tra l'ambito logico-analitico e quello della realtà fattuale, partendo secondo me da pregiudizi di stampo empirista e materialista, vede l'intuizione sensibile, adeguata ad apprendere solo fenomeni fisici, come unica intuizione possibile su cui costruire una conoscenza razionale (in questo modo snaturando peraltro la stessa etimologia di "intuizione", "andare dentro", cogliere l'essenza necessaria della cosa, al di là delle manifestazioni esteriori e accidentali). Esiste però un'altra ottica che è quella fenomenologica, quella che pone come contenuto dell'analisi logica l'intuizione eidetica, che coglie l'essenza di una cosa successivamente alla riduzione, alla messa tra parentesi del suo eventuale aspetto di esistenza nel mondo esterno, sempre dubitabile, per individuarne l'aspetto di evidenza, il suo darsi come fenomeno all'interno della nostra coscienza. La coscienza è, insegnano Cartesio e Husserl, il residuo apodittico di cui, a prescindere che i fenomeni che la costituiscono corrispondano a esistenze di fatto, sono necessariamente presenti, e dunque costituiscono le essenze che poi la logica deduttiva mira a collegare con nessi consequenziali per formulare giudizi certi.[/size]Ad esempio, la contingenza, intesa come contingenza del pensiero riguardo la capacità di pervenire a delle verità è un dato inoppugnabile, riconoscibile sulla base della semplice possibilità di illudersi o di dubitare che ciascuno di noi ha, può essere la base, non solo come definizione ad hoc, ma come proprietà reale del pensiero, da cui dedurre l'esistenza di una Causa che garantisca la possibilità al pensiero umano di riconoscere delle verità parziali, in quanto se il pensiero umano avesse in se stesso, nella sua immanenza, il criterio di verità, allora esso sarebbe sempre, necessariamente, nella verità, senza mai potersene allontanare. Dunque, la contingenza, intesa come imperfezione, fallibilità del pensiero umano nei confronti della verità, è dato fenomenologicamente inoppugnabile (posso dubitare che la mia visione del mondo sia vera o falsa, ma in ogni caso questa stessa dubitabilità dimostra l'imperfezione di un pensiero che non possiede la verità in pianta stabile e sicura) da cui si può ricavare logicamente la necessità di una Causa trascendente, creatrice di questa contingenza. In questo senso la prova tomista "ex contingentia mundi" (se le cose del mondo sono contingenti, necessitano di essere creati da una Causa necessaria, autofondatasi, Dio), è un passaggio logico che può essere recuperata nella sua validità razionale, a condizione però di "ripulirlo" da un'accezione naturalista, cosmologica, del realismo ingenuo, per cui la contingenza riguarderebbe il mondo fisico esterno, la cui esistenza viene data per scontata al di là della sua relazione con la soggettività della coscienza che ne fa esperienza. Mentre invece, la nozione di contingenza se "coscienzializzata", cioè se la si intende come contingenza della coscienza umana, la cui esistenza resiste all'estremizzazione del dubbio riguardante le asserzioni sulla realtà esterna ad essa, diviene quel contenuto anche fattuale da cui la logica può far leva per compiere le sue deduzioni, nello specifico, analizzando la definizione di contingenza ricavandone le implicazioni (se qualcosa è contingente, necessita di qualcosa di assolutamente necessario per determinarla, e l'indubitabilità del pensiero a cui la contingenza è riferita toglie il carattere ipotetico della premessa, fondandola su uno stato di fatto certo, l'esistenza del pensiero)



Concordo su molto, ma non sull' esistenza di una Causa (nemmeno naturale, con l' iniziale minuscola, men che meno divina) che garantisca la possibilità al pensiero umano di riconoscere delle verità parziali che eccedano i dati immediatamente fenomenici di esperienza (possibilità che infatti non ritengo sia garantita da alcunché): quale causa o Causa la garantirebbe e come?

Non vedo infatti come dalla contingenza o fallibilità del pensiero umano si possa ricavare logicamente la necessità di una Causa trascendente, creatrice di questa contingenza; né induttivamente, come mi sembra di non dover nemmeno argomentare, né deduttivamente per il fatto che l' ipotesi della contingenza del pensiero umano in assenza di alcuna Causa trascendente creatrice é perfettamente corretta da un punto di vista logico, non contraddittoria; ergo, come ipotesi é plausibile tanto quanto la sua contraria (da te sostenuta).

Quanto alla contingenza del mondo (e a san Tommaso), per me può razionalmente essere intesa unicamente come il fatto che ciò che é reale nel mondo può anche essere pensato non esserlo (oltre che esserlo); ma non per questo necessita di una causa necessaria (ovvero che non può essere pensata non essere reale in maniera logicamente corretta): si può benissimo pensare correttamente, in perfetta correttezza logica (ovvero può benissimo darsi che) le cose del mondo contingenti (pensabili anche ma non solo non esserci) ci siano anche senza che necessariamente ci sia una loro causa necessaria autofondatasi (cioè non pensabile non esserci): che ci sarebbe mai di contraddittorio in questa ipotesi?.


Non vedo come il fatto che qualcosa che esiste è contingente possa implicare necessariamente l' esistenza di qualcosa di assolutamente necessario per determinarla: può benissimo essere contingente (da non pensarsi necessariamente ma solo possibilmente come reale) tutto ciò che é reale, nulla escluso.




la necessità del passaggio logico tra contingenza e Principio assoluto trascendente (a scanso di equivoci, non vedo personalmente questo Principio come il Dio delle teologie su base rivelativa e fideista, ma più come una sorta di Principio ordinatore creatore senza manifestazioni dirette nella storia, secondo il modello deista, al di là del fatto storico per cui sarebbe stata la teologia cristiana medioevale a inaugurare l'elaborazione di questo Principio, ritengo lo si possa recuperare anche estraniandolo dal quel particolare contesto religioso, cogliendolo unicamente come elemento filosofico), dovrebbe trovarsi nell'analisi della definizione di contingenza. Intendendo per "contingenza" quella condizione per cui la ragion d'essere di un ente non sta nell'ente in se stesso, ma consiste in una causa ulteriore, l'esistenza di un ente contingente implica quella di questa causa ulteriore. Nella dicotomia tra l'avere in se stessi, nella propria immanenza, la ragione della sua esistenza e l'averla in una realtà altra da sé, cioè trascendenza, tertium non datur, non è possibile una terza vita tra immanenza e trascendenza, sono due poli contrari che si escludono reciprocamente, al mancare di una sopravviene l'altra automaticamente. Resterebbe in teoria la possibilità, pur ammettendo la trascendenza come necessaria all'esistenza del contingente, considerarla come alterità non però assoluta, secondo il modello teologico/metafisico, ma a sua volta contingente, e  necessitante di un altro ente che sia causa del suo esistere ma di nuovo contingente, e così via ad infinitum. Solo che a mio avviso il regresso all'infinito è solo una pseudo-soluzione che non risolve il problema. Fintanto che la catena delle cause è composta da anelli identificati con enti contingenti, resta irrisolta la questione dell'origine dell'Essere, ogni volta che si introduce una nuova causa contingente il problema dell'origine, dell'individuazione di un Principio, viene rimandato senza però essere risolto, e d'altra non si può rimuovere, perché l'esistenza di questo principio non è una tesi, opinabile o meno, ma una questione del tutto legittima, la cui risposta non può essere la sua assoluta negazione, dato che il Nulla non potrebbe produrre alcun effetto sulle cause seconde, e dunque nemmeno comunicare loro l'esistenza. Il regresso all'infinito esprimerebbe solo un'ammissione dell'ignoranza sulla soluzione di un problema teorico, e trovo evidente che l'ammissione di incapacità nel raggiungere una soluzione non può essere la soluzione stessa. Un conto è riconoscere i limiti della nostra conoscenza di un tema, un altro è proiettare i nostri limiti mentali sulla realtà di modo da porli come base da cui far discendere le nostre risposte sulla realtà stessa
#113
rispetto a molte altre persone, per le quali l'isolamento domestico comporta rilevanti disagi dal punto di vista lavorativo e familiare, mi ritengo complessivamente fortunato, anche dal punto di vista di una scarsa vita sociale, cosa certamente negativa in tempi ordinari, ma che in questa situazione aiuta a sentire poco la differenza dal solito. Insomma, le mie abitudini non sono cambiate di molto, e anzi forse potrei viverle anche con minor senso di straniamento e di "colpa", essendo il viverle in questo momento una comune necessità. Diciamo che alla lunga l'impossibilità di accedere alle biblioteche dovrebbe portare a qualche impedimento per i miei progetti di studio e ricerca filosofica che in questo momento sto portando avanti, vado avanti con quello che ho casa a disposizione, contando anche di non essere soggetto a scadenze. Spero questi problemi si risolvano presto, ma per ora non c'è urgenza, e nulla a che vedere con disagi molto più impellenti che provano tanti altri. Il sentimento più negativo è certamente una certa dose di ansia per la salute mia e soprattutto dei cari, più avanti negli anni e potenzialmente più esposti ai rischi dell'epidemia. La mia risposta psicologica, come di consueto è la razionalizzazione, autoconvincersi con argomenti più o meno ragionevoli di un rischio, nel mio caso, il fatto che, rispettando fin dall'inizio della quarantena strettamente le disposizioni sanitarie, il contagio se finora non è avvenuto, molto difficilmente ci colpirà. Per quanto l'esperienza spesso ha mostrato, in altre occasioni, la fallibilità di "strategie mentali" simili, mi sembra il massimo che si può fare per la propria serenità interiore
#114
Tematiche Filosofiche / Re:Filosofia è metafisica
30 Marzo 2020, 17:32:46 PM
Citazione di: giopap il 30 Marzo 2020, 09:40:23 AM
Citazione di: davintro il 29 Marzo 2020, 23:14:20 PM

le due opzioni non sono alternative separate, ma due aspetti convergenti che si implicano fra loro. Se il livello di certezza riguardo un giudizio è determinato dalla capacità della razionalità di addurre argomenti che corroborino la pretesa di oggettività, allora una verità apparirà tanto più certa quanto direttamente riconducibile a criteri logici autonomi da condizionamenti estrinseci in assenza dei quali questi criteri perderebbero la loro validità, smarrendo la loro capacità di fondare la verità del discorso. Dunque il massimo livello di certezza coincide con il carattere assolutistico del criterio di verità, perché arrivati al punto in cui un criterio si autolegittima, cioè si pone come dotato di validità assoluta, "sciolto dai legami", da vincoli nei confronti di ulteriori princìpi, possiamo riconoscerne la verità in modo certo, senza nessuna possibilità di errore, perché non esiste condizione in cui potrebbe venir meno. Per questo, non solo matematica e geometria, ma anche la metafisica consta di verità certe. Se parlare di certezza in campo metafisico ci appare così controintuitivo, per non dire di peggio, è perché si confonde la metafisica come disciplina in sé con la storia della metafisica, e stante l'infinita pluralità di posizioni diverse costituenti quest'ultima, si è indotti a pensare la metafisica come disciplina in sé come un campo in cui è impossibile pervenire ad alcun tipo di verità certa e condivisa. In realtà penso che la maggiore difficoltà nel riconoscere delle certezze nella metafisica rispetto alla matematica o alla geometria sia dato dal fatto che proprio l'assolutezza delle verità che la metafisica ricerca le rende estremamente più comprensive di tanti aspetti della realtà, e dell'esistenza umana, e dunque la ricerca finisce con l'accumulare molti più coinvolgimenti morali/sentimentali, per cui, mancando un dovuto distacco, la soggettività, del ricercatore offusca l'evidenza oggettiva delle verità in questione. Questo impedimento compromette di fatto il riconoscimento delle certezze metafisiche, ma non le invalida di principio, restano più o meno latenti, implicite nella nostra coscienza, al di là delle capacità riflessiva di esplicitarle in un discorso consapevole


Ma che le verità matematiche ("pure") e logiche siano certe é vero per definizione, trattandosi di giudizi analitici a priori.


Invece non vedo come ciò possa darsi (anche in linea di principio, a prescindere da tutti i "trabocchetti da eccessivo coinvolgimento emotivo" da te ricordati) delle verità metafisiche, che predicando sulla realtà di fatto e non su meri costrutti mentali e regole di deduzione arbitrariamente stabiliti (per definizione) deve avere prove anche empiriche a posteriori, per quanto indirette, circa la realtà di fatto e non solo costrutti arbitrari puramente mentali (che non vanno confusi con la metafisica, come a mio parere fa Viator).


Non solo, ma questa insuperabile dubitabilità di principio vale anche per la fisica (e in generale le scienze naturali).
Queste infatti si basano sull' esperienza, ma non si limitano ai dati immediati (particolari e concreti) di sensazione, ai quali personalmente attribuisco la stessa certezza dei giudizi analitici a priori (anche se il predicarli realmente accadere é giudizio sintetico a posteriori; ma circa evidenze empiriche immediate, non minimamente interpretate) E invece cercano nel mondo materiale naturale (fisico, non metafisico) "leggi" o modalità generali astratte del suo (postulato; ma mai dimostrabile) divenire regolare e non caotico, la cui verità poggia (assai instabilmente in linea teorica o di principio; diverso é il discorso sulla pratica) su dubitabilissime inferenze induttive (in ultima analisi; oltre che su ragionamenti deduttivi, abduttivi ed eventualmente di ulteriormente diversa natura).





è vero che la logica intesa come puro formalismo poggiante su definizioni ad hoc e premesse ipotetiche non è sufficiente come base da cui dedurre certezze riguardo la realtà di fatto. Per pervenire a certezze fattuali la logica formale necessita di applicarsi a un contenuto di intuizione, in un'esperienza vissuta. Il problema è che la gnoseologia kantiana, che giunge a una troppo netta separazione tra l'ambito logico-analitico e quello della realtà fattuale, partendo secondo me da pregiudizi di stampo empirista e materialista, vede l'intuizione sensibile, adeguata ad apprendere solo fenomeni fisici, come unica intuizione possibile su cui costruire una conoscenza razionale (in questo modo snaturando peraltro la stessa etimologia di "intuizione", "andare dentro", cogliere l'essenza necessaria della cosa, al di là delle manifestazioni esteriori e accidentali). Esiste però un'altra ottica che è quella fenomenologica, quella che pone come contenuto dell'analisi logica l'intuizione eidetica, che coglie l'essenza di una cosa successivamente alla riduzione, alla messa tra parentesi del suo eventuale aspetto di esistenza nel mondo esterno, sempre dubitabile, per individuarne l'aspetto di evidenza, il suo darsi come fenomeno all'interno della nostra coscienza. La coscienza è, insegnano Cartesio e Husserl, il residuo apodittico di cui, a prescindere che i fenomeni che la costituiscono corrispondano a esistenze di fatto, sono necessariamente presenti, e dunque costituiscono le essenze che poi la logica deduttiva mira a collegare con nessi consequenziali per formulare giudizi certi.



Ad esempio, la contingenza, intesa come contingenza del pensiero riguardo la capacità di pervenire a delle verità è un dato inoppugnabile, riconoscibile sulla base della semplice possibilità di illudersi o di dubitare che ciascuno di noi ha, può essere la base, non solo come definizione ad hoc, ma come proprietà reale del pensiero, da cui dedurre l'esistenza di una Causa che garantisca la possibilità al pensiero umano di riconoscere delle verità parziali, in quanto se il pensiero umano avesse in se stesso, nella sua immanenza, il criterio di verità, allora esso sarebbe sempre, necessariamente, nella verità, senza mai potersene allontanare. Dunque, la contingenza, intesa come imperfezione, fallibilità del pensiero umano nei confronti della verità, è dato fenomenologicamente inoppugnabile (posso dubitare che la mia visione del mondo sia vera o falsa, ma in ogni caso questa stessa dubitabilità dimostra l'imperfezione di un pensiero che non possiede la verità in pianta stabile e sicura) da cui si può ricavare logicamente la necessità di una Causa trascendente, creatrice di questa contingenza. In questo senso la prova tomista "ex contingentia mundi" (se le cose del mondo sono contingenti, necessitano di essere creati da una Causa necessaria, autofondatasi, Dio), è un passaggio logico che può essere recuperata nella sua validità razionale, a condizione però di "ripulirlo" da un'accezione naturalista, cosmologica, del realismo ingenuo, per cui la contingenza riguarderebbe il mondo fisico esterno, la cui esistenza viene data per scontata al di là della sua relazione con la soggettività della coscienza che ne fa esperienza. Mentre invece, la nozione di contingenza se "coscienzializzata", cioè se la si intende come contingenza della coscienza umana, la cui esistenza resiste all'estremizzazione del dubbio riguardante le asserzioni sulla realtà esterna ad essa, diviene quel contenuto anche fattuale da cui la logica può far leva per compiere le sue deduzioni, nello specifico, analizzando la definizione di contingenza ricavandone le implicazioni (se qualcosa è contingente, necessita di qualcosa di assolutamente necessario per determinarla, e l'indubitabilità del pensiero a cui la contingenza è riferita toglie il carattere ipotetico della premessa, fondandola su uno stato di fatto certo, l'esistenza del pensiero)


concordo nel pensare che Kant abbia errato nel considerare i giudizi matematici come sintetici. Ma l'argomentazione porterebbe a una digressione troppo ampia, e, solo per quanto riguarda me, mi fermo qui, mi piacerebbe trattare il punto in una discussione più centrata
#115
Tematiche Filosofiche / Re:Filosofia è metafisica
30 Marzo 2020, 00:55:06 AM
Citazione di: Jacopus il 29 Marzo 2020, 23:39:08 PM
CitazioneQuesto impedimento compromette di fatto il riconoscimento delle certezze metafisiche, ma non le invalida di principio, restano più o meno latenti, implicite nella nostra coscienza, al di là delle capacità riflessiva di esplicitarle in un discorso consapevole


Insomma un dogma arricchito dal sentimento. Oppure verità intesa nel suo significato latente dalla radice "vir" di molte lingue indoeuropee, ovvero fede, dal quale discende nel linguaggio comune un indizio significativo, la "vera" intesa come l'anello che sancisce l'obbligo di fedeltà della moglie al marito e viceversa (cfr Emile Benveniste, il vocabolario delle istituzioni indoeuropee).
La filosofia non può ridursi a questo. Possiamo anche discutere di metafisica ma dire che la metafisica è la filosofia, se interpretata in questo senso, è veramente riduttivo, per non dire di peggio.



la fede non centra in questo contesto, non a caso non l'ho mai citata. La fede si può intendere come sentimento inerente una credenza, una "doxa" non necessariamente supportata da argomenti razionali. La metafisica di cui parlavo invece si legittimerebbe come fondamento della razionalità, riconoscibile al termine di una regressione da parte della ragione che giunge a riconoscere i suoi stessi princìpi, cioè quel criterio regolativo universale di Verità da utilizzare come riferimento per discernere le verità contingenti. Metafisica non è religione, può condividere con essa l'oggetto di riferimento, ma lo raggiunge percorrendo una diversa strada, non sentimentale, meramente intuitiva, ma dialettica, confonderle sarebbe un po' come pensare che Po e Adige siano lo stesso fiume solo perché sfociano nello stesso mare.
#116
Tematiche Filosofiche / Re:Filosofia è metafisica
29 Marzo 2020, 23:14:20 PM
Citazione di: giopap il 29 Marzo 2020, 07:59:59 AM
Citazione di: davintro il 29 Marzo 2020, 00:06:08 AM


I limiti della conoscenza umana ci precludono la possibilità di una conoscenza totalizzante del reale e dunque di una verità onnicomprensiva, che però è una cosa diversa dal precludere la conoscenza di un limitato nucleo di verità assolute e certe. L'insieme di tutte le verità possibili non si esaurisce al livello della verità assoluta in generale e dei suoi corollari necessari, comprende anche le verità circoscritte e contingenti, la metafisica prende in considerazione un certo livello, fondativo ma parziale della realtà, non è mai tuttologia, si rivolge ai princìpi della totalità, che però sono una cosa diversa dal "tutto"

Per "verità assoluta" o verità relativa" intendi rispettivamente "affermazioni assolutamente, integralmente vere, per nulla false" e "affermazioni relativamente, parzialmente vere, in qualche senso o misura false"?
Oppure rispettivamente "affermazioni certamente vere" e "affermazioni dubbiamente (probabilmente in diverso grado) vere"?

Per quanto mi riguarda le uniche cose della cui verità sono assolutamente certa sono i teoremi della matematica e della logica astratta e i dati immediati (non interpretati, non ricordati, immediatamente in atto) dell' esperienza.

Tutto il resto in cui credo (comprese le verità scientifiche) é di verità dubbia (oltre che di fatto per lo meno quasi sempre parziale). 



le due opzioni non sono alternative separate, ma due aspetti convergenti che si implicano fra loro. Se il livello di certezza riguardo un giudizio è determinato dalla capacità della razionalità di addurre argomenti che corroborino la pretesa di oggettività, allora una verità apparirà tanto più certa quanto direttamente riconducibile a criteri logici autonomi da condizionamenti estrinseci in assenza dei quali questi criteri perderebbero la loro validità, smarrendo la loro capacità di fondare la verità del discorso. Dunque il massimo livello di certezza coincide con il carattere assolutistico del criterio di verità, perché arrivati al punto in cui un criterio si autolegittima, cioè si pone come dotato di validità assoluta, "sciolto dai legami", da vincoli nei confronti di ulteriori princìpi, possiamo riconoscerne la verità in modo certo, senza nessuna possibilità di errore, perché non esiste condizione in cui potrebbe venir meno. Per questo, non solo matematica e geometria, ma anche la metafisica consta di verità certe. Se parlare di certezza in campo metafisico ci appare così controintuitivo, per non dire di peggio, è perché si confonde la metafisica come disciplina in sé con la storia della metafisica, e stante l'infinita pluralità di posizioni diverse costituenti quest'ultima, si è indotti a pensare la metafisica come disciplina in sé come un campo in cui è impossibile pervenire ad alcun tipo di verità certa e condivisa. In realtà penso che la maggiore difficoltà nel riconoscere delle certezze nella metafisica rispetto alla matematica o alla geometria sia dato dal fatto che proprio l'assolutezza delle verità che la metafisica ricerca le rende estremamente più comprensive di tanti aspetti della realtà, e dell'esistenza umana, e dunque la ricerca finisce con l'accumulare molti più coinvolgimenti morali/sentimentali, per cui, mancando un dovuto distacco, la soggettività, del ricercatore offusca l'evidenza oggettiva delle verità in questione. Questo impedimento compromette di fatto il riconoscimento delle certezze metafisiche, ma non le invalida di principio, restano più o meno latenti, implicite nella nostra coscienza, al di là delle capacità riflessiva di esplicitarle in un discorso consapevole
#117
Tematiche Filosofiche / Re:Filosofia è metafisica
29 Marzo 2020, 00:06:08 AM

Citazione di: Ipazia il 28 Marzo 2020, 14:58:51 PM
La replica di bobmax è metafisicamente (ovvero il piano da lui preteso) ineccepibile. Difficile dire di meglio. Invece per via logica non se ne viene fuori ma sappiamo quanto ingannevole sia la sillogistica (Achille-tartaruga). Più risolutiva la via empirica: se ci fosse una verità assoluta sarebbe così evidente da averci convertito tutti. La scienza stessa, dall'alto della sua acquisita sovranità ontologica, non si sognerebbe mai di spacciare una sua scoperta come verità assoluta. Abbiamo dei limiti assoluti, ma in questo universo e solo per la parte di esso conosciuta. Non sappiamo cosa vi sia al di là di esso e della nostra ignoranza. Quindi anche la verità assoluta è di là da venire.


l'esistenza di una verità assoluta è un'evidenza che però può essere misconosciuta nel momento in cui si confonde il piano formale con quello contenutistico all'interno della nozione di tale verità. Affermare l'esistenza di una verità assoluta (lasciamo andare una certa ambiguità dell'espressione "esistenza della verità" che rischierebbe di non tenere conto che la verità, in quanto categoria del pensiero, non sarebbe propriamente un'esistenza, una realtà extramentale, ma una categoria intellettuale soggettiva, per quanto intenzionalmente rivolta a rappresentare l'oggettività. Forse sarebbe più appropriato parlare di "sensatezza della verità") vuol dire restare in un piano ancora formalistico e generico, in cui ciò che contenutisticamente si fa consistere tale verità resta indeterminato. Una qualunque verità assoluta senza specificarne il quid. La verità che "dovrebbe convertirci tutti e invece non lo fa" riguarda questo quid, il contenuto specifico. Quando si dice che "non esiste una verità assoluta" non si contraddice l'evidenza dell'esistenza di questa verità ma, confondendo livello formale e contenutistico, si intende sempre l'esistenza di un certo tipo di verità, di un certo tipo di metafisica, religione, che non è mai l'unico pensabile (lasciamo andare anche che la speculazione deduttiva dovrebbe indicare anche contenutisticamente certe visioni più convincenti di altre, ma è una fase successiva). Possiamo di fatto pensare diversi modelli di verità assoluta e contestarli, ma l'idea generica di verità assoluta resta sempre presente, in quanto ogni contestazione consiste sempre in un raffronto tra il particolare tipo di verità contestata e un criterio universale di verità sulla base del quale la contestazione viene applicata. La contestazione dell'esistenza di questo criterio universale è data dal dare per scontato che un determinato contenuto di verità, quello che si contesta, sia l'unico possibile, ignorando il lato formale, generico, indeterminato della nozione di verità, che si può riconoscere come necessariamente presente al di là dei contenuti particolari con cui lo determiniamo. Lo scettico che pensa di contestare l'esistenza di una verità assoluta lo pensa nella misura in cui, figlio del suo tempo, si sta riferendo in realtà a quel contenuto di verità culturalmente egemone in quel momento storico, egemone al punto da essere confuso con ogni possibile forma di verità in generale, mentre è solo uno dei tanti contenuti possibili. Per questo la metafisica non morirà mai, ogni contestazione di una verità metafisica ricade sempre nella metafisica e implica l'affermazione di un'altra verità. Si contesta sempre un particolare modello di "riempimento" dell'idea formale di verità assoluta, ma lo si contesta perché si ritiene che sia necessario un riempimento più adeguato, diverso, ma sempre riferito a quest'idea formale, sempre cioè restando nel campo proprio della metafisica.


I limiti della conoscenza umana ci precludono la possibilità di una conoscenza totalizzante del reale e dunque di una verità onnicomprensiva, che però è una cosa diversa dal precludere la conoscenza di un limitato nucleo di verità assolute e certe. L'insieme di tutte le verità possibili non si esaurisce al livello della verità assoluta in generale e dei suoi corollari necessari, comprende anche le verità circoscritte e contingenti, la metafisica prende in considerazione un certo livello, fondativo ma parziale della realtà, non è mai tuttologia, si rivolge ai princìpi della totalità, che però sono una cosa diversa dal "tutto"
#118
Citazione di: Ipazia il 25 Marzo 2020, 13:43:13 PM
Citazione di: Gyta il 25 Marzo 2020, 13:33:24 PM
Esatto. Ecco perché è importante – a mio avviso- evitare letture pseudo (e sottolineo pseudo) filosofiche in un momento che chiede completa consapevolezza e non il girare la questione altrove. Qui l'unica filosofia da adoperarsi è quella che miri alla presa di coscienza della gestione di fronte alle emergenze, l'analisi alla situazione economica che manovra, inerente la filosofia politica

La vedo dura se è vero che:

Citazione... le lotte e le coscienze deste non si ergono da strumentalizzazioni tout court...

@davintro

Riflessione importante la tua che allarga la prospettiva di questa discussione.

Concordo pienamente ponendoti un quesito: com'è che laddove "si rispetta meno la libertà degli individui" si sono adottate strategie più efficenti nella salvaguardia della loro vita e dove invece si ciancia alla grande di libertà individuali li si è lasciati liberi ... di morire e infettare, teorizzandone persino l'ineluttabilità ?

Fatta la tara degli estremi della gaussiana tra dove li si sono lasciati morire in carcere coi familiari (Italia) e dove li si sono salvati efficacemente incarcerando meno popolazione possibile (Corea del Sud, Taiwan, Giappone)
.





credo che un regime totalitario finisca con l'essere, riguardo la gestione di emergenze, un'arma a doppio taglio. L'accentramento di poteri nelle mani del governo, sia esso incarnato dalla figura personalistica del dittatore, o della dirigenza del partito unico di turno, determina un sovraccarico di responsabilità nei confronti dell'autorità, e le doti personali del dittatore/burocrazia del partito unico divengono decisive ad un livello eccessivo rispetto al principio prudenziale, che indicherebbe l'opportunità di distribuire e delegare il peso delle responsabilità a largo raggio, per evitare che i difetti di un singolo centro di potere produca danni non sopperibili dall'intervento di autorità alternative di controllo presenti nei paesi liberi (es. libero parlamento, corte costituzionale, comunità scientifica...). Se da un lato un regime autoritario avrebbe molti più poteri di controllo e sanzioni al fine di far rispettare i provvedimenti dai cittadini, come appunto nell'esempio cinese, dall'altro la censura di ogni voce critica e divergente inibisce lo stimolo per un regime a rivedere le lacune e gli spazi di inefficacia, inevitabilmente sempre presenti in ogni misura legale, cosicché un più rigoroso rispetto di provvedimenti inadeguati o contropruducenti finirebbe con il peggiorare la situazione complessiva. Come è ovvio, in ogni società il rispetto delle regole è apprezzabile solo nella misura in cui quelle regole sono quelle giuste e adeguate. Tenendo conto del principio prudenziale di cui sopra, l'imperfezione della natura umana dovrebbe indicarci il rischio della concentrazione del potere in un singolo centro, che poi si rivelerebbe inadeguato, e come invece la dispersione del potere decisionale e delle possibilità di espressione della critica tra diversi soggetti di diritto accresce i margini per un miglioramento delle linee di intervento, che possono giovarsi del responso e del contributo plurale di diverse posizioni, sia di stampo politico che scientifico, libere e distinte fra loro. All'aumentare dei punti di vista da considerare aumentano anche la possibilità di giungere a una sintesi ottimale. Ecco perché, in linea generale, al netto dei singoli casi, ritengo una società aperta e democratica come opzione preferibile rispetto a un modello dittatoriale o totalitario, anche per quanto riguarda l'aspetto di gestione emergenziale
#119

il possibile diffondersi (innestandosi su tendenze purtroppo già in atto da tempo, vedi il rossobrunismo dei vari Fusaro, esaltante il totalitarismo di un Putin o di un Maduro, in contrapposizione alla società aperta di stampo occidentale) di simpatie verso modelli dittatoriali come quello cinese, reputati più efficaci alla risoluzione di un'emergenza come questa, è un pericolo da cui dovremmo guardarci con lo stesso grado di preoccupazione che riserviamo all'epidemia stessa. Che in una situazione di eccezionale emergenza come questa si proceda a una PARZIALE e PROVVISORIA limitazione dei diritti individuali a tutela della salute pubblica, è qualcosa che anche in un'ottica liberale razionale e lungimirante può, essere accettata e giustificata. Il principio liberale "la mia libertà termina quando inizia quella libertà altrui" può porsi come motivazione di una autolimitazione dei diritti, se necessaria a tutelare lo stesso principio di libertà in un'ottica più ampia, perché riferita alla libertà di tutti, di un'intera comunità. Cioè, le limitazioni a cui siamo sottoposti non implicano un'inversione valoriale per cui la libertà individuale diverrebbe  valore inferiore rispetto alla salute, alla sicurezza pubblica, in nome di un'ideologia salutista, ma semplicemente l'ammissione che la difesa della libertà comprende la difesa della vita e della salute, in quanto sue necessarie condizioni. Ma ammettere che la libertà necessita di vita e salute (un morto o un intubato non ha nessuna libertà), al punto che, in nome di queste ultime si può in parte accettare di essere limitata in situazioni di emergenza, è ben diverso dal pensare che esse siano in assoluto beni più preziosi della libertà stessa. Proprio il loro essere necessarie condizioni per essa, ne rivela anche la subordinazione, in nome del principio per cui ciò che serve (vita e salute) ha sempre meno valore rispetto al fine in sé (la libertà). Teniamo conto che, mentre la morte è un destino tragico ma inevitabile, il vivere il tempo che ci è concesso in libertà o sottomissione è una scelta, ed è per questo che i nostri sforzi dovrebbero mirare soprattutto, più che a rimandare eternamente una fine già scritta, a difendere il nostro essere liberi in coerenza, ed è per questo che troverei sempre preferibile terminare la vita un pò prima, ma vivendo fino all'ultimo da uomo libero, piuttosto che tirare a campare sotto un regime dittatoriale e le sue imposizioni salutistiche. Se si decide di limitare alcuni diritti lo si fa solo entro i limiti in cui appare strettamente necessario a che si possa superare prima possibile l'emergenza e tornare a godere appieno della libertà una volta di nuovo assicurate i suoi presupposti strumentali, vita e salute, il discorso rientra in piena coerenza nell'ottica della libertà bene sommo, un po' come una ritirata strategica di un esercito dopo una battaglia persa: non ci si ritira perché si è persa la coscienza del senso del combattere ma per ricreare le condizioni per cui in un futuro si potrà tornare a combattere in modo più efficiente.


Ciò che dovrebbe far preoccupare è che questa sospensione parziale della libertà, pur ragionevole nello specifico contesto, rischia di creare un pericoloso precedente a cui un domani un governo, più o meno, autoritario, potrà appellarsi per giustificare l'introduzione di nuove forme di controllo sui cittadini, sui loro spostamenti, i loro consumi, la loro stessa libertà di espressione, utilizzando ad hoc la propaganda, i media per ingigantire pericoli sanitari in realtà inferiori all'attuale Corona Virus, manipolando l'opinione pubblica per convincerla della ragionevolezza degli interventi. L'unica forma di prevenzione di questo scenario è una comunità scientifica il più possibile autonoma nella ricerca e informazione dell'effettivo stato delle cose, sui reali margini di pericolosità, autonoma rispetto alle istanze politiche. Ed è per questo che la preservazione delle garanzie a tutela della massima indipendenza della ricerca scientifica e della cultura in generale da ogni forma di controllo e manipolazione statale dovrebbe, caposaldo del pensiero liberale appare sempre più una necessità prioritaria. Lungi dall'interpretarla come occasione di contestazione ideologico-valoriale del modello di società aperta, fondata sul primato della libertà degli individui (pregherei di tener conto della scelta della forma plurale "individui") questa emergenza dovrebbe piuttosto richiamare alla vigilanza verso la tutela dei suoi dispositivi di limitazione verso ogni abuso del potere politico
#120
Tematiche Filosofiche / Re:sull' etica
19 Marzo 2020, 18:09:12 PM

per Green Demetr


le scale  o priorità di valore a cui mi riferivo sono individuali, un codice morale a partire da cui ciascuno orienta le proprie scelte senza avere la pretesa che il proprio codice personale debba coincidere con la legislazione di uno stato finendo con l'imporle a tutti gli altri. Si potrebbe parlare di concezioni criptofasciste o similfasciste, nel caso si dia in automatico questo passaggio da ciò che è giusto per me a ciò che lo stato dovrebbe imporre come giustizia collettiva, che non è il mio caso. Il che non vuol dire che esperimenti mentali etici in questo senso debbano avere necessariamente solo una funzione di autochiarimento individuale senza alcuna applicazione sociale o politica. Ma anche in quest'ultimo caso, non si tratterebbe di imposizione fascista dello stato etico, nella misura in cui non si tratta di imporre un ideale di giustizia presentato come collettivamente valido, ma di decisioni che considerano le conseguenze in termini di benessere collettivo degli individui, senza operare giudizi morali in base a cui alcuni di essi dovrebbero essere posti a un livello morale superiore rispetto ad altri. Se ad esempio, nel caso ipotetico di immaginare che il sacrificio di un individuo determini con assoluta certezza la salvezza per altri, affermare come "giusto" il sacrificio, non implica l'utilizzo del concetto di giustizia in chiave fascista-totalitaria, per cui la vita dell'individuo sarebbe giudicata indegna di essere vissuta sulla base di un modello morale imposto dallo stato, ma nel senso di intendere il sacrificio come "male minore" da accettare per evitare il male maggiore della morte di più individui. Cioè la scelta sarebbe espressione di un calcolo numerico che ha senso in un'ottica appunto non fascista ma liberale, di perseguimento della massimizzazione del benessere per più individui possibili all'interno di una società, considerati però, presi singolarmente, uguali nei diritti e nei doveri. Anche rendendomi conto che parlare di calcolo o massimizzazione riguardo scelte che determinano la vita delle persone può apparire cosa arida, non riesco però a trovare metodologie più razionali in relazione a un modello di società laica, fondata sull'uguaglianza formale di tutti gli individui, senza alcuna discriminazione aprioristica