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Messaggi - Phil

#1051
Citazione di: anthonyi il 30 Settembre 2020, 18:05:07 PM
con empatia si intende la coscienza di quello che prova l'altro, il provare come tu dici implica che quello che l'altro vive lo viva emotivamente anch'io, per cui in tal caso la sua felicità sarà la mia, e siccome io desidero essere felice, allora desidero la sua felicità.
[...]
Il punto è che se noi definiamo l'empatia già nel senso positivo non abbiamo più un concetto per definirne la componente neutra, cioè quella appunto della semplice presa di coscienza razionale dell'altrui felicità/infelicità senza partecipazione emotiva
Personalmente non presuppongo che l'empatia sia "positiva", tuttavia mi preme tenerla distinta dal desiderio, proprio perché non è la proiezione di ciò che vorrei in risposta alla situazione dell'altro (se fossi al posto suo), ma è soltanto l'introiezione delle emozioni altrui; quell'«io desidero essere felice, allora desidero la sua felicità»(cit.) non credo sia un meccanismo strettamente empatico, perché più che ricettivo-emotivo è propositivo-desiderante (può essere di certo conseguenza dell'empatia, me non è l'empatia in sé).
Concordo ovviamente con te quando osservi che l'empatia può essere d'ostacolo alla comprensione razionale del comportamento altrui (per questo l'ho distinta dalla razionalità).

P.s.
Ringrazio InVerno per esser stato meno pigro di me nel verificare l'esattezza di Wikipedia.
#1052
Citazione di: anthonyi il 30 Settembre 2020, 13:51:07 PM
Ciao Phil, l'irrazionalità è un comodo espediente per risolvere certe questioni teoriche. Si afferma che l'omicida di Lecce era un pazzo ed è tutto spiegato. Però quello stesso omicida ha compiuto tanti atti razionali: Ha studiato il percorso da fare, si è procurato gli strumenti per la tortura (Poi non concretizzata per la reazione delle vittime) , per l'uccisione, ed anche per fare scomparire le prove.
Sull'uso del concetto di empatia devo correggerti, perché tu presupponi l'empatia a priori come positiva. In realtà l'empatia definisce solo la presa di coscienza dell'altrui stato interiore e può determinare empatia positiva, cioè desiderio che l'altro sia felice, o empatia negativa (Quella che tu definisci malignità) cioè desiderio che l'altro non sia felice.
Sull'irrazionalità non mi riferivo al caso specifico (che non conosco in dettaglio), ma più in generale al pensare erroneamente che ogni azione umana sia razionale; qui bisognerebbe aprire il discorso su cosa sia la malattia mentale, a quale ratio faccia capo e in quali sfumature si declini. Parlando di azione ragionata e/o razionale, non bisogna forse distinguere la pianificazione dal suo scopo? I manicomi erano pieni di persone che progettavano ragionevolmente per raggiungere fini totalmente irrazionali (suggeriti da deliri o disturbi cognitivi).
Chiaramente se un omicidio è intenzionale, va indagata tale intenzionalità soggettiva e, passando al caso specifico, l'affermazione dell'imputato, se presa sul serio, più che pazzia sembra ricondurre ad una questione di invidia e istinto omicida (che non significa solo uccidere in un raptus di follia, ma avere un'inclinazione, più o meno latente, alla soppressione della vita altrui).
Sull'empatia non sono sicuro della tua fonte: non credo essa possa essere intesa come desiderio che l'altro sia felice o meno; l'empatia, correggimi pure, non è un desiderare, ma un provare ciò che l'altro prova, è quasi un immedesimarsi, non un desiderare qualcosa per lui. Su empatia negativa e positiva mi permetto di rimandarti, tanto per cambiare, a Wikipedia.
#1053
Notoriamente uno dei vizi/peccati capitali è l'invidia, un'emozione talvolta estinguibile solo con un'altra emozione, la Schadenfreude, la gioia per il fallimento altrui, fallimento che rimuove la causa dell'invidia (felicità, successo, ricchezza, etc. altrui), chiudendo il cerchio. Alla base di questa dinamica c'è chiaramente un rapporto problematico fra se stessi e il prossimo, un sottomettere la propria autocomprensione al mettersi in competizione con i propri simili, un autodeterminarsi socialmente eteronomo ed eterodiretto. Non è di certo un percorso obbligato, anche se attualmente è sempre più battuto e sollecitato dagli aspetti a larga scala rilevati da InVerno.
Si tratta cpmunque di un atteggiamento vecchio come l'uomo (quindi connaturato all'uomo), raccontato sia dalla strega di Biancaneve e dalle fiabe di Esopo che, appunto, dalla cronaca (questo, vado a memoria, non è il primo caso).
Wikipedia fornisce due laconiche citazioni sull'invidia:
«L'ammirazione è una felice perdita di sé, l'invidia un'infelice affermazione di sé» (Kierkegaard)
e
«Dove realmente l'uguaglianza è penetrata ed è durevolmente fondata, nasce quell'inclinazione, considerata in complesso immorale, che nello stato di natura sarebbe difficilmente comprensibile: l'invidia. L'invidioso, quando avverte ogni innalzamento sociale di un altro al di sopra della misura comune, lo vuole riabbassare fino ad essa. Esso pretende che quell'uguaglianza che l'uomo riconosce, venga poi anche riconosciuta dalla natura e dal caso. E per ciò si adira che agli uguali le cose non vadano in modo uguale» (Nietzsche)
richiamando un altro peccato capitale, l'ira, abbiamo dunque l'esito di un'invidia incontrollata.


@anthonyi
Tra la razionalità (e l'empatia) umana e la razionalità (e la malignità) diabolica, riscontrerei anche un tertium: l'irrazionalità e l'aggressività umana, addomesticate dal (quieto) vivere sociale, sebbene, morale della favola, non sia sempre un addomesticare con il lieto fine.
Essendo nella sezione di spiritualità, forse è sconveniente far notare che ipostatizzare il male come un'entità fuori di noi può attivare un meccanismo di potenziale (auto)assoluzione, proiettando ed imputando al sovraumano la causa di comportamenti psicologicamente spiegabili
#1054
Percorsi ed Esperienze / Re:La Grotta
26 Settembre 2020, 21:40:24 PM
Il problema è assai intricato, soprattutto vis(su)to da qui dove potremmo pensare che «all lives matter» sia una affermazione che supera la discriminazione e ci rende tutti fratelli.
Non è solo una questione di razza o povertà, come dimostrano episodi forse ancor più clamorosi (un esempio) e i dati sono quasi sempre troppo "monchi" per essere esaustivi, sia quando confrontano le vittime della polizia per etnia e opposizione armata/disarmata (ma non considerano la composizione della popolazione, i tipi di reati commessi, ciò che avviene prima che si premano i grilletti, etc.), sia quando confrontano Europa ed Usa tralasciando le mille differenze di contesto, legislative e culturali. Certo non aiuta a semplificare la faccenda considerare il paradosso di Simpson o riflettere sul perché alcuni si aspettano che ogni etnia dovrebbe avere circa il medesimo tasso di criminali, vittime, etc. altrimenti si cade nella discriminazione (che è come aspettarsi che, ad esempio, il 5% di ogni etnia debba essere criminale, quasi fosse una legge divina, quindi se ne viene incarcerata il 10% c'è un 5% sicuramente vittima di discriminazione).
D'altro canto, se è innegabile che in molti luoghi d'America essere di colore non è affatto un fattore socialmente irrilevante, è anche vero che essere poliziotti in un paese dove le armi circolano quasi come le sigarette, rende difficile giudicare da fuori quello che succede in the streets (questo agguato a due poliziotti, a noi italiani potrebbe sembrare un film o una scena da "partigiani contro l'invasore", invece è una recente "cartolina da Compton").
#1055
La questione della "cornice" diventa a questo punto fondamentale per il discorso: quando parliamo di «essenza» ed «esistenza», stiamo parlando di ciò che è raffigurato nella cornice di Sartre, in quella della filosofia in generale (con annessa definizione settoriale di «essenza») o in quella di ciascun forumista? Ovvero: per la metafisica (da Platone in poi) è anapodittico che l'essenza preceda crono-logicamente l'esistenza, per Sartre (che non parla di essenza ontologica) è vero il contrario; per altri (senza fare nomi) l'essenza non è dimostrabilmente esistente quindi è un falso problema o una questione di metafore.
Se restiamo, seguendo l'impostazione iniziale di Socrate78, nella cornice sartriana, l'essenza non ha dimensione ontologica, ma solo valoriale, per cui non può che fondarsi sulla preesistente esistenza del soggetto, che poi sceglie e progetta tali valori "essenziali".
Al riguardo, le questioni poste da Socrate78 mi sembrano pertinenti:
Citazione di: Socrate78 il 22 Settembre 2020, 20:55:55 PM
l'essenza da che cosa sarebbe data? Non ci sarebbe nessun valore assoluto, nella posizione decisamente atea e relativistica di Sartre,  che determinerebbe in modo chiaro il valore della persona: infatti lo stesso progetto di vita potrebbe essere ritenuto ottimo per alcuni e invece pessimo per altri, quindi non esisterebbe nessuna discriminante per decidere chi veramente è degno di esistere e chi invece non ha valore. Quindi deduco che la concezione di Sartre sia definibile come NICHILISMO ETICO.
A tali osservazioni va aggiunta come "carico" (facendo rientrare dalla finestra il concetto ontologico di essenza) la considerazione che, anche rovesciando l'aforisma sartriano, il connubio fra l'essenziale progettualità dell'uomo e la libertà (da dei, sovrastrutture e dialettiche storicistiche, come lascia intendere Sartre nel testo di riferimento) resta un matrimonio con figli "essenzialmente" e "angosciosamente" relativisti e/o nichilisti (per dirla ancora con Socrate78).
#1056
Affermare che l'esistenza precede l'essenza, comporta un abbandono del senso ontologico di «essenza» in favore di un uso letterario del termine. Se in filosofia l'essenza è ciò che rende tale qualcosa trascendendone l'individuale e (s)oggettiva esistenza, nel momento in cui qualcosa, o meglio, un uomo, già esiste prima della (esistenza della) sua essenza, allora l'essenza diventa un a posteriori dell'esistenza umana; ovvero non è più essenziale (quindi non ne è ontologicamente essenza).
Se l'esistenzialismo è un umanismo, l'essenzialismo è uno "gnoseologismo" (di matrice metafisica, non epistemologica) non compatibile con un progetto soggettivo che si fa liberamente, che si essenzializza strada facendo: un'essenza che muta con il mutare dell'esistenza e dell'esistente di cui è essenza, non è autentica essenza, ma è "accidente per sé" (si direbbe nel vocabolario aristotelico-scolastico).
Per quanto riguarda il pro-gettarsi libero e sociale del soggetto (cercando qui di restare entro gli argini del discorso sartriano), esso sembra assurgere al ruolo di essenza-letteraria dell'umanismo di Sartre; che esso sia anche l'essenza-ontologica dell'uomo, essenza che ne precede l'esistenza? Se, citando ancora Sartre, «siamo condannati ad essere liberi» e progettanti, tale condanna non è forse l'essenza della condizione umana che precede ogni singola esistenza progettante?
La libertà (sartriana) delle scelte esistenziali (umane, ma non necessariamente umanistiche) è (co)stretta nel vincolo dell'essenziale progettabilità dell'esistenza umana, o essa è essenza-fondamento?
#1057
Tematiche Filosofiche / Re:Misura e scoperta
23 Settembre 2020, 12:35:02 PM
Citazione di: Jean il 22 Settembre 2020, 22:36:02 PM
Cos'era accaduto? Quello che il nostro Enrico Fermi ha efficacemente e squisitamente illustrato in un suo famoso aforisma:

«Ci sono soltanto due possibili conclusioni: se il risultato conferma le ipotesi, allora hai appena fatto una misura; se il risultato è contrario alle ipotesi, allora hai fatto una scoperta»

La mia opzione è per la scoperta, qualcosa non è andato come ci si aspettava così da rendere possibile (e certa) la "misura".
Il problema nasce quando la scoperta va poi identificata, interpretata e misurata (e «l'uomo è misura di tutte le cose», diceva un tale). Notoriamente, lo scoperto, ciò che emerge da una precedente copertura, non è sempre univocamente identificabile, così come i fatti non hanno sempre un'interpretazione risolutiva e inconfutabile (ancor più ogni evento non ha necessariamente solo un "significato"). Ad esempio, riguardo Walter e le tartarughe, non so se hai già avuto modo di leggere questo testo (in inglese); scorrendolo molto superficialmente (al punto che è come non l'avessi letto) sembra si parli della memoria delle tartarughe come «overinterpretation» (cit.), "sovrainterpretazione", interpretazione eccessiva (forse con riferimento a quello che intendevo con "lettura metaforica"?). Non so se lo troverai interessante, quanto a me, come forse direbbe un millennial, «tl;dr».
#1058
Citazione di: InVerno il 19 Settembre 2020, 16:09:51 PM
La religione deve essere pervasiva, motivante e duratura, adornata da un aura di fattualità tale da renderla inequivocavilmente vera al di là di ogni confutazione, le demistificazioni non la scalfiscono perchè un uomo assetato berrebbe anche il suo piscio.
Concordo con questo paragrafo, anche se nell'incipit, al posto di «la religione» credo sarebbe più opportuno scrivere «ogni religione», il che pone appunto il problema del relativismo e della coesistenza fra le religioni. Perché se è vero che la sete è un inevitabile meccanismo primario, sia che si conosca come funziona l'idratazione corporea, sia che si creda sia tutta una questione di ricongiungersi con l'arché di Talete, è anche vero che fra il bere acqua di fonte o il bere "altro", il relativista religioso ci ammonisce che non c'è grande differenza, perché comunque la sete viene placata, il religioso dogmatico ci dice che solo l'acqua di Fonte disseta Bene (differentemente da "altro"), mentre l'ateo... resta a bocca asciutta (il che spiegherebbe almeno la sua frequente aridità spirituale).
#1059
Tematiche Filosofiche / Re:I postulanti dell'Assoluto
19 Settembre 2020, 23:39:42 PM
Citazione di: johannes il 19 Settembre 2020, 13:59:56 PM
più che una postulazione (e men che meno di quale che sia assoluto) di senso e riferimenti specifici, la tua sembrerebbe rivelarsi essere una inequivocabile dichiarazione di fin de non recevoir, e per tale non posso quindi che accoglierla astenendomi da ogni possibile inutile replica. Pazienza!
Ti ringrazio per la pazienza e la comprensione; per sdebitarmi ho cercato qualche vecchia discussione da poterti linkare, sperando di fornirti un riassunto delle puntate precedenti, ma purtroppo, nel mare magnum della sezione filosofica, non sono riuscito a rintracciarle (anche perché talvolta, se non erro, affioravano ai confini dell'off topic).
In breve: ho potuto constatare più di una volta, soprattutto in significativi dialoghi con gli utenti davintro, paul11 e forse anche altri, l'incommensurabilità paradigmatica fra un approccio metafisico e "continentale" (che cavalca principalmente Platone, Heidegger, Severino e altri) e un approccio più decostruzionista e analitico (che cavalca Derrida, rivista Godel, si astiene nell'epoché di un certo relativismo, etc.), un'incommensurabilità aporetica, un "fossato dialettico" che si fonda su presupposti fondativi e impostazioni ermeneutiche divergenti. Essendo consapevole di ciò, per esperienza, rivisitare quel fossato, ormai ben noto, non risulta particolarmente motivante.
#1060
@paul11
Nessuna guerra, ci mancherebbe (so che scherzi); mi interessa solo avere qualche numero su cui poter ragionare concretamente (l'interpretazione faziosa del "tifare" per la propria percentuale non mi tange, sono le dinamiche ad interessarmi; resta comunque vero che, metodologicamente, preferisco le descrizioni alle proiezioni, il racconto dei fatti alla "profezia statistica").
Indubbiamente l'esigenza di senso è (ancora) innata nell'uomo e la suadente risposta dogmatica (non sconsolante come quella atea) può essere esportata come la democrazia, il capitalismo, etc. colonizzando culture non abbastanza "resistenti". Eloquente è in merito la differenza di scenario fra mondo nel complesso ed Europa, dove, nonostante la culla della tradizione millenaria teologica, i dati raccontano una tendenza alla perdita della religione e proprio il parlare di relativismo religioso anche in "sedi religiose" lo corrobora (senza voler sminuire proiezioni e previsioni).
Questo rilievo non è da intendere come un giudizio di valore: non sto affatto dicendo che è bene (per quale paradigma?) che l'ateismo sia in crescita in Europa (e in Italia) o che si sia passati da religioni che dominano a «religioni che resistono»(cit.); tuttavia ciò che dicono i numeri descrittivi, affiancati alla crescente tematica del relativismo religioso, secondo me, sta tracciando da noi occidentali una direzione piuttosto identificabile (che suppongo non sia la stessa direzione, ad esempio, dell'Africa).


@InVerno
Il thauma si è fatto taumaturgia e poi liturgia, nel frattempo la (neuro)scienza ha spiegato i meccanismi interiori ed esteriori dell'esperienza del thauma, demistificandolo; resta un'esperienza possibile e piacevole, ma usarla come trampolino verso la trascendenza è ancora, come sempre, un "salto della/nella fede", (onto)logicamente molto meno necessario che in passato.
Sulla differenza fra religione intrinseca/estrinseca concordo che sia, almeno da decenni, la sede del «travaso» culturale e cultuale, nel cui senso (semantico, ma anche direzionale) intravvedo ulteriormente l'allontanamento dalla suddetta "assenza", in favore della presenza di una risposta da tenere in tasca, ma senza farsi carico nella prassi che essa richiederebbe. Per me siamo nettamente nello psicologico e nel sociologico, come detto, anche se il possessore della tasca è convinto, in buona fede, di essere nel teologico.
#1061
Citazione di: paul11 il 19 Settembre 2020, 00:33:02 AM
crescono  i fedeli delle tre religioni, nonostante le istituzioni "ecclesiastiche" dei monoteismi "facciano acqua".
Se prendiamo per buoni i dati di wikipedia, negli ultimi 5 anni la percentuale dei religiosi nel mondo presenta qualche religione in aumento e qualcuna in calo (l'ateismo globale è sceso dal 15,3% al 14,1%):
- il cristianesimo è passato dal 31,5% (della popolazione globale) al 29%
- il giudaismo dallo 0,20 allo 0,18%
- l'islam dal 22,3% al 24%
- l'induismo dal 13,9% al 15,4%
- la «religione tradizionale cinese»(sic) dal 5,5% al 5%
- il buddismo da 5,25% al 6%
I dati sono tratti da qui e qui.


In Europa, il mutamento di scenario è stato invece questo (ancora da Wikipedia, cliccare per ingrandire):



Focus sull'Italia (wikipedia, cliccare per ingrandire):


Ovvero (wikipedia, cliccare per ingrandire):
#1062
Citazione di: Dante il Pedante il 18 Settembre 2020, 22:15:48 PM
E' proprio nel volto del mio prossimo che vedo Dio.Se no dove? questo è già presente nei testi e quindi non è realtivismo immanentista moderno,[...] non è assenza  e presenza metaforica ma concreta presenza nel mio prossimo nella fede cristiana da sempre.
Indubbiamente per i cristiani è possibile vedere il volto di Dio in quello del prossimo; tuttavia ho parlato di «allontanare la religione da (la trascendenza di) un dio, per [...] immanentizzarla nel volto del mio prossimo»(autocit.). Ovvero: se siamo nella prospettiva di chi non riconosce un valore veritativo nella esclusività delle Sacre Scritture (come quelle che hai citato), ma considera la divinità a prescindere da ogni tradizione religiosa, cioè come una divinità che non ha dettato/ispirato nulla e non si è mai incarnata, allora parlare di una religione immanente al volto del prossimo (senza riconoscere valore a uno specifico culto religioso tradizionale) è un passo nella direzione dell'assenza di una divinità autentica (poiché non è un guardare all'altro come traccia del Dio cristiano e non c'è una identificabile divina Trascendenza da poter ri-conoscere nel suo volto).


P.s.
@paul11
Non avrei pensato che i fedeli delle tre religioni fossero in crescita (in proporzione agli abitanti del pianeta, ovviamente... e senza scendere in dettaglio sulla differenza credenti/praticanti). Suppongo comunque che la questione del "relativismo religioso" riguardi soprattutto i paesi occidentali (e monoteisti). Concordo che le domande con risposta esclusivista siano ragionevolmente le più richieste e gettonate, per questo credo che il relativismo religioso non sia un attendibile tertium datur fra credenti dogmatici ed atei, ma, appunto, una forma di transizione all'ateismo o di spiritualità a-tea.
#1063
Tematiche Filosofiche / Re:I postulanti dell'Assoluto
18 Settembre 2020, 21:59:25 PM
@johannes

Il passo di Heidegger citato non credo risolva il problema del fondamento ontologico; seppur sicuramente (se) lo ponga. Senza aver risolto il quale, un'etica a radice ontologica può solo proporsi con categorie estetiche, più che "performativamente" etiche. Cura, preoccupazione, con-gli-altri, etc. che significano pragmaticamente e che cosa comportano nell'agire?
Platone credo si sia sbilanciato di più nel tratteggiare una prassi etica, mentre Heidegger (per quel poco che lo conosco) si è fermato a speculare sui presupposti ontologici (non senza debolezze "strutturali"). Noto en passant che sul principio anipotetico, l'elenctico aristotelico, e sulla dimostrazione logica in generale, Heidegger non è probabilmente il più rigoroso dei buoni esempi (per questo oltreoceano, solitamente attenti alla forma logica e alle fallacie, lo considerano cinicamente "letteratura").
Non concordo sull'affermazione che «La struttura ontologica della finitezza importa una finalità ermeneutica solo a patto di coglierne la tensione (o facies) costitutivamente "ascendente"» (cit.) se per ascendente intendiamo qualcosa di differente dal processo semantico. Altrimenti, proprio come per Heidegger, occorrerebbe dimostrare l'inaggirabilità di tale ascendenza, fuori dal circolo ermeneutico e fuori dalla caverna (la cui assiologia mi risulta poco elenctica).
Citazione di: johannes il 18 Settembre 2020, 18:57:15 PM
all'opposto, l'intento di enuclearne la sostanza in certa "storicità pura del comprendere", seguirne cioè negli effetti centrifughi la sua ricaduta negativa, opaco-discendente, non può che infrangere l'ethos in una incommensurabilità insanabile, che se intende ricostituire in negativo l'interferenza produttiva della koiné maieutica perduta variandola di segno, può farlo solo nella potenzialità dinamica di un progressivo avvicendamento sostitutivo e aleatorio, "c(h)orale" (cit.), dei molteplici "ethoi/logoi"
I due riferimenti al «negativo» (che ho evidenziato in corsivo), su quale (pre)comprensione, circolarmente ermeneutica, si basano? Da notare che l'accezione negativa è applicata all'immanenza di una dinamica quantomeno constatabile, verificabile ed effettuale (quindi epistemologicamente "disponibile"). Nuovamente la dimostrazione logica rischia di esser presa in ostaggio dall'estetismo della trascendenza "gödelianamente" ontologica, dalla metafisica dell'Essere (come se ancora non ci fosse stata la filosofia analitica, la scienza del novecento, il postmoderno, etc. il che, non volermene, ho già ampiamente argomentato e ripetuto parlando con altri utenti).
#1064
@InVerno

La religione può avere "50 sfumature di dio", a partire della sua etimologia sino all'anateismo (che non conoscevo, grazie per la segnalazione), tuttavia il problema centrale, almeno secondo me, è sempre quello: il fondamento. Se escludiamo le religioni istituzionali, caparbie ed esclusiviste, ma, per non buttare sia il bambino che l'acqua sporca, manteniamo in gioco il concetto di dio, qual'è il fondamento di tale concetto, una volta "emancipato" da rivelazioni, libri sacri e tradizioni? Senza rispondere a questa domanda, chiunque può farsi il suddetto "vitello d'oro a propria immagine e somiglianza" e fondare la sua religione.
"Riciclare" un concetto fuori dal suo paradigma originario non è sempre solo una mossa nostalgica o di mancata elaborazione del "lutto", spesso è anzi indice di attenta analisi e abilità ermeneutica. Possiamo infatti parlare di "religiosità" (concetto afferente-a, ma differente-da, quello di dio, quindi non sempre negato dagli a-tei) nella tonalità spirituale che percepiamo quando siamo serenamente ospiti di un bosco (shinrin-yoku), anche se quei noiosi neuroscienziati spiegherebbero tale "religiosità" con neurotrasmettitori, chimica, etc. (e magari un giorno una fiala ci farà provare le stesse sensazioni "spirituali/religiose").
Credo però che quella boschiva (esempio, ma il discorso vale anche per altre) sia una religiosità psicologica (percettivo-individuale) da distinguere dalla religiosità sociale (storica e interpersonale), ovvero quella delle religioni che suggeriscono un'etica, risposte al post-mortem (e al "pre-vitam"), etc. Anche perché la "religione del bosco", a differenza delle "classiche", in virtù del suo fondamento chimico, non richiede particolare fede, è universale (a prescindere dai tempi e dalla geografia, presenza di boschi permettendo), non può essere strumentalizzata dalla politica (almeno credo) e non avendo un dio accontenta anche gli atei; suppongo però sia insufficiente per essere la religione e l'etica di riferimento di una civiltà urbanizzata (sicuramente ha tangibili effetti benefici psico-fisici, ma credo vada ben oltre il relativismo religioso inteso... religiosamente).


P.s.
Anche questo allontanare la religione da (la trascendenza di) un dio, per immanentizzarla in un bosco, nel volto del mio prossimo o in altro, mi pare vada sospettamente nella direzione della suddetta "assenza" o "presenza metaforica".
#1065
Citazione di: viator il 18 Settembre 2020, 13:00:24 PM
Per queste ragioni (l'una o l'altra delle due) non capisco perchè ci si debba arrovellare
Di certo l'ateo o il cultore del "vitello d'oro fatto a propria immagine e somiglianza" (rovesciamento biblico) non devono arrovellarsi su tale quesito; ma il credente "alla vecchia maniera" e ancor più il ministro del culto (per sua "deontologia"), sono chiamati a fare i conti con tale domanda perché è la comunità che oggi glielo (e se lo) chiede. Mentre qualcuno può liquidare il cruccio in quanto «non è risolvibile poiché esso affonda la propria radice nella problematica del possesso o nella mancanza del libero arbitrio umano»(cit.), all'interno di una prospettiva religiosa tale risposta non è percorribile. La religione si propone perché deve dare risposte, fossero anche sotto forma di «mistero della fede», ma non può concedersi il lusso (o la pigrizia) di etichettare una questione semplicemente come "non risolvibile perché problematica". Soprattutto considerando che la suddetta domanda è gravida di conseguenze pratiche, non solo dottrinali; conseguenze che condizioneranno il futuro ruolo sociale della chiesa. Sperando che la situazione non degeneri troppo come stigmatizzato da questo e questo sketch.

Citazione di: InVerno il 18 Settembre 2020, 14:01:20 PM
la strada è tutto fuorchè chiara, e lo si evince chiaramente dal fatto che sotto l'ombrello del "relativismo" vengono caoticamente inserite tre posizioni invece molto diverse: l'inclusivismo, il soggettivismo e il pluralismo. L'abbandono dell'eslusivismo tuttavia è un problema esclusivo (scusa il gioco) dei monoteismi abramitici, non delle religioni orientali che non mi pare abbiano problemi ad affacciarsi verso queste realtà, per questo non credo sia appropriato di parlare di percorso "post-religioso", quanto al massimo all'inevitabile declino di un ceppo di religioni mediorientali.
Una religione non esclusivista non è forse un'(est)etica esistenziale? Nel momento in cui il dio di una precisa religione non è l'unico (o gli unici, per i politeisti), non è la verità, non è trascendente le contingenze storiche, etc. ma è solo uno dei re nel mazzo di carte antropologico, re equivalenti seppur differenti, allora quanto è attendibile tale "religione"? Se invece supponiamo che ci sia un dio, di cui non sappiamo nulla perché nessuna religione presistente ce lo spiega, quale religione pragmatica, strutturata (futuribile), possiamo fondare su tale (pre)supposizione?
Inclusivismo a parte (essendo, se non erro, una forma di "dogmatismo tollerante" non relativista), il soggettivismo e il pluralismo, se estesi a tutte le religioni, diventano ognuno una forma di teismo o deismo (a seconda dell'approccio) consistente nel minimalismo di «un dio c'è», affermazione (in)fondata sul comun denominatore religioso, insufficiente a fornire, da solo, una religione fruibile, poiché presuppone proprio la destituzione (o almeno la non credenza) dei fondamenti delle religioni istituzionali, nei cui dogmi fondanti c'è, come sopra detto, l'esclusivimo. Questo vale anche per i buddisti: nei loro "tre gioielli", il primo è appunto il Buddha, poi c'è il Dharma (legge universale, intesa distintamente à la buddista) poi lo Shanga, ovvero la comunità di praticanti (del loro culto, non di un qualunque culto religioso). Notoriamente i buddisti non incitano alla guerra santa e sono ragionevoli sulle differenze, tuttavia se gli chiediamo se una religione rivelata e monoteistica è equivalente al loro Dharma, al di là delle risposte diplomatiche e politicamente corrette, è evidente che la loro dottrina (com)pone una chiara gerarchia valoriale e "qualitativa".

P.s
La «direzione piuttosto chiara» che mi sembra si stia compiendo (magari sbaglio) è la "retrocessione" da una divinità esclusiva, legiferante e giudicante (quest'ultima più in occidente), ad una vaga, silenziosa e trasversale (magari persino ammiccante alla quantistica?). Salvo corsi e ricorsi storici, il prossimo passo suppongo sia una divinità così relativizzata da essere non più essenzialmente divina, ma solo una metafora, una "nostalgia ontologica", in una parola «assente».