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Messaggi - Phil

#1066
Tornando in topic, mi sembra che ogni religione sia piuttosto esplicita riguardo il proprio posto nella gerarchia rispetto alle altre: il primo comandamento, il primo pilastro dell'Islam, il primo gioiello del triratna buddista, etc. lasciano poco spazio al relativismo e al «secondo me» dei fedeli.
Come ricordatoci indirettamente da paul11, mentre le costituzioni umane hanno necessariamente un limite geografico e possono essere modificate, quelle divine si (auto)presentano come ecumeniche e as-solute nel tempo. Con quale diritto dunque gli umani ministri del dio potrebbero proporre una "riforma costituzionale" dei comandamenti dettati direttamente dalla divinità? Può l'uomo metter la sua parola sopra quella del dio e forzare un'esegesi relativista del primo comandamento?
Il percorso (post)religioso mi sembra avere una direzione piuttosto chiara: nel tentativo di attualizzare le religioni, di renderle più compatibili con la globalizzazione culturale, se ne stanno indebolendo i fondamenti dottrinali (con annessa valenza veritativa), senza i quali la religione diventa un'(est)etica esistenziale.
#1067
Per gli atei è certamente così, ma per i credenti meno... anzi, direi piuttosto che per i credenti sono proprio quei due concetti a velare «il fondo ineludibile del relativismo religioso»(cit.): chi vede quei due concetti come "pieni" di senso, non può scorgerne il fondo-fondamento, perché esso ne resta coperto; chi li nega, come gli atei, rimuovendo tali concetti dalla propria prospettiva, può vedere cosa c'è sotto (il fondo ineludibile del relativismo religioso); chi ora li relativizza, realizzando che non sono inamovibili come sembra(va)no, inizia ad intravvedere che c'è qualcosa al di là di tali concetti, ovvero il loro fondamento (più solido di ciò che lo copriva) quantomeno storico e cultural-geografico.
Che anche alcuni credenti o addirittura rappresentati religiosi inizino a relativizzare, intravvedere il fondamento "debole" e non esclusivo delle rispettive religioni, è ciò che per me costituisce la novità di questa nostra epoca (post)religiosa (e, ciò detto, direi che per essere in «tematiche spirituali», abbiamo letteralmente toccato il fondo... fondo staccandosi dal quale è tuttavia possibile qualunque, infalsificabile, intima, vertiginosa ascensione).
#1068
Citazione di: baylham il 17 Settembre 2020, 15:40:49 PM
Il relativismo religioso non è una caratteristica di questa epoca storica, è un dato di fatto di qualunque epoca storica, di qualunque religione.
Il relativismo religioso, inteso come relativismo dei religiosi (più che delle religioni), è per me distintivo della nostra epoca se considerato, come specificato sopra, «fuori dalla prospettiva atea» (autocit.), per la quale è invece un relativismo vecchio come l'uomo.
Detto altrimenti, non so quanto, nei secoli scorsi, sia risultato compatibile con la proposta religiosa, più o meno ufficiale, il discorso sul pluralismo, sui denominatori comuni, sull'"orizzontalità" del credere, etc. la novità di oggi mi pare sia che anche alcuni "credenti" (come ho detto scherzando ad Eutidemo) "ci vanno pesanti" con il relativizzare e pluralizzare la religione (talvolta più degli atei), facendone più una questione di inerzia culturale e di opinione personale (doxa) piuttosto che di Verità, rivelazione, trascendenza, etc. Se prendiamo il concetto di «dio» e gli togliamo le suddette caratteristiche, facendone un amorfo feticcio di creta ab-solutus da ogni tradizione, plasmabile a seconda della cultura del tempo, delle suggestioni individuali e di una mutevole doxa, viene meno anche la profondità del concetto di «fede» (una volta considerata conditio sine qua non dell'adesione autentica ad una religione). Piuttosto che "mutilare e straziare" questi due concetti a suon di graduali relativizzazioni, forse è meno "cruento" negarli apertamente "senza farli soffrire troppo" (anche perché l'esito ultimo, a lungo termine, mi pare sia tendenzialmente quello).
#1069
@Eutidemo

Pur citandoti molto, avrai notato che mi sono espresso in generale circa "il credere" e "l'affermare", perché non intend(ev)o "fare le pulci" alla tua visione personale del mondo, ma piuttosto usarla come spunto e pre-testo per riflettere sul relativismo religioso. Tuttavia non posso che riscontrare nel tuo ultimo post una esaustiva sinossi sull'apostasia contemporanea che, suo malgrado, delegittima ogni religione "istituzionale" (andando quindi ben oltre lo scopo delle mie circostanziali riflessioni). Hai snocciolato tutti argomenti su cui, in generale, concordano gli atei, mentre sono oggetto di censura per i ministri dei vari culti (quelli principali, almeno): il non credere, non essendo un'autentica scelta, non dovrebbe essere peccato (assolvendo atei e miscredenti vari e responsabilizzando Dio riguardo il "chi crede in cosa", ovvero Dio diventa colpevole della non-credenza quindi non-redenzione altrui); la constatazione del rapporto immanente fra cultura, geografia e credenze (con tutto ciò che vi è implicito); la differenza fra credere in un dio e l'esser certi della sua esistenza (e delle sue qualità, escludendo comunque l'antropomorfismo e l'"antropopatetismo"); il disconoscere l'attendibilità delle rivelazioni divine, degradando il verbo celeste a eventuale oggetto di "citazione di seconda mano" (tramite intermediario) tutta da verificare; la (assenza di?) oggettiva constatabilità degli assunti religiosi come denominatore comune a tutte le religioni; il suggerire una distanza critica dai dogmatismi in favore di un "credere ma non troppo"; la dimensione umana come doxa (anche se l'assegnare l'aletheia agli dei contraddice tutto il resto e mortifica l'episteme). Praticamente hai redatto un sintetico "breviario per apostati", tanto rispettoso delle religioni e delle credenze individuali, quanto spietato nel minarne le fondamenta di senso e verità.
Pur condividendo, da ateo, i contenuti e la tua onestà intellettuale, ho l'impressione che, essendo pur sempre nella sezione «tematiche spirituali», tu ci sia andato un po' troppo pesante nell'esplicitare il mutamento "filogenetico" della sensibilità (post)religiosa contemporanea: dal monoteismo del Dio unico al politeismo "compatibilista" (più che relativista) dei vari genius loci, scalabili fino all'individualismo del "dio secondo me" (dunque ad un passo da quello che ho chiamato "ateismo sotto copertura").
#1070
Tematiche Filosofiche / Re:I postulanti dell'Assoluto
17 Settembre 2020, 11:05:25 AM

Citazione di: johannes il 17 Settembre 2020, 00:26:48 AM
A quale tipo di interpretazione sufficiente rimanderebbe cioè una prassi svincolata da ogni previa preoccupazione fondativa?
Consideravo implicito, data la sezione del forum in cui siamo, che la prassi etica non fosse da intendere come l'agire frivolo e impersonale del «si dice» o del «così si usa». Proprio la preoccupazione fondativa pone il problema di collaudare e comprendere i fondamenti che stiamo usando mentre li stiamo usando, nel-mondo e con-gli-altri. Nondimeno, indugiare nel (cercare di) dipanare il fondamento ontologico, come dimostra proprio Heidegger, ostacola la fondazione di un'etica che sappia tradursi in prassi: pensare l'etica a partire dall'ontologia comporta l'irretire ogni possibile fondamento etico nelle problematiche ontologiche, ottenendo piuttosto uno sfondamento (nichilismo docet) che apre al poetante, ma chiude al praticante.
Nella destinalità dell'essere, nella quadratura fra «cielo / terra / divini / mortali», nel dimorare, etc. un'etica può dirsi e può darsi, ma stenta, secondo me, ad esplicitarsi fruibilmente in vista di una prassi. Nel frattempo, qui ed ora, l'interrogazione dell'altro (doppio genitivo) richiede un piano etico, approntato inevitabilmente (parafrasando Neurath) usando ciò che abbiamo "a bordo", non ciò che sarebbe ideale o "definitivo" avere.


Citazione di: johannes il 17 Settembre 2020, 00:26:48 AM
Il problema dal mio punto di vista credo resti quello di scongiurare proprio quel circolo ermeneutico infinito e abissale (profano-kairologico, "c(h)orale" come tu dici) nel quale convivrebbero nella sua possibilità tanto un Levinas che un marchese De Sade (per i quali l'alterità, sebbene soggetta  a semantizzazioni differenti, sarebbe da dirsi per entrambi radicalmente trascendente ogni logos).
Levinas, De Sade e altri (fra cui noi?) hanno "circolato" (e circolano) "nonostante" la quadratura di Heidegger, non come orizzonti possibili, ma entrambi come messaggio/invio-di-senso e (per qualcuno) prassi, fondati sul rispettivo (tauto)logos. Per poter «scongiurare»(cit.) ciò che essi hanno messo in circolo nell'ethos, sotto il cielo di qualunque trascendenza o Essere, è ormai tardi, si è perso l'attimo-giusto (ancora kairos): la loro Wirkungsgeschichte è già innescata da tempo e questo nostro stesso discuterne la alimenta. Se i loro discorsi convivono nel circolo (ovviamente senza confondersi), è proprio perché l'agognata "normatività metaetica a base ontologica" è assente, come gli dei di Holderlin che, nella loro fuga fra «non-più» e «non-ancora», hanno portato via con loro anche i fondamenti più affidabili della metafisica.
#1071
Citazione di: Eutidemo il 17 Settembre 2020, 06:59:45 AM
A prescindere da quello che uno "crede" o "non crede", non c'è dubbio che le religioni siano oggettivamente "relative" alla regione geografica di riferimento
Proprio questo "prescindere dal credere" è peccato per tutte le religioni (se non sbaglio); peccato che, stando alla cartina del rapporto credere-abitare, è controfattualmente inevitabile e quindi parrebbe falsificare la pretesa veritativa di ogni religione.
Affermare che «"tutte" le convinzioni religiose (compresa la mia) hanno un valore relativo al popolo e/o alla singola persona che ci crede» è da "ateo diplomatico" (consapevole o meno) poiché comporta che «si tratti di una verità che ha origine in noi più che nella religione stessa, ovvero che siamo noi ad investire la religione scelta della sua verità»(cit.) il che innesca un circolo vizioso con il fatto che «esse divengono un vero punto di riferimento esistenziale che detta il senso del nostro esistere, della nostra morale»(cit.), poiché significa ammettere che il proprio punto di riferimento, la propria religione, rivelandosi appunto relativa-a-me, non è veritiera, ma autoprodotta (seppur prendendo libero spunto dalla tradizione) e plausibilmente sullo stesso piano delle altre (prospettiva inammissibile per qualunque culto religioso rivelato).

Affermare che tutto ciò «nulla toglie al valore epistemico delle varie singole "fedi" per chi ci crede»(cit.) significa rinnegare il valore intersoggettivo (e metodologico) di ogni episteme: se, come detto, sono io a conferire verità ad una credenza, tradendone le essenziali ambizioni monistiche e veritative, non credo si possa parlare di valore epistemico, poiché siamo in piena doxa, relativa e soggettiva.
"Relativismo religioso" è, fuori dalla prospettiva atea, una contraddizione in termini. La nostra epoca storica, proprio basandosi sulle riflessioni che hai proposto (la cartina, il plusvalore apparente, la verità che va dal soggetto al culto e non viceversa, etc.) si sta dimostrando, forse suo malgrado, abitata da numerosi "atei sotto copertura" (filosoficamente parlando) che stanno al gioco delle religioni, ma cambiandone così tanto le regole essenziali che ormai è tutto un altro gioco (pur usando ancora il vocabolario del vecchio gioco).
#1072
Nel momento in cui si «sceglie» o si «preferisce» una religione, si è già immersi nel relativismo "religioso" fino al collo; nel senso che la testa ne è fuori e può ingannevolmente affermare «non sono nel relativismo», come se fosse un'entità staccata e autonoma rispetto al resto del corpo ben immerso. Se la religione ha un contenuto di verità (altrimenti è solo un gioco di società), non può essere scelta a piacere come un libro in un catalogo; poiché le verità autentiche non si basano su criteri preferenziali, al massimo si constatano, volenti o nolenti. Se attribuiamo la "verità religiosa" a una religione a scelta, si tratta di una verità che ha origine in noi più che nella religione stessa, ovvero siamo noi ad investire la religione scelta della sua verità (suona un po' come se fosse un ateo a valutare le differenti religioni per decidere a quale "tesserarsi"). Il valore di tale "verità assegnata d'ufficio" è quindi ben al di qua del relativismo, non al di là dell'umano. Si tratta per me di un meccanismo adeguato a scegliere una squadra da tifare, piuttosto che un vero punto di riferimento esistenziale che detta il senso del nostro esistere, fonda una morale, etc.
Non posso davvero scegliere una religione perché la considero vera, poiché se la ritengo vera allora è in fondo una non-scelta: se cerco la verità, potrei scegliere di seguirne un'altra pur sapendo che è falsa? Dovrei tuttavia sapere perché è vera, a discapito delle altre: l'epistemologia serve a poco in questo caso e fuori dalla petitio principii mi pare che nessuna religione si autogiustifichi razionalmente.
Se invece scelgo una religione senza considerarla "vera in sé" (vera a prescindere dalla mia scelta), allora non può "funzionare" davvero come religione, perché priva di intrinseca verità (quindi: ateismo dissimulato o inconsapevole); se la scelgo per criteri come il comportamento dei suoi praticanti (giudicati secondo i valori di quale religione?), la storia della sua dottrina, la sua estensione geografica, etc. significa che essa non ha un "plusvalore" di verità rispetto alle altre, perché se l'avesse tali fattori risulterebbero ininfluenti al cospetto della Verità (quindi: relativismo, quasi un ateismo diplomatico); se la ritengo vera a posteriori solo perché l'ho scelta, significa che chi ne sceglie un'altra, in fondo, ha ragione quanto me, se la verità si basa soltanto sul credere vera la religione che si sceglie (siamo ormai fuori dalla teologia e entriamo nella psicologia).
Quale religione allora? Quella pedissequamente tramandata da chi ci abita intorno? Quella universale dei denominatori comuni a tutte le religioni? Quella apofatica? Quella panteistica? Se volessimo decidere, dovremmo avere dei criteri con cui scegliere; tuttavia se scegliamo basandoci su criteri umani, nel momento in cui... [tornare all'inizio del post]
Le vie d'uscita da questo "circolo relativista" sono note da secoli: fede, intuito mistico, "sentire" la verità, etc.
#1073
Tematiche Filosofiche / Re:I postulanti dell'Assoluto
15 Settembre 2020, 18:16:20 PM
L'essere-per-la-morte è una consapevolezza che rende autentico il vivere, ma una consapevolezza povera di prassi, almeno rispetto all'essere-con-gli-altri, che è il luogo in cui avviene il domandare etico, nella sua performatività sociale e nella sua responsabilizzazione individuale. Della morte ci si può anche non curare, mentre degli altri... è una questione appunto eminentemente etica.
Il tempo dell'etica pulsante (e pulsionale), quella fatta dagli uomini e non quella (ri)vendicata dagli (eventuali) dei, mi pare non possa che essere (salvo varcare la fidata soglia dell'epistemologia) proprio il kairos, l'attimo della decisione e dell'azione. Tempo umanamente presente (e pressante) che rimanda agli dei la responsabilità di stabilire nel/dal cielo la sorte chronologica dell'umano. Che tale kairos sia «fatalmente ricondotto a Chronos dominante se non ottiene il crisma dell'eterno»(cit.) è un meccanismo la cui fatalità andrebbe forse indagata e "sfatata" nei suoi presupposti metafisici, quelli della nostalgia della trascendenza, del crisma-redenzione, etc.

Alla radice, dipende da come si pensa (riflessivo) l'uomo: crede il proprio kairos etico incastonato nell'aion temporale (e non secolare) della trascendenza giudicante e ingiudicabile, oppure considera il proprio kairos etico fondato sull'ideale normativo del "come se dovesse poter essere così in eterno", pur nella consapevolezza antropologica e storica dell'immanenza di ogni "meridiano zero"?
Chiaramente ciascuno dei due kairos non vale l'altro, né con-gli-altri né per-la-morte; proprio come l'esser bilancia (Protagora) non vale l'esser funambolo sotto il giogo di una bilancia. Forse il denominatore comune resta solo quella lama che intaglia la chora, arrivando prima o poi a recidere ogni uomo-bilancia e ogni uomo-funambolo, ma è un orizzonte in cui il domandare etico si è già "risolto", facendosi silenzio c(h)orale.
«Quale ethos?» non è dunque una domanda etica, piuttosto metaetica o esistenziale, in piena circolarità ermeneutica dell'esistenza.
#1074
Sulla questione del rapporto fra filosofia citata e filosofia fatta, in aggiunta a quanto già osservato in altro topic, mi piace ricordare ciò che un filosofo scrisse in una prefazione di un suo famoso testo:
«In che misura i miei sforzi coincidano con quelli d'altri filosofi non voglio giudicare. Ciò che qui ho scritto non pretende già d'essere nuovo, nei particolari; né perciò cito fonti, poiché m'è indifferente se già altri, prima di me, abbia pensato ciò che io ho pensato» e continua: «Solo questo voglio menzionare, che io devo alle grandiose opere di Frege ed ai lavori del mio amico Bertrand Russell gran parte dello stimolo ai miei pensieri».
Il breve ma denso testo che segue queste frasi è una fulgida dimostrazione di come la filosofia "professionale" non consista nel guardare la volta stellata, grattarsi la barba e formulare un'opinione ben argomentata preceduta da uno schietto «secondo me...» (stereotipo già smentito dai dialoghi socratici, ben prima delle enciclopedie online). Tale attività può ben essere definita ragionare, riflettere, etc. ma fare filosofia, il filosofare, oggi, secondo me1 presuppone in primis farsi carico dell'eredità culturale sedimentata in pensieri e concetti già espressi, perché filosofare è attività sociale, ma prima di esserlo con i contemporanei lo è con chi ci ha preceduto.
Ciò ovviamente non significa che sia necessario leggere e comprendere tutta la filosofia scritta in precedenza, prima di poterne produrre altra; tuttavia conoscerne almeno le basi o solo una parte, fosse anche la più recente e/o settoriale, garantisce quel minimo confronto concettuale che evita al pensatore di implodere nel soliloquio autoprodotto e autoreferenziale, come invece accade ad esempio in poesia; disciplina che non a caso rientra nelle arti e non nelle scienze umane (per quel che vale, attualmente il corso di laurea in filosofia è stato ribattezzato talvolta «scienze filosofiche»).

Ciò è solo una mia opinione? Lascio la risposta a chi ha un po' di dimestichezza di come funzioni la filosofia come disciplina (e il fare filosofia come il praticare una disciplina), da non confondere con il ragionare come attività trasversale e interdisciplinare.
Esemplificando: sarebbe come se, digiuno di filosofia, affermassi di aver il fondato sospetto che, al di là di tutti punti di vista, ogni oggetto abbia una sua dimensione di esistenza che fonda tutte le percezioni, ma che tale dimensione non sia a sua volta esaurientemente percepibile sincronicamente, ma solo postulabile seppur necessaria. Per quanto tale concezione della realtà possa essermi venuta genuinamente senza influssi esterni, ma solo riflettendo, osservando, speculando, argomentando, etc. se la propongo in un forum (lasciamo stare ad altre "altitudini") come mia riflessione filosofica, non credo che la suddetta citazione basterebbe a tutelarmi da (nella migliore delle ipotesi) prevedibili "consigli di lettura kantiana o fenomenologica" che potrei ricevere all'unisono da imberbi liceali (che magari non fanno filosofia, me ne sanno riconoscere gli "strumenti del mestiere"). Nel mio "vocabolario", resterò ottimisticamente convinto d'aver comunque "fatto filosofia", quando probabilmente, detto con un altro vocabolario, ho solo riflettuto (o sono solo nato troppo tardi).


1Affermare che secondo me la filosofia non si basa sui "secondo me" nati da riflessione extradisciplinare, sarebbe contraddittorio se tale giudizio fosse proposto come filosofico o se non si specificasse il tipo di «secondo me» in questione; tuttavia il contenuto dell'affermazione è la demarcazione della disciplina, demarcazione in apparenza non avvenuta filosoficamente, quindi (pur avendo per oggetto la filosofia) non è un'affermazione in sé filosofica (e dunque non è incompatibile con un estemporaneo «secondo me»).
Se anche la intendiamo come un'affermazione filosofica (con buona fede verso il ragionamento che potrebbe avere alle spalle), è un'affermazione di filosofia-sulla-filosofia, quindi un'affermazione metafilosofica, in cui la distinzione in "livelli" rende possibile distinguere un piano opinabile (quello del «secondo me la filosofia...») da quello dell'oggetto dell'opinione (il piano del «la filosofia del "secondo me"...»), senza alcuna antinomia. E "grazie per aver scelto la nostra compagnia aerea".
#1075
@atomista non pentito

Hai certamente toccato un tema importante: come detto, l'identificazione dell'interlocutore è fondamentale affinché il dialogo funzioni. Spesso qui si commenta un po' a ruota libera, senza un interlocutore specifico, quindi non si autocensurano le conoscenze che si ritengono utili alla propria argomentazione; tuttavia quando un interlocutore si espone e fa domande precise, cercare la chiarezza nel rispondere (se si decide di farlo) fa parte dell'"etica del discorso".
Se si usano toni un po' più settoriali è dunque tutta una questione di ostentare citazioni e nozioni, di complicare il semplice e di infarcire l'essenziale? Purtroppo o per fortuna, non sempre. Augurandomi sinceramente che il post #52, rivolto a te, sia risultato limpido e "commestibile", riprendo come esempio il messaggio #58 a johannes: se avessi dovuto spiegare e semplificare tutti i riferimenti usati (vedi argomenti che ti ho elencato), probabilmente avrei scritto un raffazzonato saggio di maldestra filosofia, non un post da una quindicina di righe in un forum. Sono qui per dare indegnamente lezioni divulgative su quegli autori e quelle correnti? Sicuramente no. Resta possibile comprendere il mio post senza quelle conoscenze e quei richiami? Principalmente no: l'indicibile di Wittgenstein, la decostruzione di Derrida, il contrasto fra esistenzialismo e neopositivismo, sono (oltre ad essere temi dalla sterminata bibliografia) prerequisiti fondamentali per accedere al senso di ciò che ho scritto (altrimenti è solo un post in cui parlo confusamente del tacere e del dire, fra un doppio genitivo, una scala e qualche parola in greco). Mi aspetto che chiunque capisca esattamente cosa ho scritto? Certamente no; forse l'interlocutore, forse nessuno; quella è solo la mia opinione espressa in un compromesso fra sintesi spaziale e profondità concettuale.
In fondo il primo lettore (si spera non l'unico) per cui scriviamo siamo noi stessi quando rileggiamo ciò che abbiamo scritto, perché scrivere, se anche non riesce a comunicare esaustivamente con gli altri, spesso aiuta almeno a chiarirsi le idee.
#1076
@viator

Credo concorderai che per una comunicazione efficace sia imprescindibile adeguare il linguaggio all'interlocutore e al contesto. Il post #52 in risposta ad Atomista ha infatti uno stile comunicativo (densità concettuale, linguaggio specifico, riferimenti, etc.) piuttosto differente rispetto al #58 in risposta a johannes; due interlocutori che si presentano differenti per familiarità con l'argomento, pur nel medesimo contesto, richiedono risposte con stili differenti. Quando una risposta non è rivolta direttamente ad un interlocutore in particolare, credo sia spontaneo e ragionevole usare il proprio "stile automatico".
La questione del contesto non è tuttavia meno influente: se fossimo in una sezione intitolata «filosofia per tutti» («for dummies» se mi passi il riferimento ad una nota serie divulgativa) o «filosofia semplificata», chiaramente sarebbe opportuno usare un linguaggio non troppo specialistico e mantenere una "quota" adeguata. Logos, se non erro, non si (pro)pone con chiari limiti qualitativi (per fortuna?), quindi, di tanto in tanto, concedersi la licenza di (provare a) alzare un po' la quota credo sia uno dei divertissement (Pascal; almeno un autore dovevo citarlo, no?) concessi dalla partecipazione al forum (con la connivenza del regolamento).

Se qualcuno fosse qui per insegnare, sarebbe lieto di dedicare «qualche minuto (facciamo alcune decine di migliaia)»(cit.) a semplificare e/o spiegare teorie ed autori; se qualcuno fosse qui per imparare si augurerebbe di poter avere indicazioni su teorie ed autori a cui dedicare tali minuti; se qualcuno è qui né per insegnare né per imparare, ma solo per riflettere e/o parlare con/su ciò che non richiede troppi minuti, allora temo non potrà aspettarsi di poter capire tutti i post presenti in questa sezione. Come dire: se nel fai-da-te si vogliono usare solo strumenti che non richiedono la lettura delle istruzioni per l'uso (lettura che può durare appunto alcuni minuti), allora sarà meglio prediligere l'uso di martelli e pinze (solitamente sprovvisti di tali letture introduttive), ma stare alla larga da stampanti 3d o software di progettazione, che richiedono i famigerati minuti di (pre)comprensione per essere utilizzati adeguatamente.

Riguardo la "soluzione alternativa" che proponi, non entro nel merito se sia più "utile" imparare qualcosa di nuovo-ignoto (il suddetto glossario con annessi concetti; qui non è solo una questione di "paroloni", ma semmai di "concettoni") oppure semplificare il vecchio-noto (per renderlo più digeribile ai passanti), né con quale delle due aspettative (ce ne sono anche altre, ovviamente) sia più avvincente accostarsi alla sezione «Tematiche filosofiche» di un forum di un sito che si chiama «Riflessioni». D'altronde, «stretta la soglia, larga la via...».
#1077
Citazione di: atomista non pentito il 12 Settembre 2020, 21:53:49 PM
Cosi' pero' "volate troppo alto" per le mie possibilita' ........  peccato , stavo imparando qualcosa ma mi sono perso ( ovviamente mia carenza)
L'eventuale differenza "altimetrica" è colmabile partendo dallo stabilire un glossario comune; per fortuna la ricerca di autori e concetti è oggi facilitata dalle varie enciclopedie online e dai motori di ricerca. Ad esempio, riferendomi al mio ultimo post, i riferimenti della "mappa concettuale" per non perdersi sono: Kierkegaard (Johannes Climacus e Johannes de Silentio), Wittgenstein («scala», «indicibile»), Heidegger (esistenza/insistenza, «nullo fondamento», «gettatezza»), chronos/aion/kairos (basta wikipedia), neopositivismo (Carnap e altri), decostruzione (Derrida), ermeneutica filosofica.
#1078
Tematiche Filosofiche / Re:I postulanti dell'Assoluto
11 Settembre 2020, 23:14:35 PM
Wittgenstein, parlandoci di una scala (Climacus) che ci porta a riflettere sul silenzio (de Silentio), resta al di qua della soglia fra il dicibile e l'indicibile; tuttavia l'altro, la società o magari anche la nostra coscienza (come autodeterminazione e autocomprensione), ci richiedono insistentemente un discorso etico; dal quale, anche volendo, non è facile sradicarsi, essendovi connaturati sin dal concepimento.
Nel rispondere da «postulanti», oltre a farsi eticamente carico del proprio dire (e conseguente fare) bisogna anche farsi carico, più o meno silenziosamente, del fondamento di tale postulazione. Seppur si tratta di un «nullo-fondamento», la postulazione non sarà nulla o annullata, perché trarrà il suo senso non dall'assolutezza del (fantasma del) suo fondamento, bensì dall'esigenza del suo esser risposta all'interrogazione dell'etica (doppio genitivo). Risposta provvisoria e debole, ma comunque ponte di dialogo con l'altro, senza il quale non c'è etica; o meglio, non potendo stare senza l'altro, è l'etica a non tollerare il tacere (al punto che viene anch'esso prontamente categorizzato come scelta etica).
Più che in chronos o in aion, secondo me la contemporaneità indugia nel kairos annichilito e autoreferenziale, radicato nell'escatologia della gettatezza quotidiana, rimbombante nella globalità della micronarrazioni e dei sincretismi culturali. Le grandi narrazioni etiche, proprio dopo Wittgenstein, Carnap e altri, sono state ridimensionate (e relativizzate) per aver commesso il "peccato" di voler dettare l'indicibile, e dicendolo ("tradendolo") lo hanno esposto fatalmente alla decostruzione ermeneutica.
#1079
Scienza e Tecnologia / Re:Bob e Alice che stanno dicendo?
11 Settembre 2020, 12:25:56 PM
«Acquaintance» significa «conoscenza» nel senso di familiarità, sia nel senso di essere un familiare o un conoscente, sia nel senso di avere dimestichezza ed esperienza di/con qualcosa; in filosofia il concetto è solitamente contrapposto a «descrizione», in ambito gnoseologico (as es. Russell distingue «conoscenza per descrizione» e «conoscenza diretta-acquaintance», intesa come evidenza empirica non inferenziale, apodittica).
L'"acquaintance" (virgolettata perché richiederebbe una coscienza, una mente, etc.) umanamente indotta in GPT-3 non può che essere quella dagli stereotipi e del comun parlare (cosa c'è di più demoscopicamente familiare?). GPT-3 non ha "filtro critico" quindi viene inevitabilmente (sovra)alimentata dalla ridondanza mediatica, dalla ricorrenza statistica di alcuni temi e approcci; l'AI rischia quindi di ritrovarsi a (ri)elaborare discorsi emotivi più che razionali, cliché culturali piuttosto che analisi sistemiche, "euristiche della pancia" piuttosto che disamine ponderate.

A suo modo, GPT-3 è l'algoritmo che calcola la mediocrità umana elevata alla potenza di wikipedia.
Anche se delle volte sa andare ben oltre; le ho chiesto cosa ne pensa del Covid-19 (cliccare sull'immagine per ingrandirla):

Direi che se anche GPT-3 supera il test di Turing, per quello di cultura generale non è ancora pronta: nonostante il Covid-19 sia una presenza abbastanza virale in rete, qui viene inteso come un robot che svolge funzioni domestiche, necessita di cibo e acqua(!) ed è protagonista di un impiego crescente da cui gli umani sono dipendenti. La stessa GPT-3 "consiglia" agli umani di «riprendere il controllo delle proprie abitazioni ed essere motivati nell'imparare attività basilari come cucinare, pulire e accudire». O GPT-3 sta citando una pagina di un libro di fantascienza (che abbia confuso Covid-19 con C3-PO di Guerre Stellari?) o ci sta ammonendo profeticamente sui rischi della domotica avanzata; di certo non sta parlando del Covid (che abbia appreso anche ad andare fuori tema o abbia addirittura già dei lapsus freudiani?).
#1080
Scienza e Tecnologia / Re:Bob e Alice che stanno dicendo?
10 Settembre 2020, 00:01:33 AM
@Jean

Le macchine basate sul linguaggio sono da sempre incentrate sulla memoria; in fondo, un antico e basilare "macchinario" portatile per archiviare la "sua" memoria è tutt'ora pervasivo della nostra vita e società: il libro. Saltando dalla carta alla memoria informatica, se essa diventa deterministicamente condizionante il comportamento di un'AI, ciò conferma ancora una volta che l'AI procede in modo deterministico, non indeterministico sulla falsa riga del (presunto) libero arbitrio umano.
L'AI esegue i suoi processi linguistici ed aggiunge alla sua memoria le interazioni che di volta in volta ha con umani, oggetti, etc. proprio come l'uomo; tuttavia l'uomo dà un senso a tali vissuti, non sono solo dati archiviati, recuperabili e combinabili, ma hanno un referente nel mondo esterno ed hanno un eco nella coscienza e nelle reazioni neurologiche; in breve, sono dati interconnessi ad una coscienza.

Riprendendo la domanda del mio ultimo post, ho davvero provato a domandare a GPT-3 «che cosa vuoi, adesso?» e, sebbene sia esplicitamente dichiarato che «è solo un modello di linguaggio che genera predizioni per cosa potrebbe esser detto in seguito» e che «imita opinioni», GPT-3 ha bluffato parlando in prima persona, rispondendo con stereotipi umani che dimostrano la sua tanto vasta quanto incosciente ars combinatoria (cliccare sull'immagine per ingrandirla):


P.s.
Come osserva Mark O. Riedl «il test di Turing non è fatto per essere superato dall'AI, ma per essere fallito dagli umani».