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Messaggi - Phil

#1081
Tematiche Filosofiche / Credete nel libero arbitrio?
03 Gennaio 2021, 16:31:19 PM
@Alexander
Il libero arbitrio (oggetto del topic), se inteso come libera volontà, credo non vada confuso con la libertà in generale né con quella di movimento (essendo l'arbitrio non necessariamente applicabile, ma un "atto interiore" della volontà): se la "gazzella Ornella" (giusto per parlare di una gazzella specifica), decide di affrontare il leone, la sua volontà poteva spingerla a non affrontarlo, oppure era inevitabile che quella specifica volontà di quella specifica gazzella in quella specifica situazione la spingesse a quello specifico gesto (quindi senza libera scelta)? Questo è il terreno in cui si gioca la partita fra le ipotesi di determinismo, libero arbitrio, determinismo parziale, libero arbitrio determinato, etc.
Non capisco perché si tratterebbe di risalire al Big Bang: ho parlato di volontà in termini individuali che, come spiegato, non consentono un regresso all'infinito o simili; chiedersi il come decida la volontà, il perché sceglie x e non y (bene/male, gelato/granita, etc.), non ha a che vedere con infinite catene causali, piuttosto con meccanismi di "coscienza" (chiamiamola così) di cui si può ipotizzare o meno un coefficiente di libertà individuale (non cosmica), che andrebbe argomentato non a partire da un paradigma che già lo presuppone (come ad esempio quello teologico o quello etico classico).
Ovviamente non ho in tasca risposte definitive in merito, ma credo ci siano almeno gli estremi per sollecitare ed interrogare la prospettiva consueta (per quanto ciò possa risultare destabilizzante), chiedendosi quale sia l'effettiva libertà di cui parla il libero arbitrio (come già anticipato: se con ciò si intende solo che una volontà non è assoggettata da altre volontà, non si può non essere d'accordo, ma è tuttavia un modo per non affrontare la questione di cosa condizioni/costituisca ciò che chiamiamo «volontà», la cui risposta non è nel brodo primordiale, ma più verosimilmente nel liquido cerebrospinale individuale).


P.s.
@Donalduck
Affermare che «la volontà vuole» o che non può autocondizionarsi, non mi pare comporti un regresso all'infinito (quale?): uso il verbo «volere» semplicemente per individuare l'attività della volontà; se preferisci si può usare, ad esempio, la forma «io voglio», sebbene più che parlare di «io» mi sembra pertinente parlare nel dettaglio di «volontà» (anche se capisco risulti talvolta più ambiguo). Il chiedersi come funziona (v. sopra e post precedenti) credo sia, opinione mia, una questione sensata (seppur forse troppo ostica), tanto quanto chiedersi come funzionano la psiche o la libido o altri fattori "mentali" che condizionano le nostre azioni.
#1082
Tematiche Filosofiche / Credete nel libero arbitrio?
03 Gennaio 2021, 14:49:10 PM
Citazione di: Ipazia il 02 Gennaio 2021, 22:33:10 PM
Avvitarsi in tutto quello che è premessa della scelta implica una regressione infinita scontata, che nessuno contesta, ma che non inficia l'attimo autogeno della scelta quando vi siano più opzioni possibili.
Più che "avvitarsi", si tratta di "svitare" il giocattolo per vedere come funziona; la regressione infinita (anche @Donalduck) non credo sia applicabile alla volontà (e alle sue scelte): sia perché non propongo di riflettere sul «voler voler volere...»(?), ma sul rapporto meccanicistico fra volere e sua presunta libertà, sia perché, essendo la volontà individuale, non può andar oltre la nascita dell'individuo (ovunque decidiamo di metterla dopo la fecondazione, ma non prima, reincarnazioni a parte). L'autogenesi è invece espediente teoretico autoconfutante (se applicato alla singolarità): una scelta non può generare se stessa, perché per farlo dovrebbe già esistere, né può nascere dal nulla, e se nasce dalla volontà, restano aperte tutte le domande che ho postato (soprattutto se la si vuole etichettare come «libera» scelta; salvo delimitare tale "libertà" all'ovvietà che ogni volontà spinge verso ciò che vuole e nessuna altra volontà può costringerla a volere ciò che non vuole, il che renderebbe, ancora una volta, «libertà» una parola magica, più retorica che "di contenuto").

Che una scelta presupponga necessariamente libertà (da ritagliare ad hoc fra mille condizionamenti) è il nodo della questione pro/contro determismo, che chiama in causa la lettura classica dell'agire umano (un "lock-in" della filosofia occidentale); sbrigare tale questione facendo appello a questioni morali o interpretazioni storiche, rovescia il rapporto fra il fondato e il suo fondamento (fra il senso dell'interpretazione e il suo referente esterno); sarebbe come sostenere che un dio deve esistere (e non solo come concetto) altrimenti non avremmo avuto le chiese e/o non sapremmo più come usarle. Parimenti, da un punto di vista logico, non dovrebbe essere la visione "libertaria" (culturalmente consolidata) della morale a fondare/dimostrare retroattivamente la necessità di scegliere liberamente (@Jacopus), ma la possibilità di scegliere liberamente (qui in questione) a fondare il senso della morale comunemente intesa (tenendo comunque presente che il giudizio di valore può prescindere dalla causa del fatto: se la celeberrima gazzella sapesse che il leone, in quanto carnivoro, e non per sua libera scelta, non può fare a meno di cacciarla, probabilmente continuerebbe a cercare di sfuggirgli e a considerarlo una minaccia; parimenti, se anche chi compie il male non potesse fare altrimenti, ciò non toglie che il suo operato verrebbe comunque giudicato come male e quindi avversato, condannato, etc. ovvero nonostante la "difesa" di Gorgia, possiamo comunque biasimare Elena, sebbene, come detto, l'aspetto cruciale della questione non sia per me quello etico-giuridico che ne è, appunto, solo una conseguenza, per quanto rilevante).
#1083
Tematiche Filosofiche / Credete nel libero arbitrio?
02 Gennaio 2021, 21:55:28 PM
Citazione di: Donalduck il 02 Gennaio 2021, 17:56:15 PM
Quello a cui mi riferisco è la volontà. La volontà esiste perché la percepisco.
Se per libero arbitrio intendiamo libera volontà, c'è da chiedersi se (e come) ne "percepiamo" anche la libertà, e se una volontà possa essere non libera (ipnosi e altre "stregonerie" a parte), ed eventualmente rispetto a cosa (se "liberi-da" vien tenuto distinto da "liberi-di"). Si rischia altrimenti di imbattersi in un falso problema (la volontà, intesa in un certo modo, non può che essere libera) oppure in un falso mito (una volontà solipsistica ed autonoma rispetto al mondo); il tertium di una volontà condizionata in qualcosa e libera in qualcos'altro (oltre a "relativizzare" l'enfasi per tale libertà) raddoppia il campo d'indagine, forse senza poterlo nemmeno ancora ben discriminare.
Se constatiamo che la volontà non ha potere su se stessa (non posso non volere ciò che di fatto voglio, come non posso scegliere di credere a x, se in realtà non ci credo), significa che la mia possibilità di scelta è apparente e potenziale, ma non radicalmente autentica. Non sono libero dalla mia volontà, o meglio, la volontà non è ovviamente libera da se stessa (la cui libertà resta da chiarire): quel che farò. fosse anche il non votare citato da Alexander, sarà comunque una scelta della mia volontà ("libera"... da cosa?).
Persino voler accettare un condizionamento, con gioia o a malincuore, è una scelta/atto della volontà (la volontà vuole, ma fino a che punto sceglie e non, ad esempio, reagisce?). Si tratterebbe piuttosto di capire (se possibile) perché ho compiuto tale scelta e se fosse (deterministicamente) inevitabile.

Esemplificando (pazientate se ripeto l'esempio che credo d'aver proposto altre volte): se sono entrato in gelateria perché voglio un gelato, è davvero una libera scelta della mia volontà? Con quel caldo, quella disidratazione, quella fame, avrei potuto scegliere di andare a comprare invece una granita? La risposta più intuitiva è «ovviamente sì», poiché c'erano magari tutte le potenzialità e le condizioni per andare altrove. Tuttavia, allora perché la mia volontà ha scelto proprio il gelato? Rispondere appellandosi alla "libertà di scelta" è in fondo una non-risposta, perché significherebbe confondere la causa efficiente di un evento (il perché) con il plausibile contesto in cui avviene un evento (la presunta libertà); sarebbe come, di fronte alla domanda «perché si è bucata la gomma dell'auto?», rispondere con «perché l'auto aveva 10 anni» (l'età della macchina, vera o falsa che sia, non è la causa efficiente del buco, soprattutto se consideriamo che l'età dell'auto non implica necessariamente la pari usura delle gomme; una causa efficiente potrebbe essere invece un corpo tagliante sulla strada, che rende irrilevante la verità o meno dalla dichiarata età dell'auto).
Una volta sorto quel desiderio di gelato, ho agito di conseguenza, tuttavia, facendo un passo (crono)logico indietro, cosa ha orientato la volontà verso la (libera?) scelta del gelato? Un "colpo di dadi" della coscienza (che sarebbe comunque, a suo modo, una forma di determinismo), o stimoli visivi e olfattivi che hanno condizionato il mio inconscio, o altro? «La volontà stessa» non è una risposta adeguata, poiché qui chiedo (domandone!) il perché delle decisioni della volontà: che dalla volontà sgorghino le "scelte" è appurato, ma l'acqua che esce dalla sorgente-volontà, non nasce forse altrove, più nel profondo? E se non nasce altrove («ammesso e non concesso», direbbero alcuni psicologi, neuroscienziati e simili), che senso ha affermare che nasce "liberamente" alla fonte?
Per me resta difficile ragionare fuori da catene causa/effetto, poiché l'incausato-incondizionato è postulabile, ma non facilmente dimostrabile e attendibile; proprio come "il dio dei vuoti" di Drummond, la libertà forse funge da limite esterno della attuale conoscenza circa le dinamiche della volontà: oltre tale limite potrebbe esserci l'anima, o l'inconscio, o un software connesso in wi-fi ad alieni gamers, o altro. Intanto constatare che la volontà non deve alimentare necessariamente il mito "filosofico-populista" (non il parametro legislativo) della «libertà di volere» (che se non è mito, è almeno banalità in quanto condizione inevitabile), potrebbe essere, per quel che vale, un'emancipazione epistemica (libera volontà permettendo, ovviamente...).
#1084
Distinguerei il rabdomante, che ha buon gioco nel puntare il bastone in terra e profetizzare «scavate (voi), e troverete l'acqua» (frase che bignamizza le sua conoscenza), da chi quei pozzi li (de)costruisce e li "imbastisce" in prima persona, facendo attenzione, come detto, non al fatto che ci sia l'acqua (o il petrolio), ma al come e dove far scorrere ciò (il senso) che vi rintraccia.

Riverire gli intellettuali al posto delle celebrities avrebbe senso, per me, solo se le gente capisse qual è il contributo di un intellettuale (non certo quello di scrivere libri, ma semmai il loro contenuto), che è meno intuitivo e abbordabile del capire il contributo di twittare su rossetti e fondotinta, o incidere canzoni ascoltabili e fischiettabili in qualche minuto, o recitare in film diretti da altri, secondo copioni scritti da altri, etc. Mettere l'intellettuale in prima pagina può far parte di trend editoriali o essere una mossa di marketing; tuttavia se la scelta (per chi può) è quella fra ricordarsi di Kant soprattutto come quello che (vado a memoria) passeggiava tutti i giorni alla stessa ora sulla stessa strada, oppure come quello che ha scritto le tre critiche, è una scelta che, in questa sezione, scommetto molti sono in grado di fare evitando di subire troppo il fascino del gossip e delle copertine (senza riferirmi a te, ma in generale, direi che "valutare" un autore non avendone letto almeno qualche testo "impegnato" o almeno un po' di letteratura secondaria è, secondo me, una scommessa ingrata, verso se stessi e verso l'autore... specialmente se è di quelli asistematici e poliedrici).
Le domande poste da Socrate78 (il tema della decostruzione, il logocentrismo, etc.), se si volesse restare aderenti a Derrida, chiamano in causa alcuni temi meno banali di quanto possa sembrare, la cui adeguata sintesi "da forum" potrebbe non essere facile (per me non lo è di certo, infatti mi astengo dal provarci).
#1085
Derrida è uno degli autori che più ha dialogato con il linguaggio, ovvero avendo il linguaggio come interlocutore privilegiato: sollecitandolo, provocandolo, (s)forzandolo e (r)aggirandolo. La difficoltà di comprensione che ne consegue è principalmente quella che non consente di tracciare, nella sua riflessione, uno schema di assiomi dal contenuto perentorio, o un paradigma strutturato e "sostanziale" del suo pensiero (come avviene per i filosofi più "classici" e/o meno ermeneutici, che in ciò presentano un approccio più agevole poiché più sintetizzabile in stile Bignami).
L'attività di interpretazione e decostruzione che Derrida rivolge al(la storia del) pensiero filosofico occidentale non è la mera applicazione ridondante di categorie preimpostate o di un approccio univoco: tutti i differenti modi con cui Derrida stesso ha testualmente "definito" e praticato la decostruzione, dimostrano che la sua non è una filosofia che si presti a facili sintesi e categorizzazioni (a partire dal confronto con la fenomenologia di Husserl, di cui la decostruzione è "figlia degenere", fino agli sviluppi più sociopolitici).
Riprendendo l'immagine di InVerno, direi che l'abilità di Derrida non è nel riconoscere che in fondo al pozzo c'è l'acqua, ma nel sapere dove e come scavare pozzi che decostruiscano (non «distruggano») la rete di approvvigionamento idrico già esistente (v. metafisica), aprendo nuovi canali e nuovi flussi, permettendo così ulteriori "raccolti" (di senso). La tonalità ermeneutica del pensiero derridiano lo rende infatti quasi inscindibile dal double bind che lo lega ai testi (e agli autori) che contamina e su cui dissemina la propria decostruzione; e questa è forse una delle poche constanti del suo percorso filosofico: «una decostruzione, se non vi si arresta, non procede mai tuttavia senza un lavoro parallelo sul sistema che tenga unito in sé stesso questo superamento, che articoli, come si suol dire, la psicanalisi al marxismo o a qualche niccismo, alle risorse della linguistica, della retorica o della pragmatica, alla teoria degli speech acts, al pensiero heideggeriano sulla storia della metafisica, l'essenza della scienza o della tecnica, ecc.» (cit.).

A mio giudizio, se si ambisce a parlarne complessivamente (e non complessamente), non è uno di quegli autori "da wikipedia", "bignamizzabili" a prescindere dall'osservazione della messa in atto testuale del loro filosofare; sarebbe come leggere una descrizione di uno sport e pensare di averlo "capito" (e magari provare a "valutarlo") senza aver mai visto lo svolgimento di una partita. Basti considerare quanto sia sintomatica la sua duplice ricezione: in ambito analitico, come teoria critica letteraria, e in ambito continentale come postmetafisica. Probabilmente è più agevole leggere un suo testo sotto l'ombrellone o vicino all'albero di Natale, piuttosto che cercare di parlarne, come sto facendo ora, "in generale" (non credo sia l'unico in questa categoria di filosofi "ostili" e al contempo, forse proprio per questo, banalizzabili e strumentalizzabili).
#1086
Citazione di: InVerno il 19 Dicembre 2020, 20:35:55 PM
qualche forma estrema di depressione che sarebbe forse più propriamente rappresentata dalla mancanza di luce, dall'assenza di calore, dalla gelidità.
Citazione di: Alexander il 19 Dicembre 2020, 20:59:07 PM
C'è una bellissima scena in un film sull'Inferno, con il compianto Robin Williams, dove il protagonista scende nel più profondo dell'inferno per cercare la moglie, morta suicida dopo aver perso lui e anche i figli. Ed è un luogo come tu lo descrivi: freddo, grigio, inospitale, silenzioso...[...] con Dante ne abbiamo però una descrizione letteraria e poetica più articolata .
Riguardo le "impostazioni del termostato dell'inferno", Dante (non un teologo) ci suggerisce che il punto più abissale sia gelido: il lago ghiacciato Cocito in cui è incastonato Lucifero (il freddo si addice indubbiamente alla morte, mentre il calore può esser vita, se è tepore, o sofferenza, se è ustione).
#1087
Citazione di: viator il 17 Dicembre 2020, 13:54:03 PM
siamo ciò che resta di noi dopo che noi ci sia separati da tutto ciò che è separabile da noi
Se ho bene inteso la questione è dunque: cos'è separabile da viator senza che viator smetta di essere viator?
Se, ad esempio, a viator togliamo il cervello, resta ancora viator? Probabilmente otterremmo un viator-morto, che è, in un certo senso, pur sempre viator, ma non un viator che plausibilmente possa essere cosciente di essere "un qualcosa" (salvo ipotizzare che un corpo senza cervello possa comunque avere coscienza del proprio essere).

Citazione di: viator il 17 Dicembre 2020, 13:54:03 PM
ciò che resta di NOI, dicevo, è semplicemente LA FORMA DEI CONTENUTI DEL NOSTRO CERVELLO
Se ciò che resta (del viator reale, suppongo) è «la forma dei contenuti del cervello» viene da chiedersi se esista, nella realtà (non come mera astrazione), una forma senza materia che la "incarni" (anche l'impronta di ciò che non c'è più, presuppone almeno un qualcosa su cui essere impressa). Se ciò che resta è solo una forma (che pur rende viator tale) in cosa consiste tale forma, se viator ha ancora una qualche "consistenza"?
La risposta, se non sbaglio, è:
Citazione di: viator il 17 Dicembre 2020, 13:54:03 PM
essa forma altro non è che l'insieme delle relazioni neurologiche (cioè elettroneurali, cioè energetiche) che risultano presenti ed agenti encefalicamente, cioè l'insieme dei flussi neuroelettrici il cui generarsi, modularsi, variegarsi e concatenarsi nel tempo e nello spazio endocranico consiste appunto nella incessante mutevolezza della nostra FORMA NEUROLOGICA
La sussistenza di tale forma mi pare presupporre che essa non sia stata separata (v. sopra) dal cervello, senza il quale essa non potrebbe essere, come la descrivi/definisci, «l'insieme delle relazioni neurologiche (cioè elettroneurali, cioè energetiche) che risultano presenti ed agenti encefalicamente»; l'elettro-neurale e il neuro-logico (di suddetta forma) non so se possano essere davvero separati dai rispettivi «-neurale» e «neuro-»; ugualmente non sono sicuro sia possibile avere tali «relazioni» e «flussi» senza ciò che li "sostanzia".
Se separiamo tali "relazioni presenti ed agenti" dal cervello in questione, suppongo esse non possano che essere concettualizzazioni presenti magari in un altro cervello, ma non in quello da cui sono state separate (concorrendo ad identificare viator come tale); sarebbe come voler separare i cavi dalla corrente che vi scorre e pensare di poter avere ancora quella corrente (identità) senza quei cavi (se pure i cavi si "autorinnovano", mantenendo attivo il flusso della corrente, ciò dimostra che è l'esistenza di quella corrente a dipendere dall'esistenza di quei cavi, quindi non ne può essere separata).

Possiamo dunque togliere l'"io" di viator dal suo cervello (come forse avviene con la morte), senza che il cervello smetta di essere tale, ma dubito possiamo togliere il cervello a viator senza che il suo "io" smetta di essere tale (almeno se identifichiamo viator come persona viva e il cervello come organo separato dagli altri).
Se quindi prendiamo per buono che «siamo ciò che resta di noi dopo che noi ci siamo separati da tutto ciò che è separabile da noi»(cit.), credo che il cervello non rientri nel separabile da noi (anche se magari non è l'unico elemento a restare per poter avere ancora un "io"... in fondo, chi può dimostrare di non avere un'anima, un legame karmico o altre infalsificabili "identità essenziali"?).


P.s.
Sulla distinzione fra "materialismo" e "fisicalismo" (usandone la tua accezione), non so se esista davvero qualche materialista che sia "negazionista energetico", ovvero che non riconosca anche l'esistenza e il ruolo dell'energia (suggeriti dalle bollette elettriche), riducendo invece tutto l'esistente a materia ma senza energia (tale materialismo dubiterebbe anche della nota formula di Einstein?). Parimenti (richiamando anche il post di paul11) non so se si possano avere ancora dei legittimi dubbi sul ruolo del dna nella strutturazione "formale", non dell'Io (che dubito qualcuno identifichi con il dna), ma almeno del corpo umano (non sono minimamente competente di epigenetica o di genetica del comportamento per potermi sbilanciare oltre quell'«almeno»).
#1088
@Jacopus

Considerando come il sensazionalismo del titolo del primo link fosse fuorviante, e il testo seguente povero di spiegazioni dettagliate, mi son sentito in dovere di postare anche il link all'articolo in inglese, meno digeribile, ma decisamente più calibrato ed intellettualmente onesto (non ho postato solo il secondo link perché non do per scontato che tutti siano in grado di capire l'inglese; almeno uno spunto sommario in italiano volevo darlo).
Gli snodi da considerare, pertinenti con il topic (seppur non strettamente con Husserl), potrebbero essere molteplici (li accenno solo perché comunque non voglio "spoilerare" le questioni husserliane d'antan):
- esperimenti come quello citato, pur con tutti i limiti ed incognite del caso, dimostrano la (possibilità della) manipolabilità del "io indifeso", non solo per via chimica (come alcuni psicofarmaci) o per via linguistica (come l'intramontabile retorica), ma direttamente per via locale-cerebrale, ad ulteriore conferma di come anche apparenti astrazioni e concettualizzazioni (come la tolleranza o la fede) abbiano comunque una radice fisiologica (manipolata la quale, cambia il vissuto connesso a tali "idee", il che aiuta a demistificare il "valore ontologico" di un vissuto, di un'ideologia, etc.)
- la "purezza" dell'Io meta-fisico parrebbe da pensare in bilico fra tali possibili condizionamenti fisiologici ed una "soggettività" ad essi superiore, eppure tale gerarchia superiore potrebbe essere a sua volta solo una risposta ideologica, o meglio "iodeologica" (magari di quelle condizionabili neurologicamente?); diventa quindi ancor più rilevante chiedersi che cosa ci consente di parlare di "io" (potremmo non parlarne?): la tradizione culturale, il vocabolario o un referente "reale" con cui non si può non fare i conti?
- il limite di queste ricerche (sostenere che «non dimostrano nulla» mi pare un po' troppo refrattario ai dati) è, come hai osservato, quello che non potendo fare misurazioni oggettive delle credenze (ma solo dei comportamenti), non resta che affidarsi a parametri tutt'altro che impeccabili e risposte di cui ci si deve fidare; nondimeno se emergono delle tendenze coerenti, potrebbe non essere una coincidenza (dovuta ad esempio alla cultura comune dei partecipanti, ad un gruppo non abbastanza eterogeneo o numeroso, etc.) e, a parer mio, tali esperimenti suggeriscono almeno che influenzando la "res" si influenza il suo "cogitare" anche concettuale, non solo l'output comportamentale (e magari persino l'identità del "sum"?). Se ciò significa che il cervello si rivela essere la "sedia elettrica" in cui vengono giustiziate credenze animiste e meta-fisiche, è arduo a dirsi, ma credo vada almeno rispettata l'asimmetria epistemologica fra ricerca scientifica ed inerzia culturale, teorie infalsificaibli, etc.
P.s.
La circolarità interpretativa, o forse semplicemente la dialettica, fra ontogenesi e filogenesi sovraindividuale, mi pare ben sintetizzata nella domanda aperta nella Conclusione dell'articolo: «Whether co-optation of the brain's alarm system for ideological shifts ref‌lects functional evolutionary adaptation in Homo sapiens (e.g., to spur cooperation related to shared ideology in the face of threat), or a by—product of the deployment of alarm systems in a mind capable of abstract ideological cognition, remains an open question» (tradotto).


P.p.s.
Concordo con davintro e Lou sulla constatazione che la percezione, essendo un fenomeno di ricettività soggettiva, non implica il giudizio di esistenza oggettiva del suo contenuto (apparente) per come viene identificato dalla coscienza (posso dubitare dell'oggettiva identità di ciò che vedo, ma non di vederlo).
#1089
Sul tema della «manipolazione del giudizio» e della «resistenza soggettiva», segnalo en passant (e molto border topic) un esperimento un po' datato (2015) ma interessante, sul rapporto fra ideologie e "manipolazione" neuroscientifica (qui un più recente approfondimento).
#1090
Tematiche Filosofiche / Re:Oltre Cartesio
11 Dicembre 2020, 20:11:23 PM
Andando ulteriormente oltre Cartesio, radicalizzando il suo dubbio metodico, si potrebbe dubitare anche del fatto che ci sia un "io" a pensare: come escludere che io non sia un "avatar", comandato da un misterioso altrove in cui "qualcuno" mi invia i pensieri che credo di pensare autonomamente, quando in verità essi sono solo una sua scelta, un suo "input"? A tal punto esisteremmo almeno in due, io-avatar e lui-giocatore, ma posso comunque avere certezza solo della mia esistenza, essendo egli solo un'ipotesi (non verificabile, per ora).
Se fosse nato oggi, Cartesio, oltre ad apprezzare i vari esperimenti mentali (la suddetta vasca, lo Swampman, gli "zombie filosofici", etc.) magari si sarebbe posto una domanda simile, dopo aver osservato un videogioco di ruolo o aver letto le ipotesi di N. Bostrom.
Effettivamente, possiamo esser certi di percepire i pensieri, ma non di esserne l'origine (come una cassa stereo riproduce i suoni il cui input nasce effettivamente "altrove"). Quindi, ricorrendo al latinorum, il motto del Cartesio del terzo millennio sarebbe forse «percipio cogitationem, ergo sum» (percepisco il pensiero, quindi esisto), poiché anche essere un burattino telecomandato o una cassa stereo è comunque una forma di esistenza, che per sapersi indubitabilmente tale, deve sentire/percepire consapevolmente qualcosa: non è necessario essere la fonte del pensiero, è sufficiente esserne almeno consapevoli "riproduttori senzienti", esperienza di esistenza "minima" che è, credo, fuori da ogni possibile dubbio.
#1091
Tematiche Filosofiche / Re:Oltre Cartesio
11 Dicembre 2020, 16:02:28 PM
L'ipotesi metodologica dell'allucinazione (o simili), suo malgrado, inibisce proprio il pensiero che pone come indubitabile: si può dubitare di tutto, ma non del proprio esistere in quanto esser-pensante; tuttavia, i contenuti del proprio pensare potrebbero comunque essere allucinazioni, inganni del Maligno, etc. per cui, una volta acclarata l'indubitabilità dell'esistenza del pensiero (che non coincide necessariamente con la prima persona singolare del «sum», ma non divaghiamo), nel momento in cui lo si usa, rivolgendolo all'altro-da-sé (qualunque "cosa" tale "altro" sia), ci si espone inevitabilmente al rischio dell'inganno, dell'allucinazione, etc. (anche se si decidesse di passare la propria vita in "meditazione eremitica" bisognerebbe necessariamente muoversi in un mondo di possibili apparenze, convenzioni e "come se").
Nondimeno tale appello alla "realtà" circostante non comporta che
Citazione di: davintro il 10 Dicembre 2020, 23:07:12 PM
la sensibilità non può mettere in discussione se stessa e giudicarsi criticamente adeguata a valutare la corrispondenza dei suoi contenuti con la realtà, perché, come è evidente, per farlo dovrebbe mettere in discussione anche il suo mettere in discussione e così via all'infinito, senza mai giungere al punto di trovare un criterio fondante la valutazione esterno a ciò che si valuta.
perché il problema del regresso all'infinito del fondamento non riguarda l'empiria, come dimostra proprio Cartesio "regredendo" fino all'indubitabile fondamento dell'«ergo sum». Il cogito è di fatto una "conclusione" non metafisica, ma fisica, nel senso di "esperienza (cerebrale) individuale" (il solipsismo è infatti dietro l'angolo): il pensare è percepito come vissuto evidente (della propria attività neurologica, che sappiamo essere empiria), esattamente come l'esistere. «Cogito ergo sum» è un'induzione (non una deduzione) fondata sulla percezione del proprio pensare (e pensarsi) da cui deriva la "conferma percettiva" del proprio esistere.
Alla fine di tutte le epochè fenomenologiche, se seguiamo Cartesio, indubitabile è l'Io empirico (in qualunque realtà, fittizia o meno, sia posta la sua sussistenza), non quello trascendentale (come può accadere invece nella fenomenologia meta-fisica Husserliana, genuinamente attenta al dubbio nelle premesse, meno in alcuni aspetti del suo sviluppo).

Andando dunque "oltre Cartesio": dato per assodato che al di fuori dell'esistenza del pensare (ovvero del suo accadere), si può dubitare di tutto, i sensi risultano pur sempre un "punto di arresto" (l'unico disponibile seppur dubitabile), di conferma o smentita, per il pensiero che voglia rivolgersi alla conoscenza del mondo ("offertoci" dal Genio Maligno, da una divinità, dalla natura o altro): se anche essi ci ingannano, se anche stiamo vivendo in un sogno, in questo sogno i sensi ci indicano che le mele cadono in basso (o meglio, ciò che definisco «mela» cade in ciò che mi appare «basso» dalla mia prospettiva) e studiando tale caduta si può formulare una regola che ci consente di calcolare traiettorie di cannoni per abbattere le mura dei castelli nemici (o quantomeno avere l'illusione di farlo). Se anche tutto ciò è un inganno, un allucinazione, etc. i sensi ci forniscono feedback non casuali per approntare procedure e regole che funzionano, separandole da quelle che non funzionano, nella realtà in cui il cogitante-esistente ha coscienza di agire (sia tale realtà onirica, diabolica o altro). Magari quelle regole e procedure non descriveranno la Verità (magari siamo un "cervello di farfalla in vasca"), ma non pongono il problema di autofondarsi: il paventato "mettere in discussione all'infinito", si arresta, da un lato, al cogito, dall'altro all'evidenza percettiva della mela che cade (il perché, come e "dove" cada è già un'altra storia).
Finché il rapporto sensi/realtà "funziona" (non sempre, ovviamente) in quello che potremmo chiamare (prendendo in prestito la felice espressione di Margolis) un "pragmatismo senza fondamento assoluto" (che consente di distinguere la funzionalità dalla non-funzionalità), non mi pare ci sia bisogno di «mettere in discussione il mettere in discussione e così via all'infinito» (come accade tanto quanto più ci si allontana dai sensi e ci si avventura nella fisica teorica o nella meta-fisica: lo stesso Aristotele risolse il problema del cosiddetto "regresso epistemico", ovvero del giustificare la giustificazione e così via, facendo appello alla giustificazione immediata e anapodittica che, nel cercare di conoscere la nostra "realtà", per non rischiare di costruire un sistema coerente che poi non abbia un'applicazione nel reale, mi pare non possa che essere fondata sull'"evidenza empirica", con tutte le dubitanti virgolette del caso).
#1092
Tematiche Filosofiche / Re:Oltre Cartesio
08 Dicembre 2020, 13:27:43 PM
Citazione di: Jacopus il 08 Dicembre 2020, 10:44:42 AM
La sua frase più famosa "cogito ergo sum", ad esempio, è impostata come un sillogismo cui manca la prima parte. Ma la prima parte, data la generalità della conclusione, non può che essere "tutti gli esseri viventi pensano", e quindi "penso, dunque sono".
[Pedante postilla di logica]
Se il sillogismo fosse:
- tutti gli esseri viventi pensano
- io penso
- quindi sono un essere vivente (esisto)
si tratterebbe della fallacia dell'affermazione del conseguente (tipica di molte petitio principii del pensiero metafisico); ovvero p q; q; ⊢ p, che è la versione fallace del modus ponens: p q; p; ⊢ q.
Il sillogismo valido, almeno se "dobbiamo" mantenere la prima premessa, è (potremmo raffigurarlo anche insiemisticamente):
- tutti gli esseri viventi pensano (chiunque è vivo, pensa; pq)
- sono un essere vivente (p)
- quindi penso (q)
poiché è p ad implicare q, non viceversa. L'esempio da manuale è: se piove, uso l'ombrello; piove; quindi uso l'ombrello. Tuttavia ciò non comporta che uso l'ombrello solo se piove (se piove uso l'ombrello; uso l'ombrello; quindi piove), posso infatti usare l'ombrello anche per altri motivi (togliere una ragnatela dal soffitto, etc.).

Se invece volessimo sillogizzare il motto cartesiano con la logica classica (non quella modale), potremmo dire:
- tutti i pensanti sono viventi (premessa implicita)
- sono pensante (cogito)
- quindi sono vivente (ergo sum).


P.s.
Ricordo che l'essere formalmente valido, non comporta l'essere necessariamente vero: dipende dalla compilazione dei valori di verità delle singole proposizioni (compilazione tanto più problematica quanto più sono astratti e/o inverificabili gli elementi delle proposizioni, come dimostrano l'etica, la teologia, l'estetica, etc. che infatti non si fondano sulla verità "oggettuale-oggettiva" dei loro "sillogismi", ma sulla loro validità formale meta-fisica; il che potrebbe suggerire un ripensamento del concetto di «verità» in ambito metafisico, come suggerito dalla postmodernità, ma già non siamo più in tema con Cartesio).
#1093
Attualità / Re:Mano de Dios
02 Dicembre 2020, 15:59:26 PM
Citazione di: Eutidemo il 02 Dicembre 2020, 12:30:00 PM
"Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; ma quando sono diventato uomo, ho smesso di fare le cose da bambino." (Corinzi 13.11).
Così come, nel mondo dell'arte, dopo le opere di Raffaello si sono aggiunte (con altra sensibilità estetica, altro intento, etc.) le opere di P. Manzoni, alla considerazione di San Paolo sull'esser-bambini si è poi aggiunta (fra le altre) quella dell'analisi transazionale di E. Berne che, parlando del "bambino interiore", osserva: «Il bambino nella persona è potenzialmente in grado di contribuire alla sua personalità esattamente come un bambino felice e reale è in grado di contribuire alla vita familiare» (cit.).
La psicologia delle masse dimostra come gli adulti «fanno le cose da adulti» ascoltando talvolta il loro "bambino interiore", con le sue pulsioni e le sue dinamiche; non è una imputazione di infantilismo, solo la constatazione di un rilevante meccanismo psicologico, la cui (rin)negazione spesso ha proprio la voce del bambino interiore che strilla «io sono grande!» (e poi mostra i suoi anni con le manine).
#1094
@paul11

Sorvolando su osservazioni che (ti) ho già sottoposto in precedenza (se non sbaglio) ovvero che Wittgenstein è anche quello dopo il Tractatus (v. Ricerche, "giochi linguistici", etc.), che dopo Husserl (forse l'ultimo dei metafisici davvero attenti alle scienze) l'intenzionalità si è dimostrata sempre meno trascendentale (v. neuroscienze, etc.), osservando inoltre come sia piuttosto audace affermare che «un problema psichico» o «una compulsione, una paura, un'ansia» (cit.) non esistano(?), poiché di fatto si manifestano empiricamente al punto da essere, pur con tutte le inaggirabili difficoltà del caso, talvolta persino studiabili e quantificabili (azione dei neurotrasmettitori, pulsazioni, osservazione clinica, etc.), resterei focalizzato sul tema del ruolo del dubbio nella fede.
I due passaggi portanti mi sembrano questi:
Citazione di: paul11 il 21 Novembre 2020, 19:53:21 PMse chiedo da dove mai è uscita questa legge fisica e non esauritasi nel "come" del fenomeno , ma il "perché" l'uomo è riuscito con le sue qualità a costruire questa legge: ......tutti o  tacciono o "svicolano" con argomentazioni generaliste e superficiali, compresi gli scienziati che la studiano  e la applicano.
[...]
ho necessità di risposte per dare senso alla mia esistenza.
Cos'è che lega lo "svicolare" degli scienziati di fronte alla domanda sull'origine delle leggi fisiche e la tua «necessità di riposte» per il (tuo) domandare un senso per l'esistenza? Qual è il tabù che loro dissimulano e che spinge ad individuare le risposte di senso esistenziale nella fede? Il nesso essenziale, almeno dal mio punto di vista, l'hai ben individuato: l'ignoranza, il non sapere, la mancanza (in tutti i sensi); questo (alcuni di) loro si rifiutano di ammettere e questo dà un senso al salto nella fede.
Inevitabilmente, tanto il non-rispondere/"svicolare", quanto il rispondere teologico-dogmatico (assiomatico, se preferisci), non possono scongiurare la legittimità del dubbio, che resta dunque testimonianza della debolezza (empirica, intersoggettiva, epistemologica, etc.) delle risposte che dovrebbero addomesticarlo, ovvero il «non lo sappiamo ancora, ma lo scopriremo in terra» degli scienziati ed il «lo sappiamo già, ma lo troveremo "in cielo"» dei credenti.
E la logica? Avalla tale ignoranza e tale dubbio nel momento in cui la sua deduttiva formalità non è garante di verità (che il domandare invoca) e soprattutto nel momento in cui riconosce l'infalsificabilità delle risposte della fede (che non significa, a scanso di equivoci, mettere in concorrenza le tavole di verità della logica con le tavole della legge divina, perché sono tavole su cui "banchettano" domande ben differenti).
#1095
Citazione di: paul11 il 21 Novembre 2020, 00:20:09 AM
Il "mondo della vita" non è affatto solo empiria, è una mente per niente empirica e una coscienza per niente empirica che decidono falsità verità giudizio. Il giudizio empirico  è solo una delle possibilità .
Rimane il problema di cosa si intenda "fantastico", se ritieni che sia impossibile dedurre e rimanere nell'induttivismo empirico.
Per sola  via logica formale empirica funziona un automa non un umano.
La mente e la coscienza (sorvolando sulla questione se siano solo empiriche o meno e sulla differenza uomo/automa) decidono solitamente della verità di un giudizio basandosi sull'empiria, così come decidono della validità di una conclusione basandosi sulla logica. Se consideriamo l'appello all'empiria in quanto «verifica oggettiva del contenuto dei predicati»(autocit.), quale altro criterio può essere utilizzato per assegnare valore di verità ad una proposizione? Essendo nella sezione «spiritualità», la risposta più ovvia è: la fede; altrove si risponderebbe con «l'opinione» (come quando affermo la "verità" della proposizione «la Gioconda non mi piace» o «è giusto votare "no" a quel referendum»). Tuttavia, come tutelare la fede da quelle che hai chiamato «fantasticherie», se non facendo appello ad un contenuto minimo di empiria? L'esempio che ho citato di Godel dimostra che la pura validità logica non mette al riparo da fantasticherie, così come P. Gosse, con la sua teoria dell'"omphalos", dimostra che se si è motivati a difendere una tesi, senza l'onere di attenersi sufficientemente all'empiria, si può sempre trovare un (fantasioso) slittamento semantico o interpretativo ad hoc, proponendo tesi infalsificabili (e "circolari").
Chiaramente, questo non significa che «sia impossibile dedurre»(?)(cit.), è semmai forse impossibile evitare di fare deduzioni; nondimeno per assegnare dei valori di verità non serve la deduzione, in quanto operazione formale, ma una evidenza/opinione/motivazione/etc. per "compilare" il valore di verità della proposizione. Ed è proprio questo lo spazio in cui accade il dubbio nella fede: come detto, per me essa nasce nel momento in cui si dubita dell'evidenza empirica e si inizia a credere che ci sia dell'altro, cominciando a postulare, quindi a dedurre, ad "affermare il conseguente", etc.

Concordo sul fatto che
Citazione di: paul11 il 21 Novembre 2020, 00:20:09 AM
una religione è strutturata in Sacre Scritture e una Rivelazione: il dubbio può sorgere quando la Parola Sacra si ritenga  incoerente nel mondo della vita.
e tale incoerenza con il mondo della vita (pertinente alla suddetta "empiria" che circonda il soggetto) apre ad un'interpretazione dei testi sacri (a scelta fra i numerosi disponibili) che, retta dalla sua infalsificabilità (come dimostra l'esempio del citato P. Gosse), trova nella fede (non nella logica, tantomeno nell'empiria) l'unico placebo al dubbio, fra "c'è dell'Altro" ed "è tutto qui".