Citazione di: Angelo Cannata il 07 Luglio 2017, 12:40:33 PMDimenticare se stessi mi sa di spersonalizzazione. Spesso ho notato che l'orante dei Salmi, che furono anche la preghiera abituale di Gesù, non si preoccupa affatto né di concentrarsi, né di dimenticarsi; al contrario, spesso presenta a Dio le proprie preoccupazioni, gli dice che ci sono persone odiose che gli rendono la vita difficile, a volte protesta anche contro Dio stesso, e poi conclude facendo capire di sentirsi rasserenato. In questo senso molti Salmi mi somigliano a delle sedute psicologiche, in cui il paziente si sfoga, si racconta e in questo raccontarsi si reinterpreta, si riconsidera, specialmente sapendo che c'è un altro che lo sta ascoltando; poi alla fine si sente rasserenato, proprio grazie a quest'esperienza di aver tirato fuori i problemi, averli raccontati, riletti, e avendo vissuto nel contempo un'esperienza di sentirsi ascoltato da qualcuno. In questo senso trovo armonia tra l'esperienza espressa nei Salmi e quella elaborata dalla ricerca scientifica in psicologia. Da prete ogni tanto qualche persona mi esprimeva la sua difficoltà a pregare, perché la sua mente a un certo punto perdeva la concentrazione, cominciava a vagare. Io rispondevo che non c'era niente di preoccupante: il pregare cristiano non è concentrazione, ma al contrario, piena assunzione della propria esistenza per quella che è. Una delle preghiere più alte, più sublimi della tradizione cristiana fu quella vissuta da Gesù nel Getsemani prima di essere condannato e crocifisso: ma quella fu una preghiera disturbata, nervosa, andava e veniva dai suoi apostoli, li trovava addormentati, una volta dice loro di riposare, ma un attimo dopo dice di alzarsi e andare. Eppure non ci sono dubbi che quella fu autentica preghiera, altissima esperienza spirituale. Una volta mi accadde di partecipare ad un ritiro spirituale guidato da un altro prete; la prima cosa che disse fu: "Adesso cercate di dimenticare tutto, lasciate a casa le vostre preoccupazioni, non pensate a niente". Istantaneamente mi dissi, tra me e me: "Comiciamo male!". Ci sarebbe tanto da dire sulla tradizione ebraica come memoria, memoria dell'essere stati liberati dall'Egitto, la Pasqua che è un fare memoria, Gesù che dice "Fate questo in memoria di me", la memoria dell'Olocausto. Anche il perdonare non può essere inteso come un dimenticare le offese, ma piuttosto come un reinterpretare in maniera diversa ciò che è successo. Tutto ciò mi ha creato un habitus mentale che dà enorme importanza al non dimenticare, al fare memoria, raccontare. Ovviamente le memorie vanno organizzate, ordinate, altrimenti ci si sperde nella loro moltitudine, ci ritroviamo nel problema che diceva prima Sariputra, il puro accatastare senza armonizzare. Tutto questo mi fa essere quanto meno perplesso quando sento inviti a dimenticare o dimenticarsi.
Il senso dell'individualità e quindi della personalità ( da coltivare, custodire, accrescere, indottrinare, ecc.) è prepotente nella spiritualità occidentale e , in senso generale, nella concezione stessa della vita.
L'uomo è di fronte al Dio, ne viene nominato, il suo nome ha importanza, Lui ti conosce, ecc. Tutto questo non ha la stessa importanza nelle forme spirituali dell'Oriente in cui prevale il senso dell'illusione, dell'ignoranza sulla nostra vera natura. La personalità stessa è ostacolo a volte per i sentieri da percorrere. Solo nella libertà dal tuo condizionamento a ritenerti separato, separazione per cui il tuo vissuto ti appartiene, è tuo, è qualcosa di sostanziale che vive ( un io personale, un sé autonomo, ecc.), si può pervenire ad un'intuizione fondata sulla reale natura dei fenomeni .
Quindi il dimenticare s'intende come dimenticare il noto, quello a cui ti aggrappi, fare spazio per il nuovo. Se la casa è ingombra , dove puoi trovare spazio per l'Ospite?
Spesso si ritiene che uno che conosce molte cose ( un erudito) sia una personalità "forte", un maestro, un guru, ecc. Mentre si dovrebbe, a mio parere, scorgere se c'è armonia tra quel che si dice e il proprio vissuto, così che tutto di un essere umano ci parli della sua spiritualità: le sua azioni, il suo porsi all'altro, la sua benevolenza, la sua bontà ( questo termine così desueto ma pieno di significato...).
Le sue parole , a questo punto, diventano superflue. E' la sua vita stessa che insegna. Spesso è la persona impensabile, quella che ti sta accanto magari, che può essere il tuo maestro, il tuo buddha silenzioso, purché ci si sappia "dimenticare" di se stessi e, nella dimenticanza, creare lo spazio per accogliere il non-noto, il nuovo, che è anche "creazione".