Citazione di: maral il 11 Dicembre 2016, 12:41:59 PMCiò di cui si dubita presuppone comunque una sua prima assunzione in significato, è del significare dell'ente che è possibile dubitare non dell'ente in sé, ossia del suo presentarsi come un segno che si pone in relazione con altri segni per accadere. Il dubbio è quindi il prodotto diretto di una situazione relazionale tra segni che accadono, è il prodotto di un dialogo (con gli altri e con se stessi) che consente il confronto per trovare un terreno pubblicamente condivisibile per l'accadere effettivo del proprio sentire. Sappiamo che la problematica del dubbio emerse con particolare evidenza filosofica con le meditazioni cartesiane, con cui, si potrebbe dire, che si inaugurò l'era moderna. Al termine della prima meditazione, Cartesio fece questa ipotesi: immaginiamo un Dio onnipotente e ingannatore che goda nell'ingannare le sue creature, una sorta di "Matrix" ante litteram, ebbene, osservò Cartesio, questo Dio non potrà tuttavia ingannare sul fatto, indispensabile affinché l'inganno si realizzi, che il soggetto (io che vengo ingannato) realmente esista. Con questo Cartesio fondò la posizione indubitabile del soggetto come soggetto che pensa e pensando dubita e aprì la strada alla "rivoluzione" kantiana che procede filosoficamente in senso opposto a quella copernicana, ponendo il soggetto trascendentale (non quindi psichico) come perno del mondo, colui che giungendo cartesianamente a dubitare del suo stesso dubitare, non può che affermare la sua indubitabile presenza pensante. Eppure, se è impossibile dubitare del proprio dubitare (dato che nel momento in cui lo si fa è indubbio che si dubiti), qualcosa di cui originariamente dubitare e su cui fondare la propria incontrovertibile presenza dubitante, dovrà pur presentarsi: e questo qualcosa è il mondo, il mondo proprio in quanto dubitabile, fonda a ritroso l'assoluto indubitabile del soggetto, ne è il presupposto irrinunciabile. E con questo il pensiero cartesiano apre la strada alla scienza moderna che parte proprio da un mondo tenuto innanzi a sé in oggetto per dubitarne e risolverlo in ciò che a tutti i soggetti viene mostrato condivisibile, in quanto sperimentalmente e tangibilmente per tutti verificabile sulla base di presupposti universali e non soggettivi di metodo. Si potrebbe allora dire, seguendo Cartesio: io esisto nel mio dubitare, ma questo dubitare necessita di qualcosa di cui dubitare che non sono io stesso, necessita di un mondo che mi precede e di cui sono chiamato a risolvere il dubbio nel segno di una realtà che si presenta sempre più condivisibile in ogni dettaglio, ma in ogni dettaglio, tuttavia, ancora dubitabile affinché si mantenga la certezza incontrovertibile del dubitare e sia con essa vanificata l'onnipotenza dell'inganno che sta proprio nel dire che "le cose stanno così" prima che possano apparire a ciascuno condivisibili secondo un criterio pubblicamente e oggettivamente condiviso. Il dubbio con la sua necessità di risoluzione pubblica viene a questo punto a stabilire una nuova realtà metafisica che ovviamente si scontra con la realtà metafisica di chi trova necessario credere senza dubitare (o, si potrebbe dire, di chi non crede nella certezza fondante del dubbio), appellandosi alla incontestabile trascendenza della Verità rivelata (sia essa misticamente o razionalmente fondata) a cui aderisce con piena fede, ossia con assoluta volontà di credere. In questi termini evidentemente non ci può essere un dialogo che permetta un confronto tra posizioni, poiché qualsiasi confronto implica sempre un sentire fondamentalmente dubitabile la propria posizione in un pubblico confronto (implica sempre un "dubito quindi sono", una primarietà del pensiero dubitante che dubitando si autoconferma indubitabile). Fortunatamente, se vogliamo, non siamo noi a decidere delle nostre posizioni metafisiche, per cui anche tra le posizioni più inconciliabili per il fatto stesso che si presentino reciprocamente anche in modo del tutto ostile, si determinano sempre inaspettate risonanze in virtù delle quali esse mutano e mutano proprio in quanto comunque si fanno segno pur rifiutandosi. Mutano, senza che lo si voglia, nel proprio medesimo significare, a dispetto della resistenza che questo significare costruisce attorno a sé per mantenersi eternamente, ma illusoriamente, stabile in una incorruttibile purezza. Esse ci trascendono, ma proprio per questo non ci appartengono e, proprio nel loro trascenderci, restano comunque sempre dubitabili in ciò che manifestano nelle nostre volontà di credere.
In linea di massima concordo con te ma non del tutto. Se ammetti il dubbio devi ammettere che il dubitare abbia senso, quindi d'altronde non stai dubitando su tutto. A mio giudizio è impossibile fare nessuna attività filosofica senza un "fondamento", un assioma di partenza. Il dubbio è un'attività quindi non si può dubitare che si sta dubitando, quindi la completa sospensione del giudizio è anch'essa un dogma. Per quanto riguarda però i problemi di Dio e dell'anima secondo me non si può dimostrare la loro esistenza. Quindi devi in questo caso accettarli o non accettarli per fede. Si può fare certamente una verifica sulla "ragionevolezza" di queste ipotesi però dopotutto non otterremo mai quello che desideriamo, cioè una prova razionale. Tant'è vero che Kant postula l'esistenza di Dio e dell'anima nella Critica della Ragion Pratica. Ed essenzialmente il suo "io formale" della ragion pura se non erro non lo considerava un ente ma semplicemente l'insieme delle varie forme (ad esempio spazio, tempo, causalità, quantità ecc). In sostanza l'io di Kant non era di certo un "io personale" ma semplicemente il "fondamento" (l'assioma) con cui si deve partire per fare affermazioni dimostrabili. Fuori dall'"isola dei fenomeni" la ragione non poteva esprimersi perchè non poteva più dimostrare alcunché.

 se il dubbio è assoluto, allora più nulla vale, o meglio vale tutto. (è li segreto di pulcinella di ogni relativista, che così può pascersi l'anima nel non fare alcunchè di niente per l'altro). x apeiron beh ovviamente da bravo fisico credi che indecidibilità valga in maniera universale, quando invece è solo una formalità. D'altronde anche il teorema dell'incompletezza di Godel ha poca se non nessuna implicazione pratica sia in fisica che in matematica. Ha valore solo per le prassi di LOGICA FORMALE MATEMATICA ed ha avuto successo presso i filosofi perchè nella lora totale ignoranza di cosa sia la matematica e cosa sia la fisica, si sono illusi di poter dire che la verità ce l'avevano loro e non la scienza. Il che è pratica ancora corrente e rende tutta la filosofia una cosa triviale per lo scienziato. peccato che il positivismo si sia battuto sopratutto per le pratiche reali di vita politica comune degli uomini. (e tutta il post-modernismo è una supplica a tornare a parlare di cose reali, appunto questioni della modernità come "soggetto" "contratto" etc...etcc...)
 se il dubbio è assoluto, allora più nulla vale, o meglio vale tutto. (è li segreto di pulcinella di ogni relativista, che così può pascersi l'anima nel non fare alcunchè di niente per l'altro). x apeiron beh ovviamente da bravo fisico credi che indecidibilità valga in maniera universale, quando invece è solo una formalità. D'altronde anche il teorema dell'incompletezza di Godel ha poca se non nessuna implicazione pratica sia in fisica che in matematica. Ha valore solo per le prassi di LOGICA FORMALE MATEMATICA ed ha avuto successo presso i filosofi perchè nella lora totale ignoranza di cosa sia la matematica e cosa sia la fisica, si sono illusi di poter dire che la verità ce l'avevano loro e non la scienza. Il che è pratica ancora corrente e rende tutta la filosofia una cosa triviale per lo scienziato. peccato che il positivismo si sia battuto sopratutto per le pratiche reali di vita politica comune degli uomini. (e tutta il post-modernismo è una supplica a tornare a parlare di cose reali, appunto questioni della modernità come "soggetto" "contratto" etc...etcc...)  quello che voglio dire io è che le proposizioni che facciamo possono essere dimostrate solo all'interno di determinati assiomi quindi  sono dimostrabili solo quando è possibile chiarire il punto di vista. Ad esempio la proposizione il "Sole è giallo" la puoi dimostrare osservandolo. La proposizone "il giallo del Sole che vedo io e che vedi tu è lo stesso" invece non è dimostrabile ma indecidibile. Torna molto comodo assumere che sia così però è indimostrabile. Ciò che è indimostrabile quindi lo devi rigettare o accettare con almeno un po' di fede. Ora questa fede può essere ragionevole o irragionevole ma questo è un altro discorso. Se poi dico ad esempio "dopodomani il Sole esploderà" posso verificare/falsificare questa proposizione. Se invece dico "esiste un altro universo oltre al nostro il quale è impossibile da osservare" tale proposizione è indecidibile. Perciò ti serve chiarire gli assiomi da cui parti e chiarire una metologia per validare la proposizione.
 quello che voglio dire io è che le proposizioni che facciamo possono essere dimostrate solo all'interno di determinati assiomi quindi  sono dimostrabili solo quando è possibile chiarire il punto di vista. Ad esempio la proposizione il "Sole è giallo" la puoi dimostrare osservandolo. La proposizone "il giallo del Sole che vedo io e che vedi tu è lo stesso" invece non è dimostrabile ma indecidibile. Torna molto comodo assumere che sia così però è indimostrabile. Ciò che è indimostrabile quindi lo devi rigettare o accettare con almeno un po' di fede. Ora questa fede può essere ragionevole o irragionevole ma questo è un altro discorso. Se poi dico ad esempio "dopodomani il Sole esploderà" posso verificare/falsificare questa proposizione. Se invece dico "esiste un altro universo oltre al nostro il quale è impossibile da osservare" tale proposizione è indecidibile. Perciò ti serve chiarire gli assiomi da cui parti e chiarire una metologia per validare la proposizione.  Ad esempio per amore posso sposarmi e fare figli. Per amore posso donare denaro ai poveri, per amore posso andare a fare il missionario. Ma per amore posso anche studiare all'università, pur essendo un "atto" meno concreto di quelli elencati prima. Per amore posso criticare qualcuno se penso che sbaglia. Come vedi ci sono tantissimmi atti che possono essere visti come amore. C'è poi l'amore interessato e quello disinteressato, c'è l'amore che nasce da una confessione e così via. In generale un atto d'amore verso qualcuno è un atto con cui si vuole contribuire in modo positivo a chi lo riceve. Quindi il lavoro nella società può essere inteso in questo modo. Poi c'è l'amore come dono di sé. Poi c'è l'amore contemplativo ecc. Ce ne sono talmente tanti che però alla fine si finisce per avere anche delle concezioni problematiche dello stesso amore. Ad esempio per "amor per la patria" posso andare in guerra contro un altra nazione, per "amore della mia gente" posso fare una rivoluzione. Per amore della mia famiglia posso inimicarmi delle altre e così via. L'eutanasia in certi casi può essere considerata un atto d'amore. Come vedi la parola "amore" è usata in troppi contesti che sono tra di loro contraddittori. Se quello che ho capito dell'amore cristiano è corretto, questo significa amare tutte le persone proprio come il Creatore. Personalmente ho grosse difficoltà a mettere in pratica questo precetto perchè onestamente uno che mi fa un dispetto mi fa arrabbiare. Capisco però che non dovrei arrabbiarmi e quindi cerco di trattenere l'ira. Cerco di trattenere per quanto mi è possibile la violenza. Dunque avendo questo come ideale cerco di limitare il danno che posso fare alle altre persone. Tuttavia per pura riconoscenza e per rispetto mi trovo ad amare di più la mia famiglia e i miei amici rispetto ai miei nemici, i quali comunque cerco di non trattarli male. Questa "etica" mi è nata sia per così dire dal cuore che dalla ragione. Detto questo mi ritengo comunque una persona molto imperfetta che deve ancora crescere e imparare molto. E credo che una cosa come la "perfezione morale" è in questa direzione che tento di seguire, con ahimé poco successo.
 Ad esempio per amore posso sposarmi e fare figli. Per amore posso donare denaro ai poveri, per amore posso andare a fare il missionario. Ma per amore posso anche studiare all'università, pur essendo un "atto" meno concreto di quelli elencati prima. Per amore posso criticare qualcuno se penso che sbaglia. Come vedi ci sono tantissimmi atti che possono essere visti come amore. C'è poi l'amore interessato e quello disinteressato, c'è l'amore che nasce da una confessione e così via. In generale un atto d'amore verso qualcuno è un atto con cui si vuole contribuire in modo positivo a chi lo riceve. Quindi il lavoro nella società può essere inteso in questo modo. Poi c'è l'amore come dono di sé. Poi c'è l'amore contemplativo ecc. Ce ne sono talmente tanti che però alla fine si finisce per avere anche delle concezioni problematiche dello stesso amore. Ad esempio per "amor per la patria" posso andare in guerra contro un altra nazione, per "amore della mia gente" posso fare una rivoluzione. Per amore della mia famiglia posso inimicarmi delle altre e così via. L'eutanasia in certi casi può essere considerata un atto d'amore. Come vedi la parola "amore" è usata in troppi contesti che sono tra di loro contraddittori. Se quello che ho capito dell'amore cristiano è corretto, questo significa amare tutte le persone proprio come il Creatore. Personalmente ho grosse difficoltà a mettere in pratica questo precetto perchè onestamente uno che mi fa un dispetto mi fa arrabbiare. Capisco però che non dovrei arrabbiarmi e quindi cerco di trattenere l'ira. Cerco di trattenere per quanto mi è possibile la violenza. Dunque avendo questo come ideale cerco di limitare il danno che posso fare alle altre persone. Tuttavia per pura riconoscenza e per rispetto mi trovo ad amare di più la mia famiglia e i miei amici rispetto ai miei nemici, i quali comunque cerco di non trattarli male. Questa "etica" mi è nata sia per così dire dal cuore che dalla ragione. Detto questo mi ritengo comunque una persona molto imperfetta che deve ancora crescere e imparare molto. E credo che una cosa come la "perfezione morale" è in questa direzione che tento di seguire, con ahimé poco successo.  ... Leggendo e rileggendo le posizioni di Apeiron e anche di Bluemax mi sembra di poter affermare che non sono propriamente posizioni buddhiste, soprattutto sulla natura dell'anatta, che è obiettivamente molto sfuggevole e di difficile comprensione( e' sicuramente il pronunciamento del Buddha più controverso e più originale, in campo religioso, a mio modesto parere...). Il primo fraintendimento è quello di ritenere il sé un'illusione". Il termine "illusione" va riferito alla credenza del pensiero sulla permanenza duratura del sè e non sul sé in quanto tale. Il sè esiste ma, come tutti i fenomeni composti da aggregati, è impermanente, ossia non è dotato di sostanza propria che non sia quella degli aggregati che lo compongono( a loro volta impermanenti...). Dobbiamo sempre sforzarci di comprendere che il Buddha storico ha insegnato la via di mezzo, ossia quella visione del reale lontana dai due estremi in cui , solitamente, si rifugia il pensiero. Buddha rifiuta la visione di una sostanza eterna nelle cose e , nello stesso tempo, rifiuta la visione che le cose siano illusorie come "bolle di sapone". Ossia rifiuta in egual misura l'idea che i fenomeni (interiori ed esteriori) siano oppure non siano realmente esistenti ( qui per realmente esistente s'intende che un fenomeno sia dotato di natura intrinseca, duratura, eterna, non modificabile...). Quando si parla di non-sé ci si deve riferire alla sua inconsistenza , impermanenza e assenza di identità. Questa inconsistenza non deve essere intesa come una fantasmagoria, una magia, un "velo di maya" che come una nebbia cela la realtà del "vero sé". Non c'è alcun vero sé , al di là degli aggregati che compongono il sé. Postulare l'esistenza di un vero sé ci farebbe cadere nell'estremo positivo dell'eternalismo, chiaramento rigettato dal Buddha. Affermare però semplicemente che "il sé non esiste" ci farebbe a sua volta precipitare nella visione negativa del nichilismo, a sua volta chiaramente e indubitabilmente rifiutata da Gotama. Tutti gli asceti e i brahmani che concepiscono le molteplici ( cose o idee) come un sé, concepiscono i cinque aggregati, o uno qualsiasi di essi, ( come un sé). Samyutta Nikaya, 22:47 L'ordinaria formulazione della dottrina dell'anatta:" Questo non fa parte di me, io non sono questo, questo non è il mio io" fa ritenere da alcuni ( anche autori buddhisti...) che il buddha presupponeva l'esistenza di un "sé" al di fuori, o al di là, dei cinque aggregati ai quali si riferisce, di solito, la formulazione. Questa deduzione errata viene smentita dal Buddha stesso che dice chiaramente che tutte le molteplice concezioni di un sé sono sempre relative ai cinque aggregati. Come potrebbe formarsi una qualsiasi idea di un sé o di una personalità, se non in base al materiale costituito dai cinque aggregati e ad un fraintendimento al loro riguardo? Su che altro potrebbero essere fondate le nozioni riguardo al sé?
... Leggendo e rileggendo le posizioni di Apeiron e anche di Bluemax mi sembra di poter affermare che non sono propriamente posizioni buddhiste, soprattutto sulla natura dell'anatta, che è obiettivamente molto sfuggevole e di difficile comprensione( e' sicuramente il pronunciamento del Buddha più controverso e più originale, in campo religioso, a mio modesto parere...). Il primo fraintendimento è quello di ritenere il sé un'illusione". Il termine "illusione" va riferito alla credenza del pensiero sulla permanenza duratura del sè e non sul sé in quanto tale. Il sè esiste ma, come tutti i fenomeni composti da aggregati, è impermanente, ossia non è dotato di sostanza propria che non sia quella degli aggregati che lo compongono( a loro volta impermanenti...). Dobbiamo sempre sforzarci di comprendere che il Buddha storico ha insegnato la via di mezzo, ossia quella visione del reale lontana dai due estremi in cui , solitamente, si rifugia il pensiero. Buddha rifiuta la visione di una sostanza eterna nelle cose e , nello stesso tempo, rifiuta la visione che le cose siano illusorie come "bolle di sapone". Ossia rifiuta in egual misura l'idea che i fenomeni (interiori ed esteriori) siano oppure non siano realmente esistenti ( qui per realmente esistente s'intende che un fenomeno sia dotato di natura intrinseca, duratura, eterna, non modificabile...). Quando si parla di non-sé ci si deve riferire alla sua inconsistenza , impermanenza e assenza di identità. Questa inconsistenza non deve essere intesa come una fantasmagoria, una magia, un "velo di maya" che come una nebbia cela la realtà del "vero sé". Non c'è alcun vero sé , al di là degli aggregati che compongono il sé. Postulare l'esistenza di un vero sé ci farebbe cadere nell'estremo positivo dell'eternalismo, chiaramento rigettato dal Buddha. Affermare però semplicemente che "il sé non esiste" ci farebbe a sua volta precipitare nella visione negativa del nichilismo, a sua volta chiaramente e indubitabilmente rifiutata da Gotama. Tutti gli asceti e i brahmani che concepiscono le molteplici ( cose o idee) come un sé, concepiscono i cinque aggregati, o uno qualsiasi di essi, ( come un sé). Samyutta Nikaya, 22:47 L'ordinaria formulazione della dottrina dell'anatta:" Questo non fa parte di me, io non sono questo, questo non è il mio io" fa ritenere da alcuni ( anche autori buddhisti...) che il buddha presupponeva l'esistenza di un "sé" al di fuori, o al di là, dei cinque aggregati ai quali si riferisce, di solito, la formulazione. Questa deduzione errata viene smentita dal Buddha stesso che dice chiaramente che tutte le molteplice concezioni di un sé sono sempre relative ai cinque aggregati. Come potrebbe formarsi una qualsiasi idea di un sé o di una personalità, se non in base al materiale costituito dai cinque aggregati e ad un fraintendimento al loro riguardo? Su che altro potrebbero essere fondate le nozioni riguardo al sé?  Buddha, nel seguito del testo citato, afferma che questa è la sola possibile causa per la formazione delle idee di un sé: "Se ci sono il corpo, le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza, a causa di essi e dipendentemente da essi si manifesta la credenza nell'individualità ( indipendente)...e lo speculare relativo a un sé ( Samyutta Nikaya, 22: 154,155). Nessuna concezione eternalistica di un "vero sé" oltre le apparenza del sè convenzionale, e nessuna concezione eternalistica del Nirvana, in qualsiasi forma, è conciliabile con gli insegnamenti del Buddha esposti nei testi più antichi, ossia nel Canone pali. Personalmente ho trovato sempre utile tenere a mente che l'anatta ( o non-sé) è l'effetto di anicca ( impermanenza di tutti i fenomeni). Solo nella comprensione profonda, nel nostro "animo", che tutto passa si può capire la dimensione esistenziale dell'anatta. Per colui, Kacchana, che considera, secondo la realtà e con vera saggezza, l'originarsi del ( e nel) mondo, non c'é quella che nel mondo è chiamata 'non-esistenza' (natthita). Per colui, Kacchana, che considera, secondo la realtà e con vera saggezza, il cessare del ( e nel) mondo, non c'è quella che nel mondo è chiamata 'esistenza' (atthita). Questo mondo, Kacchana, è generalmente imprigionato nelle inclinazioni, negli attaccamenti e nei pregiudizi. Ma per quanto concerne queste inclinazioni, attaccamenti, rigidi atteggiamenti mentali, pregiudizi e tendenze profondamente radicate, egli ( l'uomo che ha la giusta comprensione) se ne tiene lontano, non vi aderisce, non nutre l'atteggiamento mentale: 'Io ho un sè'. Egli non ha dubbi o incertezze sul fatto che è la sofferenza, in verità, che appare ed è la sofferenza che cessa. Riguardo a questo la sua conoscenza non dipende dagli altri. Questo, Kacchana, è ciò che qualifica l'uomo che ha una giusta comprensione". (Samyutta Nikaya, 12:15). Adesso vado a bermi un pò di tachidol...
 Buddha, nel seguito del testo citato, afferma che questa è la sola possibile causa per la formazione delle idee di un sé: "Se ci sono il corpo, le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza, a causa di essi e dipendentemente da essi si manifesta la credenza nell'individualità ( indipendente)...e lo speculare relativo a un sé ( Samyutta Nikaya, 22: 154,155). Nessuna concezione eternalistica di un "vero sé" oltre le apparenza del sè convenzionale, e nessuna concezione eternalistica del Nirvana, in qualsiasi forma, è conciliabile con gli insegnamenti del Buddha esposti nei testi più antichi, ossia nel Canone pali. Personalmente ho trovato sempre utile tenere a mente che l'anatta ( o non-sé) è l'effetto di anicca ( impermanenza di tutti i fenomeni). Solo nella comprensione profonda, nel nostro "animo", che tutto passa si può capire la dimensione esistenziale dell'anatta. Per colui, Kacchana, che considera, secondo la realtà e con vera saggezza, l'originarsi del ( e nel) mondo, non c'é quella che nel mondo è chiamata 'non-esistenza' (natthita). Per colui, Kacchana, che considera, secondo la realtà e con vera saggezza, il cessare del ( e nel) mondo, non c'è quella che nel mondo è chiamata 'esistenza' (atthita). Questo mondo, Kacchana, è generalmente imprigionato nelle inclinazioni, negli attaccamenti e nei pregiudizi. Ma per quanto concerne queste inclinazioni, attaccamenti, rigidi atteggiamenti mentali, pregiudizi e tendenze profondamente radicate, egli ( l'uomo che ha la giusta comprensione) se ne tiene lontano, non vi aderisce, non nutre l'atteggiamento mentale: 'Io ho un sè'. Egli non ha dubbi o incertezze sul fatto che è la sofferenza, in verità, che appare ed è la sofferenza che cessa. Riguardo a questo la sua conoscenza non dipende dagli altri. Questo, Kacchana, è ciò che qualifica l'uomo che ha una giusta comprensione". (Samyutta Nikaya, 12:15). Adesso vado a bermi un pò di tachidol... 