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Messaggi - Phil

#1186
Citazione di: Sariputra il 06 Marzo 2020, 10:34:47 AM
Perfetto. "Sentirsi essere" è ben diverso dal "pensare l'essere", infatti...
Nagarjuna lo spiega con altre parole, ma questo intende quando dice:




"Chi pensa che una cosa esiste, si ha, come conseguenza, la dottrina
dell'eternità (eternalismo); chi pensa che una cosa non esiste, si ha, come conseguenza, la
dottrina dell'annientamento (nichilismo). L'intenditore, perciò, si studi di evitare l'idea
dell'esistenza e della non-esistenza."
Sullo scollamento fra concettualizzazione della realtà e vuoto-concettuale nella realtà (e sul non-attaccamento alla concettualizzazione):
«Non è [il concetto di] vuoto che rende vuote le cose; piuttosto, esse sono da sole semplicemente vuote. Non è [il concetto di] assenza di una qualche causa ultima che rende le cose mancanti di tale causa, piuttosto ad esse semplicemente manca una causa ultima. Non è [il concetto di] assenza di un scopo ultimo che rende le cose mancanti di uno scopo ultimo; piuttosto, ad esse semplicemente manca uno scopo ultimo. <O Kasyapa, io chiamo questa accurata riflessione la Via di Mezzo, veramente una accurata riflessione. Kasyapa, io dico che quelli che si riferiscono alla vacuità come "l'immagine mentale (upalambha) del vuoto" sono i più perduti dei perduti....lnvero, Kasyapa, sarebbe meglio sostenere una prospettiva filosofica della realtà ultima della persona individuale a misura del Monte Sumeru, piuttosto che essere attaccati a questa visione della vacuità come un "non-essere". Perché è così? - Perché, Kasyapa, la vacuità è l'esaurimento finale di ogni visione filosofica. Chiunque sostenga la vacuità come una visione filosofica io lo chiamo incurabile. O Kasyapa, è come se un medico stesse per dare una medicina ad un malato e quando la medicina avesse curato tutti i mali originari, essa rimanesse nello stomaco e non venisse essa stessa espulsa. Cosa pensi, Kasyapa, sarebbe curato quest'uomo dalla sua malattia?> - <No di certo, o Beato, se la medicina curasse tutti i mali originari e però rimanesse nello stomaco, non-espulsa, la malattia dell'uomo peggiorerebbe di molto>. Il Beato allora disse: <Esatto, Kasyapa, così è; perché la vacuità è l'esaurimento finale di ogni visione filosofica. Ed io chiamo incurabili coloro che sostengono la vacuità come una visione filosofica!» (Madhyamika, 119).
#1187
Citazione di: paul11 il 04 Marzo 2020, 19:48:30 PM
Un cane alla catena dovrà il padrone sostentarlo. Un cane randagio dovrà badare a se stesso compreso il sostentamento.
C'è chi nasce per non prendersi responsabilità e sono le moltitudini di pecore smarrite che cercano  sempre l' uomo forte" e lo votano alle politiche perché, essendo  illusi e ingenui, gli risolva i loro problemi. Per esperienze sociali mie personali, sono pochi che hanno "gli attributi" per decidere
e prendersi le responsabilità e molti scappano per "non sporcarsi le mani".
Questo "culto della forza", che incorona chi detta le sue leggi sollevando gli altri dall'incombenza di prendersi le proprie responsabilità e "sporcarsi le mani", mi pare avere (senza voler polemizzare) un suo riflesso anche in una certa "filosofia forte":
Citazione di: paul11 il 02 Marzo 2020, 14:30:09 PM
Per me è necessario che un pensiero per essere forte deve avere dei paradigmi inossidabili, deve avere analisi di almeno tre millenni, deve dichiarare identità e morale se vuole unire le pecore nelle moltitudini delle latitudini e longitudini, perché la globalizzazione standardizza le culture e diversità, le pialla come i gusti e i stili di vita. La prossima cultura necessariamente dovrà unire le identità [...]
Le  vere filosofie, o pensieri forti, uniscono.
Lasciando dunque fuori la "forza", o meglio, la "durezza" delle hard sciences, credo che la riflessione sulla "forza" (lascerei da parte anche la specificità politica) sia inaggirabile per il pensiero contemporaneo e non possa non fare i conti con il perturbante "tabù del fondamento": quella forza assertiva e normativa dei paradigmi dominanti, tanto monolitici quanto talvolta conflittuali fra loro, quelle calcificazioni a malapena scheggiate da secoli di storia, fondano una forza e/o sono fondate da una forza? E se sì, quali sono le forze in gioco?

La forza con cui una filosofia presuppone un dover-essere di "x" (sia esso il noumeno, una divinità, il Bene, l'archè, etc.), descrivendo le "caratteristiche" di tale x e al contempo predicandone la (momentanea?) inaccessibilità (doppio movimento in stile "rocchetto freudiano"), tale forza che propone con forza, su quale (eventuale) forza si fonda?

Si fonda forse sul suo stesso dover-essere, poiché altrimenti verrebbe meno il dover-essere di ciò che essa stessa fonda? Se è così, siamo in pieno circolo vizioso: deve esistere x altrimenti non posso più affermare che y sia contemporaneamente implicato da x e dimostrazione dell'esistenza di x (esempio: deve esistere un archè del mondo, anche se non se ne sa nulla di attendibile, altrimenti non potremmo più spiegare il mondo tramite un archè e il mondo non sarebbe più a sua volta dimostrazione dell'esistenza di un'archè).

Se tale forza si basa sulla tradizione, va comunque preso atto che le tradizioni sono più d'una e, anche nei denominatori comuni (in ottica comparativo-sincretica), le chiavi di lettura antiche di secoli non possono avere "ad honorem" una validità maggiore di quelle attuali (senza nemmeno credere facilmente alla storia dei nani sulle spalle dei giganti) perché ciò significherebbe che il pensiero contemporaneo è destinato a ristagnare nel gioco di tradurre l'antico nella lingua moderna (ed eccoci qui a parlare "parmenidese", "platonese", etc.), ma senza poter dover uscire dai sacri confini teoretici tracciati secoli addietro. Di nuovo: può andar anche bene, ma su cosa si fonda la forza "metafisica" di tale divieto?

Gli "empi randagi" che valicano tali confini, abbandonando il "campo di forza" del pensiero unitario e unificante («le vere filosofie, o pensieri forti, uniscono», dici), non possono forse "sporcarsi le mani", essendosi rimpossessati dei loro piccoli artigli filosofici, che chi è dentro il recinto ha consegnato in pegno al Leviatano pur di avere una forza che regoli il proprio mondo e a cui appellarsi (come dici nella prima citazione)?
Quando si parla dell'Essere, della virtù, etc. dove "finisce" il discorso storicistico, dove quello ermeneutico, dove quello di "proposta" filosofica?

Per me non si tratta di entrare nel merito delle peculiarità del paradigma fondato, se esso sia perfettamente valido, o "il migliore", o il più diffuso (né se sia esso religioso, metafisico, materialista o altro), quanto piuttosto di partire dalla consapevolezza della forza del fondamento in questione, chiedendosi schiettamente: quanto è forte?
In generale, non necessariamente la forza del fondamento è direttamente proporzionale al valore del fondato: l'arte ha fondamenti deboli e mutevoli, ma il suo valore sociale, culturale, etc. è decisamente importante e "ricco".
E in filosofia?

Accarezzando il topic: una "rivoluzione" filosofica che non si interroghi sui propri fondamenti, secondo me non può costituire una valida alternativa a ciò che vorrebbe rivoluzionare, perché rischia di partire inconsapevolmente dagli stessi presupposti di ciò che la precede, limitandosi a combinarli differentemente (quindi non è rivoluzione, quanto piuttosto "ars (ri)combinatoria").


P.s.
Se non erro, i "grandi" filosofi, oltre a guardare al passato e dentro i libri, si guarda(va)no anche attentamente intorno, attenti a ciò che proponevano le altre discipline coeve (e non solo umanistiche); un'attitudine che spesso oggi viene dimenticata, dipingendo il teoreta come colui che non deve essere sincronizzato all'attualità, ma indugiare sulle questioni che erano attuali per Kant, Hegel o addirittura Parmenide, senza doverle conciliare con ciò che ci circonda, perché ciò è mera contingenza-immanenza. Anche qui: "giusto" o "sbagliato" che sia, su cosa si fonda la forza di tale (non-)dovere e quanto è forte?
#1188
Tematiche Filosofiche / Re:Al di là dell'aldilà
04 Marzo 2020, 23:50:19 PM
Citazione di: Jean il 04 Marzo 2020, 21:50:52 PM
Questo sito https://www.worldometers.info/coronavirus/  lo trovo tra i migliori per chi voglia tenersi aggiornato (se traducete la pagina con google, al posto di "Iran" rende "Mi sono imbattuto"... misteri algoritmici)
Mistero che proporrei di risolvere supponendo che l'algoritmo abbia tradotto «Iran» con «I ran (into)», ovvero il passato dell'inglese «run» (correre, ma anche incorrere, imbattersi). L'"ingenuo" algoritmo ha cercato di tradurre diligentemente anche ciò che non andava tradotto; la "macchina che sa l'inglese" ha sbagliato dove l'uomo che non sa l'inglese non avrebbe sbagliato, per questo i due si completano bene.
#1189
Citazione di: Eutidemo il 02 Marzo 2020, 16:43:02 PM
Citazione di: Phil il 01 Marzo 2020, 18:17:10 PM
Il paradosso citato mi ha ricordato il paradosso del bibliotecario, forse l'unico paradosso logico che non sia mero gioco di pensiero (come quello del sorite, del barbiere, del mentitore, etc.) ma che possa essere "realizzato" concretamente producendo uno stallo (o addirittura un autolicenziamento...).
Esatto, ed infatti anche il paradosso del bibliotecario è un'altra versione del paradosso di Russell; che lui stesso risolse matematicamente.
Non ho trovato in rete la soluzione matematica del paradosso del bibliotecario (forse avrei dovuto cercarla in biblioteca?) e, se mi immedesimo in lui, non riesco a intuire come una matematica possa aiutarmi nella compilazione del catalogo "indecidibile"... forse c'è una soluzione normativa («è proibito che un catalogo citi altri cataloghi al suo interno», da cui non avrebbe più senso un catalogo di quelli che non si autocontengono, ovvero tutti, né il catalogo di quelli che si contengono, ovvero nessuno), ma quella matematica mi sfugge.
#1190
Tematiche Filosofiche / Re:Al di là dell'aldilà
01 Marzo 2020, 23:39:31 PM
Citazione di: Jean il 01 Marzo 2020, 22:36:55 PM
Il punto è che una trasformazione che sia sufficientemente profonda da produrre un concreto vantaggio, difficilmente verrà accantonata, salvo motivi di forza maggiore.

Una volta che avremo (chissà...) le auto che si guidano da sole man mano verrà soppiantata la guida manuale, è il progresso, bellezza... avrai tutto il tempo di dedicarti ai consigli di un "onnipresente" monitor, posto da qualche parte se non addirittura "dentro" di te.

Ma anche una trasformazione che produca uno "svantaggio" (eufemismo) profondo impatterà (irrevocabilmente?) drasticamente sul nostro stile di vita.
In un certo senso stiamo passando dal «c'era una volta» al «ci sarà una volta»: le clonazioni di animali (ma l'uomo cos'è?) non sono più utopia né capriccio dei milionari, i "microchip" sottopelle sono già in circolazione e la tecnologia continua a compenetrare il mondo e il corpo umano. Tuttavia, secondo me, resta ancora valida la legge della domanda e dell'offerta: la tecnologia è pur sempre un golem a cui chiediamo di fare qualcosa, ovvero non fa nulla che qualcuno non gli abbia messo in test(a), e se anche il test va bene, si tratta poi di instillarne l'esigenza nelle masse (e le arti affabulatorie di vendita hanno raggiunto livelli tanto elevati quanto quelli delle loro contromisure, sebbene queste ultime siano meno "pandemiche"). C'è anche chi si oppone fermamente allo sviluppo "sfrenato", magari passando all'estremo opposto o proponendo nuove categorie altrettanto "sfrenate"; di sicuro, non siamo nell'epoca della semplicità, né del vivere né delle questioni su cui riflettere.
#1191
Racconti Inediti / Re:Il pizzaiolo
01 Marzo 2020, 19:13:36 PM
Citazione di: Jean il 01 Marzo 2020, 14:24:38 PM
ORA.NO

Rilancio invertendo «orano» in «onaro»: nome di una frazione del Veneto (comune di Scorzè), regione a cui sono collegabili il virus, Sariputra e... un cavallo chiamato Onaro, che è salito sul podio per l'ultima volta il 22 febbraio scorso (la stessa data in cui è stata emessa un'ordinanza per la quarantena). La competizione equina si è tenuta all'Horse Club Terra Ionica, nome di chiaro riferimento allo Ionico che è il mare che bagna la regione che, come raccontato da Jean, fu vittima di un epidemia. Epidemia che oggi pare tornare d'attualità con il virus originato in Cina, che è la nazione che produce più asparagi, i quali, chiudendo il cerchio, erano il desiderio del cliente borioso che in pizzeria fu acquietato da un paio di «ora no!».
#1192
Il paradosso citato mi ha ricordato il paradosso del bibliotecario, forse l'unico paradosso logico che non sia mero gioco di pensiero (come quello del sorite, del barbiere, del mentitore, etc.) ma che possa essere "realizzato" concretamente producendo uno stallo (o addirittura un autolicenziamento...).
#1193
Tematiche Filosofiche / Re:Sileno
29 Febbraio 2020, 23:43:04 PM
Citazione di: Ipazia il 29 Febbraio 2020, 22:01:46 PM
La tragedia del vivere mortale non è più tale se si supera la fase pietrificante della Medusa, cosa per cui già Epicuro aveva fornito la sua ricetta. L'oltreuomo prende pienamente possesso della sua condizione mortale senza restarne travolto [...] Prendere atto del destino mortale fino ad amarlo questa è la firma dell'oltreuomo; il progetto spirituale immanente, terreno (Erdgeist) su cui Nietzsche-Zarathustra spende la sua vita
Non so se l'oltreuomo sia pensato da Nietzsche (che conosco poco) come immune alla condizione umana mortale, ma finché è pur sempre uomo, difficile che non ne sia "travolto" o trascinato (...nolentem trahunt, direbbe Seneca); pensare ad una volontà di potenza che guardi con amore e voluttà anche il proprio esaurirsi è come pensare ad un Dioniso che guardi con amore e voluttà lo svuotarsi della sua giara di vino (e qui lascerei fuori i risvolti psicoanalitici, lacaniani, etc.). Si può fare buon viso a cattiva sorte, ma la "cattiveria" della sorte resta, così come una storia che termini con la morte del protagonista principale solitamente è una tragedia, anche se l'eroe dichiara di aver scelto la morte, di volerla (personalmente, per inciso, non penso affatto che la vita sia una tragedia, cerco solo di non uscire troppo dalle categorie del Sileno nietzschiano del topic).


P.s.
Credo che Nietzsche troverebbe nella tetra-ricetta epicurea un retrogusto troppo "apollineo": il (eu)daimon di Epicuro, lucido e ponderato, è troppo lontano da Dioniso, il piacere catastematico è troppo lontano dalla "verticalità epocale" dell'oltreuomo.
#1194
Tematiche Filosofiche / Re:Sileno
29 Febbraio 2020, 11:14:41 AM
Il contrasto fra il dio(nisiaco) e l'uomo-Mida è fondamento della tragedia: l'immortale contrasta con il mortale, chi sa contrasta con chi non sa (e insiste nel domandare), la vita naturale ed edonistica contrasta con la vita "culturale" da re e la sua avidità di beni materiali, etc. ne consegue che la figura dell'uomo, mortale, ignorante e avido (il "filisteo") non può che esser tragica. Forse anche l'oltre-uomo, colui che è "oltre" il coro, non potrebbe che esser anch'egli eroe tragico, che con la sua necessaria morte (e annesso amor fati) terrebbe in vita l'eterno ritorno, ovvero il percorso che porta al suo stesso coronamento "oltre" l'umanità deicida, ma non oltre la tragedia del vivere (l'esser-per-la-morte, come riformulerà qualcuno venuto dopo Nietzsche).
#1195
Citazione di: Eutidemo il 27 Febbraio 2020, 13:02:43 PM
a me pare ovvio che:
- chi fa più controlli trova più contagiati;
- chi fa meno controlli trova meno contagiati.

Da profano di statistica, non sono sicuro sia così: se entrambi abbiamo ciascuno 100 scatole di cui 50 contengono una moneta, può capitare che tu aprendone 10 (delle tue) trovi 8 monete (80%), mentre io controllandone di più, ad esempio aprendone 20 (delle mie), trovi solo 2 monete (10%); con entrambi i valori comunque molto differenti dalla realtà (50%).


Credo che un'informazione accurata non debba proporre solo le percentuali, ma anche le quantità assolute; ciò aiuterebbe a lasciar meglio intuire anche l'instabilità delle percentuali: se ad esempio quel 8% di mortalità per l'età 70-79 anni, è basato su 8 casi di morte su 100, qualora ci fossero 20 nuovi casi tutti con esito fatale, la percentuale salirebbe rapidamente a 23,3% (+15,3%); se invece fosse un 8% basato su 80 casi su 1000, 20 ulteriori morti alzerebbero la percentuale solo al 9,8% (+1,8%).
#1196
Citazione di: Ipazia il 24 Febbraio 2020, 20:26:32 PM
Ineccepibile dal punto di vista logico, ma di difficile applicazione in uno stadio prelogico in cui l'esistenza dice qualcosa ad un soggetto che non vi si relazione in modo logico bensì istintuale/intuitivo, interpretando comunque con cognizione di causa (prelogica) il fatto, l'accadimento
Il "dire" dell'esistenza è una metafora, il dire cogitante dell'uomo è invece attività concreta; il primo è un accadere/esistere "ontologico", il secondo un concettualizzare/narrare umano.
I cani di Pavlov hanno cognizione di causa, di verità, etc. o solo di prima/dopo, accadere/non-accadere? Punterei sul secondo gruppo, pur non negando affatto che siano animali con una loro "intelligenza" (qualunque sia il senso di questa parola).
Nel momento in cui l'uomo interpreta con cognizione, l'istinto e l'intuito restano umani, quindi permane, almeno secondo me, una deformazione concettuale, altrimenti l'interpretandum resterebbe tagliato fuori, inaccessibile alla sua stessa interpretazione (che richiede la sua concettualizzazione). Quando invece l'uomo (re)agisce d'istinto e d'intuito, è meno concettuale e, non a caso, non si pone il problema della verità.


Citazione di: Ipazia il 24 Febbraio 2020, 20:26:32 PM
Molte scoperte portano alla verità per via intuitiva, per strane, al limite dell'onirico, associazioni mentali non logicizzabili nella consueta liturgia deduttivo-causale.
Una scoperta, per come intendo personalmente la verità, non porta alla "verità", porta al cospetto di un'esistenza, di una relazione fra esistenti, etc. (sebbene «esistenza» possa essere certamente sinonimo di «verità», al di qua dell'ambiguità di cui parlavo).
Quando il linguaggio comune parla di un detective che mira a "scoprire la verità", in fondo, cosa intende? Scoprire fatti, eventi, etc., magari in contrasto con un discorso falso o in cui sono raccontati male, per cui la verità torna così ad essere legame fra un discorso (quello vero) e l'esistenza, l'accadere. Se la verità è categoria del "discorso su qualcosa" non credo possa essere anche categoria del "qualcosa" di cui è discorso, se non a prezzo di una scomoda ambiguità fra discorrere ed esistere. Dunque per me non si "scopre la verità" dei fatti, piuttosto si può dire la verità sui fatti, che se sono in tal caso non esperiti (perché passati, assenti, etc.) ma concettualizzati, non possono che essere narrati (se ho il mal di schiena, lo percepisco, non ho nulla da scoprire; se ne parlo con il medico sorge il problema di raccontare la verità, di rispondergli: «mi dica cosa sente... quanto le fa male da 1 a 10? e se fa questo movimento? ha sollevato pesi? Dica la verità...» e se egli mi fa scoprire di avere uno stiramento, la mia esperienza di dolore non cambia, posso solo dirne il nome... "vero").
#1197
Citazione di: Ipazia il 22 Febbraio 2020, 19:07:28 PM
Un evento del tipo: "Caino uccise Abele", ammesso sia accaduto, è vero indipendentemente dalla sua narrazione, narratività e narratore. Non si tratta di reificare il concetto, ma di impedire la sua dissoluzione in una astrazione logica separata dalla realtà fattuale che gli dà senso e contenuto. Plurale, quanto sono gli ambiti di reale in cui non solo un discorso, ma pure un'esperienza di verità, si dà (verità sensibile, scientifica, storica, giudiziaria, testimoniale, logica, matematica,...).
Cosa significa che «è vero indipendentemente dalla sua narrazione» (come quella che stiamo facendo qui e ora)? Significa, se non sbaglio, che è stato un evento, un accadimento, un fatto. Può esserci un evento che sia non-vero? Direi di no, possiamo narrare che sia non vero («non è vero che Caino ha ucciso Abele») o narrare qualcosa di non vero («Abele ha ucciso Caino»), ma in quell'evento fattuale, sul piano dell'accadere, dell'esistere, fuori dalla sua narrazione, la categoria di verità resta, secondo me, estranea (o tautologica, se preferiamo: "ogni evento accaduto è vero"... ma allora, non a caso, siamo così ancora sempre dentro la narrazione, l'asserzione, quindi ha certamente senso parlare di «vero»).
Detto altrimenti, secondo me la verità appartiene al lato del soggetto (narrazione, descrizione, etc.), mentre nel lato dell'oggetto c'è esistenza (esperienza, accadere, etc.); il linguaggio è ciò attreverso cui l'uomo "guarda" il reale, conviene che egli sappia cosa appartiene alla "lente" e cosa al "panorama": nel mondo "troviamo" la verità, oppure la verifica del nostro discorso (concettualizzazione, etc.)? E quando non la troviamo, ciò che viene falsificato è la realtà o il nostro discorso?

P.s.
Fermo restando che in generale si parla di «verità» con tanti significati (empirico, mistico, logico, etc.); questa è solo la spiegazione della mia preferenza personale (quantomeno off topic).

P.p.s.
Citazione di: Jean il 22 Febbraio 2020, 20:03:22 PMpeccato per il "paradiso perduto"... alias la formattazione del testo...
Non ho più problemi con la formattazione dopo l'ultimo aggiornamento.
#1198
Citazione di: Hlodowig il 22 Febbraio 2020, 11:41:51 AM
Citazione di: Phil il 20 Febbraio 2020, 22:15:33 PM
..dei bambini consiste forse proprio nel non concepire il falso, la menzogna, etc. senza i quali la verità non può determinarsi, coincidendo a tal punto con l'esistenza..

Chiedo venia per l' imbecillità di aver leggermente modificato questa tua ultima parte.

[...] in questa frase, uno dei più bei concetti espressi della verità.
Quello a cui alludevo era soprattutto l'"uscita" dalla verità, ovvero il lasciarsela alle spalle come un'indicazione che, una volta (e)seguita, non può che restare indietro. Non si tratta di negazione della verità, come sarebbe la menzogna, quanto piuttosto di abbandono del piano delle categorie discorsive (inclusa quella di verità).
Nel momento in cui non c'è più discorso sulla verità e non c'è più contrapposizione alla falsità, c'è allora contatto im-mediato (non mediato dal medium linguistico-logico) con la realtà, esperienza diretta; si passa in pratica dalla narrazione del discorso alla narrazione dell'esistenza e nell'esistenza (probabilmente è ciò che esperiscono i viventi meno concettualizzanti, come i bambini piccoli e gli animali in genere).
Se chiamiamo questo contatto alinguistico «verità», allora ripiombiamo subito nel discorrere, sebbene, di fatto, quando lo esperiamo, non c'è nessuna verità (solo esperienza di esistenza): se mi dai uno schiaffo, provo dolore, non "verità"...
#1199
Citazione di: Ipazia il 21 Febbraio 2020, 22:46:58 PM
Per me: nella difesa a spada tratta di un'area riservata del linguaggio logico e della sua sfera concettuale, escludendo dal tuo orizzonte teoretico il cordone ombelicale che lega il pensiero al pensato, la res cogitans alla extensa che in essa cogitante rimbalza da tutte le parti coi suoi continui stimoli.
Forse più che lama di spada è lama di rasoio: non ontologizzo la verità, non ne faccio un ente, né un concetto che condividono uomini ed animali; la confino al valore che ha in logica/linguistica, ma, come ripetuto più volte, non certo per rinnegare la realtà extensa, né il suo rapporto con essa, né la dimensione extra-linguistica (significherebbe negare la sensibilità, il che sarebbe inaudito, e il mistico, per cui ho scomodato Buddha), quanto piuttosto per tutelare ciò che non è linguaggio dall'essere confuso/identificato con categorie linguistiche.
Se rinchiudo la verità nella cittadella del linguaggio/concettualizzazione, è proprio per poter parlare poi con meno ambiguità di ciò che linguaggio non è (esistenza, realtà, etc.); in fondo propongo solo di non confondere le categorie della narrazione con quelle degli eventi narrati, facendo appello alla consapevolezza che il linguaggio è un medium, non l'"oggetto" del discorso (altrimenti sarebbe come pensare che le metafore non siano solo un fenomeno linguistico, ma anche qualcosa di "reale", sostanziale, extra-linguistico, etc.).
#1200
Citazione di: green demetr il 21 Febbraio 2020, 11:44:35 AM
Esattamente come qualsiasi formalismo sari-buddista o philliano è una ideologia vessatoria della condizione paranoica.
Vessatoria perchè come al solito non pensa il reale.
Per me non si può pensare il reale (inteso come mondo esterno al singolo pensante); il reale si percepisce, si vive, etc. si può invece pensare al reale (mnemonicamente) o pensare un discorso sul reale, ovvero una sua concettualizzazione.
In quanto discorso, le sue regole (logiche, linguistiche, concettuali, etc.) credo non vadano confuse con leggi di altro tipo (siano esse della natura, della giurisprudenza o altro), che ovviamente non vengono sostituite da tale discorso, ma semmai "raccontate" e "indicate" da esso.
Il discorso sul reale non è il reale, sebbene influenzi il reale nel momento in cui diventa azione o comunicazione (che quindi innesca azioni altrui). Distinguere il discorso dal reale, non è escludere il reale o rinnegarlo, ma essere consapevoli dello scarto fra narrazione e "res exstensa" (di cui il narrante fa parte, ma non divaghiamo), fra verità del/nel discorso ed esistenza alinguistica, fra tutti i sutra e il sorriso di Buddha a Kasyapa (oppure, giocando sull'ambiguità del termine, fra «verità» come funzione logica e "verità" come realtà extra-logica).


Citazione di: Ipazia il 21 Febbraio 2020, 16:03:29 PM
La (dis)equazione:

mamma ≠ non mamma

è fatta propria dal cucciolo ben prima che la verità/falsità logica gli sia nota. Ed anche se confonde, ed io con lui, l'identità con la verità, tale confusione gli è veridicamente propedeutica alla sopravvivenza prima, e al ragionamento sul mondo che lo circonda, poi.
Intendevo esattamente questo; la conoscenza di quella (dis)equazione è proprio ciò che consente al cucciolo di (soprav)vivere anche senza fare ragionamenti (pre)logici di vero/falso. Essendogli ignota la distinzione vero/falso, non si può dire che egli faccia confusione: non può confondere ciò che usa con ciò che non (ri)conosce, semplicemente perché non gli è ancora stata insegnata (noi adulti dovremmo avere qualche scusante in meno).
Citazione di: Ipazia il 21 Febbraio 2020, 16:03:29 PM
coinvolgono tutta la nostra sensorialità nella veridica e prelogica lotta per la sopravvivenza laddove il falso e il vero della percezione sensoriale passano attraverso la stretta cruna dell'ago di un agguato/fuga riusciti.

In tal caso la lettura vera o falsa del fatto naturale fa la differenza e  il bravo predatore/preda lo impara assai presto, confermando con la sua longevità di avere bene appreso, non sul piano logico ma su quello fatale, cognitivo, la differenza tra vero e falso di un messaggio sensoriale (olfattivo, uditivo, visivo,...)
Più che la «lettura di», direi il «discorso (umano) su» verità/falsità del fatto naturale: dal canto suo, il predatore "legge" gli eventi tramite vero/falso o tramite, ad esempio, identificazione predabile/non-predabile? Davvero quando la preda vede sbucare il predatore da un cespuglio pensa concettualmente «diamine! quello era un falso arbusto! In verità era un predatore nascosto!» piuttosto che semplicemente «fuga!» o, ancor più verosimilmente, nemmeno quello? Scherzi a parte, chiaramente non ho prove di quel che passa nella testa degli animali, faccio solo la mia scommessa "alla cieca". Noi umani lo raccontiamo nei documentari in stile National Geographic usando le categorie di vero/falso, ma non so se sia lecito proiettare "antropocentricamente" le nostre categorie narrative nella mente del leone (piuttosto diversa della nostra, suppongo).


P.s.
Citazione di: Ipazia il 21 Febbraio 2020, 16:03:29 PM
Trovo artificioso, quasi ideologico, limitare la coppia verità/falsità alle forme e formalismi della ragione.
Secondo me, aiuta ad essere meno ambigui nei discorsi riguardo «verità», «realtà», «coerenza», «esistenza», etc. certamente la ricerca di accuratezza rischia di sconfinare nell'artificioso (questione di "unità di misura"). Ammetto di non capire bene in che modo tu e green demetr mi accostate all'"ideologia".


P.p.s
Citazione di: Vito J. Ceravolo il 21 Febbraio 2020, 18:09:03 PM
In ogni caso, per adesso vi ringrazio tutti nessuno escluso.
Grazie a te per gli stimolanti contributi.