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Messaggi - davintro

#121
Tematiche Filosofiche / Re:sull' etica
18 Marzo 2020, 15:56:54 PM

considero l'esperimento mentale l'approccio più propriamente filosofico, perché richiede una valutazione che non coglie le cose nella loro fattualità empirica, fattuale, contingente, ma delle possibilità, la cui presa in considerazione non è un perdersi nel gioco della fantasia sulle infinite alternative in cui la realtà può essere, bensì un metodo tramite cui rilevare gli elementi, i riferimenti costanti, che resisterebbero anche in opzioni estremi, e che, fintanto che il pensiero si ferma all'esperienza della realtà fattuale, finirebbero con l'essere confusi con gli elementi accidentali. Il pensiero necessita di considerare le cose nell'unità delle possibilità in cui potrebbero darsi (con il solo limite della non-autocontraddizione, cioè della logica formale) per coglierne l'essenza, il complesso di verità che resterebbe sempre presente in tutte queste possibilità, e queste verità vanno per l'appunto "testate", immaginando scenari estremi nei quali queste continuerebbero a essere riconosciute, senza più confondersi con delle convinzioni accidentali, con cui si mescolano in una certa situazione particolare. Nell'etica gli esperimenti mentali sono un esercizio di autoconsapevolezza, un setaccio tramite cui chiariamo a noi stessi le nostre priorità, la nostra gerarchia valoriale ipotizzando una situazione estrema in cui i diversi valori in gioco finirebbero con l'entrare in conflitto, esattamente come, immaginando che qualcuno ci costringa a vivere in un luogo lontano da casa (la classica "isola deserta") consentendoci di portare con noi solo alcuni oggetti e non altri, saremmo stimolati a riflettere su quali cose sono più importanti per noi, stilando una classifica di priorità, che non avrebbe necessità di essere pensata in situazioni ordinare in cui non c'è alcun vincolo di scelte. Come potremmo chiarire a noi stesse le nostre priorità di valori fermandoci all'abitudine di vedere le cose come sempre concilianti e compresenti, senza bisogno di stabilire quali sono per noi le più essenziali? Le applicazioni etiche sono del resto un ramo di questa impostazione da cui ne deriva un altro che la storia della filosofia ha sempre, in forme diverse, espresso, a un livello teoretico. Esperimenti mentali in fondo possono considerarsi il dubbio iperbolico cartesiano o l'epoche husserliana, tutte metodologie tese a sospendere il giudizio sulla realtà come contesto fattuale particolare per ipotizzare possibilità alternative in cui far emergere quel livello di conoscenze certe o evidenti, universalmente valido nel complesso delle possibilità mentalmente considerate dal metodo
#122
Tematiche Filosofiche / Re:Il ruolo della filosofia
18 Marzo 2020, 01:19:40 AM
 
Citazione di: paul11 il 16 Marzo 2020, 15:10:42 PM
@green
il reale non è affatto "quello". Nessun filosofo , neppure nella modernità, fa corrispondere il fenomeno alla ragione( il noumenico kantiano, il cogitan cartesiano, la volontà schopenhaueriana)-
Cosa si intende allora per reale?


L'etica (preferisco morale, ma va beh.....) è dipendente dall'ontologia sulla realtà.
In Kant è totalmente contraddittoria, non è possibile parlare del fenomeno se poi la conoscenza sta fra gli a priori e il noumenico. La sua si risolve come processo gnoseologico, pur sapendo che la
"la cosa in sé "non è risolvibile.  L'imperativo categorico da dove scaturisce? Dal fenomenico?
Si inventa necessariamente che fuoriesce dalla pratica, ennesima su contraddizione, perché non è un oggetto è ancora un processo umano teoretico prima di tutto a dichiarare la modalità morale umana
Schopenhauer stima molto Kant, ma se ne allontana in " Il mondo come volontà e rappresentazione" che ha influito su Nietzsche che non accetta la parte pessimistica, in quanto per Schopenhauer la realtà è negativa.


@ipazia
E' da qualche hanno che penso che il rapporto marxista e materialista fra struttura che determina la sovrastruttura, non funzioni affatto. Non funziona nemmeno in termini cultural filosofici, nonostante la selva di pensatori filo marxisti che sono più sociologi e antropologi nelle loro considerazioni, che filosofi.
La mia considerazione è che solo una morale può impedire lo sfruttamento umano dichiarandolo immorale e nelle pratiche giuridiche bollandolo come non legittimo. Quindi è il contrario di ciò che pensa Marx, è la sovrastruttura culturale teoretica e pratica politica giuridica che deve decidere: non si può aspettare che sia l'economia con il mercato o il materialismo ideologico a decidere quello che non verrà mai deciso. E non è neppure la condizione materiale economica a creare le condizioni per ribaltamenti culturali.


La parte giuridica di come il bios umano venga sottratto è spiegato nella "Nuda vita" di Giorgio Agamben, di cui a volte ho scritto nelle varie discussioni del forum.


@davintro
come spesso accade capisco e sono d'accordo in generale sulle tue argomentazioni.
Quì seguono solo alcune considerazioni.


il ruolo della filosofia, nasce da una constatazione ,prima ancora di una intenzionalità.
Come saprai il filosofo antico era phranesis, saggezza ed era ritenuto il livello culturale più alto da cui apprendere per gli stessi re greci. Aristotele era precettore di Alessandro Magno.


Possiamo dire che oggi è lo stesso? Oggi il filosofo è un saggio? Oggi della saggezza , la post modernità cosa se ne fa?
Cosa è allora oggi il filosofo?


Ritengo un po' ambiguo ritenere che la filosofia debba dire altro, negli spazi lasciati da altre discipline naturali e umane. Il filosofo se vuole fare cultura deve conoscere il suo tempo  e saperne leggere le contraddizioni e possibilmente dare una filosofia originale.
Non si può cadere nell'autocompiacimento, Aristotele poteva permetterselo per il ruolo che aveva assunto la filosofia nel contesto greco,di cui ho detto poco sopra.
Concordo che la filosofia debba essere anche, ma non solo, metafisica.


La modernità, per quanto non mi compiaccia molto di essa, ha posto nuove problematiche del tutto inevase dalla filosofia metafisica antica. Uno è ad esempio l'uomo, un altro il procedimento gnoseologico ormai acquisito nella filosofia della mente attuale, un altro le bioingegnerie, eutanasia, un altro il rapporto non ancora risolto fra fenomeno studiato dalle scienze e realtà della "cosa in sè".


Non è così automatico il passaggio fra teoresi filosofica e pratiche umane: avvengono dispositivi culturali mimetici che stravolgono l'autore filosofo da parte delle interpretazioni  storiche interessate non ha stravolgere il pensiero dell'autore, ma interpretando la mancanza di relazioni fra teorie  pratiche, piegandole ai propri interessi e spesso di bottega.
Avverto storicamente la mancanza della filosofia, di un ruolo culturale che non fosse solo un autocompiacimento. Il filosofo sembra dire: "ti do la mia verità", adesso sta a te cosa fartene.


Il lasciar fare ad altri, il lasciar interpretare, ha condotto la storia umana a ripetere sempre le stesse contraddizioni fra teoresi e prassi. Ma se al tempo di  Platone lo schiavo e il popolano erano analfabeti, oggi i contesti culturali sono diversi. Oggi il figlio dell'operaio può accedere all'università e leggersi Platone se vuole e diventare a sua volta filosofo , se vuole.


I contesti storici mutano anche le comunicazioni e le forme relazionali, oltre ai linguaggi.
Non si tratta di perdersi in sociologia, antropologia, politica, ecc. Ma  i principi che tengono in piedi le discipline naturali e umane sono i termini fondamentali che reggono la stessa filosofia: che cosa è la vita, la giustizia, la realtà, la cultura, il bene, la morale.


La storia filosofica ha letteralmente tolto termini filosofici antichi, rendendoli obsoleti e creando neologismi. Ma perché ha costruito un nuovo filosofare, bello o brutto, giusto  o sbagliato,
permeando l'intera cultura occidentale degli ultimi secoli. C'è un altro approccio filosofico, dove la metafisica non è più nello schema soprasensibile e sensibile, Schopenhauer quando parla di volontà come principio noumenico oltre la "cosa in sè", fa metafisica, come Spinoza fa panteismo. Come l'ontologia dell'essere heideggeriana è diversa dall'ontologia platonica.


Galileo e poi Newton ,non è che rivendicano spazi di autonomia facendo crociate contro Dio, e i più intelligenti teologi che lo processarono capirono questo. Semmai le scienze dichiararono nei fatti che la natura doveva essere reinterpretata, non Dio. Sarà l'illuminismo semmai a porre il problema ateo. Fu F.Bacone il vero ideologo del benessere tecnico scientifico.
Nessun filosofo moderno, come ho scritto a Green, ha convalidato la tesi che la scienza che studia il fenomeno trova la verità della "cosa in sè" ed è  a tutt'oggi non risolta, anzi ha creato nuove problematiche: cosa sono Io, come soggetto conoscente? Cosa è l'oggetto della "cosa in sè"? Quali sono le relazioni fra soggetto ed oggetto?



quando parlavo di automatismo (ma sarebbe meglio parlare di spontaneità) nel passaggio dalla teoretica filosofica alla prassi, lo intendevo dal punto di vista individuale della coerenza fra la propria personale visione del mondo, che ciascuno di noi ha, al di là dei vari livelli di sistematizzazione intenzionale dati dal fatto di essere stati stimolati da letture ad hoc, ed azioni. La mediazione che si interpone fra filosofia e prassi che consisterebbe nel complesso delle interpretazioni che deviano l'autentico pensiero di un filosofo rispetto  alle applicazioni che dovrebbero essere consequenziali, penso sia una possibilità che esiste nella misura in cui si identifica filosofia e storia della filosofia. Il pensiero dei filosofi che riceveremmo alterato da interpretazioni sarebbe quello dei filosofi del passato che studiamo all'interno della storia della filosofia, interpretazioni che costituiscono quel margine di distanza storica per la quale un modello teorico del passato perviene alla nostra conoscenza sempre tramite mediazioni. Il mio punto di vista era molto più ampio e generale e non considera una presunta identità filosofia-storia della filosofia. La filosofia che spontaneamente mettiamo in pratica nelle nostre azioni e perfino piccoli gesti riguarda questa personale visione del mondo, che nel caso di chi ha alle spalle uno studio scolastico/accademico della storia della filosofia, è certamente ispirato ai pensatori del passato, ma che al di là delle ispirazioni da cui trae spunto, è un complesso di idee assunto come riferimenti del nostro modo di pensare, anche quello che applichiamo nella pratica quotidiana, è la forma mentis, che appunto "forma" tutta la personalità e conseguentemente le scelte, nella misura in cui queste riflettono la nostra libertà. Noi, ciascuno di noi, siamo le filosofie di cui siamo convinti, ed ecco perché tra le convinzioni e le azioni c'è un nesso diretto, nesso dato dal fatto che sono due dimensioni che, seppur nella differenza, e anche nei conflitti, interagiscono sempre all'interno dell'unità di una persona di un soggetto, pensante ed agente. Sarò forse strano io, ma non mi sono quasi mai posto seriamente il problema di sospendere un ragionamento teorico per applicarlo nella pratica, in un momento estemporaneo, non perché pensi che la teoria sia più importante della pratica, ma proprio perché penso che siano due elementi che vanno sempre insieme, al di là di una volontà cosciente di armonizzarli o separarli, senza alcuna necessità di autoimporsi una discontinuità per cui si deve smettere di teorizzare per passare all'azione. Sono convinto che le mie personali  convinzioni filosofiche (che certo non sono sistematiche al punto da pretendere di considerarmi un vero filosofo/intellettuale, ma solo, si può dire, un modestissimo cultore) incidano sul mio modo di pensare in generale, che si riflette in ogni pratica quotidiana, nel modo di scrivere, di leggere, nelle relazioni sociali, forse persino nel modo di mangiare o nella scelta dei vestiti. Sono convinto esista un certo grado di coincidenza tra carattere psicologico e preferenze filosofiche, il che non andrebbe però male interpretato in un'ottica psicologista/relativista, per cui sarebbe impossibile ogni argomentazione razionale sulla verità di un discorso, perché il discorso sarebbe del tutto determinato dalla storia personale di chi pensa. Difatti, un conto è un argomentare razionale che resterebbe possibile in linea di principio anche se di fatto viene a confliggere con l'elemento soggettivo e arbitrario dell'uomo, un conto la squalifica in assoluto di ogni tentativo, anche parziale, di riconoscere razionalmente una qualche verità entro i limiti in cui possiamo ragionare in nome di una comune logica. Dall'uno non discende l'altra
#123
Tematiche Filosofiche / Re:Il ruolo della filosofia
14 Marzo 2020, 23:40:43 PM
Citazione di: Jacopus il 14 Marzo 2020, 19:57:56 PM
Per Davintro: accetto la tua visione della filosofia ma non è sicuramente la mia. Poteva forse andare bene prima di Galilei, ma una filosofia che sia "otium" contrapposta a "negotium" non ha alcun valore e rischia di essere di nuovo assorbita dalla teologia. La filosofia ha il compito di indagare, anche in modo metafisico, tutto ciò che è conoscenza, mettendolo in questione e criticandolo, dicendosi sempre che chi conosce davvero è chi ancora non conosce. Ma il filosofo non può isolarsi dal mondo e dal confronto con ciò che accade nel mondo della conoscenza. Il filosofo non può fingere che non esistono gli studi sulla genetica, sull'evoluzionismo, sulla fisica quantistica, sull'informatica.
E nello stesso tempo non può neppure dimenticare gli insegnamenti dei grandi filosofi del passato. Deve avere, se può, tutto presente e collegare i fili che restano nascosto, demistificare ciò che viene mistificato. Pensare alla filosofia come passatempo sofisticato per la classe degli "oziosi" è molto lontano dalla mia visione della filosofia, ma so benissimo che è una interpretazione che ha una lunga tradizione e dei grandi teorici.



personalmente considero l'uso in termini spregiativi dell' "otium" considerato sterile nullafacenza la più grande malattia di cui soffre la cultura. Perché si basa su un'inversione del corretto ordine logico per il quale ciò che è utile, pratico, strumentale, proprio in quanto ha la propria ragion d'essere al di fuori di sè dovrebbe essere subordinato rispetto a ciò che vale per se stesso, ciò che è bello e piacevole per sé, come può essere il godimento per la bellezza di un'opera d'arte o per la perfetta razionalità insita in un modello teorico. Mentre l'Otium ha in se stesso il proprio senso, il Negotium lo deriva dall'Otium, tutto ciò che è utile va sempre perseguito in quando conduce a realizzare un bene di cui si può godere per se stesso, il fine ultimo, e se la filosofia ha una ragion d'essere, cioè, un proprio contenuto di sapere distinto da quello delle altre forme di sapere, onde evitare la sua sterilità, cioè il suo non aggiungere nulla ai contenuti di queste altre forme di sapere, allora questo contenuto dovrà per forza essere qualcosa di trascendente rispetto al complesso degli enti finiti, utilizzabili dalle pratiche che possono giovarsi delle scienze a cui la conoscenza di questi enti finiti è adeguata. E lo stesso Galilei, a mio avviso, rivendicando l'autonomia del metodo sperimentale per la conoscenza del mondo naturale, e al contempo riconoscendo la distinzione tra il Libro della Natura, scritto in termini matematici, e quello della Salvezza, a cui filosofia e teologia sono riferite, ha confermato l'idea della distinzione dei piani tra metafisica e fisica. Essendo un fisico ha combattuto per l'autonomia di quest'ultima, ma in questo modo ha finito anche per riconoscere l'autonomia della prima, che resta padrona per quanto riguarda l'ambito dello spirituale e del sovrasensibile. La sua epistemologia mira a preservare l'autonomia delle scienze naturali dalle invasioni di campo della religione e della filosofia speculativa, ma non ha nulla a che fare con l'invasione in senso opposto del positivismo, per il quale la filosofia non potrebbe rivendicare alcuna conoscenza distinta rispetto a quelle delle scienza naturali, il cui campo di applicazione viene assolutizzato. Se tutto ciò che è utile ha il proprio senso come relativo rispetto a qualcosa che ha in se stesso il proprio valore, allora è un errore ritenere che la filosofia, occupandosi di verità assolute, di una conoscenza di princìpi che si autolegittimano finirebbe con lo svalutare il mondo delle pratiche, degli oggetti finiti, portando chi la coltiva a isolarsi da questo mondo. Al contrario, proprio focalizzando lo sguardo sui fini ultimi, sui princìpi primi, sull'ambito dell'incondizionato, valorizza la pratica, in quanto le ricorda l'ideale della meta definitiva appagante, il senso ultimo, che solo offre a ogni pratica, a ogni 'utile, la ragione della loro attività, la direzione finale verso cui orientare gli sforzi. Distaccarsi dal mondo dell'utile per scoprire ciò a partire da cui l'utile è riferito e subordinato, è cosa ben diversa dall'ignorare l'utile in assoluto, allo stesso modo di come un uccello, staccandosi da terra (astrazione, senso della trascendenza) per volare nel cielo non necessariamente finisce con l'ignorare la terra, ma assume una prospettiva altra, da cui poterla osservare scoprendone parti diverse da quelle che avrebbe osservato continuando a tenere le zampe attaccate ad essa.


per quanto riguarda l'assorbimento nella teologia, direi che questo sarebbe necessariamente un rischio solo a partire dalla premessa per cui ogni discorso su Dio cada necessariamente nell'irrazionalismo, nel fideismo, nella mera apologetica dogmatica. Ma se ammettiamo, quantomeno, la possibilità che Dio possa essere tema di una conoscenza filosofica e razionale (magari non necessariamente sul modello teologico delle religioni rivelate, ma anche nel modello del Dio di un razionalismo di stampo deista, come si avvicinerebbe più al mio caso), non vedo perché un esito del genere dovrebbe essere una motivazione squalificante per questo tipo di filosofia
#124
Tematiche Filosofiche / Re:Il ruolo della filosofia
14 Marzo 2020, 17:42:31 PM
parlare di "ruolo della filosofia" conduce a implicazioni ambigue, riguardo l'intenzionalità tramite cui un eventuale "ruolo" verrebbe assunto. Il filosofo che pone un ruolo del suo filosofare estrinseco al filosofare stesso, rende la filosofia mezzo, strumento. Ora, tutto ciò che è "utile", "mezzo", "strumento" rientra nell'ordine degli enti che non hanno in se stessi il proprio fine, la propria ragion d'essere, l'ordine degli enti finiti. Una filosofia che si fa strumento di qualcosa che è altro da sé dovrebbe dunque porre come proprio contenuto di indagine la dimensione della finitezza, contingente, fisica assumendo lo stesso ambito delle scienze naturali, confondendosi e annullandosi in esse. Se, chiedo scusa per essere ripetitivo nel ribadire questo concetto sempre per me fondamentale, dal mio punto di vista, la filosofia può avere un senso solo a condizionare che le sia attribuita un proprio oggetto di conoscenza distinto da quello di ogni altro sapere, cioè facendosi sinonimo di metafisica, allora la preservazione dalla sua ragion d'essere resta l'essere coltivata, nell'intenzione di chi la coltiva, come un godimento intellettuale fine a se stesso, nell'accezione aristotelica del punto, filosofia come sapere più nobile di tutti gli altri, proprio perché libero, che non "serve a niente", cioè senza alcun ruolo strumentale. La coincidenza filosofia-metafisica porta il filosofo a porre come obiettivo (obiettivo, non ruolo) la conoscenza dei princìpi primi, le realtà eterne che non necessitano di essere spiegati e legittimati risalendo oltre loro stesse, e che dunque appagano l'animo di chi ricerca questo tipo di conoscenza. D'altra parte, però, dalla necessità, per la preservazione della ragion d'essere della filosofia, di non assumere alcun ruolo estrinseco come motivazione del suo essere, non discende la necessità che i benefici (o più in generale qualunque implicazione, che la si giudichi positivamente o meno) della filosofia debbano restare interni alla pura teoresi del tutto autoreferenziale, senza allargarsi alle pratiche della nostra vita quotidiana. Questo allargamento accade, in un certo senso, in automatico, spontaneamente, senza bisogno che ci sia un preciso istante in cui il filosofo decida di passare dalla pura teoresi alla prassi. Lo studio, la meditazione sui princìpi primi sviluppa una forma mentis che si applica in ogni circostanza, anche le più apparentemente banali della nostra vita, forma mentis che è una disposizione a ragionare andando alla radice, al nucleo essenziale dei problemi, in quanto di ogni questione si tende a rintracciare i presupposti fondamentali, i punti di partenza che non rimandano oltre se stessi, espressione di quelle verità fondamentali di cui la filosofia-metafisica si occupa. In questo ultimo senso si può parlare di "ruolo della filosofia", ma si tratta di un ruolo non assunto come motivazione originaria del filosofare, ma come conseguenza, implicazione concomitante, presente, al di là di essere desiderata e perseguita o meno dal filosofo
#125
Tematiche Filosofiche / Re:Lo spazio dell'assoluto
15 Febbraio 2020, 18:12:56 PM
la filosofia ha una propria episteme, con un proprio oggetto, i princìpi primi dell'Essere e del pensiero, e una propria metodologia, l'analisi logica deduttiva, non empirica, che indaga le relazioni concettuali tra i vari contesti intesi nella loro essenzialità, ciò in base a cui possiamo definirli, le scienze naturali usano una diversa metodologia, sperimentale, e basata sull'esperienza sensibile, i cui limiti le precludono l'accesso all'ambito dei princìpi assoluti oggetto della filosofia, e fissano il campo di pertinenza alle "cause seconde", cioè agli enti che possono spiegare causalmente i fenomeni senza aver la pretesa di porsi come cause prime, non necessitanti di esser ricondotti a cause logicamente preesistenti. Questa distinzione di piani di indagini e metodologie sancisce l'autosufficienza della filosofia, che non necessita di mutuare l'episteme delle altre scienze, se lo facesse, dovrebbe distogliere lo sguardo dal suo ambito metafisico originario e abbandonare la propria metodologia adeguata a tale ambito, in pratica, snaturare se stessa, e diventare un'altra cosa. L'episteme filosofica non è meno accreditata di quella naturalistica, al contrario è più scientifica, nella misura in cui si identifichi "scientifico" con ciò che garantisce la razionalità di un discorso, razionalità intesa come facoltà di mostrare la corrispondenza del discorso con la realtà oggettiva, emancipandolo dalla condizione mera doxa arbitraria. Mentre ogni sapere fondato sui sensi, sconta il margine di possibilità di errore dovuto alla non necessaria coincidenza fra percezione sensibile della cosa e cosa in sé, il sapere filosofico, che astrae dalla contingenza dei sensi per individuare l'essenza dei fenomeni, si pone al riparo da questa possibilità di errore, mirando a valutare la coerenza logica con cui i fenomeni considerati nel loro senso universale si connettono fra loro. Solo questo piano essenzialistico garantisce la certezza, in quanto è terreno di applicazione del principio di non contraddizione, verità universalmente evidente. Mentre posso dubitare della reale esistenza di un oggetto fisico di fronte a me, non posso dubitare della certezza di essere un soggetto pensante che sta dubitando, tramite il riconoscimento della relazione logica di appartenenza del dubbio all'idea di pensiero, sulla base di una corretta implicazione logico-deduttiva, che è sempre vera, in quanto poggia sulle idee generali di "dubbio" e "pensiero" che caratterizzano questi fenomeni in ogni circostanza, e che dunque non temono casi in cui questo riferimento possa venir meno. In questo senso il cogito cartesiano assume una valenza scientifica qualitativamente superiore rispetto a ogni tesi fisica fondata su esperimenti in cui la verità è vincolata alla contingente corrispondenza fra percezione sensibile e realtà oggettiva
#126
Tematiche Filosofiche / Re:Lo spazio dell'assoluto
15 Febbraio 2020, 01:31:24 AM
credo andrebbe fatta una distinzione tra un livello materiale e uno formale. A livello "materiale", o meglio contenutistico, la filosofia può occuparsi di qualunque cosa, compresa la natura fisica, il diritto, la politica, l'arte ecc. ma si distinguerà a livello formale, per l'ambito di questioni in riferimento alle stesse cose, che però gli altri saperi tematizzaranno sulla base di diverse questioni. L'indipendenza della filosofia cioè non starebbe necessariamente nella separatezza delle sostanze che pone come oggetto di studio rispetto agli oggetti di studio della fisica (un'indipendenza in questo senso la identificherebbe con la teologia, che a mio avviso è "solo" una delle ramificazioni della filosofia, e non l'unica), ma nella distinzione della tipologia di questioni che però possono riguardare la stessa realtà sostanziale di cui si occupano gli altri saperi, come un tavolo che può essere visto da diverse angolature, ma resta lo stesso, e nella conseguente distinzione delle metodologie di ricerca adeguate alla risoluzione di queste questioni. Cioè si tratta di un'indipendenza non direttamente di contenuto, nel senso di "sostanza", ma metodologica e di interessi teorici. Se un uomo d'affari in viaggio per lavoro e un turista si recassero entrambi a Roma avrebbero la visione della stessa città, magari degli stessi luoghi, strade, edifici ecc. eppure le esperienze interiori che ne risulterebbero sarebbero diverse, perché seppur in riferimento agli stessi contenuti oggettivi, il peso emotivo, valoriale in cui questi contenuti sarebbero vissuti sarebbero diversi sulla base dei diversi interessi dei due viaggiatori, focalizzati sull'estetica per quanto riguarda il turismo, sulle attrattive di profitto economico per l'uomo d'affari, e questi due vissuti manterrebbero un loro distinto senso anche senza che i due si conoscano e assimilassero uno gli interessi dell'altro. Ovviamente il confronto arricchirebbe sempre, ma anche restando in se stessi le due esperienze seppur limitate, resterebbero a loro modo complete e sensate nei loro limiti. E allo stesso modo la filosofia necessita di un'intuizione della stessa realtà di cui si occuperebbe anche la fisica, ma ciò non implica che questa necessità si allarghi alle questioni per cui la fisica seleziona all'interno della visione del suo mondo i suoi obiettivi teorici. Il passaggio metafisico è necessitato dal rilevare l'insufficienza del mondo sensibile nel rispondere alle questioni filosofiche, e dunque la metafisica ha bisogno del punto di partenza della realtà fisica, anche per riconoscerne la necessità del superamento, ma non del modo specifico in cui la fisica intesa come disciplina indaga tale realtà, fisica che invece può benissimo restare appagata delle risposte che il mondo materiale offre senza bisogno della trascendenza, ma non perché abbia il potere di negarla, ma perché, in relazione alle questioni che le interessa, questo passaggio non è necessario (il che non esclude che invece lo sia per le questioni che invece interessano alla filosofia). In sintesi, non va confusa la fisica intesa come realtà dalla fisica intesa come disciplina, ed è per questo che il riferimento al "leggere la fisica" è improprio come vincolo per il filosofo, mentre sarebbe stato meno improprio parlare di "esperire la fisica", "vivere la fisica", come vincolo di tal genere.

Lo stessa metafora di Viator sulla filosofia "madre" della scienza, mi pare confermi questo carattere di indipendenza: una figlia esiste perché la madre la ha messa al mondo, una madre, a prescindere dal ruolo, esiste come persona prima dei figli, e la sua esistenza non dipende da essi. Fuor di metafora, la filosofia come sapere dei fondamenti delle altre scienze, visione che condividerei appieno, può essere tale solo se indipendente: se il fondamento necessitasse a sua volta di essere fondato da altro, non sarebbe tale, il fondamento e l'apriori e l'apriori è "assoluto", incondizionatezza da tutto ciò che è altro da sé
#127
Tematiche Filosofiche / Re:Lo spazio dell'assoluto
14 Febbraio 2020, 16:17:07 PM
Green demetr scrive
"ma il filosofo che non legga della fisica non è un filosofo"

Si può dire che chi non legge fisica si precluda la conoscenza di un certo ambito del reale, ma non che necessariamente gli si debba precludere della qualifica di filosofo. A meno che si consideri l'ambito fisico come quello totalizzante, nei confronti del quale ogni trascendenza, e dunque ogni punto di vista non ad esso riferito è impossibile. Questa è a tutti gli effetti una premessa filosofica, non fisica (il fisico in senso stretto dovrebbe limitarsi a stare nel suo campo senza avere la pretesa di sporgersi al di sopra e pretendere che oltre non vi sia nulla e dunque nessuna possibilità di riportare ogni forma di sapere diversa dalla sua al suo territorio). Questa premessa è quantomeno discutibile, ma penso che la si possa discutere senza che ci si ponga il problema, da una parte o dall'altra, di arrivare a delegittimare il modo in cui personalmente ci si definisce. Personalmente penso che ciascuno debba rivendicare la libertà di definirsi "filosofo" nella misura in cui ci dedica a delle tematiche, a cui corrisponderanno una adeguata forma mentis, distinte da quelle di cui si occupano le altre scienze, compresa la fisica. Un discorso filosofico che per definirsi tale necessiterebbe di vincolarsi a delle conoscenze di fisica sarebbe impossibilitato ad accedere ad un livello di realtà distinto da tali conoscenze, e dunque resterebbe a tutti gli effetti un discorso di fisica, fisica, che in questa ottica positivista e materialista resterebbe l'unica possibile. Delegittimare ogni filosofia che prescinda dalla fisica vorrebbe dire in pratica delegittimare ogni filone filosofico divergente dal materialismo e dal positivismo, e allora mi chiedo: in che definizione dovremmo squalificare ogni tesi tesa a rivendicare l'autonomia e l'irriducibilità di una dimensione spirituale rispetto alla materia (idealismo, fenomenologia trascendentale, realismo metafisico, personalismo ecc.)? Tutti mistici? Io troverei più corretto evitare questo atteggiamento un po' da "doganiere" in cui ci si arroga la pretesa di escludere dal novero dei filosofi tutti quelli che non sarebbero in possesso di requisiti la cui indispensabilità è affermata sulla base di premesse teoriche del tutto discutibili, come un bodyguard, senza offesa per nessuno, che lascia fuori dal concerto chi non ha il biglietto... molto meglio discutere e contestare il rigore logico o la validità dei ragionamenti, ma senza pensare di escludere nessuno da una comunità, i filosofi, in cui tutti possono riconoscersi, semplicemente in nome della passione riguardo certi temi e dell'approccio mentale, senza essere obbligati a condividere stessi assunti teorici
#128
Citazione di: Phil il 07 Febbraio 2020, 20:08:10 PMA mio modesto parere, ci sono già abbastanza topic in cui il relativismo viene forzosamente assolutizzato così da risultare docilmente contraddittorio, o in cui viene fatto assurgere a fallace teoria della totalità (tuttavia, sospettamente, senza citare mai i filosofi e/o almeno i forumisti rei di tale leggerezza), sempre giocando sull'ambiguità fra «assoluto» come sostantivo ed «assoluto» come aggettivo, «assoluto» nel suo significato etimologico ed «assoluto» nel suo significato storico-filosofico, etc. Qui, rimuovendo (in tutti i sensi) la questione del fondamento, che pure si intravvede fra le righe, credo che (per fortuna) il tema sia un altro; tema che mi pare prendere le mosse dalla constatazione:
Citazione di: Ipazia il 07 Febbraio 2020, 10:49:39 AMNon esiste il nulla e non esiste l'assoluto. Esiste il reale. Spiace sia difficile inventarne uno di nuovo, visto che ne facciamo parte da qualche miliardo di orbite terrestri intorno al sole, e che le nostre possibilità di modificarlo sono assai relative.
e acquistare maggior slancio ed apertura con
Citazione di: Sariputra il 07 Febbraio 2020, 11:21:33 AMcit.@iano: Ci sarà sempre qualcosa che sfugge alla nostra coscienza/conoscenza. Sfugge , ma non perché l'insondabilita' sia un suo attributo , così come la coscienza non è una necessità ineludibile e men che meno una meta. Come vogliamo chiamarlo questo qualcosa? Assoluto? Lo chiamerei semplicemente "ciò che non si conosce". Relativo o assoluto , in questo caso, non c'entrano nulla.
D'altronde la proposta di Vito intende, se ho ben capito, conciliare proprio il realismo con un "ulteriorità noumenica" accessibile per via intuitiva e quindi senza soluzione di continuità rispetto al soggetto, senza cioè ritenere preclusa la ragionevole (in tutti i sensi) accessibilità all'agognato "oggetto in sé". Tuttavia, finendo poi con il parlare di reti neurali e simili, ecco che la bilancia mi pare pendere verso il soggetto (animale o vegetale che sia), essendo lo "strumento cognitivo" soggettivo (il sistema nervoso, il sistema neurovegetativo, la mente, etc.) non un passivo specchio della realtà, ma un attivo elaboratore, che quindi (ri)costruisce una sua realtà (pur senza "giocare a dadi") fondata sull'input di quella esterna. La questione di "decifrare" in tale input le tracce di una realtà incontaminata dalla soggettività è probabilmente la sfida scientifica a cui collaborano le neuroscienze.

la mia scelta di argomentare senza citare filosofi o forumisti (se non quando strettamente necessario, comunque in rare occasioni) è dovuta, da un lato, alla mia preferenza per stare nell'analisi concettuale, contribuendo a far sì che la discussione possa restare a un tavolo comune tematico in cui ciascuno sulla base di una comune logica e razionalità possa prender parte, evitando riferimenti citazionisti, che, ritengo, non aggiungerebbero nulla alla discussione se i concetti, che dovrebbero essere l'unico contenuto di una filosofia che vuole distinguersi dalla "storia della filosofia" come autonoma riflessione personale senza vincolarsi a princìpi di autorità, sono ben chiari, o evitando di citare forumisti, anche per evitare di "rinserrarsi" in un botta e risposta personale. In molti casi preferisco lanciare riflessioni restando sul generale, lasciando a ciascuno piena libertà di inserirsi, senza timore di risultare in qualche modo, fuori luogo, nell'intervenire in un botta e risposta ristretto a pochi utenti che si citano. In questo caso non ho ritenuto fosse il caso, ma è solo una scelta "stilistica", nulla che debba far sospettare riguardo la validità o meno del mio discorso. 

Dato che ho notato come la discussione si fosse negli ultimi messaggi indirizzata sul problema dell'esistenza dell'Assoluto, mi son sentito di esprimere le mie perplessità riguardo dei punti di vista che ritengo, contraddittori. Non è mia intenzione, aprioristicamente, contestare l'autocontraddizione in cui il relativismo, posto in un certo senso, cade, in ogni topic, solo, se noto che ci sono riferimenti in tal senso, mi sento in diritto di replicare. Se la discussione sul relativismo fuoriesce dal tema del topic (cosa su cui ho dei dubbi, ma, non essendo stato io ad aprirlo, eviterei di giudicare per correttezza), non è stata mia intenzione promuovere questa uscita, mi sono limitato a inserirmi in una certa linea in cui la discussione, legittimamente, si è svolta. 

Al di là di questo, mi dispiace se, contro le mie intenzioni, ho contributo a deviare la discussione dalle intenzioni originarie, e se sembra che le mie critiche al relativismo appaiano così ripetitive e ambigue. Purtroppo sono una componente fondamentale all'interno dei miei modesti punti di vista filosofici complessivi, ed è inevitabile che riemergano con così tanta frequenza in tante occasioni, e, dovessi autocensurarmi da questo punto di vista, temo che la mia partecipazione in generale alle discussioni ne risentirebbe molto, cosa di cui personalmente sarei piuttosto dispiaciuto.
#129
negare l'esistenza dell'Assoluto vuol dire porre la dimensione del contingente come dimensione totalizzante. Cioè presentare un discorso sulla totalità, su ciò che non è limitato da alcunché di altro da se stesso. Ma questo "non essere limitato da alcunché di altro da se stesso" si identifica necessariamente con l' "assoluto" di cui si vorrebbe negare l'esistenza. Assoluto, vuol dire "sciolto dai legami", e la totalità, con cui si vorrebbe identificare il complesso degli enti contingenti, assume gli stessi caratteri che definiscono l'assoluto: se la totalità è ciò oltre cui non vi è nulla, allora necessariamente non potrà essere limitata da niente di estrinseco, cioè sarà pura Libertà, svincolata da altro, Assoluta, appunto. Ecco perché, in tutta evidenza, ogni negazione dell'Assoluto finisce con l'essere autocontraddittoria: nel momento in cui si afferma che "tutto è contingente", "tutto è mutevole", "tutto è relativo", si utilizza la categoria di totalità, che è a tutti gli effetti una determinazione dell'Assoluto, ciò che non ha nulla oltre di sè a limitarlo. Il che non vuol dire, pensare, superficialmente, che "Totalità" e "Assoluto" siano sinonimi. Se ogni discorso sulla totalità è anche discorso sull'assoluto, non vale però l'inverso. L'identificazione tra i due concetti è pensabile in un'ottica immanentista/panteista in cui si fa coincidere Dio, causa prima non subordinata ad alcun principio preesistente, con la totalità dell'Universo, ma non in un'ottica trascendentista/teista che vede Dio come Assoluto distinto dalle sue creazioni. In sintesi, se porre la totalità unica possibile determinazione dell'assoluto non è necessario (quantomeno), è però necessario affermare l'assoluto come modalità ontologica insita in ogni possibile idea di totalità.
#130
la dicotomia realismo-nichilismo (che a mio avviso ha una sua ragion d'essere, nella misura in cui l'idealismo, a cui manualisticamente il realismo viene di solito contrapposto, viene considerato nel suo esito necessario, al di là delle aspettative di partenza, cioè l'impossibilità di ammettere una qualunque verità, mancando il riferimento a una realtà extramentale, trascendente la fallibilità dei pensieri umani, realtà extramentale a cui la verità dovrebbe per sua definizione adeguarsi), intesa come dicotomia tra una visione che afferma l'esistenza delle cose stesse come del tutto trascendenti rispetto alla coscienza (realismo) e una visione in cui la realtà si relativizza a seconda dei punti di vista soggettivi, richiamandosi alla formula di Protagora "l'uomo è misura di tutte le cose", può essere superata integrando i punti meritori di entrambe le prospettive. La prospettiva realista evita l'autocontraddizione in cui cade ogni discorso scettico, cioè la negazione di una verità oggettiva, aderente a una realtà che è tale indipendentemente dal fatto di essere pensata, che, coerentemente seguita dovrebbe invalidare lo scetticismo stesso a porsi come discorso "vero" (quale verità se non vi è nulla di reale a partire da cui ammettere una corrispondenza?". Il discorso nichilista, che, azzardo ma potrei sbagliarmi se non ho ben compreso l'ottica in cui la discussione è stata introdotta, si potrebbe definire "soggettivista" o "fenomenista", nella misura in cui non vede nulla oltre l'apparire fenomenico, per quanto ontologicamente errata, ha un fondamentale merito di natura critica-epistemologica: il principio per cui ogni affermazione sulla trascendenza per essere filosoficamente, e dunque razionalmente, fondata deve essere dedotta dall'analisi dei fenomeni, cioè l'ambito di cui, anche portando all'estremo il dubbio sull'esistenza della realtà, resta come residuo necessario dell'esperienza. Questo principio "purifica" il realismo dalla patina di dogmatismo ancora presente nella sua variante "ingenua". Quel realismo ingenuo che attesta l'esistenza della realtà extramentale limitandosi ad ammettere un certo grado di costanza dei fenomeni come presunta prova della reale esistenza delle cose a cui i fenomeni sono riferiti "dopo 4 o 5 volte che vedo l'albero di fronte a me potrei essere certo che l'albero esista davvero", senza porsi il problema di discutere la validità delle percezioni,. Contro tutto ciò, l'istanza soggettivista ci ricorda la necessità di una conversione dello sguardo, dal livello ingenuo in cui percezione soggettiva e cosa oggettiva sono confusi, a quello in cui il fenomeno viene inteso in se stesso, analizzato, mirando a isolare quel nucleo entro cui il fenomeno viene recepito ad un livello originario, preesistente alle arbitrarie interpretazioni e proiezioni dell'Io, individuandolo nella misura in cui lo recepiamo in modo puramente passivo, cioè proveniente da una dimensione di ulteriorità rispetto all'Io, cioè la realtà oggettiva. Come in precedenza ho provato ad argomentare contro lo scetticismo mostrandone l'autocontraddittorietà, cioè considerando, non la realtà fattuale direttamente, ma l'ambito logico del pensiero, dei collegamenti logici delle definizioni entro cui un discorso è costruito per testarne la coerenza interna, ora, entrando in un livello meno formalista, anche la passività testimoniante la dipendenza dell'Io da una realtà ulteriore e oggettiva, si è potuta mettere in evidenza mettendo tra parentesi, metodologicamente, lo sguardo diretto sulla realtà esteriore, per considerare i fenomeni soggettivi nella loro purezza. E questo riferimento "soggettivista" ha permesso di riconoscere, stavolta non dogmaticamente ma criticamente, la presenza di un'oggettività. E penso che proprio questo "realismo critico" sia la strada per armonizzare, in qualche modo, i poli opposti soggettivo-oggettivo
#131
Citazione di: baylham il 30 Gennaio 2020, 08:56:13 AMIl principio del titolo come la presunzione di innocenza appaiono condivisibili, ma ho la sensazione che un garantismo forte basato sul rispetto rigoroso di questi principi porti alla soluzione che ogni accusato debba essere assolto, anzi nemmeno debba essere accusato. Assomiglia al principio di precauzione, seguendo il quale non si dovrebbe fare nulla, oppure conservare l'esistente, cosa impossibile. D'altra parte non essendo né religioso, né liberale, ma un simpatizzante della teoria dei sistemi e socialista il concetto di colpevolezza e l'opposto di innocenza come quello di responsabilità individuale non mi convincono affatto.

il garantismo non ha niente a che fare con l'impunità, ma con il principio per cui ogni cittadino ha diritto, fintanto che non si pervenga a una condanna definitiva, a rivendicare la sua innocenza e a essere considerato come tale. La tutela di questo diritto non contrasta, almeno non necessariamente, con l'efficienza degli strumenti investigativi, tesi a individuare i responsabili dei reati. Si può migliorare il livello di efficienza in tal senso, senza venir meno alla presunzione di innocenza, o contestarne il valore. La presunzione di innocenza è una garanzia che serve a limitare i casi in cui un qualunque cittadino riceva una denuncia, subisca un indagine circa reati mai commessi, è un limite agli eventuali abusi di potere della magistratura contro la libertà delle persone, abusi che sono tipici dei regimi totalitari, in cui la magistratura, subordinata a un governo, agisce contro individui che hanno l'unica "colpa" di essere mal graditi al potere, oppure, più banalmente, la presunzione di innocenza difende cittadini che vengono accusati da altri cittadini comuni, motivati a incastrare innocenti, solo per motivi legati a conflitti privati. che nulla dovrebbero avere a che fare col codice civile o penale. Quello che mi sentirei di chiedere a chi considera la presunzione di innocenza mero "buonismo" sarebbe di allargare il punto di vista della comprensione, mettendosi nei panni, non solo dei comuni cittadini che provano timore al pensiero di presunti colpevoli a piede libero, ma di un innocente che rimane incastrato, vittima di accuse false, nei confronti del quale questo principio garantista serve ad alleviare l'ingiustizia che subisce. Purtroppo è una condizione in cui tutti possiamo incappare, al di là di ogni colpa o responsabilità. Non credo che Enzo Tortora sia un irrilevante caso isolato (senza contare che se anche lo fosse, il principio resterebbe di per sé sempre valido, dato che ogni individuo, ogni condizione, va sempre considerata nella sua particolarità, e non trattata come un semplice numero all'interno delle statistiche)
#132
Citazione di: Ipazia il 27 Gennaio 2020, 19:49:43 PM
Citazione di: davintro il 27 Gennaio 2020, 16:00:57 PMquel riferimento all' "attualizzare" mi mette in sospetto. I princìpi su cui una comunità si fondano, proprio in quanto "princìpi" non si attualizzano, si applicano. Relativizzarli, a seconda della situazione contingente, vuol dire lasciare libero sfogo alle percezioni condizionate dall'emotività, sempre manipolabile dai demagoghi. La realtà particolare, contingente, deve essere campo di applicazione dei valori universali, non fattore di relativizzazione, pena la perdita di ideali stabili da utilizzare come modello regolativo a cui ispirare l'azione giuridica e politica. Quindi nessuna considerazione sullo stato di cose contingenti può essere di per sé argomento valido per mettere in discussione i princìpi essenziali dello stato di diritto, garantisti, piuttosto, si può discutere andando direttamente a contestare la validità di quei princìpi universali, proponendone altri (sempre che sia possibile...), che a loro volta dovranno essere posti come universali, nonché coerenti con le ragioni necessarie dell'esistenza di uno stato, o di una società organizzata. Come diceva Aristotele, non si dà scienza del particolare, e dunque ogni considerazione sul "qui e ora" apre la strada alla legittimazione di ogni istinto di rabbia, paura o vendetta (la ragione è sempre subordinazione del "qui e ora" ai criteri universalistici) irrazionale, frutto della suggestione alimentata da una politica (o meglio dire, pseudopolitica) che parla alla pancia anziché al cervello per meri motivi elettoralistici. Il particolare suggestiona, l'universale fonda il ragionamento
L'invito all'attualizzazione non è tanto sui princìpi dello stato di diritto a fare giustizia, ma sulla realtà attuale di un paese che dal 1994 è diventato sempre più uno stato di diritto a delinquere. Un paese invaso da criminali a piede libero condannati per direttissima e subito rilasciati, pronti a rapinare, spacciare, truffare e pure uccidere, come nel caso dei femminicidi, ancora. Un paese che a forza di non toccare Caino, è diventato l'incubo di Abele. Tre gradi di giudizio e un nugolo di leggi salvadelinquenti, dal carcere e dalla condanna (amnistia), hanno reso l'impunità una costante giuridica tale da attirare nel belpaese i criminali di tutto il mondo. Al solito favoriti i delinquenti ricchi che hanno le risorse per puntare ai tempi dell'amnistia, ma neanche i poveri se la passano male e le cronache locali sono piene di pluricondannati in flagrante a piede libero. Poi ci si chiede come mai si buttano tutti a destra, ignorando che la destra ha contribuito al pari della sinistra a questa ignobile attualità.

il miglioramento dell'efficacia degli strumenti di controllo e investigazione è qualcosa che può essere attuato senza contraddire il principio della presunzione di innocenza, nella misura in cui gli strumenti si inseriscono nella cornice di rispetto delle garanzie a tutela della dignità e dei diritti fondamentali. Se da un lato è comprensibile il problema di chi si sente minacciato dalla presenza di PRESUNTI criminali a piede libero, dall'altro penso che ciò andrebbe bilanciato dal pensiero di mettersi nei panni di un innocente che, magari proprio perché si è guidati dalla fretta di trovare un capro espiatorio, finisce con l'essere incarcerato, senza reali e convincenti prove inquisitorie.  Tra i due scenari, ho già provato a esporre le motivazioni logiche per le quali il secondo sarebbe un male maggiore, e non vorrei ripetermi. Mi limito a scrivere che il fatto che il primo scenario, quello di chi teme che presunti colpevoli in libertà possano nuocere, sia più facile in cui poter immedesimarsi con l'immaginazione, piuttosto che quello di chi, innocente, subisce il carcere (perché prospettiva molto più rara) non ne determina la maggior gravità in senso oggettivo, dato che la gravità di un danno non è data dalla frequenza quantitativa con cui potrebbe realizzarsi, ma dalla qualità intrinseca del modo in cui incide su ciascun individuo inteso come singolo
#133
Citazione di: Ipazia il 27 Gennaio 2020, 13:51:46 PMMeglio un colpevole dentro che un innocente fuori (dal suo diritto alla giustizia). Chissà se i buonisti lo capiranno mai ! Forse sarebbe il caso di attualizzare la discussione alla realtà del garantismo vigente, verificando se viviamo in un paese (e in un mondo) che rischia più di lasciare le vittime senza giustizia (e la società in balia di criminali) o gli innocenti marcire in galera.

quel riferimento all' "attualizzare" mi mette in sospetto. I princìpi su cui una comunità si fondano, proprio in quanto "princìpi" non si attualizzano, si applicano. Relativizzarli, a seconda della situazione contingente, vuol dire lasciare libero sfogo alle percezioni condizionate dall'emotività, sempre manipolabile dai demagoghi. La realtà particolare, contingente, deve essere campo di applicazione dei valori universali, non fattore di relativizzazione, pena la perdita di ideali stabili da utilizzare come modello regolativo a cui ispirare l'azione giuridica e politica. Quindi nessuna considerazione sullo stato di cose contingenti può essere di per sé argomento valido per mettere in discussione i princìpi essenziali dello stato di diritto, garantisti, piuttosto, si può discutere andando direttamente a contestare la validità di quei princìpi universali, proponendone altri (sempre che sia possibile...), che a loro volta dovranno essere posti come universali, nonché coerenti con le ragioni necessarie dell'esistenza di uno stato, o di una società organizzata. Come diceva Aristotele, non si dà scienza del particolare, e dunque ogni considerazione sul "qui e ora" apre la strada alla legittimazione di ogni istinto di rabbia, paura o vendetta (la ragione è sempre subordinazione del "qui e ora" ai criteri universalistici) irrazionale, frutto della suggestione alimentata da una politica (o meglio dire, pseudopolitica) che parla alla pancia anziché al cervello per meri motivi elettoralistici. Il particolare suggestiona, l'universale fonda il ragionamento
#134
 La presunzione d'innocenza è il capisaldo dello stato di diritto, ma esistono ampie fascine dell'opinione pubblica che sempre più percepiscono questo principio come un formalistico e astratto cavillo che impedirebbe, secondo loro, un'azione giudiziaria e polizesca veramente efficace nella lotta al crimine. Si aggiunga la frequenta accusa, per i difensori della presunzione di innocenza di essere sostanzialmente degli ipocriti, che possono permettersi di essere "buonisti" e "pietisti", in un comodo idealismo che non tiene conto di come nella realtà sarebbe necessario agire. In queste discussione vorrei provare, molto sinteticamente a mostrare perché in realtà sarebbe proprio la razionalità, e non un irrazionale sentimentalismo, seppur applicata ai rapporti di valori, a legittimare il rispetto di questo principio. Privare una persona della libertà è di per sé un male, che può giustificarsi solo come "male minore" se viene accertata la pericolosità di chi, lasciato in libertà può nuocere ad altri. Ora, incarcerare un innocente è senza dubbio un male, ingiustificato e certo. Lasciare un colpevole in libertà è un male solo potenziale, in quanto non è detto che commetta di nuovo un reato, e non è detto che non glielo si possa impedire prima di portarlo a termine. Quindi, soppesando le due situazioni, l'innocente in galera resta il male maggiore. Il principio garantista non è "buonismo" o "pietismo", come superficialmente si può credere ma si basa su una coerente razionalità del calcolo costi-benefici e certezza-possibilità applicato ai valori che sono in gioco, cioè benessere dei cittadini, espressione della libertà. Anzi, credo che spesso la retorica pietista stia maggiormente dalla parte di chi contesta il garantismo, chiamando in causa la necessità di appagare un sentimento di rabbia delle vittime (o parenti delle vittime) di un reato, fornendo rapidamente un qualunque capro espiatorio
#135
Tematiche Filosofiche / Re:Lo spazio dell'assoluto
25 Gennaio 2020, 22:52:08 PM
Citazione di: Phil il 22 Gennaio 2020, 17:05:42 PM
Citazione di: Ipazia il 21 Gennaio 2020, 22:54:39 PMPer riprendersi l'anima che l'avversario ha sequestrato in un territorio di sua esclusiva pertinenza e che continua a fungere, come la pietra nera, da polo di attrazione in grado di garantire una rendita non meritata.
Per "riprenderci l'anima", intesa metaforicamente suppongo, rischiamo di ritrovarci a parlare, da atei, di ricerca dell'anima (ricordo che il divino è infalsificabile), in senso meno metaforico di quanto siamo consapevoli; ovvero (uso un'immagine di guerra in omaggio al tuo spirito pugnace), ritirando dentro le mura il "cavallo di Troia" dello spiritualismo, dobbiamo poi fare i conti con lo "spirito" che esso inevitabilmente "contiene", e non solo etimologicamente. Come chiedevo altrove: da cosa nasce questo bisogno(?) di non lasciarlo al suo posto (da chi glielo concede) e, ancor un passo indietro, cosa intendiamo (parlando da ateo ad atea) davvero per «spirito»? Se
Citazione di: Ipazia il 21 Gennaio 2020, 22:54:39 PMRicompattare il tutto (spirito, mente, anima, psiche,...) ritengo sia opera dovuta indipendentemente dall'ortodossia semantica.
tale ricompattare (in che senso "dovuto"?) non tiene presente le peculiarità distintive delle discipline che coinvolge e le sacrifica, non rendendole sacre, ma ammutinandole (e mutilandole) drasticamente. Sebbene gli ambiti indubbiamente si intersechino, la ricerca spirituale non è la ricerca psicologistica che non è la ricerca esistenziale; il maestro spirituale non è il docente di psicologia (né lo psicologo) che non è il consulente filosofico; un problema spirituale non è un problema psicologico che non è un problema esistenziale, etc. Qual'è dunque il "valore aggiunto" di chiamare «spirituale» qualcosa che non ha a che fare con lo spirito, se non allegoricamente (cioè, se non ho frainteso, chiamando «spirito» il famigerato «senso della vita»)? Si tratta di un'escamotage per adescare i delusi delle ecclesiae e gli agnostici, emulando la strategia di McDonalds quando dice «anche da noi si mangia vegano»? Qual'è l'etica del discorso dietro questa "rivincita" che mira a prendere in ostaggio lo spirito per negare alla concorrenza una «rendita non meritata»? Mi pare che quanto più ci si addentri in una questione, in un campo di indagine, tanto più il linguaggio debba essere conseguentemente "decompattato", calibrato, analitico, preciso, etc. perché più restiamo nel generale e più diventa "povera" la mappa con cui ci orientiamo (non a caso ogni disciplina ha sviluppato nei secoli il proprio linguaggio settoriale: oggi la psiche non è lo pneuma che non è il chi orientale che non è lo spiritus, etc.). Anche se (tanto più se) siamo «una piccola comunità in cui si pestano i tasti»(cit.), non credo questo sia un alibi per poter, seguendo un trend che mi pare in crescita anche fuori da questa comunità, sinonimizzare parole vagamente affini per licenzioso amor di babeliche allusioni e dissoluta "trasversalità": se (non mi riferisco a te) «filosofia» è sinonimo di «ragionamento senza empiria», «etico» è sinonimo di «sociale», «metafisico» è sinonimo di «astratto», «assoluto» è sinonimo di «oggettivo», «spirituale» è sinonimo di «esistenziale», etc. significa che siamo già in ritardo per il funerale della possibilità (buon'anima) di parlare di filosofia e spiritualità con un minimo di (a)cura(tezza). Capisco l'esigenza divulgativa della "filosofia per tutti" a prescindere dalla storia diacronica delle parole chiave, tuttavia se confondiamo viti, chiodi e bulloni perché in fondo tutti loro penetrano e reggono, non sono sicuro che riusciremmo a montare nemmeno un mobile Ikea. P.s.
Citazione di: davintro il 21 Gennaio 2020, 17:49:28 PMDunque l'assoluto non è solo una necessità logica di garanzia di verità del discorso, ma proprio in virtù di ciò, è anche principio reale ontologico.
La forma logica presuppone regole e principi formali; definirli assoluti (aggettivo) non aggiunge né toglie nulla alla loro funzionalità e al fatto che ognuno di essi è "assoluto" (aggettivo) solo relativamente al sistema logico (e al discorso) di riferimento. Di assoluti (sostantivo) ontologici, che non siano le leggi della natura (di cui non credo si occupi la speculazione filosofica e che, in quanto leggi, non hanno bisogno del ridondante appellativo di «assolute»), se ne possono congetturare molti, come sono molti i discorsi che fanno duellare i rispettivi assoluti (sostantivo). Se
Citazione di: davintro il 21 Gennaio 2020, 17:49:28 PMIl compito di un'autentica filosofia sta nella speculare circa le corrette implicazioni logiche discendenti da quest'idea di assoluto, di per sé ancora generica e informale, in modo coerente e consequenziale.
conseguentemente non fanno «autentica filosofia» quei pensatori che non presuppongono assoluti (sostantivo); l'elenco dei nomi è già lungo, scandito da coloro che non pongono le proprie riflessioni nell'ambito del "veritativo trascendente" (monistico, metafisico, etc.), ma piuttosto nell'interpretativo, nel contingente, nel possibile, etc. senza nessuna pretesa di giungere a (la) verità, a valori o sistemi assoluti, né ad assoluti intesi in senso non metaforico. Qual'è, ad esempio, l'assoluto (sostantivo) degli ermeneuti come Gadamer, dei decostruzionisti come Derrida, degli epistemologi come Putnam, etc.? Direi che oggi "non di soli assoluti vive la filosofia". Da notare che il chiedersi se costoro pretendano di dire una verità assoluta (o addirittura dicano l'assoluto), è ironico sintomo di un domandargli circa un orizzonte ad essi estraneo, e quindi significa applicargli categorie non pertinenti in quanto da essi stessi inutilizzate (un po' come chiedersi come mai un un pittore surrealista non faccia una rappresentazione fotografica della realtà). Parimenti, la sensatezza di riflessioni che invece si occupano di assoluti, etc. non viene minimamente intaccata (né tantomeno falsificata) da coloro che non se ne occupano.

le leggi di natura sono contenuti indagabili sia dalla filosofia che dai saperi sperimentali, solo cambia l'angolatura. Le seconde mirerebbero a attribuire un contenuto specifico a queste leggi, entro i limiti in cui l'esperienza sensibile legittima ciò, mentre la filosofia riflette se quelle leggi necessitino o meno di princìpi estrinseci che ne consentano l'applicabilità: nel caso le necessitino avremmo una metafisica della trascendenza, nel quale si ammette una Causa sovrannaturale responsabile dell'esistenza dell'universo e delle leggi ordinarie che lo regolano, altrimenti si perverrà a una metafisica dell'immanenza, in cui l'universo ha in se stesso la ragion d'essere delle leggi che lo governano, senza bisogno di rifarsi a una realtà sostanziale, trascendente, cioè non coincidente con il complesso degli enti che compongono l'universo. In entrambe le soluzioni, c'è una posizione della categoria di assoluto, sia che lo si immanentizzi nella natura, che lo si ponga come trascendente. Che ci siano molto orientamenti filosofici contemporanei, tra cui quelli citati, che apparentemente si presentano come non più interessati a tematizzazione di "assoluti" vari, questo non toglie loro la qualifica di "filosofie", nella misura in cui l'impossibilità di un sapere razionale dell'assoluto è fatto discendere da una considerazione dello scarto che rende l'assoluto irriducibile alle possibilità della conoscenza umana. Ma, come è evidente, questa considerazione implica una nozione di assoluto, cioè un suo livello di conoscibilità. Quindi, definendo "filosofia" ogni discorso sull'assoluto, anche questi orientamenti manterrebbero il diritto a fregiarsi dell'appartenenza ad essa. Il punto del mio intervento non era affatto quello di escludere (operazione sempre antipatica, anche quando viene svolta,  dall'altra parte, quando, definendo filosofia solo ciò che sarebbe vincolato ai risultati delle altre scienze, si esclude dal novero delle autentiche filosofie la metafisica classica, relegata a mera "teologia" o residuo di storia della filosofia senza attualità) dal campo della filosofia gli orientamenti APPARENTEMENTE postmetafisici che sembrano essersi sbarazzati della categoria di assouto, anzi, al contrario proprio cercare di mostrare come, essendo il riferimento all'assoluto una necessità logica che resta tale anche quando inavvertita dal soggetto che la utilizza, un presupposto anche silenzioso, il campo della filosofia si apra e si allarghi anche a discorsi nei quali il riferimento all'assoluto resta solo implicito, o anche quando è esplicitamente rigettato. Non era mirante a escludere dalla filosofia alcunché, anzi a riconoscerne l'universale inclusività a ogni pensiero mirante a fondare razionalmente le proprie proposte di verità