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Messaggi - Phil

#1201
Citazione di: viator il 23 Agosto 2020, 15:36:55 PM
l'etica non perde di senso poichè il comportamento (ethos) non è dimensione unicamente umana od animale, ma può venir attribuito anche agli enti fisici (comportamento delle leggi naturali). La morale certo che invece non ha senso, in quanto attribuibile SOLAMENTE – quest'ultima – alle intenzioni SOCIALI UMANE. Potremmo quindi supporre l'esistenza di una ETICA COSMICA posta al di fuori del bene e della morale umani ma umanamente interpretabile dagli umani come benefica, positiva, affermativa poichè afferma e difende la nostra stessa umana esistenza).
[...]Infatti il cosmo e l'esistente racchiudono solo il bene (non importa che noi si riesca a riconoscerlo caso per caso) mentre il MALE è concetto unicamente umano consistente nella condizione di carenza (mai completa assenza) di BENE.
L'etica filosofica perde di senso perché, come detto, viene a ibridarsi con la legge di conservazione e, come confermi, con le leggi naturali. Se l'etica coincide con "comportamento dei corpi (animati e inanimati)", quindi in parte fuori dalla dicotomia di giudizio umano bene/male, siamo anche fuori dalla filosofia, di cui l'etica solitamente è una diramazione.
Il comportamento di un corpo che cade verso il basso secondo una legge fisica è un comportamento etico? Se la risposta è «sì», allora la fisica che lo studia è una disciplina che si occupa di etica (e andiamo quindi ben oltre un sincretismo fra scienze della natura e scienze dello spirito, come direbbe qualcuno. Al di là delle opinioni personali, dare una definizione di fisica che comprenda il trattare tematiche etiche, credo stupirebbe più di un fisico; i filosofi meno, sono più avvezzi a boutade del genere).

Citazione di: viator il 23 Agosto 2020, 15:36:55 PM
Il "nessuno sottragga o distrugga....." va inteso aggiungendovi "........avendone la facoltà. Così come si intende che ciò che viene "sottratto" o "distrutto" all'interno di meccanismi natural-biologici superiori alla nostra volontà.....non può certo generare nostra responsabilità !)
Aggiungendo la postilla «avendone la facoltà» diventa problematico attribuire una responsabilità chiara, al punto che si delinea un'etica (quasi?) senza male (che ricorda «il migliore dei mondi possibili» di Candido, a parte l'intrusione della fisica): se il male è "sottrarre o distruggere, avendone le facoltà, ciò che non si è in grado di restituire o generare", mi pare diventi piuttosto difficile compierlo ed esserne responsabili. Se, come osservi, non si può badare troppo all'individualità,
Citazione di: viator il 23 Agosto 2020, 15:36:55 PM
la vita individuale dell'organismo che stiamo sfruttando, ma qui stiamo parlando di principi i quali non possono certo venir ricondotti e rispettati ingralmente, rigorosamente, da coloro che ne sono coinvolti.
allora, come detto, posso generare figli e nutrirmene come Kronos, per motivi di sopravvivenza (e poi riprodurli); posso uccidere per difendermi perché il mio istinto non mi dà la facoltà di ragionare a mente fredda; posso mentire (in fondo non tolgo né distruggo nulla); posso violentare e seviziare perché privo di adeguate facoltà mentali per elaborare il rispetto delle regole sociali; posso derubare (sottraggo al derubato ma poi do al negoziante) perché ho bisogno di mangiare e di pagare l'affitto, etc. il tutto sotto l'egida del «bene assoluto».
Un esempio di male verso il prossimo, che mi era venuto in mente, era bruciargli l'auto e poi non ricompragliela; poi però ho notato che quel principio non intima di «restiture e rigenerare», ma allude solo all'esserne in grado. Comunque, se tutto il resto dell'elenco precedente è «bene assoluto», un danno alla proprietà altrui non risarcito mi parrebbe, per l'equilibrio di una società umana (non certo per l'equilibrio cosmico), decisamente il male minore.
#1202
Citazione di: davintro il 23 Agosto 2020, 01:42:56 AM
Che questo "assoluto individuale" meriti o meno di essere definito "assoluto", che si debba definire "assoluto debole", annacquato rispetto alle accezioni di assoluto delle metafisiche, delle morali tradizionali, penso sia una questione più terminologica che sostanziale.
Sicuramente è una questione in primis terminologica, ma sappiamo che il linguaggio non è mai un medium perfettamente neutro o irrilevante per i discorsi che origina. Ad esempio, se
Citazione di: davintro il 23 Agosto 2020, 01:42:56 AM"credere nell'assolutezza di un principio etico" è un'espressione insensata,
quale verbo potremmo usare per spiegare meglio il rapporto di "vincolo" fra l'uomo e i suoi principi etici, ovvero perché si attiene proprio a quelli e non ad altri? Se non lo fa perché ci crede, allora perché confida in essi o perché li preferisce?
Affermare che crede proprio a quelli perché (se) li (im)pone, per me non spiega adeguatamente perché continua a usarli rifiutandone altri possibili, ovvero il «perché (se) li (im)pone» diventa un'ulteriore domanda.

Citazione di: davintro il 23 Agosto 2020, 01:42:56 AM
stando all'etimo del termine, assoluto, come "sciolto dai legami", indipendente da ciò che è altro da sé, questa scala di valori etici, pur posta arbitrariamente da ciascun singolo, nel momento in cui diviene regola universalmente applicabile in ogni circostanza esistenziale, mostra comunque di trascendere la particolarità di tali circostanze, di esserne indipendente, "sciolta", e dunque non così assurdamente definibile come "assoluto". L'individuo la sceglie arbitrariamente, liberamente, ma la sceglie al fine di porla come regola da rispettare nel modo più universale possibile, al netto di ogni debolezza o incoerenza che di fatto (ma non di diritto) sempre accade
Se questa "assolutezza" delle norme morali individuali deve restare fedele all'etimo, presentandosi come «sciolta-da», la questione, oltre che terminologica, qui si fa anche sostanziale: non è infatti un assoluto etico «indipendente da ciò che è altro da sé»(cit.), perché è dipendente essenzialmente dal soggetto che lo pone (soggetto che è altro rispetto a tale "assoluto"), è dipendente dalla tradizione che condiziona culturalmente l'imprinting del soggetto (altri tradizioni propongono altri assoluti) ed è dipendente persino dalle sue stesse applicazioni nei singoli casi, poiché, non avendo un'epistemologia a tutelarlo, può essere modificato in ogni momento da parte del soggetto (in base ad esperienze, riflessioni, condizionamenti, etc.). Viene quasi da chiedersi rispetto a cosa, di pertinente, sia realmente ab-solutus (salvo intendere «assoluto» come sinonimo di «astratto», ma non mi sembra questo il caso).
Definirlo "assoluto" solo perché il soggetto si propone di utilizzarlo universalmente in tutti i casi, nonostante la sua stessa biografia sia la storia del mutamento di tale "assoluto" (rendendo la sua ottimistica universalità un'utopia, più o meno consapevole), (di)mostra tale assoluto, almeno secondo me, come un rafforzativo psicologico e linguistico più che un autentico concetto filosofico (come è ad esempio il suo omonimo con la maiuscola).
#1203
Citazione di: Ipazia il 22 Agosto 2020, 15:00:59 PM
Caro davintro hai infilato una serie di assoluti relativi, passando dalla verità scientifica ai valori etici, che sono la negazione lampante di un Assoluto con la maiuscola davanti. Avevo pure io affermato che dobbiamo accontentarci di assoluti relativi ad ambiti dove possono giocare onorevolmente il loro ruolo assolutistico. Ad esempio: un record mondiale in atletica, lo zero assoluto, la velocità della luce,...
Sulla scia dell'ossimoro «assoluto relativo», mi permetto di parodiare un tuo post di altro topic, che per me si presta anche a trattare dell'attaccamento, quasi materno oltre che concettuale, dell'uomo verso l'assoluto
Citazione di: Ipazia il 22 Agosto 2020, 14:43:21 PML'origine, trattandosi di un concetto e non di un fatto, è più psicologica che fisica: il bambino (credente) chiama la madre (Dio) che non risponde. Da lì nasce il concetto e la psicologia, con le sue fobie i suoi desideri e aneliti, dell' nulla assoluto. Il silenzio eterno degli spazi infiniti La scommessa che atterisce attrae e rincuora Pascal è la teatralizzazione filosofica del nulla dell'assoluto.
D'altronde, se rinunciamo alla fascinazione (pulsionale, appunto) di piazzare assoluti rafforzativi in alcuni contesti (in cui l'assoluto si dimostra non sciolto-da, ma anzi relativo-a, implodendo nella sua autocontraddizione), otteniamo agevolmente una maggior chiarezza semantica, parlando di record assoluto mondiale, zero assoluto kelvin, etc. senza ridondanti nostalgie "assolutistiche".
Sintetizzando il titolo del topic e il quadro a tema nautico di Géricault che hai richiamato all'inizio, direi che oltre ai "postulanti dell'Assoluto", ci sono oggi anche gli "ammutinati dell'Assoluto", che hanno trasformato il leggendario galeone in una nave da crociera low-cost che, abbandonate le rotte circolari della teoresi oceanica, fa scalo ad ogni porto che le fornisca un punto d'approdo (i vari assoluti valori relativi).
#1204
Citazione di: viator il 22 Agosto 2020, 12:01:50 PM
Personalmente trovo esista tranquillamente una etica assoluta. Incarnata a livello biologico nel principio di sopravvivenza (individuale o di specie) ed a livello cosmico nel principio di persistenza (l'entropia, la cui funzione è quella di impedire l'annichilimento del divenire complessivo).


Quindi l'etica assoluta consiste nei comportamenti (NIENTE E NESSUNO SOTTRAGGA O DISTRUGGA CI0' CHE NON SAREBBE PIU' IN GRADO DI RESTITUIRE O RIGENERARE) che realizzino il BENE ASSOLUTO.
Più che il principio di sopravvivenza, esiste l'istinto di sopravvivenza, che è quello che, ad esempio, spinge, biologicamente e letteralmente, a comportamenti aggressivi per legittima difesa o anche solo quando ci si sente minacciati; comportamenti lesivi che la dialettica società-potere ha culturalmente imbrigliato, istituendo forze dell'ordine e/o consuetudini del quieto vivere. D'altronde, se il «bene assoluto» è, come proponi, non sottrarre o distruggere ciò che non si è in grado di restituire o generare, allora, a livello cosmico, l'etica perde di senso e tale "bene" non è un bene morale, ma è solo la legge di conservazione della massa (nulla che comporti giudizi di valore o altri "strumenti" etici o filosofici). Secondo tale principio, sembrerebbe quasi che il cosmo sia dunque impossibilitato a fare il male (almeno per ora), quindi quello del bene etico sarebbe un falso problema (oppure stiamo sbagliando il piano in cui porlo?).

Sul piano strettamente umano, invece, non c'è un'etica praticabile secondo tale «bene assoluto», poiché l'uomo ha nei suoi bisogni primari già geneticamente inscritto il "male assoluto": sin dal primo vagito, egli sottrae ossigeno per restituire anidride carbonica (due composti ben differenti anche agli occhi di "madre natura", oltre che degli altri viventi), poi si nutre distruggendo forme di vita che non potrà restituire (allevarle non significa rigenerarle, ma solo condizionarne la riproduzione: non è l'uomo a partorire un vitello dopo averne ucciso uno; idem per l'agricoltura); si scalda consumando legna e combustibili che non potrà ricreare (v. sopra), etc. si tratta quindi di un peccato originale senza redenzione, perpetrato da tutta l'umanità giorno dopo giorno (giustificazione bio-chimica del pessimismo cosmico?).
Certo, la natura nel suo insieme è bilanciata, come il suddetto cosmo, ma se l'etica come disciplina deve occuparsi anche delle azioni umane (fra uomo ed uomo) allora servono criteri di giudizio che vadano oltre un serafico appello all'entropia co(s)mica, che ci riduce ad una risata nell'universo, dandoci pochi consigli su come comportarci con il prossimo, nel mondo, etc. Ad esempio, richiamando ancora la tua definizione, quello che l'uomo può generare è altra vita umana, per cui stando a tale principio, il «bene assoluto» prevede che una coppia uomo/donna possa, magari per motivi di sopravvivenza, uccidere e mangiare un altro essere umano perché in fondo sono in grado di rigenerare un essere umano, restituendo una vita per pareggiare quella che hanno spento... etica del cannibalismo e legalizzazione dell'omicidio in nome del «bene assoluto»? Mala tempora... relativamente parlando, ovviamente.
#1205
Citazione di: davintro il 21 Agosto 2020, 23:47:00 PM
Anche se non ci sono ragioni oggettive a dimostrare la necessità della mia scala di valori morali, in ogni caso questa scala verrà da me assunta come assoluto criterio regolativo in base a cui giudicare la misura di come un'azione appaia giusta o meno.
[corsivi miei]
Domanda alla Marzullo: un principio etico è assoluto perché io ci credo, oppure ci credo perché è assoluto? Se la risposta corretta sembra essere la seconda, si tratta di indagare i fondamenti di tale assolutezza (gli esiti saranno indimostrabilità, aporie e petitio principi); se propendiamo per la prima (come suggeriscono i corsivi che ho aggiunto), assecondando l'immagine del relativista (v. sotto) che deve pur ritenere assoluti preferibili i suoi principi etici, allora abbiamo già lasciato la metafisica del trascendentale alle spalle e siamo in pieno soggettivismo debole postmoderno (terreno piuttosto sterile per ogni innesto d'Assoluto), poiché è come affermare «x è vero perché lo credo tale (post-verità)» e non «so che x è vero perché è dimostrato» (senza entrare nel merito della differenza fra verità corrispondentista/verità coerentista, etc.).

Citazione di: davintro il 21 Agosto 2020, 23:47:00 PM
Il relativista etico che teme che la nozione di Assoluto sia lesiva della convivenza in una società multiculturale, composta da individui di diverse convinzioni religiose/filosofiche/etiche, implicitamente pone la condanna della violenza e della sopraffazione come valore assoluto, quindi assume, pur non potendone dimostrare una razionalità oggettiva, non riguardando la teoretica, un ideale regolativo di "giustizia" definito in un certomodo, da qui la difesa del principio di tolleranza, fosse un relativista davvero coerente non potrebbe avere nulla in contrario rispetto violenza e sopraffazione (se non un indefinito e vago disgusto estetico, al massimo), perché non avrebbe criteri assoluti a partire da cui definire il suo modello ideale di società basata sulla convivenza pacifica
Rieccomi puntuale a fare l'avvocato del relativismo (dejà vù): forse non è banale ricordare che essere un "relativista etico", in quanto essere umano, non significa essere privo di etica; ancor più credo vada tenuto presente che, almeno per quanto ne so, non esiste una etica relativista canonizzata con i suoi principi, i suoi giudizi di valore, etc. (quali sarebbero?) fra i quali il non poter "avere nulla in contrario" rispetto a prospettive differenti dalla propria (anche se lo stereotipo del relativista cieco, che non vede differenze, è ormai un classico popolare).
Per essere coerentemente relativisti è necessario avere una prospettiva relativista, ma non bisogna credere necessariamente nella tolleranza (almeno se rispettiamo la differenza fra prospettiva a contenuto della prospettiva, oltre all'evidenza che non esista prospettiva senza contenuto), così come, ad esempio, per essere coerentemente religiosi non è necessario credere al cristianesimo e ai suoi dogmi, ma basta credere in una religione, a prescindere da ciò che ne affermano gli specifici dogmi.

Se un relativista crede nella tolleranza verso ogni essere senziente oppure non ha nulla in contrario alla violenza più indiscriminata, rimane comunque dentro un orizzonte etico relativo (non assolutizza la sua prospettiva personale), con i rispettivi giudizi di valore. Non è infatti il contenuto assiomatico di un'etica a renderla relativista (entrambe le suddette posizioni potrebbero esserlo), ma l'impostazione di fondo (non assolutista, appunto). Tale presunta "coerenza" che dovrebbe orientare il relativista all'indifferentismo, lascia trapelare che in fondo non si sta parlando di un relativista, ma di un soggetto che non si interessa di etica e, lavandosene le mani, non esprime giudizi in merito né, semmai sia possibile, intravvede il giusto e lo sbagliato nelle questioni etiche.
La differenza del relativista rispetto ad altre posizioni più ecumeniche e universali, è che egli vede che la sua etica è relativa (immanente, etc.) a lui come individuo e/o al gruppo con cui ne condivide i principi, per cui non la ritiene l'unica assolutamente giusta, ma la più giusta secondo lui, né la ritiene quella assolutamente "superiore" (e qui si apre la possibilità, non la necessità, di un orizzonte di tolleranza). Per assurdo, si potrebbe avere persino un "neonazista relativista", che si attiene al suo credo discriminatorio nella consapevolezza della contingenza dei sui fondamenti, compiendo di conseguenza nefandezze perché ne sente l'interiore inclinazione, ma al contempo ne sa la valenza relativa (meno radicalmente, la figura del soldato al fronte che capisce il relativismo dei due lati della barricata, dei due ideali per cui si combatte, è forse una figura più intuitiva e verosimile). Chi crede invece in un'etica assolut(ist)a, fondata ad esempio su una divinità, suppongo non dovrebbe farne altrettanto facilmente una questione di contingenze storico-culturali o opinione personale, perché così relativizzerebbe la legge etica del dio, bestemmiandolo.

Passando dunque alla classica domanda sull'autoreferenzialità: il relativista, filantropo o sterminatore che sia, considera assoluti i principi etici in cui crede? Se credere in (e magari attenersi a) tali principi significa reputarli assoluti, allora probabilmente la risposta è «sì». Tuttavia a questo punto bisogna chiedersi che significa «assoluto»: se ognuno si "fa" la sua etica e i suoi assoluti, pur con sincera convinzione e meditazione, il fatto che siano "assoluti" per lui, li rende assoluti "reali"? Qui ritorna la domanda marzulliana e la debolezza epistemologica di ogni fondamento etico (ma non solo) assoluto.
Questa proliferazione "pandemica" di assoluti assemblati a piacere e fondati su prospettive individuali (quindi non necessariamente solide e filosoficamente ponderate) è per me la miglior dimostrazione fattuale, non teoretica, dello svuotamento di senso della parola «assoluto» (che ha una sua tradizione, soprattutto nella sezione in cui siamo), che si rivela quindi legato e vincolato, non sciolto e indipendente (come vorrebbe l'etimologia), ad ogni prospettiva soggettiva, finendo per essere un "rafforzativo" (affermare «per me quello è un principio etico assoluto» non dovrebbe suonare un po' contraddittorio, almeno per i non relativisti?).
#1206
Tematiche Filosofiche / Re:Il nulla come concetto
20 Agosto 2020, 18:53:40 PM
@viator

Due commenti rapidi:

- su cosa siano le tautologie (e sulla loro estrema vicinanza e pertinenza ai fondamenti del pensare) mi permetto di rimandarti a wikipedia o, preferendo il cartaceo, ad un qualunque manuale di logica;

- l'Essere era stato da te definito come «l'entità per la quale le cause producono i loro effetti», ora viene proposto come ciò che "giustifica"(?) «ogni e qualsiasi cosa in sé ed ogni e qualsiasi funzione»(cit.); ci sarebbe da interrogarsi circa la verificabilità o attendibilità o indimostrabilità di tali definizioni («Dio»-«Essere»-«Assoluto»-etc.) e annesse attribuzioni di "ruolo" (giustificazione, etc.) o "dimensione" (eternità, incausalità, etc.); la storia del pensiero ne è ricca, così come è ricca di ragionamenti circolari che postulano un'entità e poi ne rintracciano "con evidente successo" l'esistenza e l'efficacia nel mondo reale (come secondo la pluricitata fallacia di affermazione del conseguente).


P.s.
(rispolverando i vecchi "files mentali" di geometria scolastica) Le circonferenze di raggio infinito credo siano piani infiniti (circolari) ben distinguibili dalle rette infinite; comunque, al di là delle geometrie esemplificative e di come disponiamo la catena causale (in linea retta, curva o in cerchio), (sup)porre un'entità fuori da quel piano, così come dal piano temporale, etc. è un gesto squisitamente teologico (che non è attributo di dileggio), quasi (insie)mistico, che per me dimostra che è l'Essere-Dio-Assoluto-etc. ad essere figlio del teismo, non viceversa (così come il vero è figlio della logica, il bene è figlio della morale, etc.), almeno stando ai fatti filologicamente verificabili (anche se il teismo, sicuramente in buona fede, non può che autogiustificarsi affermando il contrario, facendo appello ad un'intuizione epistemologicamente non compatibile con la conoscenza umana, ma piuttosto con il credere, come si diceva nel tuo altro topic; ciò è inevitabile, direi, altrimenti non sarebbe teo-logia bensì gnoseologia).
#1207
Tematiche Filosofiche / Re:Il nulla come concetto
19 Agosto 2020, 23:14:04 PM
Citazione di: viator il 19 Agosto 2020, 21:24:21 PM
(spiacente, ma all'interno della logica le tautologie andrebbero accuratamete evitate)
Se non sbaglio le tautologie sono il fondamento della logica, dal principio di identità «a = a», agli altri assiomi che fondano i vari sistemi logici (e cosa c'è di più filosofico dell'interrogare i fondamenti?).
Comunque, fuori dal piano strettamente logico-formale, chiedersi ad esempio «perché l'accendino accende» (parodiando il «perché l'essere è») mi pare avere un suo senso, come accennavo, in termini di consapevolezza/comprensione, anche se di fatto ciò non cambia, almeno a breve termine, né il funzionamento dell'accendino né il modo di usarlo.

Citazione di: viator il 19 Agosto 2020, 21:24:21 PM
Per uno come me, che considera l'Essere come [...] "la dimensione per la quale le cause producono i loro effetti" chiedersi il perchè l'essere sia [...] cioè il chiedersi quale sia la causa dell'essere..............è proprio da suicidio logico-filosofico.
Probabilmente chi dà un senso a quella domanda (vedendo la nascita del filosofare dove tu vedi un "suicidio") può farlo perché dà una differente definizione di «essere», magari quella generica da dizionario filosofico oppure una personalizzata (come la tua) ma che non destituisce la domanda.

Se ho ben capito, per te, «Essere» è sinonimo di «Dio», quindi Dio è definibile come «la dimensione per la quale le cause producono i loro effetti»(cit.) (quel «per la quale» non significa forse che tale dimensione è la causa per cui le cause producono effetti? se così fosse non è fuori dalla catena causale, ma in cima), dimensione che tratteggi come «priva di cause» e «posta non all'interno, bensì all'esterno della catena cause-effetto» e «fuori da ogni temporalità»(cit.), un ritratto piuttosto affine alla "eterna causa incausata" di teologica memoria (per quanto parlare di Dio in termini di «dimensione» risulta piuttosto oscuro, soprattutto se tale "dimensione" sarebbe ciò che deve causare far in modo che le cause producano effetti).


P.s.
Per una certa ironia del discorso, finché parliamo di qualcosa, sia esso un accendino o una "dimensione" o il nulla, restiamo sempre "a valle" della domanda filosofica a "monte": (in versione semplificata) «perché c'è qualcosa?». Per fortuna possiamo congetturare e creare i nostri "vocabolari filosofici" senza essere costretti prima a risponderle.
#1208
Tematiche Filosofiche / Re:Il nulla come concetto
19 Agosto 2020, 19:51:18 PM
Secondo me la "domanda delle domande" è contraddittoria o ingenua solo se la fraintendiamo, rovesciando il rapporto fra linguaggio ed esistenza, parafrasando il noto motto parmenideo: ovviamente se lo definiamo «essere», è perché c'è; se lo definiamo «non-essere», è perché non c'è (almeno empiricamente parlando e, appunto, al netto della distinzione fra linguaggio e mondo, fra significato e referente, fra concetto e oggetto, etc.). Tuttavia quella domanda ci chiede di andare ancora "un perché" più indietro, fuori dalla tautologia del dire ontologico: la domanda non ci chiede se l'essere è, ma perché l'essere è. Risponderle facendo appello alla costellazione semantica della parola «essere», significa chiudersi in un circolo autoreferenziale perdendo tutta l'apertura (vertiginosa) che la domanda interroga.
Sarebbe come rispondere alla domanda «perché c'è lo spazio?» con «perché altrimenti noi, in quanto enti spaziali, non ci saremmo» o con «perché la sua esistenza è compresa nel concetto stesso di spazio», invertendo il rapporto causale e la priorità (crono)logica, poiché la domanda non chiede cosa l'esistenza dello spazio rende possibile (corpi estesi), ma che cosa c'è a monte dell'esistenza dello spazio e/o "semplicemente" la ragion d'essere dello spazio (beninteso: di ciò che noi chiamiamo «spazio», che meriterebbe di essere problematizzato a sua volta, ma restiamo nel "semplice").

Risalire la catena delle apparenti "ovvietà" mondane, guadagnando di volta in volta, di perché in perché, o maggior consapevolezza o ("masochistiche"?) domande sempre più fondamentali, per quanto ininfluenti sulla realtà del quotidiano (come sarebbe il conoscere tutta la storia passata di tutto il cosmo: domattina ci alzeremo comunque con i nostri bisogni primari, i nostri progetti, i nostri problemi, tutte le altre domande filosofiche più urgenti, etc.), tale risalire è uno fra i percorsi possibili della filosofia teoretica, non certo un percorso obbligatorio per tutti i pensatori, né che tutti trovano comprensibile o sensato. Nondimeno, considerando la mole di riflessioni in merito, se l'uomo della strada (come me) decide proprio di confrontarvisi, forse la domanda andrebbe ponderata, magari non come Amleto, ma almeno con un'esitazione che va oltre l'evidenza che non siamo il/nel nulla assoluto (anche se Nishida Kitaro della scuola di Kyoto avrebbe da obiettare al riguardo), restando consapevoli che, come ci ammonisce proprio Amleto, tale esitazione, tale sospensione dell'assenso (epochè) sulla "banalità" dell'essere, può rallentare il nostro incedere pragmatico nel mondo:
«e così il colore naturale della risolutezza
è reso malsano dalla pallida cera del pensiero,
e imprese di grande altezza e momento
per questa ragione deviano dal loro corso
e perdono il nome di azione»
(Shakespeare, Amleto, atto III, scena I)
#1209
Citazione di: Eutidemo il 18 Agosto 2020, 07:05:29 AM
Non condivido assolutamente il modo con cui vengono forniti dai media gli aggiornamenti sul contagio; ed infatti, limitarsi a fornire i numeri dei nuovi contagi, ed i numeri dei nuovi tamponi, non fornisce agli ascoltatori la benchè minima informazione sull'effettivo andamento del contagio.
Per informare veramente su tale "trend", infatti, i media dovrebbero comunicare soprattutto la tendenza matematica percentuale risultante da tale rapporto
Ormai il computer e i suoi derivati "smart" hanno scalzato (e inglobato), per qualità e quantità, la tv non solo per l'intrattenimento, ma anche per l'informazione di massa; almeno potenzialmente: se la massa impara, nel suo ricambio generazionale, a cercare nella rete e non solo ad ascoltare, può agevolmente andare oltre le informazioni dei vari tele-giornali, parola che sintetizza i due mezzi d'informazione dalla crescente obsolescenza (e per tutelarsi dalle temute fake news, in fondo, almeno per le macro-notizie, basta il sito dell'Ansa). Ad esempio, tornando in tema, credo che qui potresti trovare qualcosa di interessante sulle statistiche del Covid.
#1210
Percorsi ed Esperienze / Re:La Grotta
10 Agosto 2020, 19:05:00 PM
Una convergenza (dai possibili meandri grotteschi) fra l'arte politicamente "corretta" (in stile bar) sovvenzionata dal BAFTA, lo scanzonato rivisitatore di bandiere, il ruolo dei media e dei social, l'incombere (e l'incombenza, per alcuni) del pensiero unico nel dibattito culturale, il "sessimo tolemaico" della ricercatrice-attivista, etc. può essere rintracciata anche nella questione della «cancel culture», balzata all'attenzione della cronaca ormai un mese fa, con questa lettera firmata da 150 scrittori, giornalisti, docenti e professionisti vari (qui una traduzione in italiano).
#1211
Senza addentrarsi nelle profondità filosofiche del «Credere di credere» vattimiano, mi pare comunque opportuno rilevare la dialettica fra il credere e il sapere (ma non quella che intende Hegel nell'omonimo testo): credo in/a qualcosa perché non ne ho conoscenza esaustiva, poiché se ne avessi conoscenza esaustiva non ci crederei, bensì lo saprei (o meglio, sarebbe per me un sapere certo, fino a prova contraria). Non credo che oggi sia l'otto agosto, so che oggi è l'otto agosto (sorvolando sulla convenzionalità sia del referente di tale sapere che dei fattori che lo legittimano).
Questa dialettica credere/sapere, che in campo religioso fa riecheggiare l'agostiniano «credo ut intelligam et intelligo ut credam», si declina nella complicità del sapere nei confronti del credere (che a sua volta è il requisito che fonda tautologicamente gli assiomi di ogni logica, formale o esistenziale che sia), complicità in cui talvolta è un sapere debole, o uno sperare, o un sentire indefinito, o persino solo una voce di corridoio, a preorientare e condizionare il credere (la cosiddetta precomprensione ermeneutica).
In generale, se cerco l'ago nel pagliaio è perché so che è possibile che ce ne sia uno (lo credo), o mi hanno detto che ce ne sia uno (e ci credo) o addirittura so per certo che ce n'è uno. Questo sapere (una possibilità o una certezza) o questo credere ad una supposizione e/o all'altrui credere/sapere, dà senso alla ricerca dell'ago. Facendo un passo indietro: tale sapere d'innesco per la ricerca, su cosa si fonda? Come so che è possibile (o addirittura sicuro o solo credibile) che ci sia un ago in quel pagliaio? Se guardo un pagliaio non è spontaneo supporre che ci sia un ago dentro, così come se partissi per un viaggio di esplorazione su una rotta mai percorsa, non avrei elementi certi per prevedere esattamente cosa troverò al mio arrivo; salvo non abbia già una precomprensione anticipatrice che mi dà attendibili indizi per ritenere che proprio in quel pagliaio si annidi un ago e proprio su quella rotta raggiungerò l'Asia.
Infatti Colombo sa che la terra è sferica e, per inferenza logico-spaziale, sa che salpando verso ovest approderà ad est del punto di partenza. Inoltre, se sa (o è convinto di sapere) anche quale paese vi troverà e poi tale sapere si rivela invece fallace, ciò dimostra che era un sapere "incompleto", ma non un sapere sbagliato (come confermerà poi Magellano).
Il movente nozionistico che ha innescato il viaggio verso ovest per giungere ad est, è un sapere che coniuga Eratostene e Marco Polo, un sapere verificato (al di là degli errori di calcolo riguardo le distanze), la cui applicazione ha prodotto altro (imprevisto) sapere. Tuttavia non sempre il credere è innestato in un sapere solido: quando i greci credevano che l'Olimpo fosse la casa degli dei, all'origine di questa credenza non c'era verosimilmente un sapere autentico, ma piuttosto un credere basato sulla capacità po(i)etica dell'uomo, che gioca con archetipi e mitologemi (la stessa indole che mi fa sperare che nel pagliaio ci sia la figlia del contadino piuttosto che l'ago, e mi fa invece temere che ci sia il contadino adirato, rendendo sempre e comunque scialba l'ipotesi che ci sia solo, banalmente, paglia).

L'incertezza epistemologica insita nel credere (spesso pungolata da intuizioni di varia natura), prima della sua falsificazione o incoronamento a sapere, è la spinta cognitiva che parte da un sapere o da una narrazione culturale (che è un credere perpetuato) e attende la sua verifica o la sua falsificazione. Chiaramente, se tale verifica o smentita è impossibile o incomunicabile, come nel caso del post mortem, "non ci resta che credere", nel pieno o nel vuoto, nei miti dell'occidente o dell'oriente o in nessun mito, sapendo di non voler poter, almeno per ora, sapere.
#1212
Tematiche Filosofiche / Re:La coscienza e le cose
10 Maggio 2020, 12:25:09 PM
Citazione di: Ilario Innocente il 10 Maggio 2020, 00:53:09 AM
Introdurre una cosa nella coscienza, evidentemente, significa lasciare che questa presieda alla coscienza, che sia la coscienza irriflessa stessa e la coinvolga senza misteri nella sua medesimezza: quando ho letto «introdurre tale opacità nella coscienza», infatti, sono maledettamente rimasto invischiato in un dilemma epistemologico prima che ontologico; guardavo ancora la coscienza farsi altra dalla cosa.
Credo sia emblematico che il testo sartriano parli di introdurre un'opacità nella coscienza, non di introdurre una cosa nella coscienza (il che produrrebbe un'aporia nella prospettiva sartriana). Essendo «l'inventario» dell'in-sé un «procedimento infinito», inevitabilmente alla coscienza non resta possibile che relazionarsi all'opacità finita che essa può cogliere in una sequenza di atti di coscienza finiti. L'intenzionalità si rivolge al mondo scorgendo un'opacità (prodotta dallo stesso sguardo intenzionale), una densità di in-sé che la coscienza chiama «cosa», pur essendo tale cosa un in-sé non sussumibile esaurientemente dal per-sé che la coscienza è (la cosa intenzionata non è la cosa in-sé, il fenomeno dell'essere non coincide con l'essere del fenomeno). Detto in altro modo: la percezione non fa entrare la cosa nella coscienza, ma solo la sua densità opaca intelligibile dalla coscienza; tale densità non essendo un'in-sé, ma solo una contenuto di coscienza (un noema direbbe Husserl) non è un in-sé (con infinito inventario) che compromette il per-sé della coscienza.

Citazione di: Ilario Innocente il 10 Maggio 2020, 00:53:09 AM
Ecco spiegato l'«inventario»: semplicemente l'in-sé ci appare nella sua densità infinita, e così anche l'«infinito».
A proposito dell'«infinità», soltanto non comprendo perché parli di ragioni quantitative.

«(oltre che per motivi quantitavi)»

La "quantità" non è già una de-terminazione del per-sé rispetto all'in-sé? Non eccede il «nucleo istantaneo» della coscienza, di cui ci stiamo occupando?
Era una postilla logica suscitata, preventivamente, dalla possibile osservazione (scollinando per un attimo fuori da Sartre) che una coscienza finita non può contenere un'infinità, per una mera questione di rapporto ontologico quantitativo.
#1213
Tematiche Filosofiche / Re:La coscienza e le cose
09 Maggio 2020, 16:45:11 PM
Su Sartre ho solo dato un'occhiata qui, quindi non sopravvalutare la mia opinione passeggera sulle tue questioni (e grazie per lo spunto d'approfondimento).
Citazione di: Ilario Innocente il 08 Maggio 2020, 16:21:07 PM
1) perché Sartre parla di «inventario»? 2) perché di «infinito»? Però, si sa, l'in-sé è una compressione d'essere infinita, dove il "sé", improprio, si scioglie in una massiva identità (ancora impropria, perché implica un rapporto con sé) del richiamante col richiamato: l'in-sé è ricolmo di sé. [Parla di «infinito» per questa ragione, per la densità infinita delle cose?]
Propenderei per il sì: l'inventario degli in-sé è infinito perché la densità opaca dell'oggetto di coscienza non può essere esaurita definitivamente dalla coscienza (intenzionale), che può vederci infinite percezioni in infiniti atti di coscienza. Questa "infinità" non può esser contenuta nella coscienza (oltre che per motivi quantitativi), sia perché ciò significherebbe «fare della coscienza una cosa», cioè un in-sé (tale possibilità è smentita dall'evidenza prelogica della spontanea ricettività della coscienza, in quanto per-sé), sia perché ogni coscienza intenziona i suoi vissuti (è sempre coscienza di), in assenza dei quali non può essa stessa esser un abissale vissuto di sé stessa, in quanto il nulla che la abita non può (in quanto nulla) esser oggetto di coscienza (la coscienza di nulla non sarebbe autentica coscienza). Questa impossibilità di «fare della coscienza una cosa» è per Sartre, se non ho frainteso, applicabile anche al cogito e al corpo, perché se fossero degli in-sé, pieni e opachi, non potrebbero esser parte del per-sé dell'uomo che è costitutivamente relazione (intenzionale, coscienziale) con il mondo "là fuori" degli in-sé; relazione che può esser tale proprio in virtù del suo non essere un in-sé (altrimenti tale opacità del suo stesso essere gli impedirebbe la limpida trasparenza di poter essere ricettiva del mondo e delle cose).

Citazione di: Ilario Innocente il 08 Maggio 2020, 16:21:07 PM
Già questa «trasparenza», naturalmente, esige che le cose siano conosciute e messe in rapporto tra di esse come non aventi rapporti tra di esse: l'uomo deve avere una comprensione dell'in-sé in quanto realtà assoluta, senza rapporto e contemporaneamente una di sé in quanto relazione assoluta (altrimenti da dove trarre il rapporto non cognitivo che la coscienza intrattiene con sé se l'uomo non fosse rapporto fin dall'intimo della propria esistenza, che è il cogito preriflessivo?). [...] Se le cose stanno così di fatto, di diritto potrebbero stare ancora così? Abbiamo detto di no, se la cosa dentro la coscienza condividesse il suo essere; se non lo condividesse, la coscienza sarebbe morta, irrigidita, oscurata nel proprio essere
Mi pare che la «cosa dentro la coscienza» non condivide con essa il suo essere, il suo in-sé: la sua proiezione intenzionale nella coscienza, la rende dato di coscienza senza che la cosa perda il suo in-sé e senza che la coscienza si ritrovi, al suo interno, un in-sé ad appesantire ed adombrare il suo costitutivo per-sé.
#1214
Citazione di: paul11 il 08 Maggio 2020, 22:06:08 PM
Nietzsche non può glissare il sistema uomo come natura e cultura  perché non gli va la morale. E come si sarebbero mai formati le tradizioni antichissime egizie, quella vedica indiana, quella sumerico assiro babilonese, se persino l'homo  neanderthaliano  seppelliva  in terra  i propri morti?
Il neanderthaliano  il sapiens sono   l'antesignano del metafisico che inizia il culto e i disegni nelle grotte è la prima estetica? La trascendenza non è  soltanto un concetto filosofico , la filosofia  lo concettualizza, lo codifica culturalmente, ma nasce con l'homo.
Glissare i fondamenti significa depistare tutta la cultura e sbagliare il segno, rimangono importanti riflessioni, quello sì.
La tematica del fondamento non è certo sdoganabile in una manciata di righe off topic, ma secondo me il fondamento, se inteso come chiave di lettura dell'esser-uomo-nel-mondo, non è tanto un archètipo d'innesco né un sommesso denominatore comune a tutte le epoche, ma piuttosto una dinamica fra fondamenti, alcuni sfondati (quindi non più fondanti), altri magari appena assunti a fondamento. Se l'uomo primitivo seppelliva i morti e dopo di lui fecero altrettanto egizi e altri popoli, ciò non è un fondamento né della cremazione (con origini forse altrettanto antiche) né aiuta a capire il rapporto con la morte delle ultime generazioni (quelle che vedono il vuoto nel folklore delle formalità funebri). I "maestri del sospetto", proprio come Mao, il nazismo, il comunismo russo, etc. sono fra i fondativi della società contemporanea: possono aver perso (se vincere è non essere criticabili o "durare per sempre"), tuttavia, senza una minima consapevolezza di loro, l'attualità risulta un mistero inintelligibile. E non sono fondanti solo della comprensione dell'oggi: soprattutto, le tangibili ripercussioni sociali, politiche, etc. della loro caduta nello stagno della storia, sono ancora performative e in atto (come centri concentrici nell'acqua, più si espandono e più si indeboliscono, perché inevitabilmente perdono la spinta iniziale e si incrociano con altri; ma non considerarli è pensare erroneamente che nello stagno ci sia ormai calma piatta).
Affermare che «passano  i regimi e riemergono le tradizioni storiche identitarie»(cit.) secondo me non rende giustizia a ciò che ha portato alla nascita di tali tradizioni identitarie (a discapito di altre, sconfitte), né all'estinzione in corso di molte tradizioni storiche (quelle delle minoranze culturali), né al condensarsi di nuove (neo)culture tramite ibridazione (si pensi alla globalizzazione) e a tutti quei cambiamenti dello scenario antropologico e sociale che ci distinguono dai sumeri.

C'è indubbiamente un residuo sapienziale che rende ancora attuali testi antichi, perché in fondo si parla pur sempre di uomini il cui funzionamento psicologico, neurologico, etc. non è stato stravolto negli ultimi duemila anni. La "semplicità" con cui l'uomo antico era decifrabile, "semplicità" che rende appunto attuale una certa riflessione sull'uomo, oggi è insufficiente per capire l'uomo contemporaneo: «insufficiente» non significa che sia inutile o non possa più trasparire dalle pieghe dell'attualità; «insufficiente» significa che, se togliamo tutti i fondativi che si sono accumulati fra noi e l'impero romano, difficilmente riusciremo a capire (e poi a spiegare) come mai non siamo semplicemente degli etruschi che usano gli smartphone.


P.s.
Siamo comunque in un topic su Nietzsche e non vorrei deviarlo, eventualmente ne riparleremo altrove.
#1215
Citazione di: paul11 il 08 Maggio 2020, 18:49:44 PM
non so cosa oggi le università inseriscano nei corsi di studi, ma so che storicamente c'era la filosofia morale
Concordo: la «filosofia morale» (ovvero, in una parola, etica) non una disciplina chiamata «morale».
Quel «da sempre l'etica è la prassi»(cit.) non so se trovi adeguato riscontro filologico; Ipazia ha già linkato in merito e il modo in cui alcuni filosofi parlano di etica credo minacci quel «da sempre», almeno se inteso nella filosofia. Si tratta di capire se si vuole usare il linguaggio comune o quello settoriale o quello di un filosofo in particolare.

Citazione di: paul11 il 08 Maggio 2020, 18:49:44 PM
Che piaccia o no alcuni concetti  stessi utilizzati da Nietzsche , di arianesimo, pangermanesimo, patria, popolo, nazione e i relativi rituali e simboli , feste nazionali, bandiere, vessilli, inni nazionali vengono dalle morali non dalle etiche, perché sono identitarie in qualunque popolo e tradizione.
Concordo: vengono dalle morali, non dalle etiche (cioè dalle filosofie morali), proprio perché
Citazione di: Phil il 08 Maggio 2020, 14:38:08 PM
la morale viene intesa come l'apparato di valori propri di una comunità, mentre l'etica è piuttosto la riflessione filosofica sua tali valori


P.s.
Chiaramente, nulla vieta di dare ai due termini un significato personalizzato, siamo pur sempre su un forum, non all'università.