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Messaggi - Phil

#1216
Citazione di: paul11 il 08 Maggio 2020, 18:49:44 PM
non so cosa oggi le università inseriscano nei corsi di studi, ma so che storicamente c'era la filosofia morale
Concordo: la «filosofia morale» (ovvero, in una parola, etica) non una disciplina chiamata «morale».
Quel «da sempre l'etica è la prassi»(cit.) non so se trovi adeguato riscontro filologico; Ipazia ha già linkato in merito e il modo in cui alcuni filosofi parlano di etica credo minacci quel «da sempre», almeno se inteso nella filosofia. Si tratta di capire se si vuole usare il linguaggio comune o quello settoriale o quello di un filosofo in particolare.

Citazione di: paul11 il 08 Maggio 2020, 18:49:44 PM
Che piaccia o no alcuni concetti  stessi utilizzati da Nietzsche , di arianesimo, pangermanesimo, patria, popolo, nazione e i relativi rituali e simboli , feste nazionali, bandiere, vessilli, inni nazionali vengono dalle morali non dalle etiche, perché sono identitarie in qualunque popolo e tradizione.
Concordo: vengono dalle morali, non dalle etiche (cioè dalle filosofie morali), proprio perché
Citazione di: Phil il 08 Maggio 2020, 14:38:08 PM
la morale viene intesa come l'apparato di valori propri di una comunità, mentre l'etica è piuttosto la riflessione filosofica sua tali valori


P.s.
Chiaramente, nulla vieta di dare ai due termini un significato personalizzato, siamo pur sempre su un forum, non all'università.
#1217
Citazione di: Ipazia il 08 Maggio 2020, 10:17:28 AM
Che poi, essendoci un solo ethos, voler trovare differenze sostanziali tra morale ed etica è antropologicamente insostenibile. Semmai differenze funzionali sulle quali è consistente la definizione hegeliana di morale come empiria dell'ethos ed etica come sua scienza. Interpretazione sostenuta anche dall'etimo e dal pensiero classico
Citazione di: paul11 il 08 Maggio 2020, 13:34:02 PM
E ridargli con questa etica...... Non caverai mai un ragno dal buco iniziando  dai comportamenti
pratici degli umani che sono così ampi, dall'onesto  al disonesto, dal pensiero all'azione, dal conveniente al solidale...vi troverai oceani di contraddizioni che piacciono alle analisi statistiche sociologiche e dei marketing: a questo serve.
In aggiunta a quanto ricordato da Ipazia, non so se ciò possa essere ulteriore elemento utile nella diatriba forumistica fra «etica» e «morale»: tra i corsi universitari, non mi pare ci siano corsi di «filosofia etica», bensì o di «filosofia morale» o di «etica» (magari declinata con specificazioni, «della comunicazione», o altro). Questo perché, come spiegato solitamente nelle prime lezioni (se non ricordo male), l'etica è la riflessione (filosofica) sulla morale; per cui "filosofia etica" sarebbe ridondante e «filosofia morale» è solo una perifrasi di «etica» che mette l'accento sull'ambito filosofico.
Detto in sintesi, la morale viene intesa come l'apparato di valori propri di una comunità, mentre l'etica è piuttosto la riflessione filosofica sua tali valori, sul loro fondamento, etc. poi nel linguaggio comune, giustamente generalista e vago, sono spesso sinonimi (dipende quindi da quale linguaggio vogliamo usare).


Edit: doveroso ricordare che quando si parla di «codice etico aziendale», di «certificazione etica Sa 8000», etc. non si sta usando un linguaggio strettamente filosofico, ma con l'aggettivo «etico» si allude a principi e valori sociali o di gestione delle risorse umane.
#1218
Sopra ho già accennato a una «estetica complice di un'etica (arte sacra, etc.)»: l'immagine di un Cristo o una Madonna è un elemento estetico o etico? Il contenuto della raffigurazione non va confuso con le modalità di presentazione: una dottrina può ricorrere all'estetica per comunicare, come è tipico della religione cristiana nelle nostre chiese, ma questo non comporta confondere i piani di ciò che si rappresenta (una religione) con il canale scelto (un quadro, un affresco, etc.). D'altronde, la bellezza della raffigurazione di una Madonna, sta nel suo esser immagine di una Madonna o in come è rappresentata? Il messaggio religioso sta nell'esser ben rappresentato o in cosa viene rappresentato? Un crocifisso disegnato con un dito sulla sabbia, "opera" dallo scarso impatto estetico, può ricordare ad un credente l'intero impianto etico della sua fede (v. simboli incisi nelle catacombe), mentre una Madonna affrescata può incantare lo sguardo anche di un ateo o di chi non sa nemmeno cosa sia la religione cristiana.
Ora che l'alfabetizzazione è piuttosto diffusa, il messaggio etico può ancora strumentalizzare la dimensione estetica (v. "pubblicità impegnate" e simili), proprio come una messaggio estetico può andare contro l'etica (scandalismo artistico), ma, appunto i due piani confermano così la loro essenziale separazione nel momento in cui una non si dissolve mai nell'altra. Resta dunque l'asimmetria di cui sopra; un caso in cui l'estetica condizioni l'etica (il che non significa semplicemente rappresentarla) non mi viene in mente; viceversa, gli esempi non mancano.

Sull'orrore delle bruttezza e quello della crudeltà, possiamo appellarci all'esperienza empirica con un esperimento: il sentimento che ti suscita la bruttezza di un pessimo abbinamento cromatico dei vestiti è accostabile al sentimento che ti suscita la bruttezza di un gesto irrispettoso o una battuta offensiva nei confronti di una persona menomata? La bruttezza è "omonima", ma il suo corrispettivo semantico, psicologico e (volendo giocare il jolly) "spirituale", credo sia ben differente; anche se le mie esperienze personali in merito magari non corrispondono alle tue (prospettivismo docet; per tornare in topic).

Sempre a filo di omonimia (omografia?) che taglia i due ambiti: quello che è "brutto" per l'etica non lo è per l'estetica. Guernica è brutta? Rappresenta (non «è») una bruttura etica, la guerra, ma lo fa con la bellezza dell'arte (che non è la bellezza dell'estetista). Le sensazioni dell'estetica non sono giudizi etici (le neuroscienze hanno spiegato che, come aveva intuito Kant se non erro, il sublime, con le sue "vertigini", è una questione percettiva di "sproporzioni", nulla a che vedere con il disappunto o la condanna morale).
Indubbiamente etica ed estetica possono essere accostate (nel sovrainsieme comune della filosofia) ed interagire, come detto l'estetica può esser strumento dell'etica, ma secondo me va comunque distinto il pennello (estetica) dalla mano che lo regge, considerando che la mano (quella dell'etica) non ha essenziale bisogno del pennello e il pennello può esser usato anche da altre mani (non etiche).


P.s.
Sulle citazioni: al netto di quanto detto sopra, nei «panni curiali» di Machiavelli non vedo nulla di etico, né una sinergia fra etica ed estetica; in che senso la riscontri? Sul motto di Dante invece non colgo l'appello a fuggire la bruttezza (e se ci fosse sarebbe, visto il contesto, quasi un imperativo morale, nulla di estetico). Sulla contiguità fra brutto e bruto nel cristianesimo, probabilmente siamo di due parrocchie diverse (nella mia, se il flash-back ai tempi del catechismo non mi inganna, la bruttezza morale non ha nulla di estetico).
#1219
@Ipazia

Tuttavia, fuori da quel frangente storico (e fuori dalla narrazione leggendaria dell'evento), o anche, concediamolo pure, forse proprio a partire da esso, il percorso delle due mi pare sia rimasto sempre ben separato. Risincronizzandoci al qui ed ora, affermare che oggi «Kalos compete nel campo etico» non so se trovi riscontro nella nostra realtà (occidentale, non tribale, etc.), in cui si insegna perlopiù la negazione di kalòs kagathòs (certo, se ne può discutere) ovvero che il bello non è di per sé virtuoso (eticamente) e viceversa; sempre considerando che finché «etico» non è sinonimo di «sociale», la frase non può essere intesa come «Kalos compete nel campo sociale». Se per «compete» si intende «esser di competenza di», allora è difficile non concordare: usi e costumi competono solitamente alla morale, che dà il suo giudizio di valore anche sulla lunghezza delle gonne, sul rapporto fra bellezza femminile e giudici, sul tener a bada gli ormoni, etc. C'è indubbiamente una moralità che giudica e quindi influenza l'estetica (come già accennato), ma un'estetica che condizioni l'etica non mi pare abbia trovato nella nostra storia un adeguato simmetrico influsso.
Sul «potere redentivo» del Bello, c'è da chiedersi se redima eticamente o da questioni etiche, se sia (as)soluzione o evasione, oppure (considerando tutto quello che presuppone la categoria di «redenzione», nelle sue differenti declinazioni) rimanga ancora "insolubile" nell'etica, confermando appunto la differente "materia" delle due.
#1220
Citazione di: Ipazia il 05 Maggio 2020, 22:01:57 PM
D'accordo sulla relazione genetica tra estetica ed etica, ma appena diventa grandicella l'estetica instaura una relazione retroattiva con la madre tale da modificarne il modo di pensare. Ecco allora che Frine, accusata dello stesso reato di Socrate, riesce a scampare dalla medesima condanna mostrandosi nuda ai giudici. Un caso clamoroso di estetica capace di modificare, o quantomeno mettere seriamente in crisi, gli orizzonti di senso etico precedenti
Mi pare di non rilevare una modifica o una messa in crisi dell'etica da parte dell'estetica, piuttosto una conferma della divergenza fra le due; se l'etica, come ricordato (da Kierkegaard e altri), ha intrinseche velleità universali, il caso di Frine è semmai l'eccezione che conferma la regola: mostrare la propria nudità per ottenere una riduzione della pena o l'assoluzione, non è diventata da allora una prassi che ha modificato il diritto di quella comunità, tantomeno la tradizione etica di quel popolo. Ciò che quel gesto «ha messo in crisi» è l'immanente capacità di giudizio di alcuni specifici individui, ma non l'universalità della loro etica, confermata tale proprio dallo sbandamento per motivi estetici; sbandamento che non ha costituito un caso esemplare, un precedente poi tradotto in norma, restando fine a se stesso (come una certa estetica tende ad essere).
L'estetica, come esemplificato proprio da Frine, può tentare e sedurre i "ministri dell'etica", o più in generale tutti i soggetti in quanto attori etici, quasi fosse un invito, direbbe Kierkegaard (ma non io), a "passare al lato oscuro della forza", ovvero dalla "illuminata" forza della morale alla forza della "cupa cupidigia" animal-edonistica (anche se l'estetica non è questo, vedi in seguito). Più che suddetta «modifica» c'è insidia, in caso di estetica tentatrice, o approvazione/supporto, in caso di estetica complice di un'etica (arte sacra, etc.). Mi risulta difficile pensare ad un "hackeraggio estetico" dell'etica che non si limiti ad epifenomeni contingenti, come la scelta testosteronica di quei giudici. La figura dell'esteta che costeggia la morale o la infrange è un noto cliché, come quello dell'artista dissoluto, nondimeno c'è anche un'estetica che resta nei binari etici; in entrambi i casi, mi pare permanga comunque una differenza chiara fra i due orizzonti.
Ovviamente l'estetica non è una mera questione di "leva ormonale", anzi, nell'istinto all'accoppiamento c'è più neurobiologia che estetica (al massimo "neuroestetica"): il pavone che apre la sua ruota o un numero speciale di Playboy hanno "in sé" valenza estetica perlopiù metaforicamente, almeno se intendiamo l'estetica di cui si occupa la filosofia (riflessione sul bello e dintorni, non ostensione del bello in quanto tale).
#1221
@Lou

Sul rapporto estetica ed etica (restando al di qua della loro comune copertura del velo di Maya, del prospettivismo interpretante, etc.) riprenderei il fugace accenno con cui ho accostato Nietzsche ad un'estetica à la Kierkegaard, il che aiuta a spiegare in che senso vedo soprattutto risaltare la divergenza fra etica ed estetica, piuttosto che una comune genealogia (ci tornerò a fine post). Per Kierkegaard, lo stadio estetico dell'esistenza (l'ho rapidamente ripassato qui) è incentrato sulla ricerca di edonistica pulsionalità (ebrezza dionisica?), su una volontà (di potenza?) di vita sempre attiva e insaziabile, con in sottofondo la musica di Mozart (a cui si ispirerà Wagner?), del Don Giovanni (epigono borghese di Dioniso?), seguendo il motto «carpe diem» (frammento atomico dell'«amor fati»?) alla continua ricerca di vette eccezionali e individuali su cui ergersi sopra la folla noiosa e flaccida (dei filistei?). Tuttavia, l'esito, per Kierkegaard è la disperazione, mentre per Nietzsche è la tensione verso l'uomo che "diventa ciò che è", forse due condizioni attraversate da un medesimo nichilismo disagio esistenziale trasversale.
Lo stadio etico è invece quello che Nietzsche forse definirebbe apollineo, basato sul rigore, sul (auto)controllo, sulla libera scelta sempre sottomessa all'universalità della morale, quindi al divino (o al metafisico), in una sintesi che produce, per il danese, l'esito del pentimento; è lo stadio del kierkegaardiano «trasformare se stesso nell'individuo universale», in contrasto al suddetto nietzschiano «diventare ciò che si è».

Sul "riposare" dell'etica sull'estetica, almeno se mi affido al senso comune, sono propenso a leggerlo al contrario: l'etica è uno dei fondamenti della vita comune, sin dai tempi dei primitivi, l'estetica viene dopo (così come la poesia viene dopo la scrittura "utile") e si installa fra paletti (sacri o meno) già posti e da non superare (il che "dà il la" ad ogni ribellione per via estetica). Questo, secondo me, perché la dimensione estetica presuppone un precedente orizzonte di senso (da cui scaturisce), che presuppone una cultura di partenza (seppur sovvertibile e rinnegabile), che presuppone una società, che presuppone un collante etico (in quanto comune accettazione o sottomissione a norme di condotta, che presuppone la volontà/necessità di vivere assieme).
#1222
Citazione di: viator il 03 Maggio 2020, 17:16:19 PM
Ma chi sceglie i criteri per giudicare chi sia "più capace" dovrebbe essere egli stesso ancora ed ancora "più capace" dei "più capaci" che che deve "esaminare".
Tralasciando l'epistocrazia, tale regresso all'infinito è nella prassi evitato nel momento in cui un consesso specialistico stabilisce per consenso interno prima i criteri e poi, tramite essi, chi fra loro è più idoneo ad un certo ruolo; poiché, almeno fra "pari", il riconoscere chi è meglio di me in qualcosa, non prevede il paradosso che io debba essere meglio di lui per constatare il suo esser meglio (in caso di dubbio, entrano inevitabilmente in gioco altri fattori meno oggettivi).
Questo accade solitamente in tutti i settori, ad esempio, se non erro, nella scuola: chi giudica i docenti adeguati ad essere tali? Altri docenti. E chi giudica tali "altri docenti" in grado di decidere chi può essere docente? Ulteriori docenti... e sembrerebbe di poter proseguire a oltranza, fino a rendere pressoché impossibile la presenza di un docente in aula. Per fortuna, si arriva convenzionalmente ad un punto in cui (semplificando) un gruppo di docenti decide chi fra loro è più adatto a decidere chi giudicherà altri futuri neo-docenti (tramite concorso o simili), e qui la catena si interrompe.
D'altronde, meglio una decisione fra i (più o meno) pari di ruolo, fra i competenti (o meno incompetenti), oppure meglio sia la massa degli alunni a decidere democraticamente chi può essere loro insegnante?
Se la priorità è rendere soddisfatta la quantità maggiore di alunni possibile, avrebbe (quasi) senso far votare tutti gli alunni, semplicemente in quanto tali, per eleggere i professori (e in caso di proteste studentesche avere l'alibi dell'«li avete votati voi»); se la priorità è la qualità dell'insegnamento, mi pare ragionevole abbiano voce in capitolo solo coloro che sanno (ri)conoscere i parametri di tale qualità (sapere che potrebbe forse appartenere anche ad alcuni alunni, ma che esula dal semplice "essere alunno in quanto tale").
C'è un possibile compromesso fra qualità e quantità? Un compromesso efficace solitamente prevede criteri e metodo, in una parola, di nuovo, episteme.
#1223
Citazione di: Santos il 03 Maggio 2020, 15:59:41 PM
Allora io mi chiedo: è saggio dare il potere di fare leggi e di decidere la politica dell'Italia ad una massa che per il 28% (secondo altri studi anche di più) è composta da analfabeti funzionali, che credono alle fake news e alle teorie complottiste più varie, che ragionano con la pancia invece che con la testa? È davvero auspicabile una democrazia diretta, o è meglio una forma di meritocrazia (Jason Brennan la chiama "epistocrazia"), dove a governare sono i migliori (magari scelti per concorso)?
Pur trovando, da un lato, ovvia la ragionevolezza insita nell'epistocrazia, e dall'altro, altrettanto ovvia la non facilità della sua proceduralizzazione, sono anche consapevole che, per motivi storici e culturali, è un tabù che suscita le più disparate reazioni avverse, nemico comune di molte (tutte?) le fazioni politiche. Nondimeno, riprendendo la differenza fra episteme e doxa, per me si pone come male minore valutabile alternativa alla "dossocrazia", all'oclocrazia, etc.
Senza volermi addentrare nel discorso politico, leggendo en passant la considerazione di Ipazia che «(non) tutti possono improvvisarsi vigili del fuoco»(cit.), mi sono chiesto se "tutti possono improvvisarsi pensatori politici" (sia come votanti che come votati), dove con «pensatore politico» non intendo aulicamente ammiccare alla sofocrazia utopica, ma semplicemente l'esser in grado di pensare politicamente (a prescindere da quale si ritenga sia il Bene della polis) con (minima?) cognizione di causa, ovvero, appunto, con episteme.
#1224
Citazione di: Ipazia il 02 Maggio 2020, 19:59:35 PM
Resta l'arte, ma come insegna L.Wittgenstein, etica ed estetica pari sono. E in FN sono ancora più (con)fuse in una unio mystica inscindibile, che contrassegna pure la sua metafisica dionisiaco-apollinea e si libra nelle figure a lui più care: amor fati, eterno ritorno, trasvalutazione über-omistica (o forse: -omystica) .
Wittgenstein era un logico, per questo nella (sua) logica, etica ed estetica rientrano nello stesso insieme (quindi simili ma non identiche, se andiamo al di là del motto letterale): quello dei giudizi di valore (non di fatto), quello della trascendenza (non del «mondo») quello dell'indicibilità (e indecidibilità chioserebbe qualcun'altro, ma è un'altra storia...) il cui "gioco linguistico", come dirà dopo il Tractatus, è eventualmente oggetto di studio della logica e della filosofia del linguaggio. Il valore "mistico" che Wittgenstein assegna ad alcuni tipi di discorso, è comunque una tassonomia, non un'assegnazione positiva di "valore trasvalutativo". Lo strappo con cui Wittgenstein e Nietzsche si slacciano dalla metafisica classica è infatti piuttosto differente, la stessa differenza con cui la tragedia e l'autopsia parlano comunque entrambe della morte.
Nietztsche non era esattamente un logico, quindi se accomuna etica ed estetica, credo lo faccia su un piano esistenziale e, scommetto, è l'etica ad estetizzarsi (in quanto suo contenuto prospettico) più di quanto non sia l'estetica ad eticizzarsi (come, se non erro, propone Wittgenstein nella sua «Conferenza sull'etica», posteriore al Tractatus).


Citazione di: Lou il 03 Maggio 2020, 08:35:46 AM
E il famoso caos della stella danzante è propio questo, quella cifra di differenza che agisce creativamente che non possiamo riuscire a elaborare in una sintesi che risolva il suo carattere contradditorio e "Altro", a differenza di Hegel. Però ecco, in Nietzsche, c'è coerenza, infatti se parliamo di "edificazione" di un'etica certo non siamo di fronte a un sistemone entro cui ogni elemento ( atomo :P ) trova perfettamente una graziosa posizione  e una descrizione coerente nell'economia del tutto, ma più eroicamente occorre un moto di accettazione, che non ha le sembianze del dovere, più dell'amore. L'amor fati di Nietzsche. Questa è la pedagogia etica in una realtà in cui non c'è un dolore da cui dover guarire, ma da accettare poichè connaturato all'esistenza, nel suo non-senso. Ma connaturata alla vdp c'è pure un afflato estetico che gioca un ruolo decisivo, abbiamo l'arte per non perire.
Eppure, se non ci sono stelle fisse a fare da riferimento, ma solo stelle danzanti, le rotte dei paradigmi (etici, "pedagogici", etc.) che vi si orientano, risulteranno parimenti danzanti e instabili. Per un singolo può andar anche bene, ma non risulta una proposta plausibile o applicabile per una comunità, una società. Quindi: un'etica, un'epistemologia e, soprattutto, una metafisica, non solo «non risolutive» (come giustamente osservi) ma tendenzialmente individualiste, soggettive (e di un soggetto che «è finzione», come dice l'autore stesso), sono ancora tali? Concordiamo che gli sviluppi del pensiero successivo (poststrutturalismo, etc.) ne daranno una eloquente risposta.
Per questo, mi pare, Nietzsche non riesca a (semmai lo abbia mai voluto) fare proposte sociali o politiche, ma perlopiù "estetiche" (anche in senso kierkegaardiano o, mutatis mutandis, levinassiano); l'"amor fati di massa" sarebbe un non-senso o una pia utopia. Una differenza essenziale fra estetica ed etica è in fondo anche questa: sebbene entrambe ambiscano ad essere universali, a rivolgersi a tutti, l'etica è un'esperienza sociale (l'Altro è un uomo, vige un reciproco "per noi"), l'estetica è un'esperienza individuale (l'altro è l'arte, la natura, etc. vige il "per me").
#1225
Al di là della questione dell'atomo, inteso scientificamente, mi suscitano una certa risonanza le sue affermazioni (purtroppo giunte come "diario filosofico" più che saggio argomentativo) critiche riguardo l'atomo come metaforico elemento stabile di identificazione permanente, "parmenidea", come puntello a cui appendere credenze illusorie (nel senso che ho accennato in altro topic di altra sezione):
Citazione di: Ipazia il 30 Aprile 2020, 13:03:37 PM
perfino la materia è un antichissimo pregiudizio innato, derivante dal fatto che l'occhio vede superficie piane e il tatto umano è un organo molto ottuso: dove cioè si percepiscono punti di resistenza, ci si costruiscono spontaneamente dei piani continui resistenti (che però esistono solo nella nostra rappresentazione), sotto l'illusione, ormai diventata abitudine, dell'occhio che rispecchia e che in fondo non è altro, appunto, che un grossolano organo di tatto. [...] Oggi siamo abituati a distinguere l'oggetto mosso e il movimento; ma in mosso è inventato, è messo dentro la realtà con la fantasia, perché i nostri organi non sono abbastanza sottili da percepire dovunque il movimento e ci mettono innanzi qualcosa di persistente, mentre in fondo non vi sono « cose », né vi è alcunché di persistente.
[...]
Il mondo per noi è qualcosa di più di un compendio di relazioni misurate in un certo modo ? Appena questa misura arbitraria viene a mancare, il nostro mondo si dissolve !
[...]
Una volta che si sia capito che il «soggetto » non è niente che produca effetto, ma solo una finzione, molte cose ne seguono. Solo in base al modello del soggetto abbiamo inventato le cose e le abbiamo introdotte nel guazzabuglio delle sensazioni. Se non crediamo più al soggetto agente, cade anche la credenza nelle cose agenti, nell'azione reciproca, nella causa ed effetto fra quei fenomeni che chiamiamo cose. Cade con ciò naturalmente anche il mondo degli ATOMI AGENTI, che si postulano sempre presupponendo che si abbia bisogno di soggetti. Cade infine anche la «COSA IN SÉ» : perché questa è in fondo la concezione di un «soggetto in sé». Ma noi abbiamo capito che il soggetto è finzione. La contrapposizione fra «cosa in sé » e « apparenza» è insostenibile ; ma con essa cade anche il concetto di «apparenza»
Sono invece un po' perplesso riguardo questa interpretazione (anche se sicuramente si basa su una conoscenza di Nietzsche ben superiore alla mia):
Citazione di: Ipazia il 30 Aprile 2020, 13:06:00 PMil compendio finale, incompleto nella stesura ma non nelle intenzioni, della filosofia di FN: metafisica, epistemologia ed etica.
Se, dopo aver scritto i frammenti pazientemente riportati nei primi due post, si volesse edificare etica, epistemologia e persino metafisica, dubito si potrebbe sviluppare un discorso organico e coerente; si finirebbe con il tentare di mettere assieme i pezzi di due puzzle ben differenti: da un lato, il soggetto è finzione, dall'altro, l'etica (che non sia convezione giuridica o contingenza socioculturale) si fonda esattamente sul contrario; da un lato, l'atomo (portabandiera dell'ontologia) è feticcio apollineo, dall'altro, l'epistemologia esige che non lo sia, perché per lei deve essere un dato di coscienza manipolabile e utilizzabile (oltre che esplicativo); da un lato, la metafisica è smembrata in storia del pensiero, «horrendum pudendum», psicologia, estetica, etc. dall'altro, è un po' troppo tardi (a fine '800) per proporre una "nuova" metafisica basata sulla fusione di letteratura (poesia, miti greci, etc.) e psicologismo ingenuo (Freud è già dietro l'angolo). Se quest'ultima "metafisica" fosse la sua proposta, sarebbe incompatibile con il prospettivismo che l'autore stesso propone: una metafisica che ha come pietra angolare la volontà di potenza di un soggetto che è finzione, al contempo interpretata ed interpretante, è troppo debole per poter scalzare le altre metafisiche giocando al loro stesso gioco (dunque si "umilierebbe" per confermare il prospettivismo da cui deriva, tuttavia non sarebbe nemmeno necessario).
Soprattutto, Nietzsche pare minare il discorso veritativo-metafisico alla sua base «La volontà di verità è un rendere saldo, un rendere vero-durevole, un eliminare dalla nostra presenza quel carattere falso,una reinterpretazione dello stesso nel senso dell'essere. La verità non è pertanto qualcosa che esista e che sia da trovare, da scoprire, - ma qualcosa che è da creare e che dà il nome a un processo, anzi a una volontà di soggiogamento, che di per sé non ha mai fine : introdurre la verità, come un processus in infinitum, un attivo determinare, non un prendere coscienza di qualcosa <che> sia « in sé » fisso e determinato. È una parola per la «volontà di potenza».»(cit.). Vengono sterilizzati così, in un colpo solo, sia qualunque progetto epistemologicamente forte, essendo la verità non scoperta ma «da creare» (cit.), sia qualunque metafisica autorevole intesa come «prendere coscienza di qualcosa che sia in sé fisso e determinato»(cit.). Una volta inibite alla radice l'epistmologia e la metafisica forti, con conseguente confinamento dell'etica in mero accidente storico-prospettico, non resta che una visione potentemente estetica:
«quanto più disumanizziamo la natura, tanto più essa diventa vuota, priva di significato per noi. L'arte si fonda integralmente sulla natura umanizzata, sulla natura irretita e intessuta di errori e illusioni, dalla quale non vi è arte che possa prescindere»; già, compresa l'arte della filosofia (cavalcando il richiamo al vuoto di significato e all'illusione, osserverei che la visione "disumana" della natura è una visione fuori dall'illusione-maya-samsara del prospettivismo condizionante e convenzionale della ragione calcolante-apollinea).
Gli sviluppi di questa impostazione, più che a costruire una metafisica, un'etica e un'epistemologia, mi pare abbiano portato (se non sono troppo di parte) al pensiero postfenomenologico francese e più in generale al pensiero debole postmoderno, che, non a caso, hanno in Nietzsche una delle loro muse più rilevanti.
#1226
Tematiche Spirituali / Re:L'illusione dell'io
30 Aprile 2020, 15:03:53 PM
Citazione di: Ipazia il 30 Aprile 2020, 09:46:52 AM
Mettendomi nei panni dell'umile tenaglia, evidenzio la sua memoria di essere stata essa stessa presa e forgiata da altre tenaglie e da un maglio che le ha dato la forma in cui potersi manifestare nella sua prensile natura. Non del tutta avulsa da una sua capacità speculativa nel vedere agire altre tenaglie simili a lei per funzione e sostanza.
Concordo, questa è esattamente la civiltà della specie "tenaglia sapiens": accomunate per sostanza, per range di capacità operative, per struttura materiale, per modalità di interazione con il mondo secondo il dualismo prendibile/non-prendibile, per storia evolutiva delle tenaglie, per rivoluzione delle tecniche di prensione, etc. e ne ha costruite molte di opere mirabili, questa stirpe di tenaglie («canaglie» tuonerebbe forse Madre Natura, ma meglio non accavallare troppo le metafore).

Citazione di: Ipazia il 30 Aprile 2020, 09:46:52 AM
Autocoscientemente maturando la consapevolezza della sua insostituibilità ogni volta che il mondo incappa in qualche bullone da avvitare o svitare.
Qui la relazione disillusa che proponevo è invece rovesciata: non è il mondo ad incappare in bulloni da svitare, ma è la tenaglia, in quanto tale, a vedere nel mondo bulloni da girare; un pennello vedrebbe bulloni da dipingere (e magari non li chiamerebbe nemmeno «bulloni»); ognuno secondo la sua naturale prospettiva.

Come detto, l'esser consapevoli del proprio esser-tenaglia è il punto di partenza per disilludersi che il mondo sia solo una questione di girar bulloni, anche se così facendo si è storicamente costruito già molto. Lasciarsi attanagliare dal dubbio che tutto ci paia prensibile/non-prensibile solo perché siamo tenaglie, può aiutarci a capire l'illusione che la (com)prensibilità, che la nostra prospettiva impone al mondo, coincida con la realtà assoluta del mondo: come suggerito, ibridando Nagarjuna con Husserl, la "realtà ultima" (invalicabile, fino a prova contraria) è probabilmente quella in cui, lasciando fenomenologicamente tra parentesi il nostro esser tenaglia e il connaturato criterio di (com)prensibilità, non c'è nulla da (com)prendere e, a ben vedere, nemmeno nessuna "tenaglia" (intesa come identità convenzionale e permanente).
In breve, sunyata zen demistificato, realismo alogico (il termine etimologicamente esatto sarebbe «nichilismo», se non fosse già così stracarico di storia, concettualizzazioni, pregiudizi, etc.).

Citazione di: Ipazia il 30 Aprile 2020, 09:46:52 AM
E trovando alfine la sua gloria nel canto di chi, nella "chiave a stella", ne colse e narrò la grande bellezza siderea.
Per me, più che nella decodifica siderale, la (vana)gloria delle tenaglie è forgiata nella fucina di Efesto: "gloria operaia" del formicaio di industriose (ed industriali) creature, che risolvono con la "tecnica della complessità" il complesso di inferiorità verso gli altri animali. Naturalmente, più vogliono esser prime per pienezza di conoscenza, più si allontanano dalla vacuità della realtà ultima.
#1227
Tematiche Spirituali / Re:L'illusione dell'io
29 Aprile 2020, 21:14:33 PM
Citazione di: daniele75 il 29 Aprile 2020, 07:36:06 AM
L'uomo ha due 'io': l'Io Reale immortale detto [/size]Atman[/size] o [/size]Purusha[/size] e l'Io relativo, effimero, falso, [/size]ahamkara[/size].
Suggerirei di riprendere tale dualismo (struttura che ben si addice al discorso logico), per scendere sotto il manto cultuale e "populista" addobbato di varie divinità, trascendenze, verità ultime, assoluti, etc. e partendo da Nagarjuna (anche nel senso di allontanarsene) e la sua distinzione fra «realtà convenzionale-relativa» e «realtà ultima» (nel senso che non se ne vede una ulteriore; questione più di "topologia" che di mistica), ragionare secondo un "realismo alogico" che considera il concetto di sunyata (vuoto come indeterminazione logica, non come nulla ontologico) "pervasivo" di quello di svabhava (essenza dell'ente, identità), senza tuttavia indulgere nelle velleità e promesse soteriologiche tipiche di una dottrina spiritual-religiosa.
Questa stessa concezione del concetto di sunyata, come disillusione dalla convenzionalità logico-culturale, è a sua volta "vuota" o "piena"? Essendo formulata secondo il linguaggio logico-convenzionale non può che esser "piena" di un senso, sebbene il suo referente, ciò a cui rimanda, è un vuoto di senso. Una prospettiva che quindi indica (non «è») la soglia del valico dell'illusione convenzionale; il che significa capire e farsi carico della funzione condizionante del prospettivismo nietzchiano, dell'"illusione dell'io", del pensiero logico-calcolante, del Samsara (che, per alcuni, è il Nirvana pensato e identificato "fuori" dalla sua vacuità), etc.

Similmente, riflettendo sulle dimensioni e la funzione di una tenaglia normale (convenzionale), si capisce (non «intuisce») che non ci si può prendere né il tronco di un albero né la punta di un capello. Non c'è nulla di mistico o spirituale, solo consapevolezza del ruolo (e dei limiti strutturali) dello strumento, del medium. Ciò non significa che lo strumento non possa ottenere dei risultati concreti: infatti la tenaglia ben stringe e svita bulloni (v. la famosa abilità tecno-scientifica di mandare sonde nello spazio), semplicemente c'è anche qualcosa che tale strumento non può cogliere, anche se questo non ne inficia comunque la funzionalità. Cos'è che sfugge alla tenaglia? Anzitutto, la possibilità di afferrare il suo stesso perno o il suo stesso manico, ovvero di (com)prendere se stessa. D'altronde, una tenaglia "vede" il mondo circostante classificato secondo la sua dicotomia prospettica di prendibile/non-prendibile; sebbene, al di là dell'aporia del non poter prendere sé stessa (aporia che è connaturata al suo stesso esser tenaglia e quindi ne fonda la funzionalità), c'è stata anche qualche tenaglia che ha osservato, fenomenologicamente, che è proprio la sua stessa interazione con il mondo circostante a farlo sembrare tutta una questione di prendibile/non-prendibile (vero/falso, giusto/sbagliato, etc.). Nel momento in cui si è consapevoli di come si funziona in quanto tenaglia, è spontaneo capire che la (com)prensibilità del mondo è una prospettiva convenzionale da tenaglie, una mappatura sovrastrutturale che le tenaglie impongono sul mondo (nel loro interagire empirico con esso); e in fondo non potrebbero fare altrimenti... almeno finché si adoperano "solo" a prendere/non-prendere (attività non certo scevra da difficoltà e rischi) o, come si direbbe più ad oriente, attaccarsi/non-attaccarsi.


P.s.
In rete ho pescato il Mulamadhyamakakarika (testo integrale seguito da un commentario) purtroppo solo in inglese, qui.
#1228
Tematiche Spirituali / Re:L'illusione dell'io
28 Aprile 2020, 17:23:47 PM
Citazione di: giopap il 28 Aprile 2020, 09:40:47 AM
Dunque l' "io" o il "sé" non é né verificabile empiricamente, né provabile logicamente essere reale.
Si può crederci solo arbitrariamente, indimostrabilmente, per fede (cosa che *a quanto pare* fanno tutte le persone sane di mente).
Più che «per fede» (senza offesa per la sezione in cui siamo), essendo coinvolta comunque anche una certa autopercezione (con tutto il paradosso interpretativo che si porta dietro) direi per cultura e, più pragmaticamente, anche per linguaggio (che è sempre in rapporto dialettico con la cultura). Se si ragiona usando il linguaggio o le categorie del linguaggio (concordo con l'idea di fondo della tesi Sapir-Whorf, ma senza radicalizzarla), non può essere totalmente irrilevante se, ad esempio, l'arabo ha due forme per il «tu», una maschile, una femminile, per il «voi» e il «loro» ben tre (una maschile, una femminile, una generica, o meglio, di entrambi i generi), nel senso che, ad esempio, il dibattito sulle teorie gender tenderà a scontrersi con la tradizione (cultural-)linguistica araba anche linguisticamente più di quanto avvenga per i parlanti italiani (che discrimina solo «lui/lei», considerando «essi/esse» un po' desueto). Chiaramente, fra tante criticità del dibattito sulle teorie di gender, la questione strettamente linguistica non è certo la più condizionante o cruciale (non si modificano imprinting culturali retroattivamente semplicemente mettendo un asterisco al posto di un suffisso di genere). Parimenti, il fatto che Giapponesi e Vietnamiti abbiano una gestione "plurale" della prima persona singolare piuttosto differente dalla nostra (link), non può che rappresentare una interessante risorsa di senso già preinstallata nella lingua, che probabilmente paga dazio in una traducibilità che sacrifica, come quasi sempre, qualcosa del senso originario/originale in nome della comprensibilità.
Ripesco in merito una citazione da un video già richiamato da Ipazia:
Citazione di: Ipazia il 23 Aprile 2020, 11:21:42 AM
Carlo Sini ci convive bene con questa "illusione" e, un tantino sogghignante, ce la spiega con parole alate (...l'infinito spettacolo... la stratificazione... corpi, strumenti, discorsi...) qui dal minuto 43,30 al 45,30.
Al minuto 43:03 Sini afferma:
«La filosofia non è più sufficiente per guardare il discorso, perché anch'essa è un discorso. Che ha relazioni molto forti con il tempo in cui è nata, che ha relazioni molto forti con il tipo di scrittura che ne è scaturito o da cui è scaturita. Perché... Hegel l'aveva capito benissimo: se tu scrivi con gli ideogrammi, non puoi fare filosofia; e aveva ragione. Ma questo vuol dire che la filosofia non dice la verità dell'uomo... ne dice una certa, una figura transeunte, transitante... alla fine: chi parla qui?».
Non me ne vogliano né Sini né la buon'anima di Hegel, ma sospetto non solo che si possa far filosofia a prescindere dalla scrittura, quindi oralmente (senza nemmeno porsi il problema di poterla poi segnificare in ideogrammi o lettere o geroglifici), ma inoltre che, in caso di scrittura differente da quella alfabetica, non si tratti di non poter fare filosofia (senza indugiare sulla possibile rigidità escludente insita nel termine), ma semmai di poter fare una filosofia strutturalmente differente dalla "nostra", con tutti gli annessi problemi di traduzione linguistico-concettuale.
Sulla domanda finale di Sini (che qui si traveste quasi da koan) «chi parla qui?», credo di essermi già sbilanciato adeguatamente in questo topic: essendo posta in pieno domandare logico-filosofico, essendo un "io" a porre la domanda, la risposta "da manuale" non può che essere (l')«io»; almeno finché decidiamo di "stare al gioco" (ludere) del nostro linguaggio prospettico e della nostra cultura (anche per risparmiarci il rischio di essere "inquadrati" come "cerchi" «non sani di mente», salvando così l'apparenza, per il quieto vivere e il quieto discutere).


P.s.
@Lou
Grazie per aver riportato anche la seconda citazione di Nietzsche: conoscendolo poco, non mi aspettavo una sua schiettezza così coerentemente logica con la premessa posta dal prospettivismo; anche se, come sempre, suppongo che i suoi scritti frammentari non possano essere presi semplicemente alla lettera (quindi non mi arrischio a farlo).
#1229
Tematiche Spirituali / Re:L'illusione dell'io
27 Aprile 2020, 16:14:29 PM
Con una probabile (auto)suggestione interpretativa, ho trovato una tanto inattesa quanto tempestiva risonanza con una citazione di Nietzsche postata oggi in altro topic:
Citazione di: Lou il 27 Aprile 2020, 14:52:50 PM
105. [...] Ma in ciò si ingannano: l'atomo che essi postulano è ricavato dalla logica del prospettivismo della coscienza ed è pertanto esso stesso una finzione soggettiva. [...] [I fisici] hanno tralasciato qualcosa nella costellazione senza saperlo: appunto il necessario prospettivismo, in virtù del quale ogni centro di forza – e non solo l'uomo – costruisce tutto il resto del mondo a partire da se stesso, cioè lo misura, lo modella, lo forma secondo la sua forza... Hanno dimenticato di calcolare nell' «essere vero» questa forza che pone prospettive... [...]

Passo tratto da i Frammenti Postumi. (italic mio)

Ebbene, salpando da questa citazione per andare lontano dal suo autore (che logicamente pone per vera la «forza che pone prospettive»), se il fulcro di tale prospettivismo è l'uomo, nel momento in cui tale prospettivismo si rivolge all'autocomprensione, l'idea che l'uomo si fa di sé stesso sarà a sua volta prospettica, ovvero una «finzione soggettiva» del soggetto che si guarda allo specchio e si identifica come tale (soggetto, io, etc.).
Al netto del concedere o meno una certa sfumatura tangente fra «finzione» e «illusione», non si ottiene forse una metafinzione in cui il soggetto stesso, nel vedersi prospetticamente come tale (soggetto, io, etc.) è inevitabilmente a sua volta una sua «finzione soggettiva»?
Da dove origina tale prospettiva, nel momento in cui si autoidentifica? Non può originare dall'io, dal soggetto, etc. perché essi sono il risultato prospettico della «finzione soggettiva». Che origini allora da uno "sguardo" non ancora soggettivizzato, ovvero privo di (auto)concettualizzazione, ovvero spontaneamente prelogico e senza identità? Tale sguardo potrebbe suggerire, non dimostrare, che l'io è un'illusione o, per dirla con Nietzche, che la finzione soggettiva non risparmia il soggetto stesso quando questi si pone nel suo stesso sguardo, inevitabilmente prospettico.


P.s.
Con questo spunto "rubato" a Nietzsche non intendo certo farne un alfiere della mia... prospettiva (appunto); anche perché notoriamente il suo pensiero presenta altrove impostazioni ben differenti dall'"illusorietà dell'io": volontà di potenza, oltre-uomo, etc. ho solo preso la palla al balzo, ma non voglio "tirare per i baffi" in questo discorso un autore che probabilmente non vorrebbe affatto entrarci e che, se non erro, non si è occupato di questa tematica.

P.p.s
@davintro
Concordo con il monito cartesiano, avevo infatti specificato che
Citazione di: Phil il 26 Aprile 2020, 17:06:31 PM
Sostenere che «l'io è illusione» [...] non equivale a sostenere che «l'io non esiste» che non equivale a sostenere che «io non esisto».
Per scorgere l'"illusione dell'io", come ben si addice alla sezione inerente la spiritualità, bisogna fare un passo indietro rispetto alla razionalità logica, come ci invita a fare il suddetto zen (rieccolo).
#1230
Tematiche Spirituali / Re:L'illusione dell'io
27 Aprile 2020, 12:29:03 PM
Citazione di: daniele75 il 27 Aprile 2020, 08:04:05 AM
Scusa Phil, puoi darmi una definizione dell io nella cultura zen? A parole tue, so che è difficile, ma mi sarebbe d'aiuto
Ci sono testi (come l'Abhidhamma) che scandagliano in dettaglio la concezione dell'io (e dintorni) nel buddhismo classico; nello zen ci sono poi differenti scuole (Soto, Rinzai, etc.) che ne riprendono alcune parti e ne tralasciano altre; ogni maestro è a suo modo un ermeneuta. Sarebbe onestamente il colmo se mi mettessi a dare spiegazioni sullo zen (ho già commesso in precedenza la leggerezza, citandolo, di trattarlo troppo generalisticamente), andremmo ben oltre la comicità, vista la mia impreparazione... tuttavia cosa intendo personalmente per «illusione dell'io» credo di averlo accennato nei post precedenti: (auto)identificazione convenzionale, modello interpretativo che funziona socialmente, narrazione logica delle esperienze corporee e dei vissuti, etc.
Ribadisco che considero lo zen in modo personalizzato (eterodosso, anzi, "eretico"): sicuramente non sono buddista, ma non posso negare l'influsso che alcune letture hanno avuto sulla mia visione del mondo (per questo ogni tanto cito lo zen, seppur senza scendere in dettagli che eccedono la mia competenza in materia).


Citazione di: Ipazia il 27 Aprile 2020, 09:52:21 AM
Qui ne parla. Ne illustra la grammatica.
Non mi convince troppo nemmeno come "grammatica di base": sono un po' più all'antica per quanto riguarda lo zen, ma al contempo non lo prendo alla lettera e ne tralascio molti aspetti. Lo vedo all'antica, nel senso che non concordo con la sua ricezione all'occidentale, "esegeticamente liberale" e psicologistica, perché lo intendo come derivazione stretta del buddismo, a cui rimanda ancora nei suoi concetti cardine. Passi pure che nel link si parli del koan come un «porsi un quesito che non ha una risposta» (e già qui c'è da storcere il naso), ma che dukkha sia la prospettiva secondo cui «si può giungere al Nirvana attraverso un percorso di dolore fisico e spirituale» mi pare davvero un'interpretazione che rischia di essere fraintesa malamente, ai limiti della manomissione dell'essenza della dottrina (ad esempio delle «quattro nobili verità»).

Citazione di: Ipazia il 27 Aprile 2020, 09:52:21 AM
Penso che anche Freud, per vie occidentali, cercasse il sè nell'io, per cui si ritorna da capo al discorso della verità del soggetto: reale fondata o illusoria ?
Domanda che ha (forse) senso per Freud, ma il «sé» di cui parla (molto ambiguamente) quell'articolo, non è il sé psicoanalitico all'occidentale (più plausibilmente si allude alla natura buddhica). Ne deriva che la domanda sulla "verità del soggetto", nello zen, per come lo intendo, ha due esiti: una bastonata o un koan (anzi, avendo usato la parola «verità», forse servirebbe una doppia dose...). In entrambi i casi, non si concettualizza nulla, restando un passo fuori dall'illusione, dal razionalismo logico, dall'attaccamento, etc.
Risposta che suona deludente e disillusa? Allora, forse, è già una buona "risposta zen".