Citazione di: Phil il 06 Novembre 2016, 15:51:33 PMCitazione di: Sariputra il 05 Novembre 2016, 01:05:38 AMIl kamma non è morale, né immorale, è una necessità implicita proprio nel processo di costruzione e dissoluzione condizionata. Ma qui sorge la domanda: chi o che cosa decide che un'atto è virtuoso o malvagio? La risposta è: i suoi frutti. Tutto ciò che porta ad una diminuzione di dukkha è virtuoso, di giovamento ai nobili; Tutto ciò che aumenta dukkha è nocivo, da evitare per i saggi.Queste osservazioni mi fanno porre la seguente questione: che rapporto c'è fra il male come malessere/sofferenza psico-fisica e il male morale? Il primo è esperibile, ma il secondo (fuori dal giusnaturalismo e dalle religioni rivelate) si presenta come poco più di una convenzione sociale... e, tornando al buddhismo, se il bene (sia psico-fisico che morale) è direttamente proporzionale alla diminuizione di dukkah, allora la morale buddhista si fonda sulla trasposizione socio-culturale del meccanismo fisiologico di avversione al dolore? Questa "immanentizzazione corporale" della morale è una mossa forte... eppure, se siamo "biologicamente programmati" per rifuggire da ciò che il nostro corpo individuale riconosce come doloroso, possiamo davvero coniugare questa repulsione nel rapporto con gli altri? La sola empatia non sarebbe adeguata... Se non erro, nell'ottuplice sentiero non compare l'altro (il "prossimo" del cristianesimo) ed è un sentiero essenzialmente solitario (anche al netto della differenza fra Theravada e Mahayana...). Certo, la dimensione sociale del buddhismo è storia nota (il gioiello "sangha", il voto di salvare gli altri esseri senzienti, etc.), ma la sua etica non è in fondo il prezzo da pagare (seppur economico!) per adattarsi ad un contesto sociale laico, a discapito del suo nucleo più "profondo"? In sintesi (e al di là dello spauracchio della rinascita in forme infime), se non c'è un'Io (anatman) come può esserci un Tu, e quindi un'etica di relazione e responsabilità? Nella citazione che hai riportato, la legge karmica viene presentata come garante della responsabilità sociale (nonostante l'anatman), ma mi pare sia una risposta a posteriori alla "necessità" di calare la dottrina nella società, che tuttavia quasi contraddice il suo nocciolo teoretico: se ogni mia azione negativa produce una conseguenza nefasta, bisogna intendersi su cosa sia "negativo" e "nefasto" per me che compio tale azione, che non coincide necessariamente con una forma di vissuto-dukkah... inoltre per pagare dazio tramite la conseguenza delle mie malefatte, si deve presupporre necessariamente che ci sia un io molto "costante e solido" che espii la sue colpe, oppure un'anima individuale che le sconti nella sua vita successiva, ma entrambi gli scenari vengono scartati dall'impostazione buddhista... Il passaggio dall'estirpazione del dukkah individuale (ovvero niente illusione di un io) alla dimensione etica (ovvero responsabilizzazione dell'io) non è quasi un paradosso, in cui ognuno dei due "atteggiamenti" ostacola l'altro? P.s. Mi è tornato in mente l'epicureismo, meno fortunato storicamente del buddhismo, che ambiva ad una simile eliminazione della sofferenza, almeno in senso fisico (aponia) e a una "liberazione dalle passioni" (atarassia) che ricorda molto lo sradicamento della "passione agitatrice" (raga) propugnato dal buddhismo.
Allora: il Buddhismo fonda la sua morale sulla compassione. Si deve capire che gli altri esseri soffrono (e fanno soffrire gli altri...) a causa della loro identificazione con qualcosa (il mio "io/atman" è., questo è mio..). La tesi del buddismo è invece la seguente: visto che la sofferenza è causata dall'identificazione allora eliminando l'identificazione si elimina la sofferenza. A questo punto il buddismo dice che la Cessazione è l'obbiettivo finale, il dharma "supremo", la pace assoluta.
"Dove l'acqua, la terra, il fuoco ed il vento
non riposano su nulla?
Dove il lungo e il corto,
il grossolano e il sottile,
il bello ed il brutto,
il nome e la forma
arrivano al loro termine?
'E la risposta a ciò è:
La coscienza illimitata,
assoluta, ultima:
In questa mondo l'acqua, la terra, il fuoco ed il vento
non riposano su nulla.
In questo mondo
il lungo e il corto,
il grossolano e il sottile,
il bello ed il brutto,
il nome e la forma
arrivano tutti al loro termine.
Con la cessazione della [attività di] coscienza
ogni cosa arriva, in questo mondo, al suo termine." (Kevatta sutta)
Visto che non ci sono più "distinzioni" non c'è più nessuna identificazione e nessuna sofferenza può avvenire. MA il fatto che "ogni cosa è priva di un Sé" (Dhammpada) NON implica che "un Sé non ci sia" perchè questo sarebbe ancora una posizione in cui si ragiona in termini di Io. Ergo: si va oltre l'io e perciò chiaramente "al di là del bene e del male" perchè appunto in assenza di "nomi e forme" come si fa a parlare di "bene e male"?
Sull'epicureismo la differenza è che mentre il buddismo "promette" una pace assoluta nell'epicureismo si ha una sorta di "aiuto psicologico" in cui l'io è libero da passioni e dolori fisici. Tuttavia di certo non si parla nell'epicureismo di "coscienza assoluta, illimitata...". Non ha avuto successo storico credo perchè era troppo "razionalista".
Personalmente comunque è proprio l'etica che non mi fa "prendere la via" del buddismo, pur rispettando e ammirando moltissime cose della dottrina.
P.S. In oriente il concetto di andare oltre alla moralità a quanto pare è molto diffuso: quando il Tao fu negletto si ebbero carità e giustizia (Tao Te Ching). Come dice Sariputra per la reincarnazione forse è il nostro background culturale che ci fa sembrare assurda anche una dottrina che non mette al posto l'etica. Però forse il motivo è che loro hanno la convinzione che il merito venga "ripagato" sempre in modo naturale. MA essendo anche per loro la natura fonte di "dukkha" va oltrepassata.