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Messaggi - Phil

#1231
Tematiche Spirituali / Re:L'illusione dell'io
27 Aprile 2020, 00:20:13 AM
Confermo che per lo zen in generale (e per me nello specifico) non vi sia uno «spirito trascendente unificante»; sull'illusione dell'io nello zen, probabilmente ci rifacciamo a due "scuole" differenti; la "mia" (seppur personalizzata, da buon postmoderno), a suon di anatta e koan, suggerisce una certa illusorietà dell'io pensante (illusorietà di cui è appunto meglio tacere).
#1232
Tematiche Spirituali / Re:L'illusione dell'io
26 Aprile 2020, 22:32:18 PM
Non ho parlato esattamente di livelli di astrazione del reale, semmai di un reale privo di astrazioni, dopo essersi "disillusi" da tutte le astrazioni, da intendere come modelli interpretativi che di fatto funzionano ed hanno ripercussioni empiricamente riscontrabili.
Chiaramente (spero) non concordo con chi crede nell'Uno:
Citazione di: Phil il 25 Aprile 2020, 12:33:19 PM
Risolvere la dualità e la molteplicità in un Uno assoluto, significa assecondare l'horror vacui e mettere un tappo, a cui appoggiarsi, per riempire tale vuoto; vuoto che tu stesso, corroborato da tutta la scienza contemporanea, hai rilevato
e non sono sicuro di negare la «distinzione fra soggetto (io) da altri oggetti "reali"»(cit.) per come la intendi tu (se non ho frainteso): il superamento della dualità a cui mi riferivo con
Citazione di: Phil il 24 Aprile 2020, 20:06:40 PM
Finché restiamo nella dualità serpente/corda, soggetto/mondo, etc. stiamo al gioco della realtà convenzionale; quando non vediamo più la dualità serpente/corda, allora non abbiamo più nemmeno un linguaggio per parlarne.
va letto alla luce del precedente
Citazione di: Phil il 24 Aprile 2020, 20:06:40 PM
c'è più pericolo nello scambiare la corda per il serpente oppure il serpente per la corda?
quindi il "vedere" (concordo che avrei dovuto usare le virgolette per esser più chiaro) a cui mi riferisco, non è "cecità" assoluta come "indifferenza cognitiva" (se così l'hai intesa) rispetto a ciò che viene chiamato (nel linguaggio) questo/quello, vicino/lontano, caldo/freddo, corpo-mio/spigolo, etc. l'assenza di dualismo, «il vuoto di parole» su cui ho insistito (con annesso comico paradosso), non è indiscriminazione percettiva (semmai sia possibile), ma "solo" concettuale; per questo ho citato lo zen (non teorie mistico-cosmiche).

P.s.
Non scommetterei di essermi spiegato meglio, ma forse ho potuto darti qualche indizio almeno sulle differenze rispetto a Daniele75 e Tony Parsons (se così non fosse, lascia pure scorrere, non ti perdi niente di speciale, parola mia).
#1233
Tematiche Spirituali / Re:L'illusione dell'io
26 Aprile 2020, 17:06:31 PM
Citazione di: Ipazia il 26 Aprile 2020, 15:47:37 PM
Anche i più fondamentalisti sostenitori di un io illusorio basta pungerli perchè tutta la loro teoresi si sbricioli. E' la solita questione che già abbiamo dibattuto: lo spirito è radicato nella carne così come il soggetto identitario (io) che quello spirito cerca di sviare, senza mai riuscirvi.
Sostenere che «l'io è illusione» (con annessi cinque post di postille) non equivale a sostenere che «l'io non esiste» che non equivale a sostenere che «io non esisto».
La «puntura» e lo «spirito» non hanno quindi pertinenza con il (mio) discorso sul linguaggio, sulla concettualizzazione convenzionale e sul realismo "alogico" che prende spunto da Veda e zen.
Come previsto, se non sono in grado di spiegarlo parlandone, meglio tacerne (pur restando convinto che non sia una questione di intuizione, ma solo di riflessione e comprensione, al di là del concordare o meno).
#1234
Tematiche Spirituali / Re:L'illusione dell'io
26 Aprile 2020, 15:11:44 PM
@Ipazia

Pur ritenendo che l'"illusione dell'io" sia tematica per adulti (bisogna prima costruire la torre per poterne sondare le fondamenta) forse devo spiegarmi meglio sulla fallacia metodologica del leggere il comportamento del bimbo usando categorie da adulto: intendo ad esempio il confondere un vagito infantile con il discorso indiretto da adulto «ecco, ci sta dicendo che ha fame», che è come confondere l'imprecazione di un adulto, che urta contro uno spigolo, con «mi sta comunicando che si è fatto male». In entrambi casi chi emette il suono, secondo me, non vuole comunicare nulla a nessuno, non c'è intenzionalità, né tantomeno in quell'attimo un'io concettualizzato, ma solo una reazione vocale-istintiva (alla fame e al dolore): infatti l'adulto impreca (mi si perdoni la generalizzazione e l'esempio triviale) anche se sa che non c'è nessuno a sentirlo, idem il pargolo. Resta possibile che con il tempo entrambi apprenderanno che tali suoni producono conseguenze sociali, se c'è un ascoltatore, e innescando la propria ragione impareranno a sfruttare tali vocalizzi a proprio vantaggio, solitamente per ottenere attenzione. Nondimeno, nel caso del bambino, siamo al rovesciamento del cane di Pavlov: se faccio un suono, arriva il cibo e mi passa la spiacevole sensazione (per nulla concettuale) di fame; non credo per lui sia questione di "io", autoaffermazione, bisogni primari, e altri concetti da adulto.
Da profano del mondo dell'infanzia, direi che spesso è l'osservatore/ascoltatore che si ritiene impropriamente destinatario di una "comunicazione" che in realtà è solo l'emissione istintiva di un suono connesso ad una sensazione o condizione psico-fisica (come l'«ahia!» di dolore), non una comunicazione inviata a qualcuno, non avendo il bambino il filtro sociale del quando parlare e quando tacere, come dimostra il fatto che insegnarglielo non è compito facile. Dall'altro lato, c'è il fatto che coloro i quali, da adulti, non sanno filtrare alcuni pensieri in un tacito discorso interiore, ovvero parlano da soli a voce alta (cortocircuito sociale fra assenza di destinatario e intenzionalità), vengono spesso considerati pazzi (en passant: non concordo con il primo assioma di Watzlawick, dando nel mio piccolo un peso molto rilevante all'intenzionalità del comunicare, distinguendola semanticamente dall'attività "centripeta" ricettiva del destinatario).

Sull'appello alla corporeità dell'adulto, ho già citato yoga e simili, ma ci sono ovviamente anche declinazioni meno esoteriche. Sulla «centralità, per nulla illusionale, dell'io»(cit.): chiaramente non è illusorio, finché siamo qui a parlarne (e non basta certo fare il "gioco del silenzio" per vederlo svanire); proprio come non è illusorio che io sia Phil (o che il denaro abbia valore o che esistano le stagioni, etc.) e che tale mio essere Phil produca conseguenze, reazioni e post altrui, traffico dati web e altri vari empirici "effetti farfalla"; come potrei dubitarne? D'altronde, chi è che sta scrivendo adesso?
Affermare che non sia "io" a scrivere, sarebbe un paradosso piuttosto comico... come già accennato, in fondo non sarebbe meglio tacerne?
#1235
Citazione di: giopap il 25 Aprile 2020, 22:39:47 PM
"Nella scienza si cerca di dire ciò che nessuno ha mai detto prima. Nella poesia si cerca di dire ciò che ha già detto qualcun altro, ma meglio. E' questo, in sostanza, a spiegare perché la buona poesia é rara come la buona scienza".
Ci vedo la divergenza fra: la novità scientifica presentata da scoperte e invenzioni (il «dire ciò che nessuno ha mai detto prima», perché era ancora ignoto o non ancora inventato), in contrasto con quello che è già noto (le emozioni, i sentimenti, etc.) ma che essendo difficile da dire, può esser detto, poeticamente, ancora meglio.
In entrambi i casi l'insita difficoltà rende raro (seppur fattibile) raggiungere "buoni" traguardi, siano essi l'inventare/scoprire novità scientifiche oppure il dir meglio ciò che tende a sottrarsi al dire.

Non ho letto il testo, ma credo che in una tale dicotomia la filosofia sia lasciata volutamente in disparte, in quanto trasversale ad entrambe le situazioni, spaziando dall'epistemologia all'estetica (generalizzando molto: è una disciplina che cerca di dare nuove risposte a domande antiche e al contempo rilegge le risposte antiche alla luce di nuove domande; dice novità e riformula teorie già dette).
#1236
Tematiche Spirituali / Re:L'illusione dell'io
25 Aprile 2020, 20:47:56 PM
@Ipazia

Note al volo:
- non sono sicuro che l'io allo specchio venga concettualizzato dal bimbo proprio come l'io di cui parlano gli adulti (che credo vada un po' oltre la mera estensione ed azione corporale, v. psicologia, etc.); non a caso, è l'adulto ad affermare «il piccolo riconosce il suo io»(cit.), proiettando sull'esperienza del piccolo categorie da grande (mossa epistemologicamente scorretta)
- l'«io» espresso in decibel è una parola acquisita, dai genitori o dal contesto culturale, siamo nel linguaggio logico, la lalangue è già scivolata quasi tutta alle spalle
- il «dialogo lalinguistico» eterna l'umano-come-animale, non come sua declinazione in humanitas (nel senso ricordato altrove da Jacopus)
- il domandare «perché?» a raffica affonda le sue ragionevoli radici nella logica, nel nesso causale, etc. siamo quindi molto lontani dalla lalangue e, secondo una certa prospettiva, in piena illusione convenzional-antropologica
- la piccola infante, dimentica della sua condizione originaria proprio come è sempre più dimentica dell'istintiva lalangue, non può concepire ancora il paradosso, né tantomeno la sua comicità; tuttavia, forse, un giorno, da adulta, filosofando magari verso oriente...
- l'illusione di cui parlavo non si oppone affatto al realismo (anzi, lo presuppone e, visto che siamo in «tematiche spirituali», lo radicalizza sino al silenzio... magari come rivisitazione adulta, fra epoché e apofatismo, della lalangue).
#1237
Tematiche Spirituali / Re:L'illusione dell'io
25 Aprile 2020, 19:16:48 PM
Citazione di: Ipazia il 25 Aprile 2020, 17:06:09 PM
Citazione di: Phil il 25 Aprile 2020, 12:33:19 PM
Secondo me non si tratta tanto (o solo) di un vuoto quantistico o ontologico, ma perlopiù di un vuoto logico-narrativo, a suo modo "infantile" (forse eco della pura "ragione" prelogica dei neonati), in cui sospendendo l'identificazione, non c'è nulla di logicizzabile, ragionabile, etc. (come suggerirà lo zen molti secoli dopo i Veda).
Ci troviamo dunque dentro il comico paradosso di star qui a "parlare del vuoto di parole".

Eggià, con la differenza (a suo favore) che l'infante, il neonato, il suo io lo esperisce eccome, non affogando nel "vuoto di parole" grazie al suo salvagente prelogico, pre linguistico. Obbedendo solo alla lalingua genetica e corporea del suo essere non-illusionale, e non-illusionistico nelle velleità che faranno da contorno culturale (Zivilisation) alla formazione (Bildung) del suo io.
Pur non essendo esperto del settore (da cui il suddetto «forse»), credo che nessuno possa negare che l'infante abbia autopercezione, tuttavia sarei comunque cauto sul fatto che esperisca il suo "io" intendendo egli per "io" proprio ciò che noi adulti intendiamo per "io".
Il suo salvagente prelogico è fatto dalla percezione, dall'istinto, etc. tutti elementi che permangono, seppur "educatamente manipolati", nell'adulto; che ha in più una corposa, strutturante, interpretante, culturale, etc. visione concettuale del mondo. Non so se nella lalangue ci sia un vagito per dire «io», ma so per certo che la Bildung inizia con gli insegnamenti linguistici degli adulti a lui vicini e una lingua non è mai neutra nello strutturare (il gioco di società di) una visione del mondo, e tantomeno lo è la cultura che culla il bambino dal suo primo pianto fino a trastullarlo con i primi giochi didattici (ricordo: il-ludere).
Come accennato sopra, secondo me, non andrebbe confuso il nostro ritenere che il bambino si percepisca in modo non-illusionale (il che presuppone l'uso del concetto stesso di illusione, etc.) con l'effettiva sua autopercezione (del bimbo) che, temo, non possa spiegarcela adeguatamente usando solo la sua lalangue (che suppongo si presti più a comunicazioni di servizio su bisogni primari ed emozioni, piuttosto che a dissertazioni teoretiche sull'illusione dell'identificazione logico-culturale fra pensiero orientale e socio-antropologia; e nel momento in cui il pargolo acquisisce un linguaggio atto alla dissertazione, ecco che innesca, suo malgrado, la comicità del suddetto paradosso).
#1238
Tematiche Spirituali / Re:L'illusione dell'io
25 Aprile 2020, 12:33:19 PM
Citazione di: daniele75 il 25 Aprile 2020, 06:32:58 AM
secondo il Vedanta, il mondo percepibile che ci appare così reale è sovraimposto al Brahman, la realtà ultima, e persiste fino a quando sorge la luce della consapevolezza della verità.
Parlando di «Brahman», «realtà ultima», «verità», etc. si continua ad identificare; dove c'è identità c'è al contempo dualità: x e non-x. L'espediente di sostenere che "x è il tutto", l'unica realtà, omnicomprensiva, omnipervasiva, etc. rende inintelligibile tale x, e da qui deriva il ricorso al jolly dell'intuizione extra-razionale (con conseguente problematica del come indurre tale "illuminata" intuizione negli altri: se non si può usare il discorso, non ha senso discutere ed invitare ad "usare l'intuito"; ecco perché ci sono yoga, tantra, zazen, etc.).

Risolvere la dualità e la molteplicità in un Uno assoluto, significa assecondare l'horror vacui e mettere un tappo, a cui appoggiarsi, per riempire tale vuoto; vuoto che tu stesso, corroborato da tutta la scienza contemporanea, hai rilevato:
Citazione di: daniele75 il 25 Aprile 2020, 06:27:51 AM
La corda che sembra un serpente, una volta che il serpente scompare prendi consapevolezza della corda, della sua stessa natura illusoria, suddivisi la corda in tante fibre e troverai altro, sino alla riconnessione con il vuoto.
Nella sua "dimensione" (pre)logico-concettuale, direi che tale vuoto non è "fatto" né di verità ultima, né di realtà, né di altre categorie discorsivo-narrativo-mitologiche, proprio perché ne è vuoto.
Secondo me non si tratta tanto (o solo) di un vuoto quantistico o ontologico, ma perlopiù di un vuoto logico-narrativo, a suo modo "infantile" (forse eco della pura "ragione" prelogica dei neonati), in cui sospendendo l'identificazione, non c'è nulla di logicizzabile, ragionabile, etc. (come suggerirà lo zen molti secoli dopo i Veda).
Ci troviamo dunque dentro il comico paradosso di star qui a "parlare del vuoto di parole".
#1239
Tematiche Spirituali / Re:L'illusione dell'io
24 Aprile 2020, 20:06:40 PM
Affermare che l'io (per come mi pare inteso nel topic) è un modello interpretativo, una categoria di un certo paradigma di senso, non richiede particolare "intuizione" (jolly retorico di molte metafisiche pigre) ed è una conclusione piuttosto razionale (v. psicologia, antropologia, etc.), oltre che, per ora, non falsificata (lo sarebbe se avessimo trovato un io che è qualcosa di più concreto e tangibile di un concetto socialmente condiviso; se l'io esiste su altri piani d'esistenza, l'onere della prova non spetterebbe comunque ai "disillusi che ci vedono un'illusione").

I modelli interpretativi sono illusioni? In un certo senso sì, come sono illusione il valore del denaro, la scansione dell'anno in stagioni, etc. ad un livello convenzionale socio-antropologico, esistono l'io, il valore del denaro, le stagioni, con i corrispondenti referenti materiali, ovvero il soggetto senziente (e parlante), banconote e monete, determinate tendenze metereologiche. Tuttavia all'esistenza di tali referenti empirici non corrisponde inversamente la necessità del "senso" che gli viene attribuito dai suddetti modelli interpretativi. Modelli che dettano le regole del "gioco di società" di riferimento e quindi ne fondano dissimulatamente l'illusione (da in-ludere, affine a "stare al gioco").
Per dirla in soldoni: il mio essere Phil, è un'illusione? Sotto molti aspetti lo è, tuttavia nel forum e per accedere al forum è necessario che io "sia" Phil, dando "vita" a tale "identità" che, guardata da fuori del forum, è palesemente un'illusione e per nulla necessaria.

Per dirla invece parodiando i Veda (che non sono Topolino, semmai sono un topolino che fa scappare l'elefante della parabola dei sei ciechi): c'è più pericolo nello scambiare la corda per il serpente oppure il serpente per la corda?
Nel mondo empirico esterno al soggetto non esiste il "contenuto" dell'illusione; eppure, per esser tale, l'illusione deve esser "contenuta" (quindi esistere concettualmente) nell'occhio/mente del soggetto che guarda il mondo.
Finché restiamo nella dualità serpente/corda, soggetto/mondo, etc. stiamo al gioco della realtà convenzionale; quando non vediamo più la dualità serpente/corda, allora non abbiamo più nemmeno un linguaggio per parlarne. Se proviamo ad aprir bocca, ridiamo immediatamente un'identità al serpente, alla corda, all'io parlante, etc. anche se il nostro parlare consiste proprio nel dire che "in realtà" non esistono, (se non) in quanto illusioni.
Per non stare al gioco delle culture convenzionali, bisognerebbe ritirarsi nella foresta e vivere come eremiti; è altresi possibile continuare a vivere in tali culture, ma con una silenziosa consapevolezza, fra delusione e disillusione (consapevolezza che, per me, non ha nulla di "spirituale", essendo appunto basata su constatazioni e osservazioni linguistico-socio-antropologiche).
#1240
Attualità / Re:Il valore della libertà
23 Aprile 2020, 18:06:59 PM
Citazione di: Ipazia il 23 Aprile 2020, 09:18:31 AM
Aggiungerei pure queste riflessioni di un filosofo doc: Giorgio Agamben.
Dall'articolo traggo una risposta di Agamben (che a sua volta cita Blangiardo):
«Cito le parole del dottor Blangiardo: "Nel marzo 2019 i decessi per malattie respiratorie sono state 15.189 e l'anno prima erano state 16.220. Incidentalmente si rileva che sono più del corrispondente numero di decessi per Covid (12.352) dichiarati nel marzo 2020". Ma se questo è vero e non abbiamo ragione di dubitarne, senza voler minimizzare l'importanza dell'epidemia bisogna però chiedersi se essa può giustificare misure di limitazione della libertà che non erano mai state prese nella storia del nostro Paese, nemmeno durante le due guerre mondiali. Nasce il legittimo dubbio che diffondendo il panico e isolando la gente nelle loro case, si sia voluto scaricare sulla popolazione le gravissime responsabilità dei governi che avevano prima smantellato il servizio sanitario nazionale».

Non so se, riguardo ai numeri citati, sarebbe il caso di computare anche le morti per malattie respiratorie non causate dal Covid: se ogni anno a marzo ci sono circa 15-16 mila morti per tali patologie, quest'anno i morti per Covid hanno "sostituito" tali morti preventivate (mi scuso per la freddezza nel trattare così la vita di migliaia di persone), oppure si sono integrati ad esse, o addirittura sommati? Se anziché i soliti 15-16 mila ci sono stati "solo" i 12 mila morti "grazie" al Covid, il "bilancio della sopravvivenza" è persino positivo; se invece, per esempio, per malattie respiratorie, fra decessi per Covid e non-Covid, si è arrivati a (numero casuale) 20 mila, nonostante l'attuazione di restrizioni per il contenimento del contagio, allora tali restrizioni non dovrebbero sembrare uno «scaricare sulla popolazione le gravissime responsabilità dei governi»(cit.).
Una risposta laconica pare fornirla lo stesso Blangiardo che, proprio in quelle dichiarazioni, citate da Agamben ha anche detto: «Quando affermiamo che nei primi 21 giorni di marzo al Nord i decessi sono più che raddoppiati rispetto alla media 2015-19 non è una impressione, ma un dato. Quando scriviamo che a Bergamo i decessi sono quasi quadruplicati passando da una media di 91 casi nel 2015-2019 a 398 nel 2020, riferiamo delle evidenze».
Di "sintomatico" c'è stata quindi la diffusione mediatica e social di un'affermazione di Blangiardo, quella riportata anche da Agamben, glissando sulla seconda che gli fa problematicamente da contraltare.

Se è vero che «il sonno della ragione genera mostri», è anche vero che la paura ne produce altrettanti; tanti più quanto tale paura attecchisce su un terreno per lei fertile, la cui storia lo ha già concimato con cadaveri di altri mostri e orrori.
Pensiamo all'11 settembre, o meglio, al subito dopo 11 settembre in USA: controlli sempre più invasivi e ubiqui, potenziamento dei settori di intelligence, militari e telecamere ovunque, etc. occasione ghiotta per instaurare uno stato militare o una dittatura con l'alibi della difesa della nazione? Qualcuno, ragionando sui fantasmi europei (che non sono quelli americani), avrebbe probabilmente temuto di sì. Quasi un ventennio dopo possiamo (momentaneamente?) concludere che quello non è stato il primo passo per l'avvento di un regime dittatoriale o della legge marziale (nonostante pare ci siano ancora dubbi e sospetti sulla "natura" dell'evento terroristico e per quanto siano presenti ripercussioni permanenti anche nelle prassi governative, almeno leggendo qui).
Nel caso del virus, non c'è un mandante "doloso", il numero di morti non è paragonabile, l'estensione del problema è ben differente e le limitazioni delle libertà sono state molto più condizionanti e invasive; a prima vista, nel paragonare i due eventi emergono più le differenze che le affinità. Nondimeno, credo possa essere interessante notare la differente reazione psicologica ai due eventi: nel caso del virus il nemico non è un uomo o un gruppo estremista, non lo si può attaccare con i missili, ma è prioritario sottrarglisi (in attesa del vaccino), per cui il fare un passo indietro nel campo delle libertà, anche se comporta due passi indietro nell'economia (tanto cara ai potenti quanto ai poveri diavoli), ha una sua plausibile ragion d'essere. Eppure da qualche parte serpeggia la paura che ci sia qualcosa sotto, che poi non riavremo più le nostre libertà, che le nostre case diventino il nostro carcere, etc. Di fronte al comprensibile shock della limitazione di movimento, per associazione mentale (ri)emergono concetti come «coprifuoco», «ronde di controllo»,  «dittatura», l'imperituro zombie del «fascismo», etc. fenomeni che alcune generazioni hanno visto solo nei film, pur sapendo che si tratta di storie vere, non fantascienza, che hanno fatto la storia del vecchio continente.
Alla luce, anzi, all'ombra di questi fantasmi, evocati dalle "Cassandra da youtube" e dalle fake news che rimbombano nelle rispettive echo chamber ma anche fuori da esse, è normale che i timori più atavici dell'animo di noi europei inizino a bisbigliarci all'orecchio storie, non tanto di distopie future, ma di "ritorni al passato" attualizzati nella forma e nei contenuti.
Secondo me, ogni narrazione, anche quella giornalistica o d'attualità, (com)porta sempre con sé un "doppio fondo" psicoanalitico di fobie, pulsioni, desideri e rimozioni; più il tema della narrazione è maestoso e più nel doppio fondo psicoanalitico c'è "energizzazione", come credo si dica in gergo; in questo contesto pandemico, casi di nevrosi e paranoia sono dunque, a tutti i livelli, inevitabili e, a loro volta, "virali".
#1241
Attualità / Re:Il valore della libertà
22 Aprile 2020, 15:51:25 PM
Citazione di: Andrea Molino il 22 Aprile 2020, 13:57:06 PM
Concludo con l'opinione di un personaggio che inizialmente mal sopportavo, ma che ultimamente ho dovuto rivalutare.
Non concordo sempre con le sue analisi, ma per ora, ne rispetto l'onesta intellettuale.
https://www.youtube.com/watch?v=HeF_JDOdtto
Dalla mia ignoranza politica e dalla mia ignavia apartitica, alcune osservazioni estemporanee sul discorso di Fusaro:

- la sua profezia (magari condivisibile per «solidarietà antitetico polare», come direbbe lui citando Lukacs) che dopo la "fase 2" saranno nuovamente strette le maglie delle libertà di movimento incolpando l'inaffidabilità degli italiani, sembra preconfezionare, volente o nolente, un alibi vittimista che assolve a priori le eventuali scorrettezze della popolazione (giustificazione demagogica dal sicuro successo di massa, politicamente trasversale), vessata da un governo che ha pianificato uno schiavismo che, se non sbaglio, coincide anche con un (semi)suicidio economico, considerando la situazione di partenza pre-virus, i vari sussidi da erogare e l'impossibilità di ridurre ogni attività a smart-working; da profano, l'implosione economica mi pare un'insolita dinamica di pianificata autoaffermazione per un regime (turbo)capitalista, tecnoliberista, etc.

- l'appello alla Costituzione per "libertà di movimento" e "libertà di proprietà privata", da opporre alle restrizioni vigenti, non tiene forse adeguatamente presente come abbia fatto il virus a viaggiare e diffondersi per l'Italia; ovvero quando la libertà di spostarsi diventa libertà di contagiare, seppur in buona fede, mi sembra legittimo (opinione mia) mettere in discussione (che non significa rinnegare) anche le libertà costituzionali (non divago sul rimarcare la disfunzionale aleatorietà del concetto di «libertà», che spesso aizza i cuori a slanciarsi lontano da ogni raziocinio)

- temere che ostacolare gli assembramenti tramite norme sul distanziamento, possa compromettere «discussioni critiche sull'operato del governo»(cit.), probabilmente non considera la differenza fra le risorse organizzative dei moti carbonari e la comunicazione sociale nel 2020 (da whatsapp e telegram al "dark web"). Sull'eventuale incremento della distanza di sicurezza da uno a due metri, vederci i prodromi di un allontanamento fisico sempre crescente, credo mischi indebitamente precauzione e aggiornamento della tutela sanitaria con allarmismo "panopticista" (a prescindere dal fatto che si tratti di una tutela eccessiva, testata o solamente sperimentale: fare del distanziamento solo una questione politica e non anche sanitaria mi pare un po' fazioso oltre che sganciato dall'emergenza reale... oppure crede davvero che sia "solo una semplice influenza"?)

- accostare l'autocertificazione a mezzi di controllo nazisti o stalinisti, pur restando nella battuta (che, come lui ben sa, a qualcuno potrebbe anche sfuggire, soprattutto a chi si sente riscattato ed assolto da ogni "appello allo schiavismo") offende, al di là della sua nota preparazione in ambito storico, soprattutto la differenza piuttosto rilevante tra il richiedere un certificato ad un'autorità (dispotica, corruttibile, etc.) e il poterselo scrivere da soli (con annessa assunzione di responsabilità). Per amor di battuta si rischia di fomentare la confusione fra chi era in un lager non metaforico e chi deve/dovrebbe stare in casa, ma ne ha comunque le chiavi (il numero delle segnalazioni e i fatti di cronaca sono eloquenti), magari con tanto di connessione internet, frigo pieno, consegne a domicilio, etc. non direi che siano due esperienze intercambiabili a cuor leggero (pur considerando i parametri di "valore esistenziale" dell'uomo contemporaneo, molto più sensibili, fragili e confusi di quelli di un secolo fa)

- apprezzo che non abbia indugiato sul «si sarebbe dovuto fare...» o sull'italico «c'è la pandemia... governo ladro!»; un po' meno che, nella piena convinzione della sua critica, non si sia lasciato sfuggire almeno uno spunto propositivo sul «si dovrebbe/potrebbe fare...», perché sarebbe stato di certo un plus-valore nel suo discorso critico (probabilmente lo avrà fatto in altri video... e se non lo ha fatto, va riconosciuto che in fondo non è suo il compito di fare proposte migliorative, già l'essere aedo che scuote le coscienze dei dormienti è attività impegnata ed impegnativa, a prescindere che si concordi o meno con le sue conclusioni).


P.s.
Per chi ragionasse dualisticamente e semplicisticamente, preciso che se ho mosso considerazioni critiche a Fusaro, non significa automaticamente che sia sostenitore del governo o convinto che stia andando tutto bene o che abbia le soluzioni vincenti in tasca, ma solo che non condivido il taglio da lui dato ad alcune questioni, proprio a tutela della complessità delle stesse (che rende difficile essere seriamente propositivi con adeguata cognizione di causa).
#1242
Scienza e Tecnologia / Re:Charles Darwin
18 Aprile 2020, 17:04:11 PM
Citazione di: Jacopus il 18 Aprile 2020, 12:03:50 PM
La specie umana e il suo destino, per quanto questa affermazione possa sembrare nietzschiana, è scissa (parzialmente) dalla natura, a causa del retroterra tecnologico-culturale che ha sviluppato negli ultimi 10.000 anni. A causa del quale ciò che è naturale potrebbe e dovrebbe essere considerato inumano
Ghelen (qui un breve saggio in merito) sosteneva che l'uomo ha trovato il suo posto ovunque nel mondo grazie alla tecnica, che coincide con la possibilità di «esonerarsi»(cit.) dalla istintività animale e pre-culturale, grazie all'instaurarsi di una dimensione storica che è essenzialmente storia della tecnica, della plasticità della mente che conforma plasticamente la materia, dalla selce scheggiata all'atomica. Sopra il pianeta naturale l'uomo ha costruito il mondo artificiale («innaturale» dice Ghelen), in cui, aggiungerei, ora si è ormai soppalcato stabilmente anche un "terzo mondo", quello informatizzato, piuttosto "povero" di attività fisica (si va poco oltre il digitare e il cliccare) ma stracolmo di senso e di socialità (dalle videochiamate private alla contro-informazione di massa, dalla produzione di opere culturali-artistiche allo smart working, etc.).
G. Anders (qui un articolo sul suo pensiero) rilevò, in tempi non o poco sospetti, una certa «vergogna prometeica»(cit.) nella potenza della tecnica, uno scenario in cui il golem della tecnica sopravanza l'uomo, rendendolo «antiquato»(cit.), come nella ormai preventivata «singolarità tecnologica».

Come raccontato goliardicamente anche da un noto comico in questo video (circa la stessa sequenza, ma con i sottotitoli italiani è qui e poi continua qui) il corpo dell'uomo è sempre più estraniato dall'ambiente circostante; non ha più i piedi per terra (letteralmente: usiamo scarpe su superfici artificiali) e siamo gli unici animali che non vivono allo stato brado, stato in cui la maggior parte di noi urbanizzati durerebbe forse un paio di giorni, anche per limiti biologici (disadattamento come involuzione?) oltre che nozionistici (boy scout e "survivors" a parte).
Le uniche parti corporee perennemente scoperte (o coperte solo di rado, per il freddo, il sole o la moda), lasciate al naturale, erano sinora volto e mani, esteticamente baluardi dell'animale più linguistico e più "faber" che ci sia. L'incombente prospettiva di dover usare costantemente mascherine e guanti completa dunque il nostro "distanziamento" fisico rispetto all'ambiente naturale; estraneazione in veste di "autoconfezionamento" che dovrebbe garantire alla nostra specie una sopravvivenza "tecnodipendente" e la (sovra)proliferazione planetaria, ma che, parodiando Louis C.K., non potrebbe che suscitare negli dei, o in un osservatore esterno (alieno o alienato che sia), qualcosa fra lo scherno, la pietà e il disappunto.
#1244
«Citazionismo intimidatorio» mi sembra rimandare ad un duplice aspetto: metodologico e psicologico.
Sullo psicologico, come già osservato da altri, è ragionevole constatare come non ci sia più motivo di farsi "intimidire" dall'uso altrui delle citazioni: una citazione non dimostra nulla, anzi spesso sintetizza in modo ambiguo e indebito (alcune pseudo-citazioni non hanno nemmeno riscontro testuale, ma si sono ormai affermate vox populi come post-verità), e se viene ostentata come cultura è solo un vezzo barocco del discorso (una volta il piccolo borghese si toglieva il cappello di fronte ad una dotta citazione latina, senza nemmeno capirne il senso, riverendo "doverosamente" la cultura di chi aveva "fatto gli studi alti"; oggi più che il latino si riverisce l'inglese, e in entrambi i casi l'ossequio viene spesso sostituito da una più fertile e demistificante ricerca su google, con annessi pro e contro).
Parafrasando e non citando, come suggerisce un principio della "fisica filologica", «ad ogni citazione corrisponde una controcitazione uguale e contraria»; per cui, in filosofia (soprattutto se teoretica), il citare un autore o una teoria in sé non ha valore probante, perché l'interlocutore potrebbe rispondere citando un autore di impostazione opposta, e più che un dialogo si avrebbe un gioco con "le figurine dei filosofi" (o "il festival del copia e incolla", per dirla in modo meno retrò). Forse nei social il primo che esaurisce le controcitazioni viene eliminato dal quiz, ma a quel punto siamo già ben lontani dalla filosofia, ormai affaccendati fra gli scaffali della filologia (con tutto un altro "filo" a guidarci).
Sul piano metodologico, la citazione, proprio come l'uso del linguaggio specifico, secondo me è solo un "link", un collegamento extra/iper-testuale: rimanda sinteticamente a ciò che non si vuole spiegare in dettaglio, perché già spiegato meglio altrove da altri. Non è dunque il link in sé ad avere un senso chiaro ed utile al discorso, ma è ciò a cui esso rimanda. Se l'interlocutore non segue tale rimando, ma si focalizza superficialmente sul link, sull'aforisma da Bacio Perugina, ricadiamo nella storia del dito e della luna (e anche questa è una citazione, e a sua volta è un dito che rimanda ad una luna...). Detto altrimenti: se si considera la citazione fuori dal (con)testo di cui è parte, si rischia di storpiarne il senso e quindi non renderla una citazione ma, come scrivo spesso, un "rorschach": ognuno ci vede ciò che vuole/può vedere (macchiandosi di un duplice omicidio ai danni di ermeneutica e filologia).
Se invece la citazione, sia essa di un paragrafo, di un autore o una corrente di pensiero, innesca il collegamento con la comprensione di tale paragrafo, autore, etc. allora se ne ricava un plus-valore filosofico, da capitalizzare come argomentazione, confutazione, corollario, etc. sempre augurandosi che la citazione sia davvero pertinente al discorso in atto (precisazione da non dare per scontata).

Certamente è possibile riflettere senza citare e senza conoscere chi è giunto a conclusioni simili o opposte; tuttavia, se si parla ad esempio della percezione del tempo, e osservo l'apparente paradosso per cui il tempo a volte mi sembra accelerare o rallentare, pur sapendo che la sua misurazione ufficiale è costante, se il mio interlocutore mi indirizza verso Bergson, citandomi i suoi concetti di «tempo della scienza» e «tempo della vita», è per me preferibile (e utile spunto di approfondimento) rispetto al suo assecondarmi ed attendere pazientemente finché arrivo magari alle medesime conclusioni di Bergson o, peggio, che egli mi risponda spiegandomi la teoria di Bergson senza citarlo, facendomi credere che sia frutto improvvisato del nostro discorso (impedendomi di avere un riferimento bibliografico da sfruttare). Ancor più utile e stimolante risulta la citazione se sia io che il mio interlocutore stiamo discutendo della questione senza conoscere Bergson e arriva qualcuno che ce ne parla, "allargando i nostri orizzonti" come si suol dire.

Capita infatti di assistere a conversazioni in cui gli interlocutori, pur sinceramente animati dalle migliori intenzioni, si impegnano nel dibattito e nell'argomentazione convinti di "fare filosofia", di disboscare falsità ed erronee prospettive, senza bisogno di documentarsi in merito (che è come andare ad abbattere alberi con il coltellino svizzero), mentre stanno a malapena raschiando la corteccia di una sequoia. Non credo sia un buon esempio pensare ai filosofi di duemila anni fa, che pure si citavano a vicenda (come già ricordato da altri), o quella dei guru che abitano spogli nella foresta (anziché disboscarla): la filosofia è oggi una disciplina con una sua storia tanto ricca quanto eterogenea, per cui pensare che per fare filosofia basti riflettere coerentemente, significa confondere un'attività della mente individuale (riflettere) con il praticare una disciplina altamente storicizzata (la filosofia); non è questione di accademia o peer-review, ma di saper almeno distinguere le case fatte con le Lego da quelle fatte con il cemento. E non sono certo le citazioni a cementificare le seconde: avere strumenti filosofici nella propria cassetta degli attrezzi, siano essi concetti, metodi, spunti, classificazioni, metafore, parole-chiave e persino citazioni-link, etc. non può che giovare all'attività filosofica, se essa non si riduce solo al citare tali strumenti, ma, appunto, ad utilizzarli.
Prima di citare come contro-esempio i filosofi "nati" fuori dagli studi filosofici, chiunque abbia letto un po' di filosofia potrebbe chiedersi se si sia mai accorto quanto sarebbe presuntuoso, leggendo un passo di un libro filosofico, affermare «in fondo, se non lo avessi appena letto, ci sarei di certo arrivato da solo, riflettendoci un po' sopra e dialogando socraticamente con il mio dirimpettaio...». Se poi dalla teoresi si passa ad ambiti che flirtano con le scienze sociali o le scienze empiriche, tale presunzione sconfina nella inconsapevolezza cognitiva (a scanso di equivoci, non mi sto riferendo affatto a davintro: il suo richiamo alla maieutica mi vede concorde, anche se credo vada comunque storicizzata: per me attutire le voci dei giganti, glissando su possibili citazioni e richiami, per far gravitare il dialogo filosofico soprattutto sul dualismo io/altro, teoresi-mia/teoresi-tua, sarebbe un peccato; più o meno veniale a seconda del contesto della conversazione, ad esempio qui sul forum non sarebbe forse nemmeno un peccato...).
Secondo me, più che lasciarsi "intimorire" da una citazione filosofica, c'è motivo di essere intimoriti dall'universo di senso a cui essa rimanda, dai mille link che si diramano da quel (dono del) link di partenza.
#1245
Sarei per un'interpretazione meno filantropica e più pedagogistica: librerie, cartolerie e "abbigliamento junior" sono stati riaperti probabilmente per non intralciare lo sviluppo dei piccoli italiani del futuro; i pupetti crescono in fretta e hanno rapidamente bisogno di nuovi vestiti, di libri per studiare (home-schooling o FAD che sia) e cancelleria per scrivere, disegnare, etc.
Riaperture lungimiranti e a misura di bambino. Tuttavia, per fare l'avvocato del diavolo fra il serio e il faceto, se ad un adulto, sia egli un eroe o un povero diavolo, si rompe la sacra tazzina del caffè mattutino, o un laccio della scarpa o si strappa il pantalone (o, per par condicio, il reggiseno)? Mi pare di aver capito che le transenne che custodiscono tali prodotti nei supermercati, ad un passo dalle corsie degli alimenti, non verranno rimosse (guardare ma non toccare e, letto da un altro punto di vista, non fatturare...).
In tempi di cambio di stagione e di "homo homini virus" (Palomba/Gramellini), ci si salva in corner con l'online (per chi può, chi non può, tazzina a parte, deve affidarsi a sarte che abbiano fatto buona scorta di "materie prime"); così nel frattempo non è solo il portafoglio della macroeconomia planetaria ad aver bisogno di un rattoppo per tornare decente (e qui la leggerezza di uno smile/emoticons ci starebbe bene).
Scherzi a parte, non è davvero facile pensare a tutto/i e dare le giuste priorità, soprattutto "conoscendo i propri polli"... non invidio affatto chi è al governo.