Se il presunto "posto vuoto" dell'assoluto, ovvero la possibile assenza di uno "spazio" ulteriore rispetto alla (ri)strettezza della contingenza umana in cui non c'è traccia dell'assoluto come sostantivo (e tanto più come sostanza, semmai solo come aggettivo), è la disincantata e schietta "scoperta" perpetrata da alcune proposte filosofiche contemporanee, allora rifiutare l'elaborazione culturale di tale assenza, preservandosi dal pensare senza assoluti(smi), non mantiene aperto maldestramente il discorso onto(teo)logico dopo averne ormai compromesso le fondamenta (e la loro sedicente assolutezza)?
Chiesto in altro modo (fra psicoanalisi e maieutica): perché nel pensiero contemporaneo si avverte il bisogno (de)ontologico di trovare comunque un posto all'assoluto (sostantivo e "sostanziale") quando per sua stessa "auto-presentazione" esso non ha posto calzante se non nell'iperuranio dei concetti tautologicamente postulati come tali (meta-fisici cioè ultra-terreni), e quindi relativi al pensiero che così li postula?
La stessa domanda riguarda lo "spiritualismo" (di cui si parla in altro topic) e sia per «spirito» che «assoluto» è fondamentale intendersi sul loro fantomatico referente: la polisemia del termine «assoluto» (proprio come quella di «spirito»), aggravata dal suo prestarsi a metafore, non facilita il discorso (che rischia di disperdersi fra misticismo, scienza, storia, poesia, etc.).
Collegandomi ad altro topic affine, riguardo l'approccio postecclesiastico alla "spiritualità"1 e alla dialettica individuo/società, osserverei che è stata la struttura organizzativa dell'immanenza secolare a forgiare, o almeno ispirare, quella ecclesiale; la chiesa in fondo non è altro che l'ennesima organizzazione piramidale, come lo è quella di un qualunque branco, qualunque società, qualunque azienda, qualunque stato, etc. ognuno fondato su norme (anche consuetudini, etc.) strutturanti le interazioni fra i suoi membri. Che tali regole abbiano fondamento nel cielo, nella terra, nel mercato, nell'istinto animale o nelle tradizioni, è rilevante solo a livello giustificativo-persuasivo o di analisi del fondamento, ma non a livello funzionale e archi-tettonico (arché incluso).
L'esigenza di un ordine verticale (con l'inevitabile conseguente discriminazione di ruoli, differenti ricompense e carichi di lavoro, etc.) per essere più efficienti e "in salute", è un'astuzia pragmatica da sempre chiara anche agli animali, nessuna chiesa o altra organizzazione sociale, soprattutto se molto numerosa, avrebbe ragionevole motivo di fare eccezione. Eccezione che semmai spetterebbe ad una posizione di pensiero che abbia intenzione di non proporsi come organizzazione, struttura, comunità, "piramide": ad esempio, il pensare ateo non è di per sé atto fondativo di una chiesa, quanto piuttosto una "postura esistenziale" (come credo intenda baylham), postura "gobba" se vogliamo (che guarda alla terra dove mette i piedi e dove può verificare le sue tesi, al netto di sofismi, fallacie e bias). Tuttavia se, nel fatale oblio di muoversi nel campo della infalsificabilità delle tesi antagoniste (e non in quello della verità), tale postura indulge nel catechizzarsi, ecumenizzarsi, sentendosi "in missione di conversione nel mondo" (cattolicesimo docet), la sua militanza non potrà che essere percepita comunemente in modo simile all'apparente autocontraddizione programmatica rilevata da myfriend (a cui Ipazia ha ragionevolmente ricordato la pluralità degli ateismi, anche se sarebbe bastata anche solo la pluralità degli atei).
Dunque quale salus extra ecclesiam? La più percorribile mi pare quella che intende salus non come salvezza spirituale (perché, venuta meno la dottrina dell'ecclesia, non c'è uno spirito da salvare e sia lo zeitgeist che lo Spirito hegeliano non hanno bisogno di salvezza, essendone semmai forieri), ma semplicemente come salute, quella banalmente trattata da medici, psicologi e simili (e se sembra troppo poco, le porte delle spiritualità restano fiduciosamente aperte, per quanto l'ossimorica "spiritualità sine ecclesiam", corteggiata del pensatore ateo, può essere rintracciata perlopiù nel dissimulato misoneismo o nel compiaciuto "riciclo customizzato" di altarini votivi... è davvero ancora spiritualità?).
1 Qual'è la fruibilità, estetica discorsiva a parte, del riappropriarsi metaforicamente di categorie non nate per essere solo una metafora («assoluto» come sostantivo, «spirito» e altri lemmi del dizionario metafisico), perché utilizzare termini già sovraccarichi di storia e di significati, ingolfandoli di altri sensi, nel tentativo di attualizzarli o nel rifiuto (psicologico prima che metodologico) di rinunciare alla loro "sacralità" speculativa?
Attualizzare la riflessione filosofica, aggiornando i significati ma senza voler aggiornare i significanti, rischia secondo me di essere un gesto "incauto" similmente all'usare un capitello corinzio come incudine: magari funziona, ma né rende giustizia al valore storico-estetico del capitello, né garantisce di essere efficace a lungo termine (essendo il capitello fatto per reggere il peso di un'architrave, non per essere preso a martellate).
Chiesto in altro modo (fra psicoanalisi e maieutica): perché nel pensiero contemporaneo si avverte il bisogno (de)ontologico di trovare comunque un posto all'assoluto (sostantivo e "sostanziale") quando per sua stessa "auto-presentazione" esso non ha posto calzante se non nell'iperuranio dei concetti tautologicamente postulati come tali (meta-fisici cioè ultra-terreni), e quindi relativi al pensiero che così li postula?
La stessa domanda riguarda lo "spiritualismo" (di cui si parla in altro topic) e sia per «spirito» che «assoluto» è fondamentale intendersi sul loro fantomatico referente: la polisemia del termine «assoluto» (proprio come quella di «spirito»), aggravata dal suo prestarsi a metafore, non facilita il discorso (che rischia di disperdersi fra misticismo, scienza, storia, poesia, etc.).
Collegandomi ad altro topic affine, riguardo l'approccio postecclesiastico alla "spiritualità"1 e alla dialettica individuo/società, osserverei che è stata la struttura organizzativa dell'immanenza secolare a forgiare, o almeno ispirare, quella ecclesiale; la chiesa in fondo non è altro che l'ennesima organizzazione piramidale, come lo è quella di un qualunque branco, qualunque società, qualunque azienda, qualunque stato, etc. ognuno fondato su norme (anche consuetudini, etc.) strutturanti le interazioni fra i suoi membri. Che tali regole abbiano fondamento nel cielo, nella terra, nel mercato, nell'istinto animale o nelle tradizioni, è rilevante solo a livello giustificativo-persuasivo o di analisi del fondamento, ma non a livello funzionale e archi-tettonico (arché incluso).
L'esigenza di un ordine verticale (con l'inevitabile conseguente discriminazione di ruoli, differenti ricompense e carichi di lavoro, etc.) per essere più efficienti e "in salute", è un'astuzia pragmatica da sempre chiara anche agli animali, nessuna chiesa o altra organizzazione sociale, soprattutto se molto numerosa, avrebbe ragionevole motivo di fare eccezione. Eccezione che semmai spetterebbe ad una posizione di pensiero che abbia intenzione di non proporsi come organizzazione, struttura, comunità, "piramide": ad esempio, il pensare ateo non è di per sé atto fondativo di una chiesa, quanto piuttosto una "postura esistenziale" (come credo intenda baylham), postura "gobba" se vogliamo (che guarda alla terra dove mette i piedi e dove può verificare le sue tesi, al netto di sofismi, fallacie e bias). Tuttavia se, nel fatale oblio di muoversi nel campo della infalsificabilità delle tesi antagoniste (e non in quello della verità), tale postura indulge nel catechizzarsi, ecumenizzarsi, sentendosi "in missione di conversione nel mondo" (cattolicesimo docet), la sua militanza non potrà che essere percepita comunemente in modo simile all'apparente autocontraddizione programmatica rilevata da myfriend (a cui Ipazia ha ragionevolmente ricordato la pluralità degli ateismi, anche se sarebbe bastata anche solo la pluralità degli atei).
Dunque quale salus extra ecclesiam? La più percorribile mi pare quella che intende salus non come salvezza spirituale (perché, venuta meno la dottrina dell'ecclesia, non c'è uno spirito da salvare e sia lo zeitgeist che lo Spirito hegeliano non hanno bisogno di salvezza, essendone semmai forieri), ma semplicemente come salute, quella banalmente trattata da medici, psicologi e simili (e se sembra troppo poco, le porte delle spiritualità restano fiduciosamente aperte, per quanto l'ossimorica "spiritualità sine ecclesiam", corteggiata del pensatore ateo, può essere rintracciata perlopiù nel dissimulato misoneismo o nel compiaciuto "riciclo customizzato" di altarini votivi... è davvero ancora spiritualità?).
1 Qual'è la fruibilità, estetica discorsiva a parte, del riappropriarsi metaforicamente di categorie non nate per essere solo una metafora («assoluto» come sostantivo, «spirito» e altri lemmi del dizionario metafisico), perché utilizzare termini già sovraccarichi di storia e di significati, ingolfandoli di altri sensi, nel tentativo di attualizzarli o nel rifiuto (psicologico prima che metodologico) di rinunciare alla loro "sacralità" speculativa?
Attualizzare la riflessione filosofica, aggiornando i significati ma senza voler aggiornare i significanti, rischia secondo me di essere un gesto "incauto" similmente all'usare un capitello corinzio come incudine: magari funziona, ma né rende giustizia al valore storico-estetico del capitello, né garantisce di essere efficace a lungo termine (essendo il capitello fatto per reggere il peso di un'architrave, non per essere preso a martellate).