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Messaggi - Phil

#1246
Tematiche Filosofiche / Re:Lo spazio dell'assoluto
21 Gennaio 2020, 15:13:17 PM
Se il presunto "posto vuoto" dell'assoluto, ovvero la possibile assenza di uno "spazio" ulteriore rispetto alla (ri)strettezza della contingenza umana in cui non c'è traccia dell'assoluto come sostantivo (e tanto più come sostanza, semmai solo come aggettivo), è la disincantata e schietta "scoperta" perpetrata da alcune proposte filosofiche contemporanee, allora rifiutare l'elaborazione culturale di tale assenza, preservandosi dal pensare senza assoluti(smi), non mantiene aperto maldestramente il discorso onto(teo)logico dopo averne ormai compromesso le fondamenta (e la loro sedicente assolutezza)?
Chiesto in altro modo (fra psicoanalisi e maieutica): perché nel pensiero contemporaneo si avverte il bisogno (de)ontologico di trovare comunque un posto all'assoluto (sostantivo e "sostanziale") quando per sua stessa "auto-presentazione" esso non ha posto calzante se non nell'iperuranio dei concetti tautologicamente postulati come tali (meta-fisici cioè ultra-terreni), e quindi relativi al pensiero che così li postula?

La stessa domanda riguarda lo "spiritualismo" (di cui si parla in altro topic) e sia per «spirito» che «assoluto» è fondamentale intendersi sul loro fantomatico referente: la polisemia del termine «assoluto» (proprio come quella di «spirito»), aggravata dal suo prestarsi a metafore, non facilita il discorso (che rischia di disperdersi fra misticismo, scienza, storia, poesia, etc.).

Collegandomi ad altro topic affine, riguardo l'approccio postecclesiastico alla "spiritualità"1 e alla dialettica individuo/società, osserverei che è stata la struttura organizzativa dell'immanenza secolare a forgiare, o almeno ispirare, quella ecclesiale; la chiesa in fondo non è altro che l'ennesima organizzazione piramidale, come lo è quella di un qualunque branco, qualunque società, qualunque azienda, qualunque stato, etc. ognuno fondato su norme (anche consuetudini, etc.) strutturanti le interazioni fra i suoi membri. Che tali regole abbiano fondamento nel cielo, nella terra, nel mercato, nell'istinto animale o nelle tradizioni, è rilevante solo a livello giustificativo-persuasivo o di analisi del fondamento, ma non a livello funzionale e archi-tettonico (arché incluso).
L'esigenza di un ordine verticale (con l'inevitabile conseguente discriminazione di ruoli, differenti ricompense e carichi di lavoro, etc.) per essere più efficienti e "in salute", è un'astuzia pragmatica da sempre chiara anche agli animali, nessuna chiesa o altra organizzazione sociale, soprattutto se molto numerosa, avrebbe ragionevole motivo di fare eccezione. Eccezione che semmai spetterebbe ad una posizione di pensiero che abbia intenzione di non proporsi come organizzazione, struttura, comunità, "piramide": ad esempio, il pensare ateo non è di per sé atto fondativo di una chiesa, quanto piuttosto una "postura esistenziale" (come credo intenda baylham), postura "gobba" se vogliamo (che guarda alla terra dove mette i piedi e dove può verificare le sue tesi, al netto di sofismi, fallacie e bias). Tuttavia se, nel fatale oblio di muoversi nel campo della infalsificabilità delle tesi antagoniste (e non in quello della verità), tale postura indulge nel catechizzarsi, ecumenizzarsi, sentendosi "in missione di conversione nel mondo" (cattolicesimo docet), la sua militanza non potrà che essere percepita comunemente in modo simile all'apparente autocontraddizione programmatica rilevata da myfriend (a cui Ipazia ha ragionevolmente ricordato la pluralità degli ateismi, anche se sarebbe bastata anche solo la pluralità degli atei).

Dunque quale salus extra ecclesiam? La più percorribile mi pare quella che intende salus non come salvezza spirituale (perché, venuta meno la dottrina dell'ecclesia, non c'è uno spirito da salvare e sia lo zeitgeist che lo Spirito hegeliano non hanno bisogno di salvezza, essendone semmai forieri), ma semplicemente come salute, quella banalmente trattata da medici, psicologi e simili (e se sembra troppo poco, le porte delle spiritualità restano fiduciosamente aperte, per quanto l'ossimorica "spiritualità sine ecclesiam", corteggiata del pensatore ateo, può essere rintracciata perlopiù nel dissimulato misoneismo o nel compiaciuto "riciclo customizzato" di altarini votivi... è davvero ancora spiritualità?).


Qual'è la fruibilità, estetica discorsiva a parte, del riappropriarsi metaforicamente di categorie non nate per essere solo una metafora («assoluto» come sostantivo, «spirito» e altri lemmi del dizionario metafisico), perché utilizzare termini già sovraccarichi di storia e di significati, ingolfandoli di altri sensi, nel tentativo di attualizzarli o nel rifiuto (psicologico prima che metodologico) di rinunciare alla loro "sacralità" speculativa?
Attualizzare la riflessione filosofica, aggiornando i significati ma senza voler aggiornare i significanti, rischia secondo me di essere un gesto "incauto" similmente all'usare un capitello corinzio come incudine: magari funziona, ma né rende giustizia al valore storico-estetico del capitello, né garantisce di essere efficace a lungo termine (essendo il capitello fatto per reggere il peso di un'architrave, non per essere preso a martellate).
#1248
Tematiche Filosofiche / Re:Ma che campo a fare?
13 Gennaio 2020, 16:02:15 PM
In Giappone hanno tematizzato la questione anche tramite il concetto di ikigai, ovvero "ragione di vita" (il fatto che abbiano una parola per esprimere tale concetto non è da sottovalutare), solitamente sintetizzato dallo schema a fiore:


Chiaramente è solo un possibile quadro di lettura, uno spunto "sistemico", non la risposta (ammesso e non concesso che la domanda sul senso abbia un senso...).
#1249
Tematiche Filosofiche / Re:La mano e la moneta
26 Dicembre 2019, 18:07:15 PM
@davintro
Preso atto della consolidata divergenza di prospettive, sollecito ancora l'esitazione con un paio di domande:
Citazione di: davintro il 26 Dicembre 2019, 16:14:34 PM
ogni atto di pensiero implica l'assunzione a livello intenzionale [...] del proprio contenuto come reale stato di cose, e dunque se gli assiomi della logica formale sono norme necessarie per ognuno di questi atti di pensiero, allora devono anche essere norme necessarie delle cose reali, che sono il contenuto che sempre tali atti intenzionano. Se in assenza di logica ogni pensiero sarebbe assurdo, e ogni pensiero è sempre pensiero riferito alla realtà, allora, perché la realtà non sia assurda, dovrebbe condividere le stesse regole logiche che strutturano il pensiero.
eppure, è la logica a forgiare la realtà o è la realtà (enti, eventi, "meccanicismi" naturali, etc.) a forgiare la (fruibilità pragmatica, non solo autoreferenziale della) logica?
Chi cerca di tradurre, con/per i suoi canoni, le leggi di chi?

Citazione di: davintro il 26 Dicembre 2019, 16:14:34 PM
L'accusa di narcisismo e autoreferenzialità ad una filosofia che non si faccia influenzare nel suo lavoro di individuazione delle condizioni di validità metodologica sulla base dei problemi contingenti di applicazione, penso abbia un senso solo nel momento in cui si intenda la filosofia come mero strumento in funzione del lavoro delle scienze naturali, mentre in realtà l'epistemologia non va vista primariamente come servizio che la filosofia sarebbe chiamata a svolgere (al di là del fatto che poi, effettivamente le riflessioni epistemologiche siano di giovamento agli scienziati) ma come conseguenza del fatto che la filosofia si occupa di questioni teoretiche distinte da quelle di ordine tecnico-applicativo, la cui risoluzione non può dunque influenzare la ricerca riguardo alle altre.
Pur confinandoci nella fenomenologia husserliana (perpetrando un'ingiustizia per i suoi sviluppi, francesi e non, oltre che al resto del '900, i pluricitati Godel, logiche polivalenti e paraconsistenti, etc.), senza voler valicare i limiti dell'approccio trascendentale (gesto amichevolmente ermeneutico, per garantire un minimo di aderenza alla tua prospettiva, di cui ti chiedo), non andrebbe almeno considerato seriamente, se non attualizzato, l'invito husserliano a «tornare alle cose stesse»?
Ecco, come regalo post-natalizio, il passo dalle Ricerche Logiche:
«Non  vogliamo  affatto  accontentarci  di  "pure  e  semplici  parole",  cioè  di  una comprensione  puramente  simbolica  delle  parole,  cosÏ  come  ci  è  data  anzitutto sul  senso  delle  leggi,  presentate  dalla  logica  pura,  concernenti  i  "concetti", "giudizi", "verità", ecc., in tutte le loro specificazioni. Non ci possono bastare significati  ravvivati  da  intuizioni  lontane  e  confuse,  da  intuizioni  indirette  - quando  sono  almeno  intuizioni.  Noi  vogliamo  tornare  alle  "cose  stesse".  Vogliamo  rendere  evidente,  sulla  base di  intuizioni  pienamente  sviluppate,  che  proprio  ciò  che  è  dato  nell'astrazione attualmente effettuata è veramente e realmente corrispondente al significato delle parole nell'espressione della legge; e, dal punto di vista della praxis della conoscenza, vogliamo suscitare in noi la capacità di mantenere i significati nella loro irremovibile identità, mediante una verifica, sufficientemente ripetuta, sulla base dell'intuizione  riproducibile  (oppure  dell'effettuazione  intuitiva  dell'astrazione). In  questo  modo,  portando  alla  luce  i  significati  variabili, che uno stesso termine logico  assume  in  contesti  enunciativi  diversi,  ci  convinciamo  appunto  dell'esistenza  dell'equivocazione; diventa per noi evidente che ciò che la parola significa in questo o quel luogo trova il suo riempimento in formazioni o momenti sostanzialmente diversi dall'intuizione, cioè in concetti generali essenzialmente differenti. Specificando  i  concetti  confusi  e  modificando  opportunamente  la  terminologia,  otteniamo allora anche la desiderata "chiarezza e distinzione" delle proposizioni logiche».
#1250
Tematiche Filosofiche / Re:La mano e la moneta
24 Dicembre 2019, 17:06:13 PM
Citazione di: davintro il 24 Dicembre 2019, 15:25:18 PM
il riconoscimento della razionalità del discorso ne garantirebbe l'oggettività.
Eppure, ha davvero senso fondare la presunta "oggettività" sulla razionalità del discorso e non piuttosto sulla realtà dei presunti oggetti?
Se vogliamo dimostrazioni, oneri della prova d'esistenza, verità, etc. possiamo davvero fare a meno di rivolgerci alla concretezza di dati, fatti ed eventi, in nome di una deduzione in cui gli assiomi chiudono sempre tautologicamente il loro cerchio teorico, a prescindere dalla loro pertinenza con la realtà (ovvero basta che il sistema non sia autocontraddittorio per essere razionale e, a quanto proponi, garante di "oggettività")?
Se parliamo di esistenza, non è forse fondamentale coinvolgere pragmaticamente gli esist-enti?
Un'epistemologia che non considera la prassi delle scienze a cui si riferisce, non resta sempre "monca" e nondimeno narcisista (per non dire inservibile)?
La differenza fra fisica teorica e fisica sperimentale è secondo me eloquente in merito a oneri della prova, oggettività, verificazione contro possibilità etc.
#1251
Tematiche Filosofiche / Re:La mano e la moneta
24 Dicembre 2019, 12:10:59 PM
Citazione di: Eutidemo il 24 Dicembre 2019, 09:54:42 AM
Citazione di: baylham il 24 Dicembre 2019, 09:24:11 AM
A me sembra che ci sia una differenza teorica e non solo pratica tra la tesi che afferma l'esistenza di qualcosa e la tesi contraria, che sostiene l'inesistenza di qualcosa: la prima è una proposizione infalsificabile, la seconda è falsificabile.
Questa differenza mi sembra avvantaggi la religione, la metafisica, il soprannaturale, la magia, il miracolo.

Giusto! :)
Però, secondo me, non c'è "equipollenza" tra una proposizione infalsificabile ed una  falsificabile; chi sostiene che ci sia, secondo me, cade nel sofisma della "falsa isostenia"
Non credo che l'affermazione di esistenza sia di per sé infalsificabile: se affermo che nella stanza c'è una sedia, tale proposizione può essere falsificata verificando che nella stanza non c'è nessuna sedia.
L'affermazione di esistenza diventa infalsificabile se lo spazio e/o il tempo e/o le modalità dell'adeguata verifica di esistenza eccedono l'efficacia del praticabile metodo di verifica (v. la famosa teiera di Russell); oppure se si afferma l'esistenza di qualcosa per sua stessa definizione infalsificabile (una sedia invisibile, intangibile, etc.).
#1252
Tematiche Filosofiche / Re:La mano e la moneta
23 Dicembre 2019, 20:31:37 PM
Citazione di: davintro il 23 Dicembre 2019, 17:34:24 PM
mentalità "anglosassone").Phil parla di un rallentamento della procedura di verifica che si verrebbe a determinare nel caso di dover applicare l'onus probandi a una tesi negativa, un verificare l'assenza del mostro nella stanza andando a cercare in ogni angolo [...]Così, diamo per scontato che il drago non sia nella stanza, solo perché per pigrizia non si ha voglia di andare a esplorare ogni angolino, perché richiederebbe troppo tempo (ma che fretta c'è in fondo!?) [...]Quindi se si vuole argomentare razionalmente l'assenza del mostro nella stanza, ci si prende tutto il tempo che occorre per ispezionarla da cima a fondo, e se non si ha tempo o voglia di farlo, la cosa più onesta sarebbe sospendere in modo più o meno neutro il giudizio riconoscendo il margine di incertezza dovuto ai limiti della visione del reale entro cui è riferita l'assenza del fenomeno in questione.
Il problema sorge, come ho già anticipato, non tanto se si tratta di una ricerca confinata in una stanza o in uno spazio dove la pazienza e la fattibilità della ricerca è decisamente a misura d'uomo:
Citazione di: Phil il 23 Dicembre 2019, 01:08:59 AM
Chiaramente finché si tratta di enti empirici facilmente enumerabili, poiché chiusi in una stanza, la situazione è rapidamente risolvibile, basta la vista e poco altro; se invece qualcuno afferma che «nel mondo c'è un dragone», o peggio, senza dare indizi, «esiste un dragone», «un dragone c'è», mi sembra più ragionevole che sia lui a dimostrarne l'esistenza, piuttosto che noi a perlustrare tutto il globo o il cosmo solo per dimostrare a lui la falsità della sua affermazione (pur concedendogli la buona fede).

Va inoltre considerato che se si richiede l'onere della prova a chi afferma qualcosa (sia essa esistente o non esistente), sarebbe al contempo un tiro piuttosto mancino prospettargli una ricerca che va oltre le sue concrete possibilità di "prova", ovvero una dimostrazione impraticabile. Se parliamo di (dimostrazioni di) esistenza è secondo me inevitabile valutare lo sporcarsi le mani con la realtà, considerare i limiti delle verifiche possibili, fare i conti con gli aspetti pragmatici del metodo di verifica, etc.
L'appello alla concretezza "anglosassone" della prassi dimostrativa non può essere accantonata se ciò che si richiede è appunto una dimostrazione epistemologica e non un'ammissione di possibilità di "esistenza fino a prova contraria" (che si può, volendo, concedere facilmente, ma al prezzo di abbandonare l'onere della prova e quindi il piano epistemologico).

Inoltre, sempre guardando alla concretezza della ricerca (filosofica o altro), o meglio alla pratica della ricerca: se affermo l'esistenza di qualcosa, è plausibile che lo faccia perché ho indizi, spunti, intuizioni, etc. che mi spingono a ritenerlo esistente; proprio da questi spunti che posseggo è ragionevole che parta una possibile prova dell'esistenza. Chiedere a chi non ha avuto quelle "prove", indizi, spunti, etc. di dimostrare che mi sono sbagliato è metodologicamente ostile e inefficiente: se non provo a dimostrare l'esistenza di qualcosa che credo esista per determinati motivi, perché mai delego ad altri l'onere della dimostrazione del contrario (assolvendomi dall'onere della prova affermando che «l'assenza di prove d'esistenza non è prova dell'assenza dell'ente»)?

Proviamo a calare tale differenza di oneri (esistenza / non-esistenza) all'interno di una verosimile equipe di ricerca: ci sono alcuni ricercatori che collaborano negli stessi esperimenti alla ricerca di una nuova molecola, uno di loro afferma che tale nuova molecola c'è (e magari ne descrive anche le proprietà), tuttavia anziché di-mostrarne l'esistenza ai colleghi (che magari sono scettici in merito) chiede loro di dimostrare che tale molecola non esiste... onestamente, non credi che converrebbe, sotto tutti i punti di vista, che sia lui a svelare la nuova molecola (di)mostrandone l'esistenza?
#1253
Tematiche Filosofiche / Re:La mano e la moneta
23 Dicembre 2019, 01:08:59 AM
Citazione di: davintro il 23 Dicembre 2019, 00:18:02 AM
Non potrei giudicare "in questa stanza non ci sono sedie", senza che la negazione dell'esistenza delle sedie non sia accompagnata dal giudizio [...] in cui affermo la realtà della stanza, nella rappresentazione mentale in cui la percepisco. E se questa affermazione, in quanto tale, soggiace all'onere della prova, a questo obbligo epistemologico soggiace necessariamente anche la negazione della presenza delle sedie.
Probabilmente è una questione di snellezza metodologica (e di "tempi ragionevoli"), nel senso che l'onere della prova dell'assenza rischierebbe di diventare, come accennavo, l'onere della prova dell'infinito: l'esistenza, in un dato intervallo di tempo, è fatta da un numero di enti verificabili finito, mentre i potenziali enti assenti sono infiniti, quindi è impossibile dimostrarne l'assenza in modo completo.

Banalmente, se affermo che c'è una sedia nella stanza e ne dimostro la presenza, non ho bisogno di dimostrare la sua assenza; se dimostro invece l'assenza di una sedia, dovrei tuttavia poi dimostrare l'assenza di infiniti enti prima di poter affermare «la stanza è vuota»; oppure per concludere che «nella stanza c'è solo una sedia» dovrei dimostrare che non ce ne siano due, né tre, né quattro, etc. poi che non c'è nemmeno un tavolo, etc. all'infinito.
Chiaramente finché si tratta di enti empirici facilmente enumerabili, poiché chiusi in una stanza, la situazione è rapidamente risolvibile, basta la vista e poco altro; se invece qualcuno afferma che «nel mondo c'è un dragone», o peggio, senza dare indizi, «esiste un dragone», «un dragone c'è», mi sembra più ragionevole che sia lui a dimostrarne l'esistenza, piuttosto che noi a perlustrare tutto il globo o il cosmo solo per dimostrare a lui la falsità della sua affermazione (pur concedendogli la buona fede).
Va infatti notato come nell'affermare la non-esistenza ci si possa limitare ad un «fino a prova contraria», che nel caso dell'esistenza suonerebbe un po' meno razionale: si potrebbe affermare l'esistenza di qualunque fantasia o ente e poi avallarlo con un «fino a prova contraria» lasciando agli altri l'onere di dimostrare falsa l'affermazione di esistenza.

In ambito più euristico, va comunque considerato che per quanto riguarda l'esistenza ha senso pragmatico ed utilità epistemologica apportare prove (o anche indizi) di evidenza positiva e dimostrativa; la più antica, che precede logicamente il di-mostrare, è il mostrare («guarda, ecco qui il dragone»). Mentre per la non-esistenza sarebbe contraddittorio poter portare prove di evidenza positiva, e quelle negative sarebbero molto più dispersive e inefficienti: «qui il dragone non c'è... aspetta che guardo sotto il letto... no, non è neanche lì... forse è in frigo... no...» e così all'infinito per ogni ente pensabile e immaginabile.
#1254
Tematiche Filosofiche / Re:La mano e la moneta
22 Dicembre 2019, 22:22:00 PM
Citazione di: davintro il 22 Dicembre 2019, 20:38:04 PM
Il carattere intenzionale che attiene per essenza a ogni giudizio, per il quale ogni giudizio, affermativo o negativo che sia, è sempre la presentazione di una visione mirante a rappresentare il reale in modo oggettivo, fa sì che la differenza tra forma affermativa e negativa, resta un'accidentalità linguistica formale che può trapassare da un modo all'altro senza alterare il contenuto significato intenzionalmente posto
Per me non è da confondere il referente dell'affermazione di esistenza con le qualità (o "accidenti") del referente affermato, soprattutto se una qualità apparente consiste in realtà in un (o più) altro referente:
- se dico «c'è una stanza», affermo l'esistenza di una stanza e magari poi la dimostro ricorrendo alla definizione di «stanza» e mostrando la sua corrispondenza con l'ente di cui si parla;
- se affermo «c'è una stanza rossa», affermo l'esistenza di un referente con una determinata qualità, è quindi anche possibile che esista il referente (stanza) ma non la qualità, o la qualità (il rosso) ma non nel referente affermato (ad esempio se sono in presenza di una macchina rossa, non di una stanza)
- se invece affermo «c'è una stanza in cui non ci sono sedie (ovvero in cui sono assenti sedie)» ci sono due referenti, due sostantivi (da «sostanza» intesa alla medievale), ovvero due presunte esistenze, distinte e separate, di cui si parla, la stanza e le sedie, e le dimostrazioni delle due affermazioni sono (onto)logicamente indipendenti: posso dimostrare l'esistenza di sedie, ma eventualmente non localizzate in una stanza (magari in un camion) o l'esistenza di una stanza ma senza sedie (se non se ne riscontra la presenza). La suddetta non è dunque una affermazione di esistenza, ma una affermazione di due esistenze o, ugualmente, due affermazioni di esistenza ipoteticamente correlate.

Che esista almeno "una realtà (la nostra) in cui sono assenti unicorni" è empiricamente falsificato: esistiamo io e te (se anche fossimo due chatbot, saremmo comunque reali), o almeno uno dei due, quindi una realtà c'è, Cartesio docet. In tale realtà sono assenti gli unicorni? Non direi: possiamo pensarli, disegnarli, descriverli, etc. rendendoli una presenza.
Ritenere che gli unicorni siano reali oltre il loro essere disegnati, nominati, etc. non riguarda più la realtà di cui abbiamo (di)mostrato l'esistenza con la nostra conversazione (anche fosse un soliloquio onirico). La "nostra" realtà empirica è dimostrata dal "cogito" (o dallo "scrivo", nel nostro caso) così come il suo contenere unicorni, di cui stiamo ragionevolmente scrivendo.
Tuttavia, se si ritiene che gli unicorni abbiano un'esistenza che va oltre (meta-...) quella sperimentabile e verificabile in discorsi, disegni, etc., ciò riguarda chiaramente un'altra realtà che esula da quella sperimentata e verificata dal nostro scrivere (con tutte le eventuali esitazioni del caso). Che esista un'altra realtà in cui gli unicorni sono esseri viventi, indipendenti dal discorso che ne parla, resta quindi da dimostrare. Se poi definiamo gli unicorni in modo che risultino indimostrabili (impercepibili, infalsificabili, etc.) allora l'affermazione della loro esistenza non potrà percorrere la strada della dimostrazione epistemologica.

La differenza fra predicare l'esistenza e la non-esistenza è ontologica, prima che epistemologica; pur trattandosi formalmente di due affermazioni, la differenza è rilevante: nel primo caso ci si riferisce a qualcosa di esistente e presente, nel secondo invece ci si riferisce ad un'assenza determinata, ad un concetto senza referente empirico o "sostanziale" (sempre per dirla alla medievale).

Facendo dell'ontologia spiccia e limitata esemplificativamente alla percezione: posso avere (parafrasando Cartesio) «una percezione chiara e distinta» di ciò che è, ma non di ciò che non è; questo differenzia radicalmente l'affermazione di esistenza (e una sua possibile dimostrazione) da quella di non esistenza.
Infatti se parlassimo di "percezione dell'assenza di qualcosa" sarebbe un giocoso sofisma (che non hai commesso), come dire che guardando una stanza vuota ho una percezione delle persone che non ci sono, dei clowns che non ci sono, degli elefanti che non ci sono, etc. tutti enti che, al di là del sofisma, non percepisco affatto, perché la percezione (tanto sensoriale quanto intenzionale) in quanto tale, si rivolge alla presenza determinata non all'assenza indeterminata (l'assenza determinata del percepire che "qualcosa c'era ma ora non c'è più" richiederebbe addentrarsi sul tema della memoria, tangente ma non essenziale a quello della dimostrazione intersoggettiva di esistenza). Ha semmai senso affermare che percepisco il "vuoto" della stanza, non tutti gli infiniti enti possibili che potrebbero riempirla ma non ci sono (salvo riuscir a dimostrare che riesco a percepire l'infinito in un istante; anche in questo caso, è chi nega la percezione dell'infinito in un istante che deve dimostrarlo tanto quanto chi l'afferma? Comunque qui ce la caviamo facilmente facendo appello alla definizione stessa di "infinito" che mal si presta ad essere percepito esaustivamente in un batter d'occhio; salvo scenari estetici oppure accontentarsi del suo simbolo, confondendo così, quasi "dolosamente", segno e referente).
#1255
Riflessioni sull'Arte / Re:Percezione e Forma
21 Dicembre 2019, 16:23:47 PM
Citazione di: NiMo il 21 Dicembre 2019, 13:25:59 PM
La forma riconoscibile è infatti una relazione morfologico semantica tra il soggettivo e l'articolazione oggettuale dell'individuazione percettiva.
[...]
Il linguaggio formale nella forma amorfa è quindi un adeguamento della soggettività impressiva alla possibilità semantica del simbolo, la quale giace o sul rapporto di significato, o sulla possibile pareidolia, o su entrambe le possibilità sovrapposte, o ancora sulla forma svincolata dal significativo - qual ultima possibilità incarnata nell'avvicendamento di forme private della speculazione della coscienza.
[...]
Per amorfo si deve intendere dunque ciò che è di mutevole oggettivazione.
Come la metamorfosi dell'oggettivazione è durevole o caduca a seconda dell'osservazione di piani morfologicamente incerti, la percezione di un detto "conosciuto" segue l'appartenenza dell'azione contemplativa del detto microcosmo, la quale si adagia o sulla precedente informazione o su un rapporto mutevole dell'oggettivazione animata dell'effettualità dell'esistenza nei suoi differenti piani oggettivanti ed oggettivati.
L'estrazione cosciente, se vogliamo dialogica, del rapporto (s)oggetto-oggetto, viene così rappresentata dalla percettività in relazione direzionale in ambo i versi dell'oggettivante ed dell'oggettivato, sgorganti nel momento-durata della reiterazione ciclica-spirale del microcosmo particolare. Il lato oggettuale dell'immagine può essere dunque tanto interno (come un ricordo o una fantasia immaginativa) quanto esterno.
Presupponendo una possibilità esperitiva del possibile microcosmo tendente all'infinità delle potenzialità dell'effettualità "oggettuali e soggettive", intuibile come un punto senza confini dalle infinite possibili centralità (queste non necessariamente concernenti tale totalità) il dialogo tra un (s)oggetto ed una forma può portare all'infinita presentarsi della particolarità, relazione postulata dalla verità reale nel momentaneo "apparente" della presenza delle generalità nelle loro estrinsecazioni.
L'a-morfo è un concetto limite come altre «etimologie negative»(cit.) che ambiscono a negare le dimensioni imprescindibili per l'umano (in-finito, im-materiale, etc.) e che proprio per questo lo delimitano, quindi lo identificano, quindi lo con-formano a ciò che chiami «sinolo» (adescando Aristotele fuori dall'ontologia per installarlo nella semantica dell'estetica). Essendo l'amorfo un concetto limite, non consente al soggetto una totale esperienza del limite, ma il vissuto possibile si ferma entro la parzialità del lato interno del limite stesso; l'a-morfo è inaccessibile (l'uomo, "strutturalmente", assimila e conosce solo tramite ciò che può identificare come in-formazione), ma ci sono labili sintomi dell'accostarsi al suo limite: la meta-morfosi delle identità che affiorano e si deformano nella grafite, il polimorfismo delle figure che scandisce la polisemia dell'esperienza estetica, indicano l'approssimarsi asintotico (in stile Rorschach) al limite della forma.
Quanto più la forma oscilla, si sfalda, si ri-formula (o meglio, viene fatta oscillare, sfaldare, etc. dal climax dell'intenzionalità appercettiva del soggetto), tanto più la deformazione è sul punto indefinito (e minaccioso, quanto può esserlo un "suicidio indotto") di diventare caleidoscopica assenza. Assenza di segno e di significato che è nondimeno presenza di una forma marginale (abissale cornice di tale assenza): un foglio perfettamente bianco ha comunque una forma, pur essendo privo di segni e di significati (ammenoché, a guardar bene...).
#1256
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la "vita"?
07 Dicembre 2019, 20:12:29 PM
Citazione di: Ipazia il 07 Dicembre 2019, 19:10:27 PM
devi aggiungere qualche altra caratteristica alla tua definizione di vita per escludere l'IA.
Non sento come un "dovere" l'escludere l'IA; dipende appunto dai parametri che scegliamo: se intendiamo per «vita» un'"attività" che va trasmessa "naturalmente" (senza scendere nei dettagli), che abbia un metabolismo biochimico (metafore a parte) e in cui il simile produce il simile, allora nessuna macchina o automa o programma informatico può essere considerato «vita», non essendo un prodotto bio-logico ma tecno-logico, risultando inoltre totalmente altro (geneticamente, chimicamente, etc.) rispetto ai "padri" e "madri" che lo "generano" (tecnici, programmatori, etc.).
Se per «vita» intendiamo solo la capacità di un aggregato "materiale" di "nutrirsi" scambiando energia con il mondo circostante e di poter riprodurre (almeno potenzialmente, o i soggetti sterili non sono esseri viventi?) un aggregato simile a lui, allora, quando inventeranno un automa autonomo, ovvero in grado di produrre (da solo o con suoi "simili") degli altri automi, senza che l'uomo lo "allatti" con corrente elettrica, gli faccia (u)manutenzione, etc. ci ritroveremo a fronteggiare le tematiche di «Io, robot», «Transcendence», «Blade Runner», «Ghost in the shell», etc.
Di base, come tutte le questioni che iniziano con «che cos'è...?» si tratta della indecidibile questione trasversale delle definizioni, dell'identificazione e di altre pratiche concettuali umane.
#1257
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la "vita"?
07 Dicembre 2019, 18:53:28 PM
Citazione di: Ipazia il 07 Dicembre 2019, 18:26:40 PM
@phil

Una IA sofisticata é vita ?
Non so se si possa parlare propriamente di «metabolismo» nel caso dell'IA, soprattutto se si ammicca (con delusione) alla genetica:
Citazione di: Phil il 07 Dicembre 2019, 15:27:50 PM
Con «attività» non intendo ovviamente solo quella cinetica, ma anche quella metabolica, scambio di energia, etc. [...] Forse la programmazione di tale attività non può che essere genetica, quindi, da profano, tendo a trovare intuitivamente calzante quanto osservato da Mayr [...] Tuttavia, obietterei che quando l'animazione vitale di un corpo cessa, non viene meno il suo essere ancora geneticamente strutturato, quindi avremmo materia inanimata pur in presenza di un genoma, contrariamente a quanto previsto dal suo parametro discriminante; il che mi fa propendere ancora per la visione ingenua della vita come attività (nei sensi suddetti), senza sbilanciarsi nei dettagli della sua causa [...] (anche se resta chiaramente utile come criterio per individuare tracce di vita passata)
nondimeno mi prendo tutta la responsabilità della pigra ambiguità di quell'«etc.».
#1258
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la "vita"?
07 Dicembre 2019, 15:27:50 PM
Nel mio piccolo ho sempre inteso la vita come una condizione di attività immanente ad un corpo, dove per «immanente» intendo non causata totalmente da altri corpi: la mia condizione di essere vivente è stata causata dai corpi dei miei genitori, tuttavia solo come innesco iniziale, dopodiché il mio corpo ha proceduto nelle sue attività autonomamente; viceversa, se un sasso viene fatto rotolare giù da un monte, la sua attività è dovuta totalmente alla spinta che ne ha innescato il movimento, terminato l'effetto della quale, il sasso interrompe il suo rotolamento passivo e ritorna inerte. Con «attività» non intendo ovviamente solo quella cinetica, ma anche quella metabolica, scambio di energia, etc. e l'inerzia cinetica dei vegetali sappiamo essere ricca di attività fotosintetiche, etc. Forse la programmazione di tale attività non può che essere genetica, quindi, da profano, tendo a trovare intuitivamente calzante quanto osservato da Mayr, se l'ho ben compreso (senza cadere in forme fallaci di ilozoismo scientista o panteismo immanentista). Tuttavia, obietterei che quando l'animazione vitale di un corpo cessa, non viene meno il suo essere ancora geneticamente strutturato, quindi avremmo materia inanimata pur in presenza di un genoma, contrariamente a quanto previsto dal suo parametro discriminante; il che mi fa propendere ancora per la visione ingenua della vita come attività (nei sensi suddetti), senza sbilanciarsi nei dettagli della sua causa, che rischia appunto di permanere anche dopo la morte, risultando inefficace come criterio di distinzione fra vivo-animato/morto-inanimato (anche se resta chiaramente utile come criterio per individuare tracce di vita passata).

P.s.
Su Gödel mi permetto di segnalare che i suoi teoremi di indecidibilità (incompletezza), nonostante le sue riserve espresse in una nota del testo in cui li presentava, sono potentemente applicabili anche ad ogni deduzione logica (in senso "tecnico", non come è intesa "volgarmente") come già intuito ed affermato, ma non dimostrato formalmente, da Crisippo, Aristotele e probabilmente altri. La conseguenze filosofiche sono piuttosto rilevanti, ma anche decisamente off topic.
#1259
Tematiche Filosofiche / Re:Così è se vi pare!
03 Dicembre 2019, 15:35:55 PM
Citazione di: Eutidemo il 03 Dicembre 2019, 13:30:01 PM
Quanto al fatto che, come tu scrivi, se "...postuliamo il noumeno come fondamento della realtà, tolto lui, viene meno la realtà, il che è lapalissianamente impossibile", questo, semmai sarebbe un argomento a sostegno della sua esistenza, e non contro.
Mi sembrava doveroso, per par condicio, spezzare una lancia a favore dell'"opposizione", anche perché, non essendo comunque falsificabile, è un'ipotesi pur sempre possibile e ciò va rispettato.

Sorvolando sulle questioni su cui concordiamo, non colgo perché il tertium della congettura "solo fenomeni" sia da scartare:
Citazione di: Eutidemo il 03 Dicembre 2019, 13:30:01 PM
Dunque, l'unica opzione che resta è tra:
- il "solipsismo", e, cioè, che esiste solo la "mia specifica mente" (con nome,  cognome, codice fiscale e indirizzo e-mail), il che suonerebbe alquanto paradossale, se non addirittura autocontraddittorio;
- l'"idealismo metafisico", ", e, cioè, che esiste "una mente universale", (ovverso l'Essere, l'Uno, o Dio come preferisci chiamarla), che "sostanzia" i "noumeni" sottostanti a tutti i "fenomeni".
Il che pure non può essere minimamente dimostrato; ne convengo!
Ma, almeno a me, appare la più plausibile delle congetture.
forse un indizio è questo:
Citazione di: Eutidemo il 03 Dicembre 2019, 13:30:01 PM
Postulare la "realtà come esclusivamente fenomenica", a mio avviso, è una contraddizione in termini, poichè "fenomeno", dal greco "ϕαινόμενον",  significa esclusivamente "cio' che si manifesta", e "non ciò che è"; in altre parole è il "νόuμενον" quando "φαίνεται",  cioè la "cosa in sè" (mentale o materiale), quando "si manifesta" alla nostra mente!
La "manifestazione" è sempre "manifestazione" di qualche altra cosa: non certo del "nulla" nè di "se stessa"!
Tuttavia se, congetturando, ci sono solo manifestazioni (e se il senso di una parola dovrebbe dipendere dalla realtà, e non viceversa) forse si può ripensare il senso del termine «fenomeno» (termine nato non proprio ieri) sostituendo «manifestazione di un noumeno» con «percezione umana di una parte della realtà», dove per «realtà» non si intende un misterioso "mondo dei noumeni", bensì, come ricordato da Ipazia, il campo di applicazione delle analisi scientifiche (rapporti causali, microscopi, etc.). Si tratta di una congettura, a mio avviso, meno interlocutoria del solipsismo assoluto e meno ridondante del noumeno inattingibile, che sarebbe (fra il serio e il faceto) una "congettura al quadrato": la "congettura dell'in sé" della "congettura del fenomeno" (che risulta comunque un po' più esplicativa di entrambe le altre sul come sia possibile fare scienza).
Certo, si potrà sempre obiettare che
Citazione di: Eutidemo il 03 Dicembre 2019, 13:30:01 PM
Il punto della nostra discussione è che anche le "cose" che presumiamo di "conoscere", sono soltanto "fenomeni" mentali, "conosciuti" esclusivamente come tali; e, che si tratti della "percezione" di cose esterne, è solo una "congettura" (fondata o meno che essa sia).
e quindi potrebbe sembrare che
Citazione di: Eutidemo il 03 Dicembre 2019, 13:30:01 PM
Per questo, come divevo, congetturare "necesse est"!
Eppure, se io fossi non nella realtà ma in un sogno, o meglio, in ciò che in questa realtà onirica ho definito «sogno», cosa cambierebbe, almeno fino al mio ipotetico risveglio?
Non mi pare necessario congetturare che la tastiera, la casa, il pianeta Terra siano reali e non illusori: finché tale "dimensione illusoria" è l'unica che conosco (e in cui "sono") e presenta delle sue regolarità (le stagioni, le leggi fisiche, etc.) che mi consentono di "viverci" (qualunque cosa significhi), per me non ha molto senso né chiedersi né congetturare se sia la vera realtà o sia una realtà solo apparente-fenomenica o sia un sogno o altro.
Come dicevo sopra a myfriend, qui un sano ed onesto «non lo so» non ha nessun effetto collaterale, tantomeno l'esigenza logica di congetturare "altro" (veramente reale, non onirico, etc.) da ciò che percepisco (o credo di percepire), essendo io per me la «misura delle cose/sogni/congetture che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono». Certamente l'apparenza a volte inganna, ma nondimeno, pur limitandoci al mondo fenomenico, l'abbiamo spesso verificata e dimostrata (pervenendo a fenomeni che "funzionano regolarmente"), sempre restando "confinati" all'interno del soggettivo e fenomenico «così è se mi (ap)pare», anzi, "così mi (ap)pare che sia" fino a prova contraria (o risveglio o altro).
#1260
Tematiche Filosofiche / Re:Così è se vi pare!
03 Dicembre 2019, 13:08:42 PM
Citazione di: myfriend il 03 Dicembre 2019, 09:54:30 AM
Tuttavia non riusciamo a vedere dietro le quinte...non riusciamo a vedere cosa c'è e chi c'è dietro le quinte.
Uno dei peccati capitali della filosofia (e anche di alcuni fautori della scienza, da quanto sto capendo) mi pare sia il non accettare un punto momentaneo di arresto delle certezze di fronte alla suddetta impossibilità "oggettiva" di vedere «dietro le quinte», confondendo il "senso" degli sforzi per superare tale limite con degli "atti teoretici di fiducia", basati su teorie esplicative indimostrate (o addirittura indimostrabili). Probabilmente è più faticoso di quanto sembri, di fronte ad una domanda, fermarsi ad uno schietto «non lo so, ma ci stanno lavorando» (o «ci stiamo lavorando» se parla un ricercatore).
Nonostante la storia ci insegni "ottimisticamente" che è una questione di paziente e laboriosa applicazione e ricerca, l'uomo (dall'uomo di scienza all'"uomo della strada") lancia spesso le sue deduzioni oltre le sue verifiche e questo fornisce spunti interessanti e preziosi per progredire con sperimentazioni, scenari di possibili scoperte, etc. tuttavia, secondo me, non bisogna mai dimenticarsi di tenere ben chiaro il già conquistato confine fra induzione (verificata, ma provvisoria) e deduzione (universale, ma tautologica).
Trattandosi spesso di concetti o entità o teorie non sperimentate, si prestano alla cosiddetta fallacia dell'affermazione del conseguente: "se x allora y; y; quindi x". Ovvero: postulo che qualcosa causi un evento, riscontro l'evento, concludo che dunque quel qualcosa ha causato l'evento. Palesemente si tratta di una non-dimostrazione, un ragionamento non valido e appunto fallace: se il moto delle pinne dei pesci è il motore della rotazione terrestre allora la terra dovrebbe girare; la terra effettivamente gira; quindi il moto delle pinne dei pesci è il motore della rotazione terrestre. In questo banale esempio si ha la fortuna di poter falsificare empiricamente il nesso causale, evitando di attribuire ai pesci una responsabilità non da poco, tuttavia se ponessimo un'implicazione che parte da un postulato infalsificabile (come l'esistenza dello spirito, della coscienza universale, del noumeno o altro) o non dimostrato (le varie teorie deduttive della scienza, il campo unificato, etc.), ecco che avremmo una pseudo-dimostrazione della suddetta ipotesi postulata.

Il successo storico di tale fallacia è secondo me il rifiuto istintivo di accettare l'ignoto, cercando di renderlo forzatamente il più identificabile possibile, anche a costo di mettere un "tappo indimostrato o indimostrabile" all'estremità della catena causale: dal motore immobile di Aristotele (che non emana, ma attrae il tutto, sagace espediente che lascia alla cosmologia la sua dignità di scienza) fino all'eterno ritorno che decostruisce il problema dell'inizio causale (sostituendolo però con altri). Probabilmente non si è mai lasciato, almeno in filosofia (ma forse anche nella scienza), un sincero spazio vuoto o "in bianco" (da non confondere banalmente con il nulla, la magia o altro) in cui lasciare onestamente in sospeso la nostra descrizione del reale. Anche nello schema tassonomico che hai postato, si (sup)pone un risolutivo «campo unificato» a fare da tappo-limite; limite indimostrato (l'escamotage dell'immaterialità, seppur aggiornato ai moderni limiti strumentali, è ben noto sin dai tempi della teologia medievale) e oggettivamente irrelato (potrebbe essere solo un tunnel, dicevamo) alle scienze che dovrebbe fondare. Non a caso nei secoli scorsi sarebbe stato posto, con egual "certezza", ad un livello precedente; se dicessimo che «intanto lo mettiamo lì perché più in là la nostra conoscenza non va» allora dovremmo forse fermarci a riflettere sull'"ontologia mobile" di tale postulazione.

Inoltre mi pare curioso (e al contempo sintomatico) come tale "tappo" (divinità, campo unificato, coscienza universale, etc.) sia sempre pensato/a al singolare: ipotesi per ipotesi, la vita biologica nasce ad esempio dalla combinazione di (almeno) due elementi complementari, perché lo "spirito del cosmo" (o chi per lui) dovrebbe essere necessariamente unico? Perché non potrebbero essere tre o più? Pigrizia logico-intellettuale, inconsapevole eredità dei monoteismi o pura arbitrarietà estetico-metaforica?

Accettare che la conoscenza "certa" abbia un punto di arresto (seppur momentaneo) e riconoscere che la logica della deduzione (oltre ad avere le sue fallacie) non è garante di corrispondenza con il mondo, mi sembrano due binari ragionevoli su cui lasciar viaggiare sia le ricerche scientifiche (che non hanno certo bisogno dei miei moniti), sia le proprie interpretazioni del mondo, con la consapevolezza che guardando le interpretazioni differenti (se logicamente coerenti e non ancora falsificate) non si può non concedere un «così è se vi pare».