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Messaggi - Phil

#1246
Citazione di: Ipazia il 09 Aprile 2020, 07:48:59 AM
Non per impudica e morbosa impiccioneria ho postato questo evento ma per saggiare la coscienza del forum su una questione che mi investe avendo quella campana suonato per me.
Speravo d'aver postillato a sufficienza per evitare malintesi, ma pare me ne sia maldestramente lasciato sfuggire uno fra i possibili (e proprio quello che maggiormente volevo scongiurare): quando parlavo dell' «esser "deontologicamente impiccione" del narratore»(autocit.) mi riferivo al cronista/giornalista che per deontologia "deve" impicciarsi dei fatti di cronaca elevandoli a pubbliche notizie che attecchiscono, nel nostro orticello, come spunti di riflessione.
Ribadisco che lo spunto filosofico è per me (e non solo) ricco e interessante, ma volevo anche osservare di passaggio come la sua genesi sia apparentemente non voluta dai protagonisti (e qui, come detto, pecco di ingenuità sociologica e mediatica nel ritenerlo un fattore, forse morale forse estetico, da considerare).
#1247
Tematiche Culturali e Sociali / Re:Eutanasia
08 Aprile 2020, 20:04:30 PM
I giudizi appartengono alla vita, soprattutto quelli legati al verbo «volere» (sia esso morale, culturale o altro): «non avrebbe dovuto...», «doveva spiegazioni a...», «se si ama allora si deve...», etc. e poter pensare alla morte solo finché si è vivi, è piuttosto inevitabile; quello che si può (non «si deve») evitare è il pensare alla morte con le categorie della vita (e anche questa è una scelta, non una necessità).
La sospensione del giudizio esterno, da parte dei non coinvolti "carnalmente" al suicidio, è ovviamente un pallido sfondo, superfluo come lo è ogni giudizio di fronte alla "interruzione perenne" della vita, delle cure che la mantengono o della volontà di restare vivi (sia per malattia o altro).
Aveva già lasciato andare le figlie nel mondo, ma non voleva lasciar andare il marito nell'al di là? Aveva optato per la plausibile sofferenza minore, fra l'esser vedova e il non-esser-più? Aveva i suoi principi morali ad accompagnarla fieramente nella scelta e nel valicare la frontiera? Narrazioni, trame, interpretazioni, ricerca di un senso in una scelta altrui, di un valore simbolico, magari di un eroe e uno o più antagonisti, di una "morale della favola" in cui lieto fine (se c'è) s'intreccia con il funerale del protagonista, etc. fra voyerismo mediatico e ideologizzazione, si direbbe che nemmeno il suicidio compiuto può essere una questione strettamente personale... e non direi che "in fondo non lo è mai stato", dai tempi (verosimili) di Socrate o da quelli narrativi di Antigone, Giulietta e Romeo, etc, perché in questo caso, nonostante l'indubbia tonalità romantica (nel senso letterario del termine), il narratore ha raccontato solo l'epilogo della loro storia, che staccato dai "capitoli" precedenti risulta un mero fatto di cronaca da esporre a velleitari giudici (dire "informare" sarebbe piuttosto fuori luogo), a cui pare mai abbia fatto appello chi, volendo, avrebbe potuto attirarne molti, da "vivo aspirante-morto". Oltre a voler morire, qualcuno ha anche l'occasione di poter scegliere se e quanto baccano fare prima di andarsene, e qui mi sembra (ma non ho approfondito) che l'intenzione dei protagonisti lasci poco all'interpretazione. Fare del loro caso uno spunto di riflessione forumistica è cogliere la palla al balzo, e i rimbalzi sono certamente interessanti e persino filosofici; la mia perplessità è infatti piuttosto il considerare come "notizia" un evento tale che, nelle intenzioni dei protagonisti, forse non intendeva diventare tale (e qui sicuramente pecco di ingenuità nel considerare il rapporto fra l'esser "mediaticamente schivo" del/i protagonista/i e l'esser "deontologicamente impiccione" del narratore, o la scelta di "elaborazione in buona fede" fatta dalla figlia o da chi ha informato la stampa).

A mio giudizio direi che, alla possibile (non necessaria) sospensione del giudizio dei vivi, ben corrisponde la discrezione nel volontario spegnersi dei morituri in questione. Il problema di assegnare un senso (a momenti di vita vissuta, a storie o scelte di vita, alla vita in toto) credo riguardi chi è ancora al di qua, mentre al cospetto del desiderio di passare al di là, per chi lo contempla "sulla soglia", suppongo (e generalizzo impropriamente) tutti i sensi "narrativi" si sbriciolino, venendo meno la condizione di possibilità di porne la questione... sebbene per i vivi, desideranti restare nel loro al di qua (anche se non si fanno "autenticamente" carico di tale scelta ogni mattina), anche questa può suonare come una assegnazione di senso, o di dissenso.
Di fronte alla scelta solipsistica del suicidio (solipsismo esistenzial-filosofico, non quello ideal-caricaturale dell'«sono l'unico ente dell'universo»), non vedo nemmeno come sensata, almeno per i miei parametri, la questione del "rispettare le scelte altrui", dove "rispettare" significa qualcosa di misto fra il condividere, il non-criticare e il disinteresse, oppure della "vita come bene prezioso", affermazione quasi sarcastica se detta a un aspirante suicida (e a cui corrisponderebbe la "morte come male", in una visione al contempo fantasiosa ed istintiva dell'esistenza, in cui "il bene" trascende l'esistenza, come raccontano in coro schiere di vivi, anziché restare immanente ad essa).


Chiaramente se la morte in gioco non è la propria, i parametri cambiano nettamente e, non a caso, scende anche in campo il diritto a regolamentare i rapporti fra i cittadini (il diritto regolamenta anche eutanasia e casi simili, ma non mi pare questo il mood del topic). Se invece sto per avvelenarmi ed arriva qualcuno a "salvarmi", ci vedo più una sua palese incomprensione del mio gesto o/e autoritaria ingerenza nella mia scelta individuale, piuttosto che un atto di eroismo o benevolenza (come sarebbe invece salvare chi non vuole morire). Giustificare il proprio intervento pensando che, se mi sto per avvelenare, non so quello che faccio e ho bisogno di essere aiutato, è forse più una questione di proiezione (da parte di chi alla sua vita ci tiene) e pregiudizio culturale (la vita come "bene", dono di un dio, etc.). Anche appellarsi all'istinto di sopravvivenza, non terrebbe presente che tutta la nostra "evoluzione", tutta la nostra "intelligenza", tutte le nostre "culture", si fondano perlopiù sul non ascoltare, o quantomeno addomesticare, gli istinti; se a quello di sopravvivenza concediamo la deroga, condannando moralmente la "eterodossia del seppuku", è per me solo una contingenza storico-culturale.


P.s.
Ciò non vuole essere un giudizio né sul tema in generale dell'eutanasia (che non è semplicemente un suicidio), né sul suicidio (che in quanto gesto individuale mal si presta a ragionate categorizzazioni da studio statistico), né sul taglio datogli da questo topic (proficuamente riflessivo), ma solo un commento "terra terra" strettamente sull'"evento di cronaca" che ha funto da spunto per la discussione.
#1248
Tematiche Filosofiche / Re:Viaggio su Platone.
06 Aprile 2020, 18:35:23 PM
La (pre)strutturazione linguistico-concettuale di un problema o di una ricerca, siano essi filosofici e/o scientifici, secondo me è sempre condizionante la valutazione delle ipotesi risolutive e persino dei presunti risultati ottenuti (fermo restando che tale prestrutturazione può essere intesa in modo dinamico, scritta a matita più che a penna indelebile).
Ad esempio, tematizzare «la coscienza» non può prescindere dal problema della sua identificazione: se non sappiamo esattamente cos'è, né dov'è, etc. significa evidentemente che siamo di fronte ad un'identità vaga e ancora da inquadrare; per cui prima di affrontare precipitosamente il "come funziona", sarebbe funzionale chiarire bene di cosa stiamo parlando, oscillando nella dialettica fra riscontri empirici e teorie esplicative.
Ciò che non viene quasi mai messo in discussione in questi casi (in filosofia accade spesso) è che tale sfocata identità sia effettivamente un "confuso assemblaggio" fra altre identità, meglio definibili e studiabili se non ammassate assieme in una sintesi troppo "trasversale".
Pensiamo a qualcuno che dica di voler studiare «la percezione»: sarebbe inevitabile fargli notare che esistono differenti organi di senso, con differenti funzionamenti, rivolti a differenti tipologie di input esterni, etc. per cui studiare scientificamente «la percezione» con approccio generalistico, non spiegherebbe all'atto pratico la sua effettiva funzionalità "polivalente", perché la percezione dell'orecchio non è quella del palato ed entrambe, pur afferendo al medesimo cervello, interessano zone differenti (suppongo), suscitano reazioni differenti, interagiscono con il corpo in modo differente, etc.
Con la coscienza, mi perdonino premi Nobel e simili, ho il sospetto, da totale profano in materia, che forse si stia commettendo la stessa leggerezza: la chiamiamo «coscienza» e la cerchiamo, a prescindere dai differenti orientamenti, tutti nello stesso posto (come laconicamente osservato da Ipazia), il che è certamente un indizio; tuttavia forse stiamo considerando come "una cosa", un insieme di differenti attività: alcune percettive, altre psicologiche, altre ancora emergenti, altre proprie del mindware (per usare una felice espressione di De Kerckhove, alludendo alla triangolazione metaforica con software e hardware). Così, nell'attesa che il mistero venga analiticamente chiarito, intanto ognuno la mette dove preferisce (chi nella materia, chi nella trascendenza, etc.) e ognuno ci vede quel che ci vuole vedere (chi una funzione, chi l'anima, etc.).

L'uomo (occidentale, soprattutto continentale) ha ancora indubbiamente fame di trascendenza, e ritrovarne una scintilla in una scienza che si occupa della "centrale di comando dell'uomo", il cervello, realizzerebbe il sogno proibito platonico di una "scienza del trascendente" su basi epistemologiche solidissime. Si tratta di valutare, come sempre, quanto l'interpretazione "aggiunge" al reale e quanto lo chiarifica. Non si tratta di ostracizzare alcune discipline dal potersi fregiare del futurista e promettente prefisso «neuro»: per me, ben venga che ci siano anche la neuroteologia e la neuromistica (dopo rapida ricerca ho trovato questo articolo in merito); non va però, a mio giudizio, sottovalutato il rischio, piuttosto datato, di trarre interpretazioni improprie da premesse avulse a certi contesti, ambiti di per se piuttosto rigorosi e meno metaforici di quanto forse vorrebbero alcune interpretazioni possibili.


P.s.
@Sariputra
Mi pare il tuo ultimo post sia copia/incollato dalle «Conclusioni» di questa versione dell'articolo sopra citato, sostituendo «l'esperienza umana del "Trascendente"» con «la natura dell'auto-coscienza» e facendo poche altre modifiche; sei dunque fra i dotti autori o... "tana libera tutti" dalla buona usanza di dichiarare le citazioni? Perdona la (inopportuna?) puntigliosità filologica.
#1249
Tematiche Filosofiche / Re:Il ruolo della filosofia
05 Aprile 2020, 12:32:05 PM
Citazione di: paul11 il 30 Marzo 2020, 18:23:36 PM
sai bene che non ci si è mossi più di tanto dal Tractaus di Wittgenstein nell'analitica.
Per quel che so, lo stesso Wittgenstein si è mosso abbastanza scrivendo in seguito le Ricerche filosofiche, ben differenti dal Tractatus (tanto quanto il formalismo lo è dal pragmatismo); gli altri autori si sono mossi ancor di più (filosofia della mente, epistemologia, scienze sociali, etc.).

Citazione di: paul11 il 30 Marzo 2020, 18:23:36 PM
E se le parole per lui e gli analitici devono  essere fondate sulla dimostrazione e giustificazione  di quel che vedono gli occhi e non la mente, ovvero nel dominio sensibile, lascio i S. Tommaso a cercarsi le piaghe mistiche esistenziali.
Non è solo questo ciò che propongono gli analitici; ad esempio, c'è tutta la storia dei carrelli e dei binari (trattata in altro topic) a dimostrarlo; o anche la logica deontica, per chi non ama gli esperimenti mentali ma vuole prescindere dall'empirico; cercando troverai che la filosofia analitica non è solo filosofia del linguaggio (il che non sarebbe comunque poco, a mio giudizio, essendo ogni filosofia, prima di tutto, linguaggio).
Oggi inizia a diffondersi anche la consulenza filosofica (Achenbach) per lenire le piaghe esistenziali.

Citazione di: paul11 il 30 Marzo 2020, 18:23:36 PM
Il principio fondante  è la verità incontrovertibile ed assoluta.
[...]
Il filosofo si trova a relazionare fra una verità assoluta di un principio che governa l'intero universo, lo sente come reale, ma la mente non è in grado di svelarla, ma di avvicinarsi.
C'è una verità quindi inconfutabile e c'è un uomo interpretante che ha necessità di leggerla ,ma senza possibilità di svelarla.


Non è solo un fatto esistenziale, perché senza la verità reale, non esiste la regola e l'ordine per poter definire le virtù morali che a loro volta dovrebbero governare l'organizzazione umana, la sua stessa vita.
[...]
La verità filosofica è molto di più di una definizione da wikipedia per tutte le babele linguistiche.
E' l'essere stesso.
Passi che illustrano limpidamente la differenza paradigmatica e logica fra continentali ed analitici: l'appello a un "sentire" l'assoluto nel reale, il compito titanico di una filosofia bifronte in quanto metà fisica e metà trascendente, l'esigenza di un fondamento perenne che produce una certa circolarità (e non solo ermeneutica), l'appello all'ontologia della verità, etc.
D'altronde, essendo proprio abitanti di Babele, alcuni credono di saper parlare la "vera" lingua (la loro), altri, con velleità meno zetetiche, preferiscono fare solo gli interpreti (in tutti i sensi); è noto che la verità, come la fede, rende forti, mentre l'interpretazione rende deboli (o è forse il contrario? Questione, appunto, di interpretazioni).

Sulla verità segnalo anche un altro saggio della D'Agostini, piacevolmente divulgativo, in cui la coniuga con l'eristica e una "pedagogia aletico-democratica":
https://pdfs.semanticscholar.org/e9f3/b7632c745e87901404d61a1392bab31c5abc.pdf
Per come la interpreto (viziato dalla mie tendenze), si potrebbe partire da queste premesse per ammiccare, più che al funzionalismo dell'adaeguatio, al finzionalismo della «filosofia del come se» (Vaihinger).


P.s.
Nota sull'adaequatio: nella Summa Teologica, il passo successivo da cui è tratto l'aforisma (Tommaso lo attribuisce a Isacco Israeli) è forse meno realista di quanto sia stata strumentalizzata la citazione (sostituendo a Dio la psiche o la mente) e chiama in causa il concetto di «misura» (Protagora sorride nella tomba):
«D'altra parte una cosa non si dice vera se non in quanto è adeguata all'intelletto, per cui il vero si trova nelle cose in secondo luogo, in primo luogo invece nell'intelletto. Ma bisogna sapere che la cosa si rapporta in un modo all'intelletto pratico e in altro a quello speculativo; l'intelletto pratico infatti causa le cose, per cui è la misura delle cose che mediante esso vengono fatte, mentre l'intelletto speculativo, dato che attinge dalle cose, è in certo qual modo mosso dalle cose stesse, e cosi le cose lo misurano; per cui appare chiaro che le cose naturali, da cui il nostro intelletto riceve la scienza, misurano il nostro intelletto, come è detto nella Metafisica, ma sono misurate dall'intelletto divino, nel quale tutte le cose si trovano come tutti gli artefatti nella mente dell'artefice: cosi dunque l'intelletto divino è misurante non misurato, la cosa naturale invece misurante e misurata, il nostro intelletto infine misurato e non misurante le cose naturali, ma [misurante] soltanto quelle artif‌iciali.» (S. Tommaso D'Aquino, Le Questioni disputate, vol. 1).
#1250
Tematiche Filosofiche / Re:Il pensiero
01 Aprile 2020, 12:54:31 PM
Citazione di: Lou il 01 Aprile 2020, 11:09:20 AM
Per "pensiero pensante" intendo l' atto dinamico distinto dal "pensiero calcolante"e dal "pensiero poetante". Ora figura retorica, al pari di scrittura scrivente, a meno di non essere neopositivisti spinti, non equivale a non-senso, ma è cogliere l'aspetto esistenziale/speculativa dell'atto.
Inevitabile concordare sul fatto che la figura retorica non sia un non-senso, anzi, spesso è ciò che aiuta il linguaggio a "lanciare il cuore oltre l'ostacolo" (ovvero i limiti del linguaggio stesso).
Tuttavia, come in questo caso, talvolta il senso della figura retorica rischia di essere caleidoscopico e ambiguo (o «un'assurdità della ragione» come dice Hobbes nel Leviatano parlando della metafora): distinguere fra pensiero "pensante" e pensiero "calcolante" o "poetante", potrebbe essere letto come se questi fossero tre tipi o categorie di pensiero; ma il "pensiero pensante" è un truismo: "pensiero non-pensante" sarebbe infatti a sua volta solo un'altra figura retorica, probabilmente allusiva alla scarsa qualità di un pensiero, che tuttavia, in quanto tale, non è comunque un non-pensiero (per quanto giudicato scadente).
Detto altrimenti: se, parafrasando, "il pensiero calcolante calcola" e "il pensiero poetante poeta", quanto è ridondante affermare che il "pensiero pensante pensa"? I primi due pensieri si connotano per l'oggetto del pensare (il pensato), ovvero calcoli o poesie, ma il terzo è lapalissianamente un pensiero che pensa pensieri (come dire uno "scrivere scrivente" o uno "scrivere che scrive scritture"; mentre la differenza fra "scrivere calcolante" e "scrivere poetante" non è affatto superflua o apparente).

Se con "pensiero pensante" intendiamo l'«atto dinamico»(cit.), perché non chiamarlo semplicemente «pensare»?
Ammetto sia una grigia domanda da neopositivismo o da filosofia analitica, ma forse può evitare che si inneschino (falsi) problemi come quello, scherzando ma non troppo, del "pensiero che si pensa pensosamente pensante, pensando anche l'impensabile perché nel momento in cui lo pensa viene pensato, in un pensiero pensabile che ha dunque un pensato seppur come assenza di pensiero che... etc." assecondando quel dedalo di questioni "importanti" che talvolta spinge la filosofia a sconfinare nella letteratura (come la pseudo-ontologia dell'indovinello dell'eunuco di Platone), prendendo il largo, a bordo di una figura retorica, dalle problematiche connesse al reale (e così una licenza poetica diventa una "licenziosa licenza di uccidere" la riflessione sul reale).
#1251
Tematiche Filosofiche / Re:Il pensiero
31 Marzo 2020, 20:42:18 PM
Citazione di: Ipazia il 31 Marzo 2020, 18:21:31 PM
Questa considerazione mette in serio pericolo il principio d'identità, architrave del pensiero logico e metafisico. L'uguaglianza logica presuppone una differenza ontologica. Ma ci vorrebbe un [...] phil per dipanare questo garbuglio.
Chiamato in causa, provo a dire la mia; una volta distinti: il «pensiero» come capacità di pensare, il «pensare» come attività, il «pensante» come il soggetto che attua tale attività, il «pensato» come contenuto/rappresentazione/"oggetto" del pensare (quindi non come oggetto empirico), credo non ci siano troppe ambiguità rimanenti.
Affermare che «un pensiero pensa o non pensa se stesso» diventa allora un ingannevole falso problema, perché confonde il pensiero come attività e il pensiero come ciò che viene pensato. Se usiamo le distinzioni suddette, mettendo da parte il linguaggio comune e le sue confusioni, non ha senso dire che il «pensiero pensa» perché chi pensa è il pensante, non la sua capacità di pensare (che è qualcosa, ma non la sola, che viene "usata" per pensare; è un po' come dire «la penna scrive»: il senso è chiarissimo e comunemente accettato, ma in realtà ciò che scrive è lo scrivente, la penna di per sé non scrive niente).

Solitamente l'uguaglianza logica si applica ad un'uguaglianza ontologica (o almeno concettuale): nel dire A = A, non ho due A (A1 e A2), ma solo un'unica A uguale a se stessa e ripetuta due volte (come dire Ipazia = Ipazia). Nella sua banale evidenza (consigliata da Aristotele come fondamento della logica), ciò circoscrive qualunque identità rendendola predicabile; ne può quindi conseguire A B (o altro) che presuppone la tautologica identità A=A e B=B, altrimenti A e B non sarebbero identificabili (sulle modalità di tale identificazione si innescano di certo alcuni problemi, che tuttavia non è il caso di squadernare qui ed ora).


Citazione di: Lou il 31 Marzo 2020, 18:42:49 PM
Pensa a una mela. la mela è il pensato di un pensiero pensante. Pensiero pensante che non sarebbe tale senza pensato.
Il pensiero come attività, quindi il pensare, è sempre rivolta (consciamente, inconsciamente, etc.) a qualcosa-pensato da qualcuno-pensante. Se penso una mela, siamo: io-pensante, la mela-pensata, l'attività-pensare; il pensiero, come capacità di pensare, è una condizione necessaria alla sussistenza di tale triade così connotata (per la gioia dei trascendentalisti, a cui risparmio le solite "decostruzioni"). Il «pensiero della mela» sarebbe un'espressione vaga che può stare per «il pensare(attività) una mela» o «la mela in quanto pensato/a». «Pensiero pensante» è come «scrittura scrivente», una figura retorica; chi pensa è l'uomo-pensante grazie alla facoltà del pensiero.


Citazione di: Jacopus il 31 Marzo 2020, 19:05:20 PM
In realtà è ancora più complesso. Quando penso ad una mela penso a tutti i modelli di mela e a tutti i ricordi, esperienze che ho avuto con la mela. Ogni pensiero coinvolge la dimensione della memoria esperenziale ed anche quello del pensiero degli altri. Non esiste mai un pensiero singolo e autonomo.
Non posso pensare la "melinità" (l'esser-mela di ogni mela, o la forma della mela, direbbe il solito Aristotele), ma solo ad una singola mela determinata (appunto, A = A). Provaci: pensa una mela... di che colore è? Grande o piccola? Con o senza foglia annessa? Se non sbaglio, puoi solo pensare una mela alla volta, in una catena (o ramo) di "mele pensate" (almeno consciamente, i calcoli del "processore inconscio-mnemonico-mentale" ci sono ma restano dietro le quinte).
Concordo che i pensieri siano un flusso (à la Joyce), per cui dire che un pensiero è appena finito e ne inizia un'altro è una questione meno pacifica di quanto sembri (e qui rientra dalla finestra la tematica dell'identificazione logica, ancor prima che ontologica). Solitamente si usa distinguerli in base al pensato («prima pensavo alla lista delle provviste, ora sto pensando a cosa cucinare»), ma stiamo già ritornando alla vaghezza del comun parlare/pensare...


Citazione di: Ipazia il 31 Marzo 2020, 19:37:10 PM
un pensiero mai pensato, come può essere il coronavirus al primo ricercatore che pensa: questo non si è mai visto prima d'ora ?
Nel dire ciò, il ricercatore lo identifica («questo»), "staccandolo" dal "panorama" in cui lo vede-percepisce (che non è pensare...). Il pensiero non è solo ricordo, può essere anche creativo (e allora la chiamiamo «immaginazione»?): se ti chiedo di pensare ad una giraffa con la livrea di una zebra, ce la fai sicuramente, ma dubito tu l'abbia già pensata (e tantomeno vista) prima.
#1252
Tematiche Filosofiche / Re:Il ruolo della filosofia
30 Marzo 2020, 13:00:11 PM
Citazione di: paul11 il 30 Marzo 2020, 00:45:19 AM
La scuola analitica ha un pregiudizio di fondo,che la metafisica sia in fondo fantasia e perdita di tempo. Di fatto e non ci vuole un genio a capire, sono incapaci di risposte filosofiche importanti. E a differenza loro, li ho studiati quanto la metafisica, quindi conosco i limiti e pregi di entrambi.
Eppure anche l'identificazione stessa di (eventuali) «risposte filosofiche importanti» dipende da quale dei due (o altri) approcci si utilizza: ciò che è "risposta" per l'uno magari non lo è per l'altro, ciò che è "importante" per l'uno forse non lo è per l'altro, etc.
Un sicuro valore filosofico di tale bipolarismo è la comprensione di entrambi (nel doppio senso del genitivo); lo schierarsi da una parte o dall'altra, prima che diventino ulteriormente anacronistiche, per me non è attività filosofica, piuttosto una questione di "empatia biografico-psicologico-culturale".
Certamente la filosofia è chiamata ad essere anche prassi (e non solo di comprensione), nondimeno l'aporia filosofica per eccellenza è che valutare un paradigma in base alle sue performance, alle "risposte importanti" fornite (con tutta l'ambiguità di tale "metodo") richiede comunque l'uso di un (meta)paradigma valutativo (e così via... suggerisce Sesto Empirico).

Considera le varie teorie sulla verità1 (tema che scorrazza selvaggio anche qui sul forum): corrispondentista, coerentista, pragmatista, deflazionista, scetticista, misticista, etc. il sofista di turno potrebbe porre la meta-domanda: quali di queste teorie della verità è vera? Così chiedendo dimostrerebbe di non aver compreso che per alcune di esse il concetto di verità non è applicabile a una teoria; per cui da tale domandare trapela già che il domandante non appartiene ad alcuni di quegli approcci (oppure non li ha capiti, o vuole faziosamente escluderli dal discorso).
Ogni interpretare e domandare filosofico non è mai totalmente neutro e super partes (circolo ermeneutico docet); tuttavia tentare di comprendere, meno viziosamente possibile, le differenti proposte in gioco, è secondo me un'attività filosofica che può essere decisamente formativa (la eventuale conseguente attuazione in prassi presenterà poi altre problematiche).


1Può essere curioso notare come la voce «verità» sia trattata differentemente nella wikipedia italiana e in quella in inglese (qui tradotta in italiano, con qualche "sgrammaticatura" da sorvolare).
Una vistosa asimmetria fra le due wiki la si può osservare anche fra la voce «metafisica» in italiano e quella in inglese che, a differenza dell'altra, spazia sino ad oriente (che sarebbe il terzo polo filosofico, oltre ad analitici e continentali; sicuramente Kobayashi apprezza, ma non divaghiamo...). Non intendo far assurgere un repertorio generalistico e open source a testo sacro dello scibile umano (i vocabolari settoriali sono sempre differenti da quelli generici), ma potrebbe risultare a suo modo una "cartina al tornasole" di alcune spontanee impostazioni culturali.
#1253
Citazione di: Ipazia il 28 Marzo 2020, 19:47:45 PM
Vedo che il passaggio dalla metafisica dell'Essere (assoluto) a quella dell'essere (reale) ti resta ostico.
Come anticipato, la penso "all'antica" ritenendo che in tale passaggio si lasci alle spalle la metafisica, nel momento in cui la filosofia «dell'essere (reale)» può essere piuttosto ontologia («ontologia ermeneutica» aggiunge, come hai segnalato, l'esteta Givone, e qui concordo sicuramente con lui). Anche se, detto fra noi amatoriali, secondo me dell'essere reale ormai si occupa a ragione la scienza, quindi "esodata" l'ontologia non resta che l'ermeneutica (e, un po' defilata, l'estetica) con il problema del senso, inteso come astratto (sebbene, per me, ciò non significhi «metafisico»).

Premessa questa mia personale preferenza (ricordo: espressa sin dall'inizio come «nota linguistico-concettuale», non come ciò che la metafisica deve essere oppure è), non osteggio affatto l'uso di «metafisica» come sinonimo di «filosofia», anche perché suppongo che in futuro sarà una sinonimia sempre più consolidata (almeno nei forum) e quindi, una volta concordato l'uso popolar-contemporaneo di «metafisica=filosofia», ben venga, come accennavo, anche la "metafisica di youtube", la "metafisica delle ferie" (partendo dall'otium, etc.), la "metafisica del cyborg" (partendo dal "turco scacchista", etc.), etc.
Sono infatti sinceramente favorevole all'applicazione di una riflessione filosofica anche a temi meno aulici dell'essere e più contemporanei o addirittura "popsofici": non so se arriverei a comprare «la filosofia del dr. House» o «i Simpson e la filosofia» oppure seguire un corso accademico su Homer, tuttavia non mi sento di escluderlo a priori (ed eventualmente non mi aspetterei certo che venga usata «metafisica» come io la intendo; spesso un buon confronto filosofico nasce proprio dalla riflessione sui differenti vocabolari).
#1254
Citazione di: Ipazia il 28 Marzo 2020, 17:54:51 PM
Citazione di: Phil il 27 Marzo 2020, 21:28:10 PM
...Ebbene, sembra  davvero esserci, a mio avviso, un qualche principio metafisico, un qualche archetipo nell'inconscio collettivo che va oltre l'evidenza fisica e razionale del fenomeno.

Sì, la pensavano così anche gli antichi anche se non usavano concetti come archetipo e inconscio collettivo.
Ti segnalo un lapsus calami: il testo citato non è farina del mio sacco, ma di quello dell'utente and1972rea.

Citazione di: Ipazia il 28 Marzo 2020, 17:54:51 PM
Pertanto il richiamo del quartetto citato da phil alle prodigiose armi della competenza e neutralità scientifica cade nel vuoto metafisico delle bare (perchè ?), lasciando spazio alle riflessioni che in questa discussione hanno luogo.
Temo qui ci sia solo un refuso "filologico": non ricordo di aver fatto appello alla «competenza e alla neutralità scientifica»(cit.) relativamente a un quartetto (il quartetto che mi viene in mente è quello di coloro che trovano inopportuna l'espressione «metafisica», quartetto che ha nondimeno fra i suoi componenti approcci palesemente differenti).

Per ora, come osservato da qualcuno altrove, la "metafisica del coronavirus" è sicuramente quella della piazze vuote come nella visione di De Chirico, esponente, manco a dirlo, della pittura metafisica.


P.s.
Ti misi in guardia dal sottotitolo perché non ti avrei immaginata a tuo agio nel viaggio storico che corre sul binario colpa/destino, binario decisamente metafisico anche per i miei parametri classicheggianti, ma che credevo piuttosto estraneo alla tua prospettiva e a quella con cui hai inaugurato il topic. Comunque, grazie per le citazioni da Givone e buon proseguimento di lettura.


P.p.s.
@altamarea
Piacevolmente a tema... in attesa che qualcuno svisceri anche la "metafisica di youtube" (seppur in assenza di possibile excursus storico-letterario).
#1255
Citazione di: and1972rea il 26 Marzo 2020, 20:46:02 PM
È interessante notare come il fenomeno fisico a cui stiamo assistendo coinvolga globalmente e quasi sincronicamente l'intera specie umana, che fino ad ora , né  guerre, né  carestie riuscirono a colpire in modo così assoluto e universale; il terrore che serpeggia fra le persone , quindi, sembra andare oltre il limite fisico di una pandemia , la quale si limiterebbe di per sé a coinvolgere una parte relativamente ridotta dell'intera popolazione mondiale . Pensate che la sola probabilità di essere colpiti da una grave neoplasia durante il corso della nostra vita  rimane molto più elevata di quella di essere infettati sintomatologicamente da questo morbo nel giro dei prossimi mesi, e la stessa mortalità per cancro interessa numeri più grandi per fasce della popolazione di gran lunga più estese; eppure , questa evidenza fenomenica , questa limitazione logica e fisica della virulenza del morbo non è bastata a farci accettare stoicamente e razionalmente il pericolo. Le rivendite di tabacchi rimangono aperte e disciplinate per legge , con gli avvertimenti divenuti vani e le atroci immagini sui loro prodotti ormai indecifrabili, mentre una colonna di mezzi militari trasformati in carri funebri sparge enorme quanto dovuto sgomento. Ebbene, sembra  davvero esserci, a mio avviso, un qualche principio metafisico, un qualche archetipo nell'inconscio collettivo che va oltre l'evidenza fisica e razionale del fenomeno.
La narrativa del virus, il "senso" dell'avversione emotiva, oltre che razionale, suscitata si basa probabilmente sui dettagli che lo distinguono da neoplasie, cancri, incidenti d'auto, e altre cause di morte più consuete e diffuse. Altre malattie o "fatalità" individuali (cancro, infarto, etc.), non sono contagiose come il virus, capitano ma non si passano, non c'è un mio simile "colpevole" del mio ammalarmi. Altri rischi di morte, connessi al fumare ad esempio, sono collegati ad attività piacevoli (dopaminiche, direbbe qualcuno), mentre altre sono spesso necessarie (come il guidare l'auto), a differenza dell'infezione virale che non è "connaturata" ad attività di per sé piacevoli o necessarie, nel senso che fare la spesa o andare a correre non comportano solitamente il contagio da parte di un virus; la novità (che in quanto tale ha sempre ripercussioni psicologiche) è che il virus ha infettato anche tali pratiche di routine, già caratterizzate da altri tipi di rischio, a cui questo ora si aggiunge. Un'altra differenza è sicuramente la rapidità dei decessi: se non ho sbagliato i conti, ci sono stati 5729 morti in Italia negli ultimi 8 giorni, una media di 716 al giorno; considerando che l'anno scorso morivano in media 1772 persone al giorno, significa che il virus, negli ultimi 8 giorni, ha aumentato la mortalità nazionale media del 40%, un dato che forse si addice a un bollettino di guerra.

La possibilità di una morte data da un fattore che può trasmettersi, che non fa (di solito) parte delle nostre abitudini e scelte di vita, che ha ricadute economiche e sociopolitiche inquietanti e che fa impennare la mortalità, rappresenta sicuramente un evento a cui non ci si può abituare in fretta, a differenza di quanto capita con la consapevolezza che fumare fa male, o che siamo tutti potenziali pazienti oncologici o vittime della strada, etc. consapevolezze con cui conviviamo quasi dalla nascita (diciamo dalle prime prediche che i genitori ci fanno al riguardo) e per le quali molti sviluppano una funzionale "immunità psicologica".

Se anche, come dice viator, «nell'attuale situazione [...] non c'è nulla di oggettivamente sconvolgente»(cit.), non si può non considerare che «pestilenze, lutti, tragedie individuali, guerre, impoverimenti, declini di civiltà» (cit. sempre da viator) sono di quanto più soggettivamente sconvolgente possa capitare ad un singolo o ad una società, che quindi reagiscono di conseguenza.
#1256
Non fraintendermi: non ho mai ritenuto che in ambito accademico ci fosse una unica ed esclusiva concezione di metafisica; d'altronde ricordo sempre volentieri la diatriba novecentesca fra metafisici e postmetafisici, proprio perché c'è un dibattito anche accademico in merito e in corso.
Ho precisato che la ricerca dei motori di ricerca online (mi si perdoni il gioco di parole) non è da confondere, per attendibilità ermeneutica, con la ricerca filosofica accademica, che è quella che probabilmente Givone fa.

Se anche fosse l'unico ad aver accostato «metafisica» a «malattia», non significa che non possa essere uno spunto interessante, soprattutto dopo che ha dato una sua definizione di «metafisica» (con la quale, nel mio piccolo, potrei anche dissentire, senza voler nemmeno giocare a citare altri autori che invece la pensano come me; la faccio breve: nel mio caso, ubi maior...).

«Passaggio, dunque, alla metafisica. Dove per metafisica si intenda, né piú né meno, che l'ontologia ermeneutica» (cit.).

Correggimi se sbaglio, ma questa definizione sembra sconfessare proprio la presunta sinonimia fra filosofia e metafisica (come cercavo di spiegare in precedenza).

Il resto pare confermare la mia perplessità
Citazione di: Phil il 27 Marzo 2020, 15:25:35 PM
La peste, oltre ad essere intesa anche metaforicamente ("peste" come cattivo uso virale-contagioso di un linguaggio tanto condizionante quanto superficiale e fallace; piuttosto a tema direi) e come pre-testo per riflessioni non strettamente "pestilenziali" (uomo contemporaneo, etc.), viene connessa a temi metafisici e religiosi (colpa, destino, Dio, male, morte, senso dell'essere, etc.), che restano certamente applicabili anche al Coronavirus solo se si è dentro una certa prospettiva filosofica sull'Essere (e non sono certo sia quella che ha innescato il topic).
tuttavia, solo dopo aver letto il libro saprai darmi sicuramente spunti esplicativi in merito.

Non intendere che stia dicendo tu abbia sbagliato ad intitolare così il topic, ci mancherebbe: ho solo preso spunto dal titolo per esporre una mia «nota linguistico-concettuale»(autocit.), ovviamente più o meno condivisibile e che non vuole certo ricadere nell'errore di affermare come debba essere intesa la metafisica. Sono infatti partito dalle due visioni possibili che coesistono nel panorama odierno, schierandomi con la visione più classica, per filologia, e non (come ben sai) per approccio e contenuti.
Buona lettura.
#1257
«È la metafisica a dirci che la peste non ha nessun senso e questa insensatezza è il senso dell'essere» (cit. Givone). Partendo da questo assunto, la "metafisica della peste" non può esserci: se la metafisica ci spiega che la peste non ha senso, e in ciò rimanda al (assenza di) senso dell'essere, allora la peste è solo un epifenomeno di un discorso ontologico, e di/su tale epifenomeno non si dà metafisica, se essa stessa vi vede un mero riflesso contingente dell'insensatezza dell'essere (che è invece autentico tema metafisico).
E il titolo del libro? Resta sempre valido l'ammonimento a non giudicare un libro dalla copertina... o dal titolo ad effetto, aggiungerei. Anche perché il sottotitolo è, non a caso, «colpa e destino».
La peste, oltre ad essere intesa anche metaforicamente ("peste" come cattivo uso virale-contagioso di un linguaggio tanto condizionante quanto superficiale e fallace; piuttosto a tema direi) e come pre-testo per riflessioni non strettamente "pestilenziali" (uomo contemporaneo, etc.), viene connessa a temi metafisici e religiosi (colpa, destino, Dio, male, morte, senso dell'essere, etc.), che restano certamente applicabili anche al Coronavirus solo se si è dentro una certa prospettiva filosofica sull'Essere (e non sono certo sia quella che ha innescato il topic).

Non so se Givone intenda, nel suo pensiero complessivo, la metafisica come sinonimo di filosofia; indubbiamente, se così fosse non sarebbe l'unico; resterebbe pur sempre da vedere, come accennavo sopra, in che senso i due termini coincidano (giacché le possibilità sono multiple).


P.s.
Se ti interessa approfondire, qui ci sono gli appunti del corso di estetica pertinente al libro e qui un video di una sua conferenza sul tema (Givone inizia a parlare al minuto 19:13).
#1258
Citazione di: Ipazia il 27 Marzo 2020, 10:07:51 AM
Sarà pure come dice phil, ma forse la metafisica preferisce la sua reincarnazione modernista alla inumazione in un sarcofago alla portata di pochi autoinvestitisi credenti che ne custodiscono la salma.
Se antropomorfizziamo la metafisica, bisognerebbe comunque chiedere alla "signora" se davvero "preferisca" la sua reincarnazione (post)modernista; considerando ciò che essa è stata ed ha detto-scritto da Aristotele (se non prima) ad oggi, non scommetterei che preferirebbe tale reincarnazione ad un dignitoso eterno riposo (fermo restando che è di fatto ancora ben viva, come dimostrato da Freedom). Tutta la disputa fra metafisici e postmetafisici si basa su questa evidenza, su una metafisica che "non vuole" reincarnarsi nel suo aberrante zombie postmoderno, nel vago sinonimo di ciò di cui essa è stata affilata punta di diamante.

Se non i «pochi autoinvestitisi credenti»(cit.) della metafisica, sono allora i pensatori nonmetafisici (o antimetafisici) che dovrebbero "spiegare" alla metafisica cosa essa "dovrebbe" significare oggi?
Certamente possibile, ma si tratta di un gesto che, da un lato, tradisce il fascino suadente che il termine tuttora emana (a causa della sua aura storico-retorica?), per cui ostinatamente non lo si vuole abbandonare; dall'altro lato, forza la metafisica ad essere ciò che essa non è mai stata, se non per "un attimo" (storicamente parlando) quando il buon Andronico ne fece una questione di "posto sullo scaffale" (metaforicamente parlando). Trascurare tutto ciò che è avvenuto dopo tale "posizionamento", significa trascurare tutta la storia della filosofia occidentale, come se quella parola non si fosse, nelle puntate successive, fatta carico di un significato filosofico (diacronico, direbbe De Saussure) che definire «epocale» sarebbe riduttivo.

Chiaramente nessuna legge linguistica ci vieta di affermare che «filosofia» e «metafisica» siano sinonimi, anche perché molti pensatori metafisici potrebbero lietamente concordare (v. questo topic); il punto è che questa assimilazione assume un significato differente a seconda che a proporla sia un pensatore metafisico (che quindi fonda la filosofia sulla sua istanza metafisica classica) o un postmetafisico (che "abbassa" la metafisica a sinonimo di filosofia in quanto riflessione che non si occupa di leggi fisiche); nei due casi la "direzione" del senso e del fondamento è inversa (discensionale/ascensionale) quindi ciò che ne consegue non possono essere chiarezza e rigore discorsivi.

Di fronte a tutte queste ambiguità di significato (nella quadratura semantica fra metafisici, postmetafisici, «filosofia» e «metafisica»), non vale forse la pena evitare di reincarnare parole stracariche di storia, deformandone il senso, cercando di usare attentamente le definizioni che la nostra cultura ci insegna o, eventualmente, proporre dei neologismi?
Secondo me, quando aggiornare una parola comporta troppa confusione (come mi sembra questo forum testimoni), forse è il caso di non aggiornarla (nel nostro piccolo). Il tipico esempio è la parola «dio»: se oggi intendessimo con tale termine il "big bang" o un buco nero che ci sta risucchiando o una presunta legge fisica omniesplicativa, staremmo attualizzando pregevolmente tale parola, o solo rischiando di produrre confusione per omonimia, mandando in cortocircuito semantico un termine di suo già abbastanza "relativo"? Basterebbe giustificarci dicendo che in fondo i panteisti sono sempre esistiti? L'espressione mediatica e metaforica «particella di dio» ha più valore culturale e discorsivo di millenni di religioni e milioni di attuali credenti? Domande che non hanno una risposta univoca... e il perché non credo vada spiegato.


P.s.
Citazione di: Ipazia il 27 Marzo 2020, 10:07:51 AM
Anche la metafisica ha mutato pelle: basta accostare "metafisica" ad una preposizione genitiva su un motore di ricerca per avere un florilegio di risultati che le permettono di librarsi in ogni angolo dello scibile.
Non sottovaluterei la differenza fra i motori di ricerca online e gli istituti di ricerca accademici (direi che una «ricerca» non vale l'altra): se sono i primi ad essere il criterio egemonico per un forum, come conforme alla nostra epoca (l'autorità è la rete, versione talebana del debolismo postmoderno), ciò non significa che i secondi abbiano smesso di distillare e/o custodire uva buona, che talvolta ai volponi telematici può risultare "acerba" (direbbe Esopo).

P.p.s.
Forse avrei dovuto postarlo nel nuovo topic aperto da bobmax, ma mi ha dato scacco matto con l'indicazione finale nel suo post di apertura.
#1259
@Ipazia
Qualche disambiguazione (e perdona la puntigliosità):
Citazione di: Ipazia il 26 Marzo 2020, 17:04:58 PM
Ormai i due concetti si sovrappongono ed essendo ogni fisica fonte di riflessioni meta-fisiche, di ciò si occupa la filosofia.
Ormai si sovrappongono fuori dall'ambito settoriale-disciplinare, che questo forum infatti non è; si tratta tuttavia di un'ingiustizia esegetica, prima che ermeneutica, che mi sembrava necessario segnalare e magari "contenere" (come già detto, sono di un'altra parrocchia, eppure non me la sento di "inquinare" l'identità e la portata storica del pensiero metafisico classico).

Citazione di: Ipazia il 26 Marzo 2020, 17:04:58 PM
Sul valore "prima" mi pare che ci sia poco da spartire con Aristotele, posto che ogni valore, comunque lo si intenda, si innesta sulla fisica e non viceversa. Semmai più lecita è la versione narrata sull'ordinamento delle opere di Aristotele, che pone la metafisica "dopo" la fisica. Il che è anche filogeneticamente più plausibile, senza scomodare classificazioni valoriali, quindi etiche.
Era Aristotele stesso a chiamarla «filosofia prima» (se non ricordo male), intendendo "prima" per valore rispetto alle altre filosofie e alle altre discipline (non era una mia reverenziale "valorizzazione" della metafisica).
Citazione di: Ipazia il 26 Marzo 2020, 17:04:58 PM
Se uno intende espungere il filosofico dal reale, relegandolo nell'archeologia iperuranica non ha che da dirlo. Nel vasto mondo della filosofia c'è posto anche per questa metafisica. Ma toccherà a qualcun altro indagarla per quello che è e non sa di essere.
La filosofia del reale, della scienza, del mondo della vita, delle domande esistenziali, degli orizzonti di senso, della politica, dell'arte, etc. è quanto di più attuale (e interessante) ci possa essere; suggerivo di chiamarla «filosofia», lasciando che «la metafisica» resti rispettabilmente «la metafisica» (come spesso ci ricordano alcuni utenti, che oltre ad aver ben chiara la distinzione, ne condividono il "progetto"). La cultura postmoderna spiccia ne svilisce la storia e l'anelito perché non ne condivide l'impostazione, ma piuttosto che farla diventare impropriamente sinonimo di «filosofia», credo sia più corretto smettere di usare tale parola o usarla solo quando è pertinente (salvaguardandola dall'«ognuno la definisce a modo suo», pratica ancor più goffa se attuata fra i "non addetti ai lavori"; non mi riferisco a nessuno in particolare).

Passando al secondo post:
- quando parlavo di «dialettica servo/padrone» mi riferivo al sol levante, dove è meno metafora di quanto dicano i termini (e credo che un sindacalista concorderebbe);
- sulla tua osservazione del "differenziale negativo della libertà" in Italia (almeno se non ho frainteso), resto piuttosto perplesso; tuttavia ammetto di non aver mai vissuto in Cina per "vedere l'effetto che fa" (oppure è una sconsolata sfida al ribasso, a chi ce l'ha più negativo?).


@Sariputra
Ai tempi della prima versione, ormai desueta come un incunabolo, non era obbligatorio averla già pronta (anche se caldamente consigliato) perché ne erano fornite le forze dell'ordine; ora non so se si sia passati all'obbligo di aver già pronto il lascia-passare... penso a chi ha una certa età, vive da solo e non sa cosa sia una stampante (e magari l'ultima volta che ha usato una penna era in verità un pennino con affianco un calamaio).
#1260
Concordo e riparto dalla domanda di Ipazia: nella dialettica servo/padrone, per il padrone non c'è nulla di più importante della vita (e salute) del servo, prerequisito fondamentale per abilitarne lo sfruttamento. Un'economia basata sulla quantità di lavoratori e sulla quantità del loro lavoro (più che sul margine di guadagno per singola vendita/export), non può permettersi che tale quantità venga decimata. Come insegnavano gli antichi, una schiavo che "vale", va frustrato ma non ucciso (o lasciato morire): è l'idea di fondo per cui lo sciopero della fame o lo schiavo che non teme la morte spaventano il padrone (soprattutto se il valore è, appunto, una mera questione di quantità di lavoratori/produzione).
Se invece l'economia è più frammentata, più "imprenditoriale" («sei l'imprenditore di te stesso», dicono gli imbonitori), più qualitativa che quantitativa, non essendoci troppi "schiavi" (checché se ne dica basandosi sui nostri abulici e metaforici parametri democratico-occidentali), la gestione dell'ingerenza del virus sull'economia risulta "spontaneamente" in un'esitazione decisionale maggiore, come sempre succede quando sono in tanti ad avere voce in capitolo e a sedersi al tavolo delle scelte e dei compromessi (o ad influenzarlo comunque a distanza). In una parola: democrazia; nel bene e nel male.
Questa "lentezza" è uno dei prezzi da pagare per una società complessa (nonostante il semplicismo degli "allenatori del lunedì" o dei profeti ingenui) in cui si considera la popolazione non solo capitale umano e in cui l'economia, con più attori e mediatori, grandi e piccoli, è di tipo differente da quella massiccia e massificata del sol levante (e non "del nostro avvenir", spero).

Ovviamente, in una situazione di emergenza sociale, che richiede coordinazione serrata fra direttive e loro esecuzione, fra emanazione norme e loro rispetto impeccabile, le pur preziose libertà di azione, di obiezione (e meno preziosa e lusinghiera, ma innegabilmente fattuale, quella di svicolamento in stile "io speriamo che che me la cavo"), oltre che un importante traguardo sociale e un valore etico, possono diventare un potenziale ostacolo fisico e sociale alla guarigione e al contenimento del contagio.
Forse ci si vorrebbe trasferire in Cina all'innesco di un virus per poi ritornare in Italia quando si tratta di lavorare o di farsi curare (o navigare sul web o molte altre attività), me temo che nemmeno con la doppia cittadinanza si potrebbe essere facilmente così "opportunisticamente zingari". Non resta che ammettere "banalmente" che ogni regime ha i suoi pro e contro, a seconda della situazione (come ben sanno i vecchi ferrovieri italiani... intendiamoci, lo dico per amor di battuta, senza nostalgie). Giudicare una forma e una classe politica dalla gestione dei casi di emergenza è sicuramente un test importante, ma per me non andrebbe comunque dimenticato com'è viverci anche nelle situazioni non emergenziali (con ciò non intendo affatto nascondere le carenze italiche, né in tempo di salute, né in tempo di malattia).