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Messaggi - Phil

#1291
Il paradosso citato mi ha ricordato il paradosso del bibliotecario, forse l'unico paradosso logico che non sia mero gioco di pensiero (come quello del sorite, del barbiere, del mentitore, etc.) ma che possa essere "realizzato" concretamente producendo uno stallo (o addirittura un autolicenziamento...).
#1292
Tematiche Filosofiche / Re:Sileno
29 Febbraio 2020, 23:43:04 PM
Citazione di: Ipazia il 29 Febbraio 2020, 22:01:46 PM
La tragedia del vivere mortale non è più tale se si supera la fase pietrificante della Medusa, cosa per cui già Epicuro aveva fornito la sua ricetta. L'oltreuomo prende pienamente possesso della sua condizione mortale senza restarne travolto [...] Prendere atto del destino mortale fino ad amarlo questa è la firma dell'oltreuomo; il progetto spirituale immanente, terreno (Erdgeist) su cui Nietzsche-Zarathustra spende la sua vita
Non so se l'oltreuomo sia pensato da Nietzsche (che conosco poco) come immune alla condizione umana mortale, ma finché è pur sempre uomo, difficile che non ne sia "travolto" o trascinato (...nolentem trahunt, direbbe Seneca); pensare ad una volontà di potenza che guardi con amore e voluttà anche il proprio esaurirsi è come pensare ad un Dioniso che guardi con amore e voluttà lo svuotarsi della sua giara di vino (e qui lascerei fuori i risvolti psicoanalitici, lacaniani, etc.). Si può fare buon viso a cattiva sorte, ma la "cattiveria" della sorte resta, così come una storia che termini con la morte del protagonista principale solitamente è una tragedia, anche se l'eroe dichiara di aver scelto la morte, di volerla (personalmente, per inciso, non penso affatto che la vita sia una tragedia, cerco solo di non uscire troppo dalle categorie del Sileno nietzschiano del topic).


P.s.
Credo che Nietzsche troverebbe nella tetra-ricetta epicurea un retrogusto troppo "apollineo": il (eu)daimon di Epicuro, lucido e ponderato, è troppo lontano da Dioniso, il piacere catastematico è troppo lontano dalla "verticalità epocale" dell'oltreuomo.
#1293
Tematiche Filosofiche / Re:Sileno
29 Febbraio 2020, 11:14:41 AM
Il contrasto fra il dio(nisiaco) e l'uomo-Mida è fondamento della tragedia: l'immortale contrasta con il mortale, chi sa contrasta con chi non sa (e insiste nel domandare), la vita naturale ed edonistica contrasta con la vita "culturale" da re e la sua avidità di beni materiali, etc. ne consegue che la figura dell'uomo, mortale, ignorante e avido (il "filisteo") non può che esser tragica. Forse anche l'oltre-uomo, colui che è "oltre" il coro, non potrebbe che esser anch'egli eroe tragico, che con la sua necessaria morte (e annesso amor fati) terrebbe in vita l'eterno ritorno, ovvero il percorso che porta al suo stesso coronamento "oltre" l'umanità deicida, ma non oltre la tragedia del vivere (l'esser-per-la-morte, come riformulerà qualcuno venuto dopo Nietzsche).
#1294
Citazione di: Eutidemo il 27 Febbraio 2020, 13:02:43 PM
a me pare ovvio che:
- chi fa più controlli trova più contagiati;
- chi fa meno controlli trova meno contagiati.

Da profano di statistica, non sono sicuro sia così: se entrambi abbiamo ciascuno 100 scatole di cui 50 contengono una moneta, può capitare che tu aprendone 10 (delle tue) trovi 8 monete (80%), mentre io controllandone di più, ad esempio aprendone 20 (delle mie), trovi solo 2 monete (10%); con entrambi i valori comunque molto differenti dalla realtà (50%).


Credo che un'informazione accurata non debba proporre solo le percentuali, ma anche le quantità assolute; ciò aiuterebbe a lasciar meglio intuire anche l'instabilità delle percentuali: se ad esempio quel 8% di mortalità per l'età 70-79 anni, è basato su 8 casi di morte su 100, qualora ci fossero 20 nuovi casi tutti con esito fatale, la percentuale salirebbe rapidamente a 23,3% (+15,3%); se invece fosse un 8% basato su 80 casi su 1000, 20 ulteriori morti alzerebbero la percentuale solo al 9,8% (+1,8%).
#1295
Citazione di: Ipazia il 24 Febbraio 2020, 20:26:32 PM
Ineccepibile dal punto di vista logico, ma di difficile applicazione in uno stadio prelogico in cui l'esistenza dice qualcosa ad un soggetto che non vi si relazione in modo logico bensì istintuale/intuitivo, interpretando comunque con cognizione di causa (prelogica) il fatto, l'accadimento
Il "dire" dell'esistenza è una metafora, il dire cogitante dell'uomo è invece attività concreta; il primo è un accadere/esistere "ontologico", il secondo un concettualizzare/narrare umano.
I cani di Pavlov hanno cognizione di causa, di verità, etc. o solo di prima/dopo, accadere/non-accadere? Punterei sul secondo gruppo, pur non negando affatto che siano animali con una loro "intelligenza" (qualunque sia il senso di questa parola).
Nel momento in cui l'uomo interpreta con cognizione, l'istinto e l'intuito restano umani, quindi permane, almeno secondo me, una deformazione concettuale, altrimenti l'interpretandum resterebbe tagliato fuori, inaccessibile alla sua stessa interpretazione (che richiede la sua concettualizzazione). Quando invece l'uomo (re)agisce d'istinto e d'intuito, è meno concettuale e, non a caso, non si pone il problema della verità.


Citazione di: Ipazia il 24 Febbraio 2020, 20:26:32 PM
Molte scoperte portano alla verità per via intuitiva, per strane, al limite dell'onirico, associazioni mentali non logicizzabili nella consueta liturgia deduttivo-causale.
Una scoperta, per come intendo personalmente la verità, non porta alla "verità", porta al cospetto di un'esistenza, di una relazione fra esistenti, etc. (sebbene «esistenza» possa essere certamente sinonimo di «verità», al di qua dell'ambiguità di cui parlavo).
Quando il linguaggio comune parla di un detective che mira a "scoprire la verità", in fondo, cosa intende? Scoprire fatti, eventi, etc., magari in contrasto con un discorso falso o in cui sono raccontati male, per cui la verità torna così ad essere legame fra un discorso (quello vero) e l'esistenza, l'accadere. Se la verità è categoria del "discorso su qualcosa" non credo possa essere anche categoria del "qualcosa" di cui è discorso, se non a prezzo di una scomoda ambiguità fra discorrere ed esistere. Dunque per me non si "scopre la verità" dei fatti, piuttosto si può dire la verità sui fatti, che se sono in tal caso non esperiti (perché passati, assenti, etc.) ma concettualizzati, non possono che essere narrati (se ho il mal di schiena, lo percepisco, non ho nulla da scoprire; se ne parlo con il medico sorge il problema di raccontare la verità, di rispondergli: «mi dica cosa sente... quanto le fa male da 1 a 10? e se fa questo movimento? ha sollevato pesi? Dica la verità...» e se egli mi fa scoprire di avere uno stiramento, la mia esperienza di dolore non cambia, posso solo dirne il nome... "vero").
#1296
Citazione di: Ipazia il 22 Febbraio 2020, 19:07:28 PM
Un evento del tipo: "Caino uccise Abele", ammesso sia accaduto, è vero indipendentemente dalla sua narrazione, narratività e narratore. Non si tratta di reificare il concetto, ma di impedire la sua dissoluzione in una astrazione logica separata dalla realtà fattuale che gli dà senso e contenuto. Plurale, quanto sono gli ambiti di reale in cui non solo un discorso, ma pure un'esperienza di verità, si dà (verità sensibile, scientifica, storica, giudiziaria, testimoniale, logica, matematica,...).
Cosa significa che «è vero indipendentemente dalla sua narrazione» (come quella che stiamo facendo qui e ora)? Significa, se non sbaglio, che è stato un evento, un accadimento, un fatto. Può esserci un evento che sia non-vero? Direi di no, possiamo narrare che sia non vero («non è vero che Caino ha ucciso Abele») o narrare qualcosa di non vero («Abele ha ucciso Caino»), ma in quell'evento fattuale, sul piano dell'accadere, dell'esistere, fuori dalla sua narrazione, la categoria di verità resta, secondo me, estranea (o tautologica, se preferiamo: "ogni evento accaduto è vero"... ma allora, non a caso, siamo così ancora sempre dentro la narrazione, l'asserzione, quindi ha certamente senso parlare di «vero»).
Detto altrimenti, secondo me la verità appartiene al lato del soggetto (narrazione, descrizione, etc.), mentre nel lato dell'oggetto c'è esistenza (esperienza, accadere, etc.); il linguaggio è ciò attreverso cui l'uomo "guarda" il reale, conviene che egli sappia cosa appartiene alla "lente" e cosa al "panorama": nel mondo "troviamo" la verità, oppure la verifica del nostro discorso (concettualizzazione, etc.)? E quando non la troviamo, ciò che viene falsificato è la realtà o il nostro discorso?

P.s.
Fermo restando che in generale si parla di «verità» con tanti significati (empirico, mistico, logico, etc.); questa è solo la spiegazione della mia preferenza personale (quantomeno off topic).

P.p.s.
Citazione di: Jean il 22 Febbraio 2020, 20:03:22 PMpeccato per il "paradiso perduto"... alias la formattazione del testo...
Non ho più problemi con la formattazione dopo l'ultimo aggiornamento.
#1297
Citazione di: Hlodowig il 22 Febbraio 2020, 11:41:51 AM
Citazione di: Phil il 20 Febbraio 2020, 22:15:33 PM
..dei bambini consiste forse proprio nel non concepire il falso, la menzogna, etc. senza i quali la verità non può determinarsi, coincidendo a tal punto con l'esistenza..

Chiedo venia per l' imbecillità di aver leggermente modificato questa tua ultima parte.

[...] in questa frase, uno dei più bei concetti espressi della verità.
Quello a cui alludevo era soprattutto l'"uscita" dalla verità, ovvero il lasciarsela alle spalle come un'indicazione che, una volta (e)seguita, non può che restare indietro. Non si tratta di negazione della verità, come sarebbe la menzogna, quanto piuttosto di abbandono del piano delle categorie discorsive (inclusa quella di verità).
Nel momento in cui non c'è più discorso sulla verità e non c'è più contrapposizione alla falsità, c'è allora contatto im-mediato (non mediato dal medium linguistico-logico) con la realtà, esperienza diretta; si passa in pratica dalla narrazione del discorso alla narrazione dell'esistenza e nell'esistenza (probabilmente è ciò che esperiscono i viventi meno concettualizzanti, come i bambini piccoli e gli animali in genere).
Se chiamiamo questo contatto alinguistico «verità», allora ripiombiamo subito nel discorrere, sebbene, di fatto, quando lo esperiamo, non c'è nessuna verità (solo esperienza di esistenza): se mi dai uno schiaffo, provo dolore, non "verità"...
#1298
Citazione di: Ipazia il 21 Febbraio 2020, 22:46:58 PM
Per me: nella difesa a spada tratta di un'area riservata del linguaggio logico e della sua sfera concettuale, escludendo dal tuo orizzonte teoretico il cordone ombelicale che lega il pensiero al pensato, la res cogitans alla extensa che in essa cogitante rimbalza da tutte le parti coi suoi continui stimoli.
Forse più che lama di spada è lama di rasoio: non ontologizzo la verità, non ne faccio un ente, né un concetto che condividono uomini ed animali; la confino al valore che ha in logica/linguistica, ma, come ripetuto più volte, non certo per rinnegare la realtà extensa, né il suo rapporto con essa, né la dimensione extra-linguistica (significherebbe negare la sensibilità, il che sarebbe inaudito, e il mistico, per cui ho scomodato Buddha), quanto piuttosto per tutelare ciò che non è linguaggio dall'essere confuso/identificato con categorie linguistiche.
Se rinchiudo la verità nella cittadella del linguaggio/concettualizzazione, è proprio per poter parlare poi con meno ambiguità di ciò che linguaggio non è (esistenza, realtà, etc.); in fondo propongo solo di non confondere le categorie della narrazione con quelle degli eventi narrati, facendo appello alla consapevolezza che il linguaggio è un medium, non l'"oggetto" del discorso (altrimenti sarebbe come pensare che le metafore non siano solo un fenomeno linguistico, ma anche qualcosa di "reale", sostanziale, extra-linguistico, etc.).
#1299
Citazione di: green demetr il 21 Febbraio 2020, 11:44:35 AM
Esattamente come qualsiasi formalismo sari-buddista o philliano è una ideologia vessatoria della condizione paranoica.
Vessatoria perchè come al solito non pensa il reale.
Per me non si può pensare il reale (inteso come mondo esterno al singolo pensante); il reale si percepisce, si vive, etc. si può invece pensare al reale (mnemonicamente) o pensare un discorso sul reale, ovvero una sua concettualizzazione.
In quanto discorso, le sue regole (logiche, linguistiche, concettuali, etc.) credo non vadano confuse con leggi di altro tipo (siano esse della natura, della giurisprudenza o altro), che ovviamente non vengono sostituite da tale discorso, ma semmai "raccontate" e "indicate" da esso.
Il discorso sul reale non è il reale, sebbene influenzi il reale nel momento in cui diventa azione o comunicazione (che quindi innesca azioni altrui). Distinguere il discorso dal reale, non è escludere il reale o rinnegarlo, ma essere consapevoli dello scarto fra narrazione e "res exstensa" (di cui il narrante fa parte, ma non divaghiamo), fra verità del/nel discorso ed esistenza alinguistica, fra tutti i sutra e il sorriso di Buddha a Kasyapa (oppure, giocando sull'ambiguità del termine, fra «verità» come funzione logica e "verità" come realtà extra-logica).


Citazione di: Ipazia il 21 Febbraio 2020, 16:03:29 PM
La (dis)equazione:

mamma ≠ non mamma

è fatta propria dal cucciolo ben prima che la verità/falsità logica gli sia nota. Ed anche se confonde, ed io con lui, l'identità con la verità, tale confusione gli è veridicamente propedeutica alla sopravvivenza prima, e al ragionamento sul mondo che lo circonda, poi.
Intendevo esattamente questo; la conoscenza di quella (dis)equazione è proprio ciò che consente al cucciolo di (soprav)vivere anche senza fare ragionamenti (pre)logici di vero/falso. Essendogli ignota la distinzione vero/falso, non si può dire che egli faccia confusione: non può confondere ciò che usa con ciò che non (ri)conosce, semplicemente perché non gli è ancora stata insegnata (noi adulti dovremmo avere qualche scusante in meno).
Citazione di: Ipazia il 21 Febbraio 2020, 16:03:29 PM
coinvolgono tutta la nostra sensorialità nella veridica e prelogica lotta per la sopravvivenza laddove il falso e il vero della percezione sensoriale passano attraverso la stretta cruna dell'ago di un agguato/fuga riusciti.

In tal caso la lettura vera o falsa del fatto naturale fa la differenza e  il bravo predatore/preda lo impara assai presto, confermando con la sua longevità di avere bene appreso, non sul piano logico ma su quello fatale, cognitivo, la differenza tra vero e falso di un messaggio sensoriale (olfattivo, uditivo, visivo,...)
Più che la «lettura di», direi il «discorso (umano) su» verità/falsità del fatto naturale: dal canto suo, il predatore "legge" gli eventi tramite vero/falso o tramite, ad esempio, identificazione predabile/non-predabile? Davvero quando la preda vede sbucare il predatore da un cespuglio pensa concettualmente «diamine! quello era un falso arbusto! In verità era un predatore nascosto!» piuttosto che semplicemente «fuga!» o, ancor più verosimilmente, nemmeno quello? Scherzi a parte, chiaramente non ho prove di quel che passa nella testa degli animali, faccio solo la mia scommessa "alla cieca". Noi umani lo raccontiamo nei documentari in stile National Geographic usando le categorie di vero/falso, ma non so se sia lecito proiettare "antropocentricamente" le nostre categorie narrative nella mente del leone (piuttosto diversa della nostra, suppongo).


P.s.
Citazione di: Ipazia il 21 Febbraio 2020, 16:03:29 PM
Trovo artificioso, quasi ideologico, limitare la coppia verità/falsità alle forme e formalismi della ragione.
Secondo me, aiuta ad essere meno ambigui nei discorsi riguardo «verità», «realtà», «coerenza», «esistenza», etc. certamente la ricerca di accuratezza rischia di sconfinare nell'artificioso (questione di "unità di misura"). Ammetto di non capire bene in che modo tu e green demetr mi accostate all'"ideologia".


P.p.s
Citazione di: Vito J. Ceravolo il 21 Febbraio 2020, 18:09:03 PM
In ogni caso, per adesso vi ringrazio tutti nessuno escluso.
Grazie a te per gli stimolanti contributi.
#1300
Citazione di: Ipazia il 20 Febbraio 2020, 19:47:49 PM
L'universo antropologico necessita di verità forti per conseguire l'adaequatio tra cosa e intelletto sociali, invadendo il campo semantico della giustizia.
Per me fra quella cosa e quell'intelletto, non c'è verità, ma interpretazione (al di qua della tautologia «le leggi dello stato sono leggi "vere" per i suoi cittadini»). Mentre la realtà esterna e l'intelletto interno (all'uomo) sono due "elementi" ben differenti (Cartesio docet), la "cosa sociale" e l'"intelletto sociale" sono invece due aspetti dello stesso unico "elemento", la società, la cui autocomprensione "di massa" è il fondamento delle veritas che ogni società si racconta (e tali racconti innescano, come detto, eventi reali).
Per quanto riguarda i bisogni primari (o maslowiani) siamo in fondo come bambini: non percepisco la verità della fame, percepisco la fame e basta; così come quando sono sazio non percepisco la falsità della fame (e non sento la verità dell'essere realizzato, ma mi sento realizzato e basta, inversamente, non sento la falsità della mia realizzazione, ma mi sento non-realizzato).


P.s.
Citazione di: Ipazia il 20 Febbraio 2020, 19:47:49 PM
(Più concretamente, sul versante naturalistico etologico, ritengo non infondata la ricerca di un fondamento di verità prelogico nell'interazione sensibile tra il vivente e il suo ambiente. Fondamento codificato dall'eredità genetica ed educato dalle cure parentali, anche in assenza di un linguaggio logico che è prerogativa umana, peraltro assente nella primissima età evolutiva, non certo priva di relazioni tra cucciolo e ambiente che prefigurano un rudimentale e istintivo contesto di verità)
In tale intersezione vivente/ambiente, a mio modesto parere, non c'è fondamento prelogico della verità: c'è stimolo/risposta sensoriali, piacere/dolore, etc. solo quando si innesca una narrazione su tutto ciò, il discorso si apre alla possibilità di verità/falsità.
Quando il cucciolo-bambino si relaziona all'ambiente o alla madre, secondo me, non usa le categorie di verità/falsità, semmai quella di identità-riconoscimento: se vede una donna minacciosa che gli porge la mano, suppongo il pargolo non concettualizzi pensando «non è vero che lei è mia madre» o «lei è una falsa mamma», quanto piuttosto (parlo da ignorante in materia) direi che non riconosce nella donna l'identità della madre e/o identifica quell'atteggiamento sconosciuto come pericoloso (probabilmente la sua logica identifica per affermazione e negazione, «mamma» e «non-mamma», ma non per finzione/realtà: «falsa mamma» vs «vera mamma»). L'ingenuità dei bambini (almeno fino ad una certa età) consiste forse proprio nel non concepire il falso, la menzogna, etc. senza i quali la verità non può determinarsi, coincidendo a tal punto con l'esistenza: come dicevo, la falsa esistenza è infatti artificio solo del discorso (o dei giochi di prestigio o degli effetti speciali cinematografici, ma non cavillerei troppo).
#1301
Citazione di: Sariputra il 20 Febbraio 2020, 15:21:43 PM
Già 2.000 anni fa Yeoshwa raccomandava: "il vostro dire sia  sì sì, no no, tutto il resto viene dal...E infatti oppose il nobile silenzio alla domanda pragmatica di Pilato: "COSA è la verità?"
Evidenziando come la 'verità' non sia una categoria del linguaggio, molto saggiamente direi.
Probabilmente Yeoshwa non rientra nella casistica della menzogna proposta da Noudelmann; tuttavia, considerando che si era presentato come «io sono la verità», è inevitabile che non potesse avere una concezione della verità come mera categoria linguistica (al di là della condizione della linguistica come disciplina alla sua epoca o la sua eventuale conoscenza in merito). Trovo interessante, pur non essendo un filologo né tantomeno un esegeta biblico, che la verità di cui si parla nella bibbia, quindi quella fatta uscire dalla bocca di Yeoshwa, nella versione greca è «aletheia», quindi "disvelamento", o ancor meglio, «rivelazione» (trattandosi di religione rivelata). La rivelazione implica decisamente un andare oltre il linguaggio, verso il mondo degli eventi (o verso il cielo delle Verità assolute, o entrambi).
La verità intesa odiernamente credo abbia sostituito pian piano il concetto di "rivelazione" con quello di adaequatio (medievali), "isomorfismo" (Wittgenstein), corrispondenza, etc.; il che potrebbe riassegnare l'aletheia-rivelazione alla sua dimensione spirituale di pertinenza (non risolvendo comunque l'attuale uso ambiguo della parola «verità»).

Può essere significativo anche rintracciare una differenza fra aletheia-greca e veritas-latina:
«Il termine veritas rimanda a qualcosa da accettare in quanto conforme ad una realtà oggettiva non da svelare attraverso la conoscenza. Un significato opposto quindi al termine alètheia: nel caso della veritas si tratta di dimostrare la conformità di un'asserzione alla realtà mentre per quanto riguarda l'alètheia la comprensione della realtà è insita nello stesso svelamento» (tratto da qui) oppure «I romani fanno di veritas un concetto legato alla giustizia e al diritto mentre in Grecia alétheia è espressione della Tradizione e di ciò che non deve essere dimenticato. In un caso verità è strumento dei giudici nell'altro è espressione dei poeti» (tratto da qui).
#1302
Citazione di: Sariputra il 20 Febbraio 2020, 10:58:04 AM
Se si studiano le vita di praticamente tutti i filosofi si nota uno 'scarto' importante, una contraddizione vivente tra le loro affermazioni e la loro vita. Partendo da ciò, un grande studioso della 'menzogna',François Noudelmann,  fa notare come la menzogna filosofica, il mentire, voluto o inconsapevole, anche a se stessi, sottostà a tre regimi diversi di "economia psichica"
A ulteriore dimostrazione di come la parola «verità» sia pericolosamente ambigua (quindi strumentalizzabile), questo autore (su cui ho letto fugacemente solo questo), mi pare giocare sulla confusione verità/menzogna e coerenza/incoerenza intesa in senso biografico. Non è nuova la storia del prete che «predica bene, ma razzola male», il che ovviamente non comporta affatto che egli menta, più o meno consapevolmente, quando afferma le verità in cui crede (ma che non pratica).
La menzogna portante mi pare quindi quella dell'autore che presenta l'incoerenza opere/vita come fosse menzogna (come se ogni opera contenesse un giuramento che riguarda anche le scelte di vita dell'autore).

Se chiediamo ai filosofi di incarnare con l'esempio di vita le loro teorie, li stiamo scambiando per leader politici, guide spirituali o simili; se gli chiediamo verità incontrovertibili che non siano interpretazioni, li stiamo scambiando per scienziati; se gli chiediamo orizzonti di senso, più o meno praticabili nella prassi, allora (per me) non ha rilevanza commisurare la "verità" professata nello scritto con la cronistoria delle scelte di chi l'ha proposta (indicare non è percorrere, soprattutto se si parla di teoresi). Le teorie filosofiche hanno spinto (anche o solo) altri a scendere in piazza brandendo falci e martelli, o a suicidarsi o a cambiare religione, etc. la biografia di chi ha lanciato il sasso non deve necessariamente essere colpita dagli schizzi dell'acqua per dimostrare la verità "fattibilità" del senso proposto.
Ormai mi pare piuttosto palese che i filosofi sono professionisti del pensare/scrivere, non del vivere, e che la filosofia è più arte del senso (un'estetica della trascendenza, per dirla in metafisichese) piuttosto che "arche-ologia" della verità; quantomeno osserverei che, in ambito strettamente teoretico, la filosofia costruisca più verità (al plurale) di quante ne scopra...


Citazione di: Sariputra il 20 Febbraio 2020, 10:58:04 AM
«un'intenzione affermativa è sempre richiesta [dalla filosofia] per fondare la legittimità del suo discorso»

Ora, la forza con cui affermiamo qualcosa è sempre commisurata al diniego del suo contrario.
Concordo, quanto più ci si ostina a chiedere alla filosofia una verità forte, uno slogan a cui asservirsi, un dogma/assioma per cui lottare, etc. tanto più è vera la tua considerazione e tanto più si sarà inclini a passare, come scrivo sempre, dalla negazione all'avversione (ad esempio, dall'a-teismo all'anti-clericalismo, etc.).
La verità potrebbe dunque essere anche debole, plurale, non aggressiva, etc.? Nel ventunesimo secolo, direi di sì; può esserci, anzi ormai c'è, anche la categoria di "verità debole", affianco ad una verità forte.
Permane in molti casi un'anacronistica fiducia nella filosofia come mezzo per trovare la verità (non in senso logico, ma in senso metaforico-valoriale, quindi, di nuovo, confusa con il Bene, il Giusto, etc.); l'esito più probabile di tale speranza mi sembra essere, come pare esemplificare l'autore citato, la delusione (che può avvilire sino a vedere la menzogna nell'incoerenza). Tuttavia, è una dinamica psicologica tutta interna al pensiero forte, che prima alimenta un'aspettativa forte e poi ne deve affrontare l'altrettanto forte frustrazione.
#1303
Citazione di: Ipazia il 18 Febbraio 2020, 15:47:47 PM
Mi sembra una differenza da maestro di sofistica. Il linguaggio é medium tra fatti e intelletto (adequatio), ma il pungere dell'ago (significato, non significante) é veridicamente a priori di ogni sua dizione e concettualizzazione, é fondativo di un discorso di verità.
Il pungere dell'ago è evento, è vissuto, è "fatto"; non necessita, per esser tale, di un discorso che ne parli e gli assegni verità (o falsità). Il fondativo del discorso di verità non può essere a sua volta la verità (mistica a parte), altrimenti tutto sarebbe confinato nel discorrere e resterebbe fuori il mondo esterno (quindi il linguaggio sarebbe medium "a vuoto", fra intelletto e sé stesso). Tale fondativo della verità discorsiva (soliloquiale, concettuale, etc.) è di fatto l'esistenza, l'accadere, che fonda la verità, ma non è la verità, essendo appunto fuori dalla dimensione discorsiva: l'esistenza del referente è la condizione della verità, tuttavia, esternamente al discorrere, è solo esistenza (corollario: l'esistenza può essere falsa solo in un discorso...).
Non so se si tratti di un sofisma, ma per me è un riflesso della differenza (im)portante fra categorie del discorso-concetto e mondo dell'esistente-referente (tanto per non ripetere sempre «mappa e territorio»).

P.s.
Citazione di: Ipazia il 18 Febbraio 2020, 15:47:47 PM
Sul resto, incluso Lao Tzu, sfondi una porta aperta: come l'immateriale agisce sul materiale, modificandolo. Lieta che alfine tu lo condivida.
Nel mio piccolo, quando parlo di linguaggio, concetti, etc., proprio come quando parlo di software, non penso all'immateriale.

P.p.s.
Sono l'unico che, nella finestra di scrittura del post, non ha più la barra con i pulsanti della formattazione, per il testo in corsivo, per l'inserimento di link, etc.?
#1304
Citazione di: Ipazia il 18 Febbraio 2020, 09:20:53 AM
La verità è un concetto, in quanto tale psichica, fatta della stessa sostanza dei sogni. Ma lasciarla nel limbo del concetto logico ha ricadute negative tanto sul piano pratico, lasciando orfane le tante verità funzionali che scorazzano per il mondo, che su quello ontogenetico, posto che il pensato si innesta su un corpo carnale che quella verità prima di pensarla la sente quando entra in contatto col resto del mondo (una fiamma, un ago,...).
Non è la "verità" dell'ago a pungermi, ma è l'esistere dell'ago: se dicessi che «la verità dell'ago punge la verità del mio dito» userei solo «verità» al posto di «esistenza» (e resterei ancora nel dire, non nell'esperire...).
Verità-discorso ed esistenza-esperienza vanno secondo me distinte (pur non essendo radicalmente separate), come vanno distinti Bene e verità, etc.
Sul rapporto lingua/mondo: parafrasando John Austin, "i discorsi fanno cose", ovvero gli uomini non sono solo esseri parlanti, ma anche agenti e i due aspetti sono strettamente connessi; la nostra azione dipende anche dai nostri discorsi, essa modifica il mondo, fornendo così ulteriore "materiale" per ulteriori discorsi, quindi ulteriori azioni, e così via... la discorsività è il percorso storico comune che condividono tecnica, religione, scienza, filosofia, etc. sia come domini sociali che come attività individuali.
Occuparsi anche del discorso, del linguaggio, della logica, non significa dunque rinnegare né il mondo esterno, né il mistico, ma piuttosto cercare di far chiarezza nei rispettivi discorsi (separare non è negare), appellandosi e costruendo, come accade da sempre, vocabolari settoriali che agevolino la comunicazione (ad esempio non usando la parola «verità» in modo troppo polivalente).
Diceva Lao Tzu: «Fai attenzione ai tuoi pensieri, perché diventano le tue parole; fai attenzione alle tue parole, perché diventano le tue azioni; fai attenzione alle tue azioni, perché diventano le tue abitudini; fai attenzione alle tue abitudini, perché diventano il tuo carattere; fai attenzione al tuo carattere, perché diventa il tuo destino».

Citazione di: Sariputra il 18 Febbraio 2020, 09:33:12 AM
Un teorema logico-matematico non può definire la 'verità di...', ma solo la propria coerenza formale.
Concordo pienamente, infatti il plus-valore dell'empiria è proprio la sua tangibilità "verificante" ed extra-formale:
Citazione di: Phil il 16 Febbraio 2020, 19:07:12 PM
Il problema applicativo di ogni formalismo resta, secondo me, la sua "compilazione", ovvero l'assegnazione dei valori (e delle esperienze, vissuti, fatti, etc.) relativi alle varie "x", "A", etc. senza tali compilazioni, la formalità non è pragmaticamente utile, pur restando una preziosa cornice di "validità teor(et)ica" (≠ verità).


P.s.
Citazione di: paul11 il 18 Febbraio 2020, 01:23:34 AM
Tu hai fede SOLO nel mondo empirico esteriore: sei convinto o sei come gli illustri personaggi, di cui potrei aumentare la lista?
[...] Ma tu sai perché esisti, quale ragionamento ti fai dentro di te?
A domanda rispondo: non posso parlare per gli altri, ma per me alcune questioni hanno nella loro ridondanza storica non la dimostrazione della loro difficoltà e/o profondità, quanto piuttosto solo la conferma del loro essere prive di una risposta univoca; condizione che accomuna i falsi problemi, le questioni indecidibili e le domande che fanno appello all'ignoto. Ognuno può fare la sua scommessa; sul tema della "causa finale" dell'esistenza, io punto su «falso problema», nel senso che una risposta esterna da "scoprire" secondo me non c'è, è solo una questione di assegnazione (prospettica e problematica) di senso, non di suo mondano reperimento/disvelamento.
#1305
Citazione di: paul11 il 17 Febbraio 2020, 21:11:11 PM
Non esistono due verità, bensì c'è una verità incarnata da profeti, guide spirituali e un'altra che nasce per costruzioni argomentative, dialettiche, logiche,ecc..
Nell'affermare la frase vera «quella sedia ha quattro gambe», non ho bisogno di detenere potere o autorità-exousía (se non quella del linguaggio, ma qui si parlava di altre autorità, mi pare); si tratta di una verità piuttosto verificabile e che ci rapporta alla realtà del mondo empirico-esteriore.
Le verità dei profeti mi paiono decisamente di altro tipo (verificabili? a quale mondo ci rapportano?) e chiarisco che non affermo che le loro non siano verità, ma solo che hanno tutt'altra "denotazione"1.
Sono due verità imparentate? Certo, dal convergere in un'unica ambigua (e per questo "pericolosa") parola; secondo me, l'"henologia" della verità unica non rende giustizia alla ragione (e alle ragioni) degli uomini.

1Che la verità non si "incarna", ma al massimo si dice, essendo nella bocca più che nel mondo, è solo una mia interpretazione personale: non credo nella verità che trascende il suo esser-pensata/detta/etc. Fuori dal discorso non c'è vero/falso, ma solo esistere/non-esistere: «quella sedia ha quattro gambe» è una verità solo all'interno di un discorso che se ne interroga; altrimenti esiste la sedia con le sue quattro gambe, senza alcun rapporto "prelinguistico" o "aconcettuale" con verità/falsità (in quanto, appunto, concetti logico-linguistici).