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Messaggi - Phil

#1321
Attualità / Re:Crocefisso il classe?
10 Ottobre 2019, 11:36:44 AM
Non credo basti un crocifisso in classe a rendere cattolica una scuola e tantomeno a renderla una scuola "legittimata"(?) dal cattolicesimo o addirittura una scuola di cattolicesimo (fra le nostre scuole e le scuole coraniche ci sono anni luce di distanza, non scherziamo please). Secondo me oggi il dibattito sul crocifisso è in ritardo di almeno mezzo secolo, nel senso che avrebbe avuto le sue ragioni fino a due generazioni fa. Probabilmente se un ragazzo "medio" leggesse i nostri discorsi, si chiederebbe come mai diamo tanta importanza a un oggetto appeso ad una parete, magari ipotizzerebbe che stiamo usando un linguaggio in codice per riferirci ad altro... e questa ipotesi si è rivelata molto plausibile: il crocifisso come pretesto per addentrarsi nel tema della laicità (che è come parlare dello spray anti-zanzare per riferirsi alla catena alimentare, ma da qualche parte bisogna pur iniziare, no?).

Considererei due presupposti (metodo)logici: un simbolo assume un valore anche in base al contesto in cui viene posto e il destinatario di una comunicazione non è mai passivo ma interpreta attivamente il messaggio.
Per quanto riguarda il secondo punto, come già accennato, credo che gli attuali destinatari del messaggio di un crocifisso in classe, siano piuttosto ciechi al suo imporsi come simbolo di una storia e una visione del mondo bimillenaria: sono altri i canali da cui ricevono i messaggi e gli input che strutturano la loro prospettiva sul mondo (famiglia, amici, media, etc.) e credo questo valga ancor più per gli adulti (giusto?). L'attuale "sensibilità semantica", in generale, ci rende (noi italiani e gli occidentali in genere) piuttosto indifferenti, ragazzi inclusi, a pacchetti di sigarette su cui sono scritte verità scientifiche con tanto di illustrazioni esplicative, siamo ormai desensibilizzati ad immagini forti ed ammonimenti che pur sappiamo essere veri e riguardare la nostra salute (non la nostra visione del mondo). Se questi messaggi non funzionano, vengono ignorati (fallendo la propria "missione" di esser segno, comunicazione, etc.), mi stupirebbe che un crocifisso, decisamente più criptico e "pedante" nel comunicare, avesse miglior fortuna (soprattutto nei casi in cui «non c'è peggior sordo...», proprio come per le sigarette).

Probabilmente, oggi, il crocefisso sta vivendo nelle aule il passaggio semiotico dall'esser simbolo all'esser decorazione o elemento strutturale di default come fosse un cartello «vietato fumare» (non lo dico per blasfemia, ma perché mi sembra una constatazione piuttosto fattuale). Vederlo in un'aula e percepire un suo qualche "potere" sociologico o propagandistico o dottrinale, significa tornare ai tempi di guelfi e ghibellini; rievocazione storica di sicuro interesse ma da non confondere con l'attualità. Per tutelare il valore simbolico del crocifisso bisognerebbe ridurne l'esposizione in spazi che ne svalutano il senso, una volta preso atto dell'indifferenza che suscita: se metto un marchio/logo/simbolo ovunque ed esso non sortisce effetto (o l'effetto contrario), lo sto solo depotenziando.

Qui si innesta il primo presupposto di cui sopra: il contesto. Nelle aule, i docenti parlano indisturbati anche di/da prospettive laiche, di evoluzionismo e di preservativi, alcuni di loro sono atei e non vengono certo licenziati, alcuni ragazzi (a ricreazione e non) bestemmiano "serenamente" e tutto scorre come se quel crocifisso non ci fosse... in quanti, ad esempio, lo guardano e si fanno un segno della croce? Viene mai detta una preghiera di fronte a quel crocifisso? Qualcuno dirà «ci mancherebbe, non siamo mica in chiesa!» e forse è proprio questo il punto (che dimostra di come il crocifisso sia un falso problema e non sia paragonabile alla leggera al ruolo di altri simboli in altre culture): fuori dalle chiese, i crocifissi (non quelli indossati) sono arte, commemorazione, etc. ma oggi non marcano più alcun territorio ideologico, né nelle scuole né altrove (se non negli animi di chi, per amor di antagonismo, cerca un pretesto per appellarsi alle nefandezze del clero, seguendo la già citata adolescenziale psicologia inversa). Persino nei tribunali, la presenza di un crocifisso è ininfluente perché la legge applicata è poi di fatto e di diritto quella scritta dall'uomo; si giura di dire la verità (seppur, se non sbaglio, da quasi un quarto di secolo non si scomoda più la divinità), tuttavia se poi viene scoperta una menzogna, non si risolve tutto con una sincera confessione in chiesa, ma se ne valutano le conseguenze nell'al di qua del tribunale terreno.

Sono spesso gli atei (o meglio gli "antitei"), a vedere nel crocifisso un messaggio ingombrante e condizionante il suo contesto di esposizione quando, fino a prova contraria, la sua presenza è oggi quasi irrilevante perché viene sistematicamente ignorata (seconda premessa) e "marca il territorio" (prima premessa) come lo può marcare, mi si conceda l'esempio banale, un dizionario di inglese su una scrivania (senza che essa diventi per questo territorio del commonwealth): in entrambi i casi se il "marchio" non ci fosse, si vedrebbe sicuramente la differenza (il vuoto su parete e tavolo) e si perderebbe un'occasione per polemizzare (magari nonostante lo strato di polvere dimostri come quel dizionario non sia stato utilizzato e quindi non abbia contribuito attivamente alla "colonizzazione anglofona").

Secondo me, il pensiero laico, finché pensa che il crocefisso in classe sia un fattore rilevante o abbia un valore simbolico discriminatorio, non è davvero laico, almeno se per «laico» intendiamo quell'approccio che non dovrebbe chiudersi in una prospettiva dogmatica, ma tantomeno chiudere la possibilità di esprimere pubblicamente prospettive (non necessariamente tutte quelle possibili in egual misura, non siamo in "campagna elettorale teologica"), sempre secondo le leggi vigenti ovviamente (tutte inevitabilmente dogmatiche, ma non andiamo off topic). Che in Italia la prospettiva più in voga, per motivi storici e culturali, e quindi inevitabilmente anche la più simboleggiata, sia il cristianesimo, non dovrebbe (s)paventare la minaccia di un'ingerenza ideologica dello "stato pontificio" nei processi educativi, situazione che sarebbe certamente non laica ma che mi pare tuttavia piuttosto inattuale e fantasmatica (al contrario di quanto possa far pensare talvolta il dibattito sul crocifisso).
#1322
Attualità / Re:Crocefisso il classe?
04 Ottobre 2019, 12:53:18 PM
Secondo me si sopravvaluta l'influenza di simboli appesi alle pareti, pubbliche o private che siano. Chiaramente, se vengono affissi per legge in pubblico o per scelta personale in privato, è una differenza molto importante, ma considerando soltanto il loro impatto effettuale-psicologico, non sono certo che siano sufficienti a condizionare la visione del mondo di un alunno più di altri fattori, ad esempio quelli umano-relazionali (non icastici). Non sono nemmeno convinto che, in generale, simboli religiosi e affini stimolino una psicologia inversa, di ribellione e icono-clastia (sarebbe pur sempre un condizionamento, seppur di direzione opposta, quindi rivelerebbe comunque una mancanza di pensiero critico e personale). Forse si potrebbe chiedere anche ai diretti interessati qual'è l'influenza che percepiscono dall'effige appesa (visto che qualcuno di loro potrebbe diventare persino un votante) e scommetto che molti risponderebbero come il nipote di pincopallo (che sperò mi perdonerà per la citazione personale, fatta senza nessuna malizia), dimostrandoci che spesso siamo noi adulti a proiettare i nostri (falsi) problemi su di loro.

La propaganda di mezzo secolo fa si rivolgeva ad un popolo con una differente "sensibilità semantica": all'epoca l'effige pubblica era vissuta (subita?) come un simbolo potente, oggi l'immagine statica ha un ruolo più debole nella società e, curiosamente, (ci) diciamo di essere ancora sensibili alla sua influenza (sbaglierò, ma così mi pare) più per gusto di polemica che per autentico turbamento psicologico. Davvero un alunno religioso si sente abbandonato dal suo dio se non lo vede raffigurato in classe oppure, viceversa, un alunno ateo si sente oppresso e minacciato da un simbolo appeso in aula? Se così fosse, in entrambi i casi, per me, si avrebbe paradossalmente una funzione educativa importante per il fanciullo: «ragazzo/a mio/a, "fatti il callo" che nel mondo ci sono tante prospettive, alcune dominanti, altre represse, e quelle messe in bella vista non sono necessariamente le migliori, tuttavia sono forse quelle da tener più presente nella comprensione della visione della maggioranza popolare, ma ciò non ti deve impedire di usare il tuo cervello, inizia a documentarti e a riflettere» (magari riformulato meglio... non sono pratico di discorsi genitoriali). Se "un figlio" dicesse che un dio esiste perché glielo hanno insegnato a scuola, non credo sia "colpa" del crocifisso in classe e se vogliamo istruirlo laicamente lo iscriviamo ad un corso di gli regaliamo un libro di storia delle religioni o di logica (se proprio non possiamo parlargliene di persona), al resto penserà lui. Viceversa, se vogliamo educarlo religiosamente, più che chiedere di mettere il crocifisso in classe, conviene mandarlo a catechismo in parrocchia e dare il buon esempio in famiglia.

Personalmente, non credo abbia senso un eventuale divieto di appendere simboli religiosi (anche perché magari poi li metterebbero sul tavolo o addosso ai docenti o altrove), mi pare più sensato lasciar libertà di decorazione delle pareti scolastiche (tranne simboli macabri, pornografici, violenti etc.), lasciando che siano poi i genitori a scegliere se mandare il proprio figlio alla scuola che ha appeso il crocefisso, o la falce e martello, o la foto del presidente, o una testa di cinghiale, o l'aglio contro i vampiri, o semplicemente l'orologio. Considerando che spesso si sceglie la scuola anche in base alla vicinanza, si potrebbe persino lasciare autonomia alle scuole nel far votare democraticamente ai genitori degli iscritti cosa (e se) appendere nelle classi; fermo restando che, didatticamente, per me si rasenta il falso problema.
#1323
Attualità / Re:Voto ai sedicenni?
03 Ottobre 2019, 16:36:39 PM
Citazione di: Eutidemo il 03 Ottobre 2019, 14:58:11 PM
Se sei davvero convito di volerti imbarcare su un aereo pilotato da un bambino di otto anni, solo perchè la sera si è allenato con i videogames di pilotaggio, accomodati pure; poi, sempre che tu sia ancora vivo, raccontami come è andato il volo!
Si parlava, se non sbaglio, di capacità neurologiche potenziali; anche gli adulti non passano in un giorno dal simulatore alla guida solitaria; fermo restando che la guida non è fatta solo di potenzialità neurologiche: se faccio una pernacchia ad un pilota adulto e poi scappo, difficilmente mi rincorrerà, abbandonando la guida, o si metterà a piangere o avrà altri comportamenti infantili, ma ciò esula dal saper o meno guidare l'aereo "tecnicamente".

Citazione di: Eutidemo il 03 Ottobre 2019, 14:58:11 PM
Ed invero, il pilotaggio lo sviluppo osseo-muscolare non ha alcuna rilevanza, poichè le apparecchiature di bordo sono tutte computerizzate; ma il cervello di un bambino di otto anni, non è ancora minimamente attrezzato per poterle gestire.
Riguardo all'osseo-muscolare, mi riferivo alle sollecitazioni fisiche della guida di un'auto:
Citazione di: Phil il 02 Ottobre 2019, 15:19:34 PM
come complessità di elaborazione "mentale" non hanno nulla da invidiare ad un'auto (pur non avendo lo stesso impatto fisico sul giocatore: accelerazioni, etc. ma lì è una questione di sviluppo osseo-muscolare, non cognitivo).


Citazione di: Eutidemo il 03 Ottobre 2019, 14:58:11 PM
L'ho sperimentato personalmente con mio nipote di dieci anni, che non è assolutamente in grado di effettuare una simulazione di volo in "modalità realistica"; ci riesce solo in modalità "arcade", senza doversi preoccupare dell'effetto giroscopico e di altri complessi problemi aviatori.
Sicuramente anch'io, come il bambino, non saprei gestire l'effetto giroscopico «e altri complessi problemi aviatori» tuttavia, se ce li spieghi adeguatamente, sei davvero sicuro che io (o un anziano) li capisca e li gestisca meglio di lui? La capacità d'apprendimento è più forte nei bambini, se non ricordo male.

Citazione di: Eutidemo il 03 Ottobre 2019, 14:58:11 PM
Hai invece ragione nel dire che il pilotaggio ed il voto sono operazioni ben differenti: ed infatti, in modalità "arcade", mio nipote riesce a gestire discretamente una simulazione di volo, ma, con il (bellissimo) simulatore geopolitico "Democracy 3", non riesce nemmeno a capire il senso del gioco.
[C'ho giocato un po' anch'io di recente: molto interessante, sarebbe quasi didattico per ragazzini aspiranti votanti]
Sei certo che non capisca il senso del gioco per motivi cognitivi? Non gli mancano forse piuttosto le nozioni adeguate (economia, temi socio-politici, etc.)? Senza tali nozioni, un adulto capirebbe comunque il gioco in virtù di un superiore sviluppo cognitivo o avrebbe le stesse difficoltà?

Citazione di: Eutidemo il 03 Ottobre 2019, 14:58:11 PM
Non c'è dubbio che un bambino di otto anni sia ancora impossibilitato psicologicamente di sostenere "validamente" che "questo secondo me è bene, quest'altro secondo me è male"; ed infatti, in tutto il mondo, fino a 14 anni i bambini sono universalmente riconosciuti "incapaci di indendere e di volere".
Tale capacità è indubbiamente "in fieri", ma, secondo l'unanime parere di tutti gli psicologi dell'età evolutiva, non è ancora sufficiente nè per l'imputabilità penale, nè per il diritto di voto.
Si tratta di riconoscere proprio quel «validamente»(cit.): non significa che non abbiano le capacità per farlo (come, se non erro, sostenevi), ma che la qualità del loro discriminare non è attendibile e, come ora scrivi, «non sufficiente» (e su questo concordiamo tutti, credo); mi premeva distinguere fra la radicalità del non-potere «fisiologicamente e neurologicamente»(cit.) dalla constatazione del poterlo-fare-limitatamente.
Sull'incapacità di intendere e di volere (anch'essa di vecchia data): si tratta dello sviluppo cerebrale, di cui poco si sapeva secoli fa, o di atavica constatazione sociale di quanto un bambino sia manipolabile, immaturo, ignorante, etc.?

Citazione di: Eutidemo il 03 Ottobre 2019, 14:58:11 PM
Quanto alla questione degli anziani, malattie mentali a parte, la neurologia, in merito alle loro capacità medie, rileva una diminuzione delle capacità mnemoniche a breve termine, ma non della capacità di ragionamento; ed infatti, alcune aree sono particolarmente sensibili all'invecchiamento, altre più resistenti ed altre ancora, invece, continuano addirittura a maturare.
Per saggiare le capacità di ragionamento di un anziano medio, potresti fare l'esperimento di spiegare a lui ed a un bambino medio di 8 anni il suddetto «Democracy 3» e poi misurare le differenti "performance". Rileverai solo differenze per potenzialità neurologiche, oppure soprattutto per capacità di comprendere temi e fenomeni simili a quelli con cui ci si è confrontati (o no) in passato (v. esperienza di vita, etc.)?
#1324
Attualità / Re:Voto ai sedicenni?
02 Ottobre 2019, 15:19:34 PM
Citazione di: Eutidemo il 02 Ottobre 2019, 14:13:36 PM
Il motivo per il quale un bambino di otto anni non viene legittimato a votare in nessuna parte del mondo, non è certo quello che ha solo "poca esperienza di vita";
Dopo «esperienza di vita»(autocit.) c'era anche un «etc.» di cui non sottovaluterei la portata (confesso che per pigrizia non mi sono dilungato).

Citazione di: Eutidemo il 02 Ottobre 2019, 14:13:36 PM
un bambino di otto anni (o peggio ancora di cinque o di tre), non ha le prestazioni cognitive sufficienti e necessarie, correlate allo sviluppo della corteccia frontale e prefrontale, nè per poter guidare, nè per poter pilotare un aereo, nè per poter votare.
Non sono sicuro sia così: bambini di 8 anni giocano già a simulazioni di guida di mezzi (persino aerei ed astronavi) che richiedono abilità cognitive di guida superiori a quelle di un'automobile; certo, si tratta solo di giochi, ma come complessità di elaborazione "mentale" non hanno nulla da invidiare ad un'auto (pur non avendo lo stesso impatto fisico sul giocatore: accelerazioni, etc. ma lì è una questione di sviluppo osseo-muscolare, non cognitivo).

Citazione di: Eutidemo il 02 Ottobre 2019, 14:13:36 PM
Cioè, in parole povere, manca fisiologicamente e neurologicamente della capacità cerebrale per poter fare l'una o l'altra cosa,
La guida e il voto le vedo operazioni ben differenti: nella guida la visione del mondo, l'etica, la conoscenza di procedure da adulto ed altri aspetti di valutazione sociale, restano piuttosto in disparte. Non mi convince inoltre che un bambino di otto anni sia impossibilitato «fisiologicamente e neurologicamente» di sostenere che «questo secondo me è bene, quest'altro secondo me è male» (il succo del voto può essere anche questo, poiché è vero che si votano persone, ma dovremmo votarle per quello che intendono fare, se ho ben capito lo spirito del voto...).

Citazione di: Eutidemo il 02 Ottobre 2019, 14:13:36 PM
così come risulta:
- da qualsiasi studio scientifico condotto sinora;
- dalle immagini e dai grafici riportati nel mio TOPIC iniziale;
- dal mero buon senso!
Più che alla scienza, non sempre disponibile con i risultati odierni, credo che si sia storicamente preferito far votare in determinate età per il «mero buon senso», basato più sulla valutazione comportamentale (v. esperienza di vita, etc.) che su studi scientifici non disponibili, ad esempio, all'epoca dell'impero romano o qualche secolo fa.

Non fraintendermi, non intendo dire che le facoltà mentali siano totalmente irrilevanti, ma piuttosto che non siano il criterio più pertinente su cui discriminare la possibilità del voto, altrimenti, come dicevo, per molti anziani (non parlo di casi estremi o di malattie) andrebbe rivalutato il diritto di voto (come si fa per la patente): cosa dice la neurologia in merito alle loro capacità medie?


P.s.
Avevo dimenticato di rispondere a questa domanda:
Citazione di: Eutidemo il 02 Ottobre 2019, 11:08:54 AM
Citazione
Far votare i giovani ne aumenterebbe la maturità o è l'idea di farli votare a rivelare la sua stessa immaturità?
La sua di chi?
Se ti riferisci ad Enrico Letta, direi che la sua idea è tutt'altro che "immatura", ma semmai è un po' "paracula"
«Sua» si riferisce all'idea, nel senso che forse è "immatura" come proposta, non ben ponderata (al netto di eventuali convenienze politiche).
#1325
Attualità / Re:Voto ai sedicenni?
02 Ottobre 2019, 12:41:30 PM
Citazione di: Eutidemo il 02 Ottobre 2019, 11:08:54 AM
Che nel tema del voto siano fondamentali le performance del cervello medio ad una determinata età, è talmente ovvio, che non necessita neanche di essere dimostrato;  sarebbe sufficiente la dimostrazione "a contrario", per la quale, se per votare non fossero fondamentali le performance del cervello medio ad una determinata età, ne conseguirebbe che potremmo far votare anche i bambini di otto anni.
Intendo che la questione del voto non è riducibile alla neurologia: le prestazioni del cervello di un anziano non sono certo brillanti, eppure non vengono messi in discussione né la sua partecipazione alla vita politica né il suo diritto al voto. La differenza fra un bambino di 8 anni e un anziano, il fattore che giustifica che sia il secondo a poter votare, non mi sembra siano le prestazioni cognitive, quanto altri fattori socialmente valutati (esperienza di vita, etc.).
#1326
Attualità / Re:Voto ai sedicenni?
01 Ottobre 2019, 16:28:43 PM
Nel tema del voto non credo siano fondamentali le performance del cervello medio ad una determinata età, al massimo, forse, contano le prestazioni del cervello di chi viene votato, ma anche in quel contesto ci sono altre mille variabili, come hai ricordato, che evitano di farmi pensare che si possa passare dall'ideale re filosofo a quello del politico ideale a base di silicio: se la politica non è una scienza esatta, ma una questione di ideali normativi, di problem solving, di relazioni pubbliche, etc. contano molto anche il vissuto e la visione del mondo di quel cervello (senza voler sminuire il ruolo del ragionamento astratto e delle capacità cognitive di interagire con l'ambiente circostante). 
Alcuni fattori secondo me da considerare, in brain storming:
- a 16 anni, se non erro, il programma scolastico non ha ancora raggiunto la storia contemporanea (e non so a che punto sia l'eventuale corso di educazione civica, se c'è), per cui si darebbe il diritto di voto a chi potenzialmente non ha mai sentito parlare seriamente di democrazia e non ha idea di come funzioni uno stato moderno o il suo stesso stato
- tuttavia, anticipare il diritto di voto potrebbe stimolare i giovani (o almeno una loro minoranza) ad iniziare prima a informarsi per costruirsi una coscienza politica; per quanto a quell'età il primo pensiero non sia esattamente il sommo bene per la comunità d'appartenenza
- risulterebbe quantomeno anomalo che un giovane possa votare, concorrendo alla determinazione di chi guida il paese, ma non possa poi guidare un'auto, comprarsi un pacchetto di sigarette, etc. non perché ci sia un oggettivo legame logico fra voto/patente/fumo/etc. ma perché sarebbe insolito il profilo social-antropologico di un individuo che ha una delle responsabilità più importanti nella sua comunità, mentre sottostà ancora a divieti che ne mettono in discussione la capacità discrezionale e l'affidabilità
- in altri tempi e in altri luoghi, come si suol dire, si era/è già padri/madri di famiglia a 16 anni, il che spinge(va) al doversi interessare di questioni da adulto: non certo il cambio di pannolini, ma la gestione economica della famiglia, la partecipazione a scelte comunitarie (condominiali, etc.), il seguire tematiche di attualità, burocrazia, leggi, etc.; il profilo del 16enne medio di oggi, in confronto, non mi sembra sia più rassicurante e maturo
- se al diritto di voto venisse associata anche la maggiore età (viceversa mi suonerebbe un po' forzato discriminare fra i due) verrebbe modificato anche l'habitat delle famiglie e tutte le dinamiche connesse (relazionali, psicologiche, etc.) con ripercussioni sociali sicuramente interessanti.

In sintesi: far votare i giovani ne aumenterebbe la maturità o è l'idea di farli votare a rivelare la sua stessa immaturità?


P.s.
Sul tema dell'epistocrazia non entro nel merito, essendo ancora uno dei tabù della nostra società.
#1327
Il "caso Greta" può essere un buono spunto per riflettere sulle dinamiche simboliche della società contemporanea: passare rapidamente dall'anonimato di un'adolescente ad essere fenomeno mondiale che parla di fronte all'Onu, è un percorso che richiede... già, a cosa è dovuto questo (s)balzo simbolico-semantico, dall'insignificanza dell'ordinario alla significanza planetaria? Forza dell'ispirazione di un piccolo gesto (la sua prima assenza a scuola per "motivi ambientalistici"), forza dei media avidi di eroi e breaking news da far echeggiare nell'infosfera, forza di una portabandiera involontariamente perfetta per sostenere, suo malgrado, il greenwashing nel mercato globale, forza di contingenze propizie, forza di corsi e ricorsi storici (deja vu: Severn Cullis-Suzuki nel 1992)?
A ben vedere, la ragazza ha il profilo ideale del testimonial contemporaneo: giovane ma non troppo da essere infantile, donna ma non così femminile da distrarre o suscitare gelosie, caucasica ma proveniente da un territorio che non ha storia di discriminazione e noto per il suo grado di civiltà, etc. i suoi genitori, poiché comunque parliamo di una minorenne, mi pare vengano fatti restare nell'ombra per non rompere l'incanto mediatico: una famiglia che lotta per l'ambiente impatta meno l'opinione pubblica rispetto ad un'eroina introversa ma determinata (e, soprattutto, si evita anche di toccare il tema "famiglia", potenziale harakiri mediatico, o comunque a rischio di far perdere una fetta di "seguaci").
Sul piano della comunicazione, il suo «avete rubato i miei sogni» tocca un elemento retorico che scalda sempre i cuori della platea: il sogno; certo, non è esattamente come il ben noto «ho un sogno» (King), che non era solo una denuncia quanto piuttosto una visione, tuttavia è ingiusto paragonare un'adolescente con a cuore l'ambiente ad un leader politico e, soprattutto, temi e contesti ben differenti. Il linguaggio usato da Greta è infatti quello, giustamente ed inevitabilmente, delle proteste studentesche, se non fosse che lo rivolge ad un "interlocutore macroeconomico" a cui può far solo tenerezza (al netto del politicamente corretto). Ecco alcune frasi ricorrenti: «non siete abbastanza maturi» (giocando volutamente sul rovesciamento delle età fra lei e i politici), «come osate» (per richiamare provocatoriamente al mandato di fiducia popolare di cui i governanti dovrebbero farsi carico), «il cambiamento è in arrivo, che vi piaccia o meno» (come per rovesciare i rapporti di forza), «vi terremo d'occhio», «non vi perdoneremo mai» e persino «il vero potere appartiene alla gente» (citazione dell'intramontabile «power to the people»).
Cacciari ha già detto la sua in merito, ammonendo su come l'appello fatto «in termini ideologico-sentimental-patetico»(cit.) dovrebbe lasciare spazio a proposte e iniziative più scientifiche ed educative; Finkielkraut gli fa eco con considerazioni contestualmente simili. Secondo me, si può comunque cogliere un "chiasmo comunicativo", un incrocio fra le "direzioni" della comunicazione: Greta rimbrotta i potenti, tuttavia il suo appello, per le sue "tonalità", può far effetto sul popolo, non sui politici a cui si rivolge; lei si fa forza del «cambiamento in arrivo», ma le piazze degli adulti gilets gialli, ad esempio, hanno chiesto prezzi più bassi del carburante (non certo per usarlo di meno, come lei propone) e riguardo le piazze di studenti non so (con cinismo da adulto che per fortuna ancora le manca) se siano state più ricche di CO2 oppure di buone intenzioni ecologiste.

Di sicuro, ritornando alla domanda iniziale, se la ragazza è arrivata sino all'Onu dopo un solo anno di "attività politica", senza che fossero state equipes di scienziati o governi ad inviarcela (se non sbaglio), abbiamo qualcosa su cui riflettere (e di certo non possiamo biasimarne il suo impegnarsi in prima persona): il fascino e il feticismo della narrazione mediatica che forgia idoli dal nulla e permette traguardi persino "istituzionali"; l'effetto domino fra le piazze (a cui si auspica corrisponda un pari effetto domino nella mutazione di usi e costumi) da valutare per le conseguenze reali che avrà sul piano politico (per quanto il rapporto piazza/potere in occidente non sia, oggi, sempre "saldo" come a Hong Kong); l'appello all'emotività del «sinite parvulos venire» che scalza noiosi report statistici spiegati da esperti (esperti fra i quali non tutti sembrano particolarmente smaniosi di salire sul carro di Greta, anzi alcuni di loro hanno inviato documenti ufficiali controcorrente rispetto a lei; chiaramente, visti gli enormi interessi economici in gioco, per l'uomo della strada è quasi un atto di fede, o di comodo, scegliere di chi fidarsi). 
La questione di Greta è, secondo me, una "cartina al tornasole" sulla comunicazione globale forse più di quanto lo sia sul clima; sicuramente, eroi bambini si addicono molto al nostro "bambino interiore" e per quanto già l'analisi transazionale di Bernstein ci abbia messo in guardia dal dargli troppo retta, bisogna riconoscere che come testimonial "funzionano" molto bene.
#1328
Tematiche Filosofiche / Re:La felicità
01 Ottobre 2019, 12:27:29 PM
Citazione di: Ipazia il 01 Ottobre 2019, 11:30:58 AM
Non ridurrei tutto a questa rappresentazione kinica (Peter Sloterdijk) ansimante. Benchè la felicità sia generata da un processo dinamico, non ogni vagabondare sortisce l'effetto, ma solo se saggiamente condotto, eudemonisticamente. Il sapore della felicità si gusta nel momento di stasi, appagamento, illuminazione (individuale o conviviale), che nella sua bellezza arrestata assume una prospettiva infinita che dà anche al più kinico degli umani la pienezza di senso della sua propria realizzazione. La fine del film è scontata, ciò non impedisce di gustarselo finchè lo si vive dissolvendosi in esso.
Personalmente, per quel che vale, tendo al «godersela senza correre»(autocit.), ma devo riconoscere che non tutti hanno l'indole soggettiva e le possibilità oggettive per farlo, per cui quello che fa felice me magari provoca frustrazione e (in)sofferenza in altri; il buon Protagora può essere letto anche in chiave eudemonologica: c'è la felicità  del uomo cinetico (o cinestetico), quella del cinico, quella del "cinefilo" (anche se come dici il finale è scontato), etc.
#1329
Tematiche Filosofiche / Re:La felicità
30 Settembre 2019, 17:27:08 PM
Citazione di: baylham il 30 Settembre 2019, 15:05:36 PM
La felicità non è la soddisfazione dei bisogni, che è appunto soddisfazione. La mancanza è un correlato del bisogno.
La felicità è un sentimento straordinario, che richiede la sorpresa, l'imprevedibilità, la mancanza di controllo, di pianificazione.
Se non sbaglio, una distinzione "manualistica" fra gioia e felicità è che la prima è un'emozione (primaria) che può essere legata ad eventi imprevisti, mentre la seconda è meno intensa, inserita in un desiderio d'attesa e potenzialmente più duratura della gioia. Se sorvoliamo su queste definizioni, sicuramente è il caso di distinguere comunque la felicità improvvisa e inattesa da quella cercata e attesa (la felicità di essere in una condizione che si desiderava, di raggiungere un certo traguardo, di avere ciò che si voleva, etc.).

P.s.
Al di là delle definizioni, concordo che quel che si attacca al cucchiaio di legno sia il meglio delle patate al rosmarino.
#1330
Tematiche Filosofiche / Re:La felicità
30 Settembre 2019, 12:33:16 PM
Citazione di: Ipazia il 30 Settembre 2019, 11:34:31 AM
Non va dimenticato, scendendo dai propri nirvana personali, che tale concetto nasce correlato alla soddisfazione dei bisogni materiali e al giusto mezzo conseguito, libero da ogni avidità, tra abbondanza e miseria, Poros e Penia, da cui nacque, non a caso, Eros.
Dubitando della mia memoria ho controllato e sembra proprio che Poros non sia "abbondanza" ma "espediente" anche nel senso di "ingegnosità": sia in amore che per la felicità (di cui l'amore è a suo modo declinazione), la condizione iniziale è Mancanza, ma tramite la sua congiunzione con Ingegno, si può arrivare alla mèta agognata (quindi l'avidità, intesa come brama, buddismo docet, ha un suo ruolo, nel bene e nel male...).
Questi due fattori, carenza e "macchinazione" (per ammiccare al ruolo della tecnica, mossa dall'ingegno), spiegano in sintesi tanto i moventi della storia dell'uomo come specie, quanto il percorso biografico dell'individuo: mosso dall'avvertire una mancanza (che può essere fisiologica, psicologica, innata, indotta, etc.), usa la sua ragione per procurarsi (in differenti modi, valutabili con differenti parametri) ciò di cui sente il bisogno (vari tipi di bisogno, alcuni propri della specie, altri decisamente più individuali).

Forse, in fondo, la felicità è come la carota legata al bastone: se sotto sotto vogliamo continuare a correre, dobbiamo guardarci dal raggiungerla (per quanto suoni apparentemente paradossale, parlando di felicità); se possiamo (e vogliamo) godercela senza correre, ci conviene mangiarla a piccoli morsi, per farla durare, poiché non è detto che, una volta terminata (Penia) saremo in grado (Poros) di trovarne altre (per quanto sia proprio la mancanza a dare il sapore alla soddisfazione in quanto non-più-mancanza).
#1331
Tematiche Filosofiche / Re:L'origine del male e del bene
27 Settembre 2019, 21:27:52 PM
Citazione di: green demetr il 27 Settembre 2019, 08:05:17 AM
Lascio per un attimo le questioni lasciate in sospeso da Phil, in effetti si potrebbe vedere il suo mettere in dubbio, il suo scetticismo generale, come un arte maieutica per tirare fuori qualcosa di positivo.
Lieto che tu l'abbia notato e, parlando di maieutica, ricorderei questo:
«Socrate – Oh, mio piacevole amico! e tu non hai sentito dire che io sono figliuolo d'una molto brava e vigorosa levatrice, di Fenàrete?
Teeteto – Questo sí, l'ho sentito dire.
Socrate – E che io esercito la stessa arte l'hai sentito dire?
Teeteto – No, mai!
Socrate – Sappi dunque che è così. Tu però non andarlo a dire agli altri. Non lo sanno, caro amico, che io possiedo quest'arte; e, non sapendolo, non dicono di me questo, bensì ch'io sono il piú stravagante degli uomini e che non faccio che seminar dubbi. Anche questo l'avrai sentito dire, è vero?
Teeteto – Sí. [...]
Socrate - Tu sai che nessuna donna, finché sia ella in stato di concepire e di generare, fa da levatrice alle altre donne; ma quelle soltanto che generare non possono più.
Teeteto – Sta bene.
Socrate – La causa di ciò dicono sia stata Artèmide, che ebbe in sorte di presiedere ai parti benché vergine. Ella dunque a donne sterili non concedette di fare da levatrici, essendo la natura umana troppo debole perché possa chiunque acquistare un'arte di cui non abbia avuto esperienza; ma assegnò codesto ufficio a quelle donne che per l'età loro non potevano piú generare, onorando in tal modo la somiglianza che esse avevano con lei. [...]
Socrate - Poiché questo ho di comune con le levatrici, che anch'io sono sterile ... di sapienza; e il biasimo che già tanti mi hanno fatto, che interrogo sì gli altri, ma non manifesto mai io stesso su nessuna questione il mio pensiero, ignorante come sono, è verissimo biasimo. E la ragione è appunto questa, che il dio mi costringe a fare da ostetrico, ma mi vietò di generare. Io sono dunque, in me, tutt'altro che sapiente, né da me è venuta fuori alcuna sapiente scoperta che sia generazione del mio animo [...]
Socrate - è chiaro che da me non hanno imparato nulla, bensì proprio e solo da se stessi molte cose e belle hanno trovato e generato [...]
Socrate - se poi, esaminando le tue risposte, io trovi che alcuna di esse è fantasma e non verità, e te la strappo di dosso e te la butto via, tu non sdegnarti meco come fanno per i lor figliuoli le donne di primo parto.»
(Platone, Teeteto, 149 a-151 d; corsivi miei)

Tanto il maieuta quanto l'ermeneuta, non si accostano all'altrui pensiero con la Verità già in spalla, né è rilevante per loro quale (e se) essa sia: per entrambi i "mestieri", la priorità (a suo modo "etica") è l'altrui "verità", nell'aiutare l'altro a collaudare e ottimizzare il suo stesso pensiero della sua verità (maieutica postmodernista) o nel cercare di comprenderla, addentrandovisi senza portar con sé troppo della propria prospettiva (che inficerebbe la comprensione, sebbene, finché restiamo umani, il circolo ermeneutico non sia totalmente disinnescabile tramite un'epochè fenomenologica, soprattutto su alcuni temi poco falsificabili).
Ne consegue che un presupposto che può agevolare sia il maieuta che l'ermeneuta è un tipo di pensiero "debole", come punto di partenza, un pensiero che non ha in sé una verità forte e quindi non può imporla all'altro (pilotando, più o meno consciamente, la maieutica) né gli risulta di intralcio o deformazione nel rintracciare il significato dell'altrui pensiero.
Non a caso, un tratto distintivo del pensatore debole (ancor più che del filosofo in generale) è l'uso della domanda: i pensatori forti, solitamente, ne fanno poche e retoriche (i dogmatici spesso non ne fanno affatto, avendo dogmi hanno già disponibili gran parte delle risposte). Invece, una maieutica e un'ermeneutica senza domande, praticamente non sono più tali. Certo, un pensatore forte, per "deformazione professionale", leggerà spesso tali domande deboli come retoriche; per sapere se lo sono davvero, basta semplicemente rispondere, che è il gesto basilare che ogni domanda, retorica e non, vorrebbe provocare.

A proposito di domande, su cosa può fondarsi la debolezza di un pensiero maieutico ed ermeneutico? Secondo me, la substruttura (piano spesso trascurato) su cui si edificano strutture veritative e, più in alto, sovrastrutture verificanti, è l'estrema "debolezza", extra-discorsiva ma per nulla mistica (non me ne voglia Wittgenstein) dei già citati saggi taoisti che arrivavano partivano dal «ritenere che le cose non esistessero»(cit.) e che ci interrogano domandandoci «ma vi sono veramente una completezza e un declino o non vi è né completezza, né declino?», con una domanda che segna il passaggio dal "nulla" (come assenza di identità concettuale, non di esistenza ontica) al qualcosa (concettualizzato, valutato, etc.), dal pre-senso al senso, dal fatto all'interpretazione, dalla substruttura alla struttura.
Una volta immessi (inevitabilmente) nel "gioco di società" delle strutture di senso culturali (quindi abbandonando, ma magari non scordando, la substruttura), ci si ritrova a potersi confrontare con problemi di senso (della vita, e non solo) come
Citazione di: Ipazia il 27 Settembre 2019, 10:26:04 AM
la (in)consistenza dei fondamenti etici cattolici, che stanno perdendo anche sull'eutanasia.
Effettivamente la cronaca recente ci ha fornito, con un buon tempismo (quasi un "buontempismo" goliardico, direi), un "case study" per i discorsi che abbiamo fatto sinora: la razionalità del suicidio (@viator), la vita e i bisogni primari come valori (@Ipazia) talvolta problematici e autoreferenziali (aggiungerei), la (bio)politica che legifera sull'etica e non viceversa (@green), etc.
#1332
Tematiche Filosofiche / Re:L'origine del male e del bene
25 Settembre 2019, 15:51:56 PM
Citazione di: Ipazia il 25 Settembre 2019, 10:05:47 AM
Citazione«Etica» al singolare?
Sì, intesa come sapere. Come prodotto dell'intelligenza storica collettiva. La pluralità riguarda semmai le applicazioni pratiche nei molteplici piani del reale. Le quali però derivano il loro "spirito" da una fonte tendenzialmente unificante.
Unificante nella sua "forma" in generale (se forziamo un po'), ma la storia la fanno le scelte concrete e i contenuti, fattuali e plurali (contraccolpo dell'eccessiva generalità: suggerire, in generale, di fare il bene, non aiuta a capire quale esso sia). Fare di tutte le culture una etica (o un sapere) è, a mio avviso, un "civettuolo" ("nottolico"?) librarsi sopra il reale, augurandosi di poterci poi riatterrare con qualcosa di fruibile per compiere scelte etiche (finché la loro urgenza ne ammette l'attesa).

Citazione di: Ipazia il 25 Settembre 2019, 10:05:47 AM
La sintesi storica a posteriori comporta anche una sintesi di paradigmi etici; una loro sintetica unificazione come avviene nel caso delle rivoluzioni scientifiche. [...] la bontà anche teoretica di un riferimento alla (comune) natura e la non peregrinità fondativa della teoria dei bisogni che produce la farina di cui tutti si alimentano. (alimenti ce ne sono molti, ma la necessità alimentare è unica e incontrovertibie)
Come ricordato, le scienze sono falsificabili proprio perché si occupano induttivamente dei propri referenti; la convergenza unitaria del pensiero scientifico (potrei sbagliarmi) viene meno quanto più il referente si fa impalpabile (quantistico, etc.). Mi pare che l'etica abbia tutta un'altra impostazione e un altro campo di applicazione che, sempre fino a prova contraria, non è riducibile a soddisfare i bisogni primari (che sono individuali). Unificare i paradigmi etici è talvolta come unificare i propri amici vegani invitandoli per una grigliata di maiale: sarebbe anche "bello", ma la realtà dei fatti è spesso spietatamente selettiva più che unificante.
Salvo tu intenda «unificante» nel senso che uno domina l'altro; infatti:
Citazione di: Ipazia il 25 Settembre 2019, 10:05:47 AM
che l'etica abbia un conatus unificante lo dimostra l'etica del conflitto: Odissea, etica cavalleresca, convenzione di Ginevra, regole d'ingaggio, DUDU. E mettiamoci pure la netiquette.
non sono esempi di unificazione etica, ma di come una etica si affermi scartando le altre possibili: ancora una volta si rischia di confondere il successo storico e demoscopico con la sintesi verso "il meglio". Come già detto, a posteriori l'etica dominante non può che guardare al passato che l'ha affermata come tale e dire: «è cosa buona e giusta» in un'autoreferenza che schiva le domande insidiose di ogni meta-etica.

Citazione di: Ipazia il 25 Settembre 2019, 10:05:47 AM
Citazione di: Phil il 24 Settembre 2019, 23:57:04 PM
Citazione di: Ipazia il 24 Settembre 2019, 22:03:37 PM
Il che mi spinge a caldeggiare l'unificazione degli assiomi e dei referenti fondativi.
Possiamo manipolare e unificare gli assiomi, ma davvero anche la pluralità dei referenti?
Dobbiamo. Questione di sopravvivenza della specie e di lieto vivere.
Un dovere etico che si scontra con un non-potere pragmatico; mi sa che anche qui puntiamo su cavalli diversi.

Citazione di: Ipazia il 25 Settembre 2019, 10:05:47 AM
La pluralità dei referenti non è questione etica, ma di gusto personale.
Pardon, la pluralità dei referenti è questione di "oggettività", "fattualità", etc. la pluralità dei significati è questione di gusto.

Citazione di: Ipazia il 25 Settembre 2019, 10:05:47 AM
Quando diventa questione etica nasce il conflitto, che esige almeno un'etica condivisa che si chiama tolleranza. Soluzione provvisoria in attesa di unificazioni più soddisfacenti. Con la farina a fare sempre da collante. E pure vaselina talvolta, quando l'animalità riscopre il suo senso.
Posso anche concordare con questa tua prospettiva etica (esigenza della tolleranza, etc.), almeno finché ne ricordiamo la contingenza; nel momento in cui la riteniamo necessaria e giusta, non potrà esserci né unificazione né sintesi dialettica con le prospettive divergenti, ma solo sotto-valutazione (gerarchica) o, in casi estremi, sotto-missione («mors tua...»).

Citazione di: Ipazia il 25 Settembre 2019, 10:05:47 AM
CitazioneProgresso etico? Secondo quali indicatori (di quale etica)?
Algoritmi di soddisfazione dei bisogni primari, salute, alfabetizzazione, tempo libero, diritti sociali e civili. Teoria dei bisogni: etica e politica sempre lì devono andare a parare. Fissando il tutto nel divenire delle tavole della legge.
«Bisogni primari, salute, alfabetizzazione, tempo libero» li lascerei a margine dell'etica (che non è il welfare); per affermare che diritti sociali e civili (e le tavole della legge che li contengono) progrediscano o regrediscano, avremmo bisogno di un paradigma interpretativo; ovviamente sceglieremo quello di casa nostra (di nuovo: posso concordare perché sono nella tua stessa cultura, ma la gerarchia è inevitabilmente autoreferenziale, non mi pare fondata su incontrovertibili sequitur etologici).

Citazione di: Ipazia il 25 Settembre 2019, 10:05:47 AM
L'invarianza etica intersoggettiva sta, fatta la tara del gusto e della varietà, nel cibo e nel bisogno di esso.
Se tolgo la parola «etica» la frase mantiene lo stesso senso; eppure quell'aggettivo non dovrebbe essere così irrilevante... il fatto che tutti abbiamo bisogno di cibo non è una questione in sé etica, ma fisiologica; l'etica può occuparsene nel gestire le scorte di cibo, ma è allora etico l'approccio al tema del cibo, non il bisogno in sé (anche i microbi hanno bisogno di cibo, ma non scomoderei l'etica per comprenderli). Ancora una volta, il referente (bisogno di cibo) non è il significato (questioni etiche riguardanti la gestione del cibo, etc.), in mezzo c'è un paradigma, anzi, dei paradigmi.

Citazione di: Ipazia il 25 Settembre 2019, 10:05:47 AM
se si considerano il bene e il male dei ferrivecchi da archiviare e si pone l'etica nell'esclusiva autonomia individuale finisce che ognuno si costruirà il suo rapporto "etico" con la natura, inclusa quella umana
Forse questo è il deleterio fraintendimento di base: quando propongo di accantonare «bene» e «male», non ho in mente un'autarchia individualista in una società di schegge rapsodiche e arroganti (che si arrogano la definizione di «bene» e «male», piuttosto che accantonarli). Rileggiamo il mio primo post del thread:
Citazione di: Phil il 07 Settembre 2019, 17:01:45 PM
L'alternativa è ingegnare nuove categorie più attuali (e possibilmente figlie fertili del nostro tempo) oppure, per farla più facile/difficile (dipende), andare a ripescare gli insuccessi storici di categorie inattuali al loro tempo, o di quelle soffocate dal coevo mainstream storico.
Se consideri che ho più volte sottolineato come il campo di gioco dell'etica sia la società e non l'individualità (vedi il mio ostracizzare Maslow in quanto invitato illegittimo) e ho più volte evidenziato come l'autoreferenza del paradigma etico sia culturale (non soggettiva) nel conflitto fra società (o addirittura continenti), puoi ben dedurre che la mia chiave di volta (e di lettura) non è che ognuno debba farsi un'etica a sua immagine e somiglianza (anche se resta possibile), ma piuttosto provare a pensare e analizzare i rapporti sociali con
Citazione di: Phil il 07 Settembre 2019, 17:01:45 PM
categorie meno vaghe e sbrigativamente sintetiche di "bene" e "male", magari declinandole (in entrambi i sensi) in altre categorie
Il conflitto fra paradigmi etici (siano essi, stavolta, sia individuali che collettivi) l'ho sempre inquadrato come criticità (risparmio altre autocitazioni) e come presupposto di fatto (cronaca, possibili referendum, etc.) il cui risvolto etico, secondo me, non è (come da caricatura "strawman" del relativismo) «ognuno si faccia il suo idolo e inizi la babelica bagarre planetaria!», quanto piuttosto una presa d'atto delle tautologie interne a ciascuna etica (in quanto tali) e delle aporie che nascono in assenza di una meta-etica risolutiva (che mi sembra piuttosto improbabile; per questo ho chiesto delucidazioni sull'eventuale sequitur ethos/etica; "piano b" altrettanto improbabile, da quel che ho capito).


P.s.
Se son "dovuto" ritornare al post di partenza, significa che il giro di giostra è finito e i successivi sarebbero perlopiù (ulteriori) ripetizioni; scendo, grazie della compagnia.
#1333
Tematiche Filosofiche / Re:L'origine del male e del bene
24 Settembre 2019, 23:57:04 PM
Citazione di: Ipazia il 24 Settembre 2019, 10:25:17 AM
Certamente: ethos techne vs. polis techne che a sua volta retroattivamente modifica l'ambiente (umano) e le sue tecniche di gestione, quindi l'etica (Platone, Machiavelli, illuminismo, socialismo,...). Mai negato tutto ciò. Semplicemente non eravamo arrivati a discuterlo, ma la con-fusione tra le due era evidente soprattutto nelle repliche "fattuali" di Phil.
Alludi a quando ho relazionato il successo storico di una prospettiva (politica o altro) con l'imprinting etico che ne è poi derivato (v. indicatori)? Oppure a quando ho ricordato che la politiche hanno la mano più pesante delle etiche (come ci insegnano gli "squali del capitalismo", etc.)?
Se politica ed etica prescindono dai "fatti", non diventano ancor più avulse ed autoreferenziali, pagando tale disimpegno con una mancata spendibilità in ambito sociale? Se pensiamo a sintesi dialettiche, ma poi la realtà ce le falsifica, significa che sbagliamo ad appellarci alla realtà oppure che è il nostro pensare che va un po' ricalibrato? Ci interessa un'etica e/o una politica che possano essere praticate (v. tesi su Feuerbach) o soltanto (de)scritte come "miglior mondo nel sol dell'avvenire"?

Citazione di: Ipazia il 24 Settembre 2019, 10:25:17 AM
Semmai è Phil convinto che si possa fare etica a partire dalla fisica
Tale "convinzione" risiede nel mio sbandierato non trovare un sequitur fra physis-ethos ed etica?
[Stai giocosamente "trollando" tutti i miei post in questa discussione o hai solo dimenticato di inserire un «non» prima di «convinto»?]

Citazione di: Ipazia il 24 Settembre 2019, 22:03:37 PM
Anche un mio Maestro, che certo non si faceva illusioni sugli "squali dell'imperialismo capitalista", ne riconosceva la funzione progressiva nella razionalizzazione del lavoro e dell'economia. Compresa una funzione etica di metabolizzazione di squali di più antica datazione.
«Etica» o «sociale»?

Citazione di: Ipazia il 24 Settembre 2019, 22:03:37 PM
Il paradigma a volo d'uccello appare come un serpentone unico, autoreferenziale nel suo volersi conservare in vita, per la qual cosa deve spendersi per il sequitur - poco presunto e reale - che il Maestro di cui sopra chiamava "ricambio organico uomo-natura"; la ricerca del cui equilibrio omeostatico è sempre una bella sfida per umani ed etiche di tutte le razze ed epoche.
L'etica non ha perlopiù altro campo d'applicazione rispetto all'equilibrio uomo/natura?

Citazione di: Ipazia il 24 Settembre 2019, 22:03:37 PM
Come in questa bellissima canzone di Battiato, il divino Eraclito ci spiega che il ciclo della vita è un paradigma tautologico nel quale tutto avviene al suo interno, laddove l'induzione passata ci permette di dedurre il futuro e l'etica funge da filo di Arianna che dobbiamo ritessere man mano che ci inoltriamo nel divenire. Ci facciamo guidare dall'etica del passato, laddove essa dimostra di continuare a funzionare, decostruendo e ricostruendo ciò che non funziona più.
[In entrambe le ricorrenze]«Etica» al singolare?

Citazione di: Ipazia il 24 Settembre 2019, 22:03:37 PM
La sintesi nasce dal conflitto. Dialettica hegeliana elementare.
Eppure, il buon Hegel si occupava di dialettica fra paradigmi etici o parlava di sintesi storica "a posteriori"? Intanto, nel qui ed ora del conflitto, quale dialettica scandisce l'etica (o meglio, le etiche)?

Citazione di: Ipazia il 24 Settembre 2019, 22:03:37 PM
Il che mi spinge a caldeggiare l'unificazione degli assiomi e dei referenti fondativi.
Possiamo manipolare e unificare gli assiomi, ma davvero anche la pluralità dei referenti?

Citazione di: Ipazia il 24 Settembre 2019, 22:03:37 PM
Il valore vita ha avuto anche risvolti differenti dalla piramide alimentare darwiniana. Abbiamo portato anche morte e distruzione, ma bisogna mettere tutto nel conto evolutivo. Nel quale solo il progresso etico e l'accuratezza dei suoi paradigmi ci può salvare.
Progresso etico? Secondo quali indicatori (di quale etica)?

Citazione di: Ipazia il 24 Settembre 2019, 22:03:37 PM
Benessere e felicità hanno loro algoritmi abbastanza rigorosi finchè si resta nel campo della soddisfazione dei bisogni condivisi. Con un grado si certezza maggiore quanto più ci si trova alla base della piramide di Maslow, cui corrisponde una invarianza etica alquanto incontestabile.
«Invarianza etica» dei bisogni primari? Il testo di Maslow (citato in precedenza) non aveva confermato che la piramide ha valenza individuale (così come sono vissuti individualmente i bisogni primari)?

Citazione di: Ipazia il 24 Settembre 2019, 22:03:37 PM
lo sviluppo socioeconomico e tecnologico travolgente dell'Asia è frutto di intelligenza collettiva. Sintetica, piuttosto che debitrice, del pensiero occidentale. Al punto che ci stanno già facendo scuola.
Lavoro collettivo, senza scendere nei dettagli della sua "eticità", significa intelligenza collettiva? Lo sviluppo è davvero anche «socio» oltre che «economico»?

Citazione di: Ipazia il 24 Settembre 2019, 22:03:37 PM
Sotto il Mediterraneo manca. E infatti se la vengono a prendere in Europa.
Davvero è l'intelligenza collettiva ciò che (ap)prendono (provenendo dai paesi dell'ubuntu)?
#1334
Tematiche Filosofiche / Re:L'origine del male e del bene
23 Settembre 2019, 22:21:58 PM
Citazione di: Ipazia il 23 Settembre 2019, 19:47:38 PM
Abbiamo difficoltà a distinguere la Germania nazista dalla Germania democratica ? Torquamada da Voltaire ? Tanto difficile e opinabile un paradigma a proposito ? Ne girano parecchi: indicatori di sviluppo, qualità della vita e persino di felicità
La distinzione (del referente "fattuale") la vedono sia il nazista che il democratico, sia gli inquisitori che gli illuministi; sul valore (significato) della differenza, temo non siano perfettamente concordi (come già ricordato da Jacopus). Chiaramente qualcuno viene sconfitto nel corso della storia; ma davvero capita solo ai "cattivi"? O sono i vincitori a fare l'etica più di quanto la facciano i presunti sequitur? Forse non ne avremo mai la controprova; tuttavia, riflettendo sulle categorie (e sulla compilazione degli indicatori) attuali non è difficile intuire che esse siano figlie della storia più di quanto siano formalizzazioni di valori assoluti e meta-storici (se riusciamo a riconoscere la loro genesi terrestre: contingente, non necessaria). Ad esempio, il successo storico degli "squali dell'imperialismo capitalista" quanto condiziona il "segno +" dei nostri «indicatori di sviluppo, qualità della vita e persino di felicità»(cit.)? Autoreferenza dei paradigmi, dicevamo.

Citazione di: Ipazia il 23 Settembre 2019, 19:47:38 PM
Chi decide la "normatività" etica ? Un assioma idealistico assoluto o storicamente determinato ? La falsificabilità la misurano le varie Stalingrado sociali e morali che hanno segnato la storia. L'oggettività incontrovertibile meglio lasciarla ai metafisici e ai matematici. Per la vita reale basta un'etica laica, capace di demarcare diritti e doveri nello spirito e materialità dei tempi.
La normatività è solitamente implicita nell'etica, non fuori (per questo ammonivo sul ricordare cosa ci aspettiamo dall'etica). L'etica deve guidarci o noi dobbiamo guidare l'etica? Sarebbe bella una salomonica dialettica fra le due, ma se intanto, in concreto, dobbiamo decidere una questione etica, come quelle che ho citato in precedenza, non possiamo che far appello all'etica che abbiamo: "per vedere l'effetto che fa" o perché la riteniamo giusta? La risposta rivela il peso della distinzione fra induzione e deduzione, fra falsificabilità e paradigma tautologico, etc.

Citazione di: Ipazia il 23 Settembre 2019, 19:47:38 PM
Seminari e conventi languono e "un pane per grazia di Dio" scandisce penosamente i nuovi reclutamenti. Che invece abbondano nelle kermesse socio-filosofiche. A prova di snobbismo iniziatico: ogni epoca ha il suo logos, e che si sia proletarizzato un po', alfabetizzando le masse, non guasta.
Direi che non guasta affatto; una volta distinto lo snobbismo dalla competenza, sai che sono fautore del fai-da-te filosofico (essendone esempio), della già citata popsophia e del "bricolage del pensiero", soprattutto finché hanno la consapevolezza e l'umiltà di esser tali (le istruzioni dei mobili Ikea sono per tutti, quelle per costruire l'Amerigo Vespucci sono un po' più selettive).

Citazione di: Ipazia il 23 Settembre 2019, 19:47:38 PM
Stiamo parlando di un'etica che acquisisce senso in una circolarità planitaria, di specie. E che se ne incontra un'altra non nasce aporia, ma necessità di sintesi, perchè la dialettica è ormai globale.
Eppure, su scala globale, i "fatti" ci parlano più di conflitti che di sintesi; più di incompatibilità paradigmatica che di dialettica. Dove le talpe notano sgambetti e colpi bassi, le nottole, dall'alto, vedono un laborioso formicaio; come sempre, ognuno scorge ciò che la sua prospettiva gli consente.

Citazione di: Ipazia il 23 Settembre 2019, 19:47:38 PM
Anche perchè pure le interpretazioni sono fatti. E producono fatti il cui sfondo incontrovertibile, in assenza di dei, diventa la natura, ivi compresa quella natura particolare che è la natura umana. In cui i significati non sono, ma si danno. E sopravvivono in base alla loro capacità di produrre più benessere e felicità.
Selezione "naturale" fra i significati in vista di maggior benessere e felicità? Come dissi pagine addietro, è un alibi ben noto a noi occidentali, dai tempi delle crociate sino all'esportazione della democrazia (cito, non valuto); gli squali di cui sopra ne sarebbero fieri, i pesci piccoli e martirizzati un po' meno; tuttavia se questa è la sintesi dialettica "giusta" che la storia ci propone, le sorti della vita dei pesci piccoli sono la conferma dell'ethos del «mors tua, vita mea»; tutto piuttosto "naturale" (la vita ha di certo un suo "valore" nell'economia della piramide... non di Maslow, ma quella alimentare).

Citazione di: Ipazia il 23 Settembre 2019, 19:47:38 PM
capacità di produrre più benessere e felicità. Concetti non incontrovertibili, ma solidi abbastanza da poter essere assiomatizzati con la consapevolezza dei loro limiti.
Assiomatizzare «benessere e felicità» non è forse il primo passo per chiudere impostare un paradigma etico sull'interpretazione del significato di quei due termini? In un gesto solo ecco spiegati l'autoreferenza del fondamento etico e la pluralità delle etiche.

Citazione di: Ipazia il 23 Settembre 2019, 19:47:38 PM
E' la lezione di Nietzsche: interrogare il proprio destino (evolutivo) e cercare di assecondarlo al meglio possibile. Ovvero, aggiungo io (anche se FN non sarebbe d'accordo) vagliandolo con lo strumento più oggettivo di cui disponiamo: l'intelligenza collettiva.
Sbaglierò, ma qui rilevo un ingombrante occidente-centrismo: al di là degli Urali e al di sotto del Mediterraneo, l'intelligenza collettiva/connettiva non va troppo di moda, o forse è così "pensiero laterale" che la fraintendiamo?
#1335
Tematiche Filosofiche / Re:La scrittura
23 Settembre 2019, 16:59:31 PM
Citazione di: paul11 il 23 Settembre 2019, 00:47:45 AM
Il sacro (non necessariamente inteso come termine teologico o "deistico") nacque come inviolabilità per creare una "remora", una dissuasione a percorrere certi metodi che oggi definiremmo da furbi.
Oggi lo vedo più o meno velocemente sparire spacciandola per libertà
[...]Il sacro può anche essere inteso (ma non solo) come esigenza di tenere unita una comunità .
Concordo; in ciò la funzione del sacro mi pare quasi insostituibile: a prescindere dal suo fondamento, il sacro fonda una dimensione linguistica in cui il meccanismo (morale, psicologico, etc.) della «remora» ("peccato", etc.) cerca di mantenere la parola aderente al reale, riducendo le contraffazioni semantiche. Si tratta di una funzione che mi sembra permanere tuttora anche nel dna culturale del laico, per quanto indebolita e scollata dai suoi fondamenti originari e non so se tale istanza del «non mentire», nella sua estrema funzionalità sociale, potrà mai essere fagocitata da usi strumentali del linguaggio; probabilmente la sua utilità è così imprescindibile che manterrà sempre un ruolo normativo (per quanto, come si suol dire, «fatta la legge, ...»).

Citazione di: paul11 il 23 Settembre 2019, 00:47:45 AM
Tutto è manipolabile da parte degli umani, l'oralità o la scrittura sono sempre manipolabili, non è questa la discriminante. Il testo scritto è divenuto fondamentale nelle scienze giuridiche, negli iter processuali ,in criminologia come probante. Ma è tanto più probante tanto più non trasmette conoscenza, dice il "fatto".
Qui concordo meno: manipolare un racconto orale mi pare molto più facile che manipolare uno scritto e, fuori dai tribunali, ci sono scritti che trasmettono conoscenza, non solo fatti o codici; gli scritti più antichi si occupavano tanto di conoscenza (filosofia, religioni, etc.) quanto di fatti; il "descrizionismo" si è intensificato con la storia (per quanto la storio-grafia sia antichissima) e con il miglioramento delle tecnologie di scrittura.

Citazione di: paul11 il 23 Settembre 2019, 00:47:45 AM
La mole di scrittura negli ultimi decenni, se aggiungiamo il "net" penso che da sola conti più che l'intera storia dell'umanità precedente messa insieme.
Il concetto dirimente è che la scrittura non ha portato di per sé maggiore conoscenza, semmai maggiori curiosità, ma frastornati e l'informazione è parecchio "fake".
La scrittura porta (tutta?) la conoscenza della sua epoca; il "net" rende la rete della conoscenza accessibile oltre i confini spaziali (che anticamente erano spesso invalicabili); che poi la qualità dell'informazione sia nel complesso scadente e inflazionata, dipende da quanti producono informazioni: la quantità non può andare a braccetto con la qualità perché pochi hanno competenze specifiche (per definizione, direi). Esempio banale: se tutti corressimo la maratona di New York, solo perché è aperta a tutti (poniamo), il tempo medio sarà altissimo; se la corrono solo i professionisti, il tempo medio sarà inaccessibile persino ad altri professionisti (con la comunicazione è lo stesso, al netto di interessi in gioco ed ingerenze varie).

Citazione di: paul11 il 23 Settembre 2019, 00:47:45 AM
Personalmente dò parecchia importanza a "chi dice" prima ancora a "cosa dice", ribadisco che la fiducia e la credibilità di una trasmissione orale è più fiduciaria rispetto ad un asettico, almeno apparentemente, scritto.
La fiducia è proprio il fattore chiave del problema del filtro a cui accennavo; tuttavia, la fiducia può essere anche concessa a un testo scritto di una persona di cui mi fido, pur senza aver mai visto la sua faccia; poiché, credo concorderai, la faccia sa ingannare tanto quanto la voce e tanto quanto la penna.

Citazione di: paul11 il 23 Settembre 2019, 00:47:45 AM
Non c'è alcun archivio di senso, una verità si cerca sempre e comunque e nemmeno la più immane biblioteca può indicare lei ciò che devi trovare ciascuno di noi E tanto più un problema è grave, una conoscenza è difficile e tanto più abbiamo necessità di un faccia a faccia.
L'«archivio di senso» va distinto dall'"archivio della Verità": nel momento in cui ci confrontiamo con un testo, sia esso un tomo antico o un post su facebook, attingiamo inevitabilmente un po' di senso, riceviamo un input semantico. Vero o falso? Qualunque sia la risposta, non cancella l'evento del confronto con quell'input di senso.
Non intendo quindi l'«archivio di senso» come Verità che redime la dialettica io/altro, soggetto/oggetto, etc. ma solo come "tertium", più o meno rilevante, che ha un suo ruolo in tale dialettica (almeno nelle culture alfabetizzate).