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Messaggi - davintro

#136
Citazione di: Sariputra il 17 Gennaio 2020, 00:34:58 AMcit.:"So che probabilmente questa mia "pretesa" mi condannerà al restare single a vita (condizione che attualmente vivo in modo molto sereno, ma che mi crea alcune angosce se proiettata nel futuro), ma va bene così, preferisco restare solo, piuttosto che stare insieme a una donna "conquistata" al prezzo di mostrarmi diverso da come sono, finendo con lo snaturare me stesso e ingannare lei con una maschera che col tempo la deluderà, quando si rivelerà come tale" Concordo con gran parte delle osservazioni di @davintro. Solo una cosa mi sembra importante considerare: è vero che c'è questa possibilità di non capirsi veramente, di mostrare un volto diverso da quello che portiamo di solito, generando spessissimo delle incomprensioni che poi sfociano in litigi o rotture di rapporti, ma è altresì vero che, quando si è perdutamente innamorati, "tiriamo fuori" il meglio di noi stessi. L'innamoramento ha questo potere di spingerti a dare il meglio di te, a mettere in evidenza le tue doti migliori, gli aspetti più positivi del tuo carattere e del tuo abito mentale. Purtroppo questo "sforzo", che si attua per mostrarsi all'amata/o nel migliore dei modi, è molto faticoso mentalmente e difficile da compiere, se non per brevi periodi, dopo i quali gli altri aspetti presenti nella nostra personalità, 'spingono' per riprendere il loro spazio deleterio nella nostra vita. Parliamo soprattutto della rabbia generata dalla paura e dall'attaccamento, ma anche della pigrizia e del fatto di possedere una mente sostanzialmente egocentrata, che limita la visione dell' 'altro' ai nostri desideri e bisogni e non alla sua bellezza, al suo sforzo di vivere con noi e con la sopportazione delle nostre miserie (reciprocamente, naturalmente..). Facendo un esempio un pò banale: come mettiamo il nostro abito migliore per presenziare ad un evento o cerimonia importante, non presentandoci certo con gli abiti con i quali andiamo nell'orto, così nell'innamoramento vestiamo il nostro lato migliore (non sempre naturalmente, ché l'ombra ci segue immancabilmente..) per renderci amabili. E questo è molto bello , quasi poetico...Proprio per questa bellezza ci struggiamo e non sappiamo darci ragione di come poi siamo scaduti, di come ci siamo 'persi' e resi estranei, quando finiamo per azzuffarci per i soldi o per il tempo libero che pretendiamo usare a nostro piacimento... Ovviamente riuscire a trovare quel 'tesoro' con il quale sentirsi in perfetta sintonia, magari condividendo interessi e passioni, sarebbe l'ideale, ma anche qui la natura umana spesso gioca brutti tiri. Non è raro infatti che, a fronte di una perfetta intesa interiore, manchi totalmente quella esteriore, cioè la 'passione' sensuale e il reciproco desiderarsi. E questa è una fonte di grande sofferenza in una coppia che, agli occhi di amici e parenti, può sembrare invece 'perfetta'. In una coppia matura questo può non essere poi quel gran problema, in fin dei conti, ma in una coppia giovane l'attrazione fisica gioca un ruolo fondamentale. Ci sono altre dinamiche di rapporto, altri bisogni...In ambedue i casi però la sofferenza è in agguato, così come la possibilità , seppur a volte con molta tristezza e sensi di colpa, di cominciare a guardare altri volti, altri sorrisi... Il rischio della 'delusione' è inversamente proporzionale alle aspettative che nutriamo verso il nostro rapporto con l'altro/a. Più le nostre aspettative sono irrealistiche, più cocente sarà la delusione. Meno aspettative coviamo in seno e più la sorpresa di ogni giorno passato insieme farà crescere il nostro amore reciproco e la bellezza di condividere un cammino (questo ovviamente deve valere per entrambi).

penso di concordare nel complesso. Solo una piccola precisazione, a scanso di equivoci. Sono consapevole che la piena affinità di interessi e di carattere tra due persone resti un ideale irrealizzabile, però penso che debba comunque restare il modello regolativo a partire da cui fare le proprie scelte, e pur ammettendo la necessità di uno "sforzo", di compromessi, penso che la guida dell'azione debba restare la ragione, che di volta in valuta, valuta quanto l'eventuale compromesso sia o meno un "male minore", rispetto al rischio di compromettere la relazione. Fintanto che si accettano sacrifici il cui costo è considerato inferiore al preservare la relazione che si vuole tutelare, concordo con la loro necessità, se al contrario si ritiene che il tradimento dei propri valori e dei nostri interessi arrivi a un livello troppo gravoso, non più giustificabile in relazione della preservazione della coppia, sarebbe giusto, per entrambi, prenderne atto con onestà, e accettarne le conseguenze fattuali. Sono convinto che la solitudine, pur con tutta la sua negatività, resti uno scenario preferibile a quella di una vita in comune dove il mantenimento dell'armonia comporti il sacrificio della nostra personalità, e l'essere amati per ciò che non si è realmente. In questo senso, penso andrebbero chiariti meglio i criteri in base a cui nel conquistare una donna (o un uomo, non ne farei una questione sessista) mostreremmo il nostro "lato migliore". Nella conquista direi che mostriamo il lato che si ritiene sia il più gradevole per la persona che miriamo a conquistare, che non è affatto detto sia oggettivamente il nostro migliore, piuttosto è solo quello più funzionale in relazione ad un determinato scopo. Altrimenti dovremmo pensare che lo spessore morale di qualcuno sia giudicabile in base alla quantità di persone che lo apprezzano, mentre in realtà tale criterio è solo parzialmente indicativo. In questo senso, non trovo perfettamente attinente l'esempio dell'abito che indossiamo nell'orto e quello che indossiamo a una cerimonia. Che si indossino abiti diverse in diverse circostanze non implica  che uno sia considerato in assoluto più bello di un altro, ma solo che i due diversi abiti siano funzionali a due diversi scopi, da una parte l'immagine pubblica, dall'altro la comodità quando si sta lavorando.
#137
Tematiche Filosofiche / Re:Lo spazio dell'assoluto
21 Gennaio 2020, 17:49:28 PM
lo spazio dell'assoluto, da cui l'assoluto non potrà mai essere sradicato, è quello dei presupposti fondativi a partire da cui ogni discorso, ogni opinione, comprese quelle di stampo relativistico, che negano l'esistenza o la possibilità di una conoscenza razionale dell'assoluto, legittima le sue pretese di verità. Fintanto che un criterio di giudizio non assume i caratteri dell'assoluto, di ciò che è sciolto da legami, e resta contingente, vincolato a condizioni ad esso estrinseche, la tesi che ne deriva si troverà impossibilitata a render ragion di se stessa, perché priva di argomenti che possano tutelarla da obiezioni miranti a metterla in dubbio, e che potrebbero far leva sul negare l'esistenza delle condizioni a cui la validità del criterio non assolutistico sarebbe vincolata. Solo poggiando su criteri di verità assoluti, autoevidenti e autonomi, un discorso avrebbe gli strumenti per poter razionalmente opporsi alle obiezioni, potendo appunto rivendicare il fondamento indiscusso su cui poggia, indiscusso proprio perché universalmente valido, cioè "assoluto". E se anche alla necessità di questo criterio assoluto, funzionale a che un discorso sappia in modo razionale tutelarsi dai dubbi, si volesse opporre, come fa lo scetticismo, l'impossibilità di una convalida pienamente razionale e certa di ogni giudizio, accettando la dubitabilità come orizzonte invalicabile del pensiero, pensando in questo modo, facendo cadere la necessità della certezza razionale, di far cadere anche la necessità della fondazione assoluta, fondativa di questa certezza, le cose non cambierebbero. Infatti, anche formulando il giudizio "tutto è dubitabile" resterebbe il fatto che tale giudizio implichi la posizione di un limite della conoscenza umana nei confronti della realtà oggettiva, e che dunque la dubitabilità non può essere negatrice dell'esistenza reale di un assoluto, ma solo l'ammissione di incapacità del pensiero, il limite appunto, nei confronti di questa realtà e della verità, verità, che, ricorda Tommaso d'Aquino, è tale sempre come adeguazione alla realtà. L'incapacità del pensiero umano di poter convenire su delle certezze non toglie il fatto che nella realtà oggettiva ogni verità, che la si riconosca o meno, può essere tale solo se fondata su una verità assoluta, che è tale in quanto corrisponde a una realtà assoluta. Dunque l'assoluto non è solo una necessità logica di garanzia di verità del discorso, ma proprio in virtù di ciò, è anche principio reale ontologico. La rottura del nesso dialettico tra logica e ontologia, nesso sintetizzabile nella formula tommasiana "la verità è adeguazione dell'intelletto alla cosa" è l'errore alla base di tutti i pensiero-debolismi e irrazionalismi vari che infestano la filosofia contemporanea. Il compito di un'autentica filosofia sta nella speculare circa le corrette implicazioni logiche discendenti da quest'idea di assoluto, di per sé ancora generica e informale, in modo coerente e consequenziale.  E quanto più si specula, tanto più inevitabilmente si allarga il margine degli errori, delle imprecisioni, dei pregiudizi irrazionali, e dunque anche il margine delle variabili con cui "materialmente" riempiamo la forma logica dell'assoluto con le diverse visioni filosofiche o teologiche che si susseguono nella storia. Ma al netto di tali varianti, l'idea di assoluto resta in se stessa sempre presente come presupposto, anche quando implicito ed esplicitamente rigettato, perché sempre richiesto dalla forma logica del discorso. Quindi non assocerei la tutela dello spazio dell'assoluto in modo esclusivo ad alcuna particolare egemonia storica di una visione rispetto alle altre, anche se si parla di un'egemonia, quella della teologia cristiana medioevale, in cui la necessità dell'assoluto era certamente più esplicita rispetto ad altre egemonie culturali, compresa quella odierna in occidente.
#138
Citazione di: Jacopus il 20 Gennaio 2020, 19:07:32 PMSono d'accordo Davintro. Quello che non accetto è considerare il desiderio di essere genitori come un atto egoistico, come qualcuno ha affermato. Si trattava di una provocazione, ma sono certo che anche l'atto di non procreare sia legittimo e sappiamo tutti che obbligare al concepimento rende infelici sia i genitori che i figli. In ogni caso permettimi di dire che questa società insegna tutto tranne il principio del "sacrificio", del donarsi agli altri. Uno si può donare agli altri in tanti modi ed uno è quello di generare una nuova vita. Però già senti come stride nella nostra "weltaschaung" del XXI secolo questa espressione "donarsi agli altri". Ma siamo impazziti?

per quanto mi riguarda, chiarisco che non ho mai pensato che il desiderio genitoriale sia, considerato in se stesso, un atto di egoismo, ma che l'egoismo subentra sulla base di determinate motivazioni che ispirano questo desiderio, motivazioni che non sarebbero certo le uniche possibili. Non penso che il "sacrificio" debba considerarsi un principio morale positivo. Intanto perché uno può sacrificarsi anche per una causa malvagia, e questo sacrificarsi non attenua la colpa, ma la rinforza: quanto più si è disposti a sacrificarsi per una causa sbagliata, tanto più ciò indica un radicamento del male, un'ostinazione a perseguirlo, in quanto si è disposti a fare delle rinunce per realizzarlo. E poi perché, riguardo a ciò su cui stiamo discutendo, il "sacrificio", l'imporsi un fantomatico dovere alla genitorialità che non ci appartiene, non produrrebbe un bene come una nuova vita, ma la sofferenza di un bambino che non avrebbe un'infanzia serena e una crescita equilibrata in mancanza di figure genitoriali adeguate e predisposte naturalmente al loro ruolo. Sono dell'idea che la scelta di non generare sia più altruista di quella di generare autoforzandosi a essere ciò che naturalmente non si è, cioè dotati di qualità adatte all'essere bravi genitori, col rischio di mettere al mondo degli infelici, costretti a legare il loro destino a persone non adatte al ruolo. Non si può scappare da ciò che si è. Per questo, se per "donarsi agli altri" si intende "annullarsi per gli altri", in ciò non c'è nessun altruismo, perché penso non si possa realizzare nulla di buono imponendoci delle scelte che non riflettono i nostri interessi. Ecco perché nessun amore per gli altri è possibile se non preceduto da un amore per se stessi, che consiste nel rispetto della propria libertà e delle proprie vocazioni soggettive. Vocazioni che non è affatto detto debbano comprendere quella genitoriale
#139
Citazione di: Jacopus il 19 Gennaio 2020, 23:38:07 PM
CitazioneFigliare è un atto egoistico.
Potrei dire esattamente il contrario. Non figliare è un atto egoistico. Non si deve dividere il proprio tempo "felice" accompagnando i figli al calcio, in palestra, non bisogna andare a parlare con i professori, non ci si deve occupare delle sue esigenze personali, delle sue crisi. Non si deve provvedere alle sue necessità e ai suoi bisogni. La torta è tutta per noi. Nessuno con cui dividerla. Tranne poi, a 40 anni, scoprirsi soli e riempire quella solitudine con qualche cagnolino a cui ci si rivolgerà dicendo "vieni da papà, piccolino".

anche non volendo impuntarsi sulla terminologia e concedere l'uso del termine "egoismo" riferito alla scelta di non procreare, resta comunque il fatto che si tratterebbe di un "egoismo" del tutto innocuo, perché, basandosi sul non generare una vita, non esisterebbe nessuna persona concreta che soffrirebbe per tale scelta. Quindi si tratta di una scelta, che, quantomeno nelle intenzioni di partenza, mira al benessere della persona che la compie, senza recare male a nessuno. Se la si vuole intendere come "egoismo" penso che questo termine andrebbe quantomeno utilizzato in accezione neutra, e non moralmente negativa. o meglio, ciò dal mio soggettivo punto di vista morale, dove il male sono le azioni che producono quantità di sofferenza maggiore che di benessere, nel computo delle conseguenze. Troverei più "egoismo", questo in senso negativo, nel porre come motivazione del generare la paura della solitudine, perché in questo caso l'esistenza dei figli verrebbe strumentalizzata in funzione del desiderio personale di un genitore, che vorrebbe legare il figlio a sé, anche togliendoli la libertà di percorrere una strada autonoma. Per quanto riguarda il rischio di trovarsi da soli, la negatività di tale prospettiva è relativa al carattere della persona. Per chi come me, mette la libertà personale al primo posto, troverebbe preferibile la solitudine rispetto a delle compagnie soffocanti, e soprattutto trarrebbe più godimento da amicizie nate sulla base di una condivisione di interessi e autentica simpatia, piuttosto che su legami che spesso sono vincolati solo a rapporti di sangue. Insomma, fortunatamente il totale isolamento o la compagna di cani non sono le uniche alternative alla mancanza di figli
#140
Tematiche Filosofiche / Re:Una bellissima domanda.
19 Gennaio 2020, 17:29:16 PM
utilità e necessità non sono sinonimi. Sulla base della definizione riportata ""Ciò che funge al conseguimento di uno scopo o quantomeno di un effetto", non se ne deduce la necessità di quello che funge, l'utile, in relazione al conseguimento dello scopo/effetto. Ci si dovrebbe limitare ad ammettere che l'utile contribuisce al raggiungimento dello scopo, ma non che in assenza di ciò a cui la categoria di "utile" è attribuita, lo scopo non potrebbe essere raggiunto. Mentre la necessità indica l'insostituibilità di qualcosa in relazione ad uno scopo, cioè l'impossibilità assoluta di poter prescindere da questo "qualcosa", l'utile indica un supporto allo scopo, ma non tale da escludere la possibilità che anche senza tale supporto lo scopo non potrebbe realizzarsi. Ad esempio, uno studente che mira allo scopo di avere COME MINIMO, nel complesso dei voti scolastici la media del 6,troverebbe certamente "utile" prendere un 10 in un singolo compito in classe, ma non "necessario": anche senza ottenere questo risultato particolare, la media del 6 potrebbe essere ugualmente raggiunta e anche superata se ci sono voti buoni in altre verifiche.

Il passaggio logico per cui collego il cielo stellato all'esistenza del mondo e di me stesso, soggetto osservatore, è una mediazione, un ragionamento atto a formulare una tesi fattuale, mentre la bellezza non è mai il prodotto di un ragionamento, ma è invece il contenuto di un sentimento, un'intuizione immediata direttamente riferibile a un oggetto colto nella sua autoreferenzialità, in ciò che è in se stesso, al di là delle relazioni con altri oggetti (difatti "intuizione" indica proprio questo "entrare dentro", penetrare l'essenza intrinseca di qualcosa, le sue proprietà peculiari, e non le relazioni con altro). Dalla constatazione dell'utilità, o necessità, del cielo stellato all'esistenza del mondo o dell'uomo, non se ne deduce alcuna motivazione oggettiva per cui dover considerare "bello" il cielo stellato. La semplice possibilità teorica di considerare un qualcosa funzionale allo scopo come non avente in se alcun valore positivo, al di là del contribuire allo scopo, che invece avrebbe in se stesso tale valore, indica come la bellezza possa essere goduta solo per la realtà che costiuisce lo scopo, ma non ciò che permette il suo realizzarsi. Il giudizio sull'utilità di un mezzo in funzione di uno scopo è la conseguenza di una riflessione, e la riflessione (a prescindere dal livello di automaticità con cui viene operata, per cui a volte sembra che la riflessione sia qualcosa di immediato, ma in realtà esprime sempre uno sforzo, anche se risulta più o meno facile in base all'abitudine con cui lo operiamo) è sempre un'azione di una volontà che decide di riflettere. La bellezza, invece, essendo un valore estetico, attiene all'ambito del sentimento immediato, non decidiamo volontariamente e razionalmente di provare bellezza per qualcosa, la bellezza è l'effetto dell'influsso diretto di un oggetto su una psiche assiologicamente, oltre che esteticamente, predisposta a percepire come "belle" le sue proprietà, ed essendo questo influsso diretto, non c'è spazio per ragionare sul modo in cui questo oggetto si inserisca in una relazione di utilità o necessità con un altro, per arrivare a questo occorre la razionalità mediatrice, cioè trascendere il livello estetico
#141
penso che l'eventuale componente di egoismo nella scelta di generare un figlio stia tutta nelle motivazioni che la ispirano. Diventa egoismo nel momento in cui la motivazione fondamentale è il pensiero di come un figlio potrebbe rendere felice la propria vita, senza prima porsi un problema di autoconsapevolezza riguardo le proprie qualità personali atte a poter assicurare, quantomeno, una ragionevole possibilità di una vita serena al proprio figlio (senza poi considerare le oggettive condizioni sociali-economiche necessarie a questo obiettivo, che non dipendono dall'impegno dei genitori), con tutti i sacrifici che ciò comporterebbe. Un esempio di genitorialità egoista è quello di un genitore che considera il figlio come proiezione di se stesso, rivalsa delle sue delusioni, che orienta in modo più o meno impositivo la sua strada, scolastica, accademica, professionale, affettiva nella direzione che il genitore considererebbe migliore a partire dai propri interessi, senza invece aprirsi a riconoscere l'irriducibile alterità di un essere distinto, le cui condizioni di benessere e realizzazione non necessariamente corrispondono a delle aspettative che un genitore tara a partire da se stesso. L'egoismo starebbe nel considerare il figlio come una sorta di trofeo, fonte di orgoglio familiare, che realizza un modello valoriale genitoriale prestabilito, anziché sviluppare una reale relazione simpatetica, per la quale limitarsi a essere felici del suo essere felice, a prescindere dal fatto che la strada che lo ha condotto a tale condizione sia o meno quella incarnata dalle aspettative familiari
#142
Tematiche Filosofiche / Re:Una bellissima domanda.
14 Gennaio 2020, 17:42:12 PM
l'utilità è una categoria relazionale, una cosa è utile in relazione a qualcos'altro che invece ha il proprio valore positivo, la propria ragion d'essere oggetto di godimento in se stesso, e mi pare del tutto evidente che ciò che ha nella sua immanenza il suo valore produca in noi un godimento maggiore rispetto al godimento prodotto da qualcosa il cui valore è solo relativo, in funzione del conseguimento e fruizione di altri oggetti. E questa è la ragione per cui riconosciamo l'utilità di oggetti senza che ciò vincoli ad attribuirne un carattere estetico. Se mi reco a visitare le bellezze di Roma e prendo il treno, riconoscerò l'utilità del treno in funzione del raggiungere le bellezze romane e poterne godere, ma non per questo il treno mi apparirà "bello" di per sé (a meno di non associare, tramite un atto di immaginazione anticipatrice l'immagine del treno al pensiero delle bellezze che il treno mi consentirà di poter visitare, ma in questo caso il godimento che ne deriva non sarebbe prodotto dalla percezione del treno in sé, ma  solo dal fine a cui la sua utilità è subordinata)
#143
Tematiche Filosofiche / Re:Una bellissima domanda.
13 Gennaio 2020, 20:01:18 PM
il senso estetico è reso possibile dal fatto che il soggetto a cui è presente si caratterizza come coscienza razionale. Cioè, non è un soggetto totalmente in balia degli istinti biologici inconsci, che spingerebbero il suo agire verso delle mete di cui non si ha una vera e propria consapevolezza. Al contrario, la componente di razionalità, anche se non esaustiva del suo essere, riflette la facoltà di valutare gli istinti e soppesarne la necessità di seguirli in relazione ad una sensibilità assiologica, gerarchicamente strutturata (anche se l'ordine delle preferenze esprime l'individualità del singolo soggetto, e ciascuno segue la propria gerarchia) per la quale una certa tendenza istintiva può essere repressa o quantomeno subordinata rispetto ad altre, invece rivolte verso la realizzazione di valori che la coscienza riconosce come superiori e più importanti rispetto ai fini a cui tendono gli istinti per così dire "sacrificati". E la coscienza dei valori, cioè dei fini ultimi, non rimandanti ad altro oltre se stessi, è ciò che consente di percepire le cose dal punto di vista della bellezza, cioè della prerogativa di avere in se stesso il loro valore positivo, anziché in funzione, utilitaristicamente, di altro. Da qui il nesso tra etica ed estetica, la percezione della bellezza riflette sempre un, più o meno latente, giudizio etico sulla bontà di ciò che reputiamo bello. Il che non vuol dire, nel caso della bellezza sensibile, che ad ogni persona che percepiamo di bell'aspetto si associ, razionalmente e in piena consapevolezza un giudizio di bontà morale, che sarebbe stupido e superficiale, ma che in qualche modo, le caratteristiche fisiche suscitano quel sentimento estetico, perché le si collega simbolicamente a determinati valori spirituali componenti un ideale moralmente positivo di persona che ciascuno soggettivamente elabora nella sua mente (es. i capelli lunghi associati simbolicamente alla morbidezza, alla dolcezza di una donna, fermo restando, ripeto, l'azione della razionalità, che può contrastare tale associazione immediata e simbolica, ricordando la non necessità che tutte le donne che portano i capelli in quel modo abbiano effettivamente quel tratto caratteriale)
#144
personalmente ho una certa allergia ai concetti di "tecniche di corteggiamento" o di "conquiste", non mi piace l'idea di studiare una strategia tutta finalizzata a mostrarsi attraente a qualcuna col rischio di finire a indossare una maschera che non riflette la mia vera personalità, ma solo un'apparenza funzionale a piacere agli altri. Se anche un atteggiamento del genere avesse successo penso che ciò non porterebbe alcun bene, non lo porterebbe al corteggiatore, che finirebbe a trovarsi accanto a una persona che non lo ama per ciò che davvero è,  ma per una finzione creata ad hoc, per conquistare, non proverebbe quel piacere di sentirsi accolto ed amato come espressione e testimonianza del valore della sua persona, perché questo riguarderebbe la maschera, il falso Io che conseguito la conquista, non la sua vera natura. Sarebbe come uno studente che ottiene un bel voto solo perché ha copiato dal compagno di banco, quale soddisfazione e prova della sua preparazione e delle sue capacità avrebbe se non sono state queste le cause che hanno portato al risultato? E non porterebbe nulla di buono nemmeno alla persona conquistata, che anzi, rischierebbe di trovarsi in una relazione con chi non si è presentato per come realmente è, ma con un'immagine accattivante, che però, inevitabilmente, col tempo verrebbe meno, lasciando che sia la vera personalità ad emergere, quando però ormai è troppo tardi. Quante coppie vanno in crisi proprio perché nate nell'ignoranza dell'autentica personalità del partner, che poi viene fuori tradendo le aspettative di partenza, sorte proprio nel corso della fase di corteggiamento! Non sarebbe molto meglio essere sinceri fin da subito, anche correndo il rischio di fallire la "conquista"? Ecco perché, per me le uniche relazioni affettive che potrebbero avere un senso sono quelle in cui ogni tecnica di corteggiamento, ogni sforzo di autoimposizione di mostrarsi attrattivi è del tutto inutile, perché si fonderebbero su di un'affinità del tutto naturale, in cui ci si piace reciprocamente, tra persone che non mettono in atto alcuna strategia, ma si comportano nel modo più libero e spontaneo possibile, perché si è amati per come si è davvero, senza bisogno di mostrarsi diversamente, sacrificando se stessi per piacere all'altro/a. So che probabilmente questa mia "pretesa" mi condannerà al restare single a vita (condizione che attualmente vivo in modo molto sereno, ma che mi crea alcune angosce se proiettata nel futuro), ma va bene così, preferisco restare solo, piuttosto che stare insieme a una donna "conquistata" al prezzo di mostrarmi diverso da come sono, finendo con lo snaturare me stesso e ingannare lei con una maschera che col tempo la deluderà, quando si rivelerà come tale
#145
il farsi vanto della propria superficialità, del proprio seguire irrazionalmente ogni istinto animale, spacciando queste cose come prerogative delle persone "vere" e "genuine" "coraggiose", e al contempo disprezzare il pensiero, la riflessione, l'approfondimento, considerandole, anziché come nobili prerogative specifiche dell'essere umano, come inutili perdite di tempo o paranoie mentali da noiosi, vigliacchi, persone costruite e "finte". Confondere la verità col semplicismo.

Esaltare l'unicamente l'utile, a discapito di tutto ciò che si pone come piacere gratuito, di cui si può godere come un bene in sé, l'arte, la contemplazione filosofica...

Il porre come valore superiore un bene materiale rispetto all'inviolabilità di ogni vita umana, il considerare "eroe" un negoziante che uccide un rapinatore INSEGUENDOLO MENTRE STA SCAPPANDO, esultando per la morte di un essere umano che seppur criminale restava comunque una persona potenzialmente rieducabile, in nome della difesa di oggetti materiali che, a differenza di una vita umana, possono sempre essere riacquistati/recuperati

la pena di morte, la tortura, ogni crudeltà gratuita applicata a chi sta scontando una pena, la vendetta spacciata per giustizia
#146
Tematiche Filosofiche / Re:La mano e la moneta
28 Dicembre 2019, 18:59:12 PM
tengo a precisare che quella che ho provato a esporre in questa discussione non vuole essere una critica in assoluto al Rasoio di Ockam. Ne posso riconoscere l'utilità come espediente strategico di economia del pensiero, di risparmio del tempo, per evitare di considerare immotivatamente nuovi elementi in una teoria, dovendo nel caso rivalutare tutte le condizioni entro cui era verificata la teoria che i nuovi elementi andrebbero a modificare,  ma ne considero un abuso nel momento in cui lo si intenda applicare come criterio epistemico di riconoscimento della razionalità di un discorso. "Non moltiplicare gli enti se non necessario" resta da un lato un richiamo generico, in quanto non indica di per sé alcuna condizione entro cui riconoscere la necessità. In assenza di questo chiarimento, il rasoio di Ockam resta di per sé inservibile al fine di poter essere utilizzato come fattore di verifica di verità. Il concetto di "necessario" si identifica in un contenuto del tutto soggettivo, sempre impossibilitato a porsi come schema entro cui pretendere di comprendere oggettivamente la realtà. E dall'altro lato non c'è una ragione per cui una visione del reale dovrebbe essere tanto più vera quanto più coincide con i nostri schemi soggettivi entro cui consideriamo la considereremmo "necessaria". L'abuso del Rasoio come principio di verità nasce dall'errore di confondere l'idea di "non-necessità", "contingenza" con quello di "irrazionalità", di fatto un'indebita proiezione del nostro pensiero soggettivo sulla realtà, che si vuole forzata alle nostre comodità euristiche. La pura contingenza di un ente dovrebbe portare a non pretendere di avere la certezza della sua esistenza, ed eventualmente a ricercare un ente altro da esso, al suo contrario necessario che renda ragione del suo essere, ma non è di per sé motivo razionale per argomentarne l'inesistenza
#147
Tematiche Filosofiche / Re:La mano e la moneta
26 Dicembre 2019, 16:14:34 PM
Citazione di: Phil il 24 Dicembre 2019, 17:06:13 PM
Citazione di: davintro il 24 Dicembre 2019, 15:25:18 PMil riconoscimento della razionalità del discorso ne garantirebbe l'oggettività.
Eppure, ha davvero senso fondare la presunta "oggettività" sulla razionalità del discorso e non piuttosto sulla realtà dei presunti oggetti? Se vogliamo dimostrazioni, oneri della prova d'esistenza, verità, etc. possiamo davvero fare a meno di rivolgerci alla concretezza di dati, fatti ed eventi, in nome di una deduzione in cui gli assiomi chiudono sempre tautologicamente il loro cerchio teorico, a prescindere dalla loro pertinenza con la realtà (ovvero basta che il sistema non sia autocontraddittorio per essere razionale e, a quanto proponi, garante di "oggettività")? Se parliamo di esistenza, non è forse fondamentale coinvolgere pragmaticamente gli esist-enti? Un'epistemologia che non considera la prassi delle scienze a cui si riferisce, non resta sempre "monca" e nondimeno narcisista (per non dire inservibile)? La differenza fra fisica teorica e fisica sperimentale è secondo me eloquente in merito a oneri della prova, oggettività, verificazione contro possibilità etc.


Penso che questa impostazione sconti pregiudizi di natura empirista e materialista, per i quali si limita il campo della "concretezza" del contenuto di ogni possibile conoscenza scientifica ai dati appresi per via sensibile, all'interno di un'esperienza spazio-temporale, relegando la logica deduttiva a discorso meramente astratto e tautologico, impossibilitato a render ragione di alcunché di reale. Questa impostazione non tiene conto del principio per cui ogni atto di pensiero implica l'assunzione a livello intenzionale (cioè, anche se un giudizio fosse errato di fatto, resterebbe il fatto che nell'intenzionalità del soggetto giudicante il suo contenuto è sempre posto come verità oggettiva) del proprio contenuto come reale stato di cose, e dunque se gli assiomi della logica formale sono norme necessarie per ognuno di questi atti di pensiero, allora devono anche essere norme necessarie delle cose reali, che sono il contenuto che sempre tali atti intenzionano. Se in assenza di logica ogni pensiero sarebbe assurdo, e ogni pensiero è sempre pensiero riferito alla realtà, allora, perché la realtà non sia assurda, dovrebbe condividere le stesse regole logiche che strutturano il pensiero. L'errore empirista sta nell'associare tutto ciò di inerente al "formale", con l'astratto, cosicché la logica formale viene vista come circolo del tutto autoreferenziale impossibilitato a fondare un proprio specifico contenuto di conoscenza attinente al reale, non considerando come, aristotelicamente, le forme sono a tutti gli effetti elementi ontologici, rendono ragione della struttura essenziale degli enti, anche se applicate alla materia. Quindi, quando parliamo di principio di identità o di terzo escluso, non stiamo solo parlando di principi di pensiero, ma di ontologia, in quanto sono principi che ogni ente concreto segue, e da cui la filosofia si impegna a dedurre una serie di corollari che nel loro complesso formerà un sistema di verità metafisiche, che se non riguardano gli aspetti sensibili e contingenti delle cose, quelle di cui si occupano le scienze naturali, non per questo riguardano sfere meno reali e scientifiche di quegli altri. All'interno di questo sistema, questa sfera trascendentale, fanno parte i princìpi epistemologici tramite cui si fissano le condizioni di validità di ogni discorso vero, dunque le condizioni di validità di ogni altra scienza. L'accusa di narcisismo e autoreferenzialità ad una filosofia che non si faccia influenzare nel suo lavoro di individuazione delle condizioni di validità metodologica sulla base dei problemi contingenti di applicazione, penso abbia un senso solo nel momento in cui si intenda la filosofia come mero strumento in funzione del lavoro delle scienze naturali, mentre in realtà l'epistemologia non va vista primariamente come servizio che la filosofia sarebbe chiamata a svolgere (al di là del fatto che poi, effettivamente le riflessioni epistemologiche siano di giovamento agli scienziati) ma come conseguenza del fatto che la filosofia si occupa di questioni teoretiche distinte da quelle di ordine tecnico-applicativo, la cui risoluzione non può dunque influenzare la ricerca riguardo alle altre.



Per quanto riguarda il Rasoio di Ockam, penso che bisognerebbe cominciare a mettere in discussione l'idea che "semplicità" o "complessità" siano categorie davvero attinenti per descrivere e distinguere le teorie. Cioè, non penso che esistano teorie oggettivamente più "semplici" o più "complesse" di altre, ma che semplicità e complessità siano solo nostre percezioni circa una teoria, relative al grado di approfondimento analitico, con cui le si interpreta. Una visione del mondo non è una somma delle parti, una sorta di "magazzino" di fenomeni che si fa tanto più "complessa" quanto più si aggiungono enti che si vanno a sommare ad altri, come un negozio che diventa sempre più pieno quanto più si introducono cose. Una concezione meramente quantitativa che non tiene conto che se, come detto prima, ogni negazione può essere convertita in affermazione modificando la sintassi senza che la semantica muti, vale anche l'inverso, cioè, alla Spinoza, omnis determinatio est negatio, ogni ente che "si aggiunge" implica la negazione di tutti quei dati che legittimerebbero la sua esclusione. Non si tratterebbe di "allargare" in senso quantitativo la visione del mondo introducendo fenomeni di cui si dovrebbe chieder ragione, al contrario dei vecchi fenomeni di cui non si avrebbe necessità di ridiscuterli, si tratta piuttosto di una riformulazione qualitativa, in cui il nuovo elemento non va sommarsi, bensì ne SOSTITUISCE altri, logicamente incompatibili con esso. Le condizioni che si dovrebbero introdurre per giustificare l'ipotesi dell'origine aliena delle Piramidi egizie (ipotesi, a cui, a scanso di equivoci, personalmente non credo) non rendono il discorso più complesso/più improbabile, perché la loro considerazione coinciderebbe automaticamente con il venir a cadere delle condizioni che giustificherebbe ogni ipotesi alternativa a quella aliena, compresa ovviamente la più probabile, cioè la creazione ad opera degli antichi egizi. Se si vede ciò come una "complicazione" è solo perché la forza dell'abitudine ci porta a vedere le condizioni che sorreggono la teoria preesistente come qualcosa di ovvio e scontato, invece che come qualcosa di consistente a sua volta in una serie di fenomeni a cui associamo la corrispondenza con la verità. Nella misura in cui analizziamo le singole componenti di un modello teorico, tale modello apparirà più complesso, nelle misura in cui ci fermiamo a un'unità sintetica immediata, ci apparirà semplice, ma tutto questo riguarda unicamente l'impatto psicologico che si ha di fronte a una teoria, non il contenuto oggettivo della teoria in sé, e se la verità di una teoria riguarda la sua corrispondenza con la realtà oggettiva, cioè la natura del  contenuto intrinseco di tale teoria e non il modo soggettivo in cui la percepiamo, va da sé che la dicotomia semplice-complesso (che invece riguarda la nostra percezione) non ha nulla a che fare con le condizioni di verità di una teoria, e il Rasoio resta un mero accorgimento economico-pratico di comodità metodologica per chi vuole evitare di rimettere in discussione tutte gli elementi pregressi di fronte a nuove ipotesi, ma niente affatto un principio di verificazione razionale di verità delle teorie.

Vorrei proporre un ulteriore esempio sperando di riuscire a chiarirmi meglio... Se due persone osservano uno stesso tavolo e la prima sostiene di vedere di fronte a sé un tavolo con nulla appoggiato sopra, (ipotesi A) e la seconda un tavolo con sopra dei bicchieri (ipotesi B), non avrebbe alcun senso pensare che l'ipotesi A sia più "semplice" di quella B, e dunque meno necessitante di onus probandi o addirittura più probabile, in quanto non è quantitativamente più ampia, non richiede davvero una serie maggiore di fenomeni di cui rendere conto. Infatti quel "nulla appoggiato sopra" non è affatto un vero e proprio nulla, chiamarlo così è un'imprecisione. I bicchieri compresi nell'ipotesi B non si sommano alla visione A, ma ne sostituiscono dei tratti di sfondo oltre il tavolo che hanno una loro datità fenomenica visuale. Se la persona che sostiene l'ipotesi A non vede i bicchieri è perché AL LORO POSTO vede quei tratti di parete posta sullo sfondo che invece la persona che sostiene l'ipotesi B non vede perché coperti (o offuscati se si tratta di bicchieri in vetro, questo non ha importanza) dai bicchieri. E la presenza reale di questi tratti di parete l'ipotesi A è chiamata a render ragione nella stessa esatta misura in cui l'ipotesi B è chiamata a render ragione dell'esistenza dei bicchieri, senza sperare di appellarsi ad una inesistente maggior semplicità esplicativa. Non esiste alcun modello esplicativo che sia più ampio o più complesso di un altro, i modelli differiscono solo qualitativamente, e il fatto che alcuni appaiano più semplici di altri deriva dal non tenere in conto tutta una serie di dettagli dati per scontati che sorreggono la sintesi, solo apparentemente più "compatta" e coesa

Un augurio di buone feste a tutto il forum, sempre ringraziando per la pazienza di leggere i miei interventi, non così meritevoli di ciò
#148
Tematiche Filosofiche / Re:La mano e la moneta
24 Dicembre 2019, 15:25:18 PM
Avevo già considerato l'evidente differenza ("differenza", sesta parola del mio messaggio, chissà se Eutidemo l' ha azzeccata...) che passa tra una stanza in cui verificare la mancanza di un mostro e delle sedie e un mondo intero dove dover verificare l'inesistenza di un unicorno, ed è un'obiezione che mi aspettavo di ricevere. Ma questa differenza, per quanto abissale, resta pur sempre un differenza quantitativa, e non qualitativa, e in quanto tale non può mai incidere sul problema della distinzione tra un approccio argomentativo sufficiente a legittimare la razionalità di un discorso e uno insufficiente, distinzione che resta uno stacco qualitativo, in quanto la categoria di "vero", da riferire a una tesi è una categoria che si oppone al "falso" in un aut aut qualitativo e non come sfumatura in un continuum di "più o "meno" (che un discorso complesso possa contenere sia elementi di verità o di falsità non cambia i termini della questione, in quanto questo discorso complesso sarà sempre una sintesi di singole tesi che considerate una per una non escono dal bivio "tesi vera" "tesi falsa"). Le difficoltà tecniche di applicazione di una metodologia di ricerca non riguardano il lavoro dell'epistemologo-filosofo (faccio coincidere le due categorie, in quanto l'epistemologia è branca della filosofia, se coincidesse con una delle scienze di cui si occupa di argomentare i presupposti, il margine di validità della metodologia e i limiti, non potrebbe astrarsi da essa per valutarla in modo autonomo, come se in un processo l'imputato fosse al tempo stesso accusatore) , che si ferma nel momento in cui vengono chiarite le condizioni a priori di verifica della razionalità di un discorso, per poi lasciare spazio ai problemi tecnici al ricercatore empirico che applica un metodo all'interno della particolare regione ontologica a cui riferisce le questioni che mira a risolvere. Pensare che le difficoltà applicative debbano arrivare a incidere sul lavoro teorico pregresso dell'individuazione dei criteri di razionalità del discorso, vuol dire snaturare il secondo, sovrapponendo il piano pragmatico a quello teorico. E ciò è da rigettare non, ovviamente, in nome di una superiorità assiologica della teoria sulla prassi (al di là del fatto delle personali legittime priorità di interesse che noi tutti siamo liberi di coltivare), ma in nome della distinzione di due punti di vista che restano ben distinti, quello teorico delle garanzie universali di razionalità del metodo, di cui un sapere non empirico ma eidetico come quello filosofico si occupa, e quello tecnico di superamento delle difficoltà contingenti di applicazione del metodo in uno specifico contesto esistenziale. Pretendere che le difficoltà del secondo piano debbano riversarsi sul primo, sarebbe come se io contestassi la bontà della ricetta di una torta solo perché i negozi dove acquistare gli ingredienti indicati sono troppo lontani, e non c'ho voglia di uscire di casa, oppure anche mettendomi alla ricerca non farei in tempo per la cena di stasera. La bontà della ricetta non è determinata dalla facilità di realizzazione, ma dal fatto che, nel momento in cui la realizzazione venisse messa in atto, la torta risulterebbe comunque gustosa, tradotto nel nostro caso, il riconoscimento della razionalità del discorso ne garantirebbe l'oggettività.
#149
in generale mi fa piacere qualunque cosa  faccia percepire come il mio agire esprima il mio modo d'essere e le mie idee, e quando vedo che altre persone riescono ad apprezzare questo esprimersi. In questo modo sento come se il valore della mia persona sia "rinforzato" nell'essere riconosciuto positivamente non solo da me stesso, (che sarebbe troppo facile ed autoreferenziale), ma anche da altri, di modo che il riconoscimento è più autentico e oggettivo. Questo mi aiuta a sentirmi meno insicuro, più in armonia con il mondo, nel quale, forse a questo punto riconosco che un piccolo spaziolino potrei meritarlo anch'io.
#150
Tematiche Filosofiche / Re:La mano e la moneta
23 Dicembre 2019, 17:34:24 PM
mi pare di scorgere tra le obiezioni di Phil e di Eutidemo ai miei modesti appunti un tratto comune, cioè l'inserimento di istanze metodologico di stampo prettamente pragmatista e di "economia del pensiero" all'interno della questione epistemologica della legittimità razionale di un discorso (che è qualcosa che mi sa sempre di mentalità "anglosassone").Phil parla di un rallentamento della procedura di verifica che si verrebbe a determinare nel caso di dover applicare l'onus probandi a una tesi negativa, un verificare l'assenza del mostro nella stanza andando a cercare in ogni angolo, Eutidemo si preoccupa che, caricando dell'onere delle prova anche chi si limita a sostenere l'assenza di un fenomeno, si arriverebbe a un totale "liberi tutti" nei confronti di qualunque tesi impossibile da smentire a livello di pura logica atta a rilevarne le contraddizioni interne. Quello che mi verrebbe da dire è che questi rilievi in realtà non sollevano problemi da un punto di vista teoretico (che personalmente è il punto di vista che personalmente più mi interesserebbe a trattare in contesti come questo), ma pratico, riguardo cioè l'eccessiva lentezza che ne deriverebbe nei contesti dialogici in cui le tesi si dibattono, oppure il timore di un'impossibilità a smentire tesi APPARENTEMENTE illogiche in quanto chi le contesta sarebbe a sua volta tenuto ad argomentare le sue contestazioni. Da un punto di vista della questione della fondazione razionale dei discorsi queste preoccupazioni pragmatiche andrebbero messe fra parentesi, in quanto, se tale questione è correlata allo statuto ontologico della realtà (in quanto si tratterebbe di individuare metodologie di ricerca il più possibile coerenti con le proprietà oggettive delle cose stesse che si intendono indagare), allora valutare o escludere una strategia argomentativa sulla base di un'esigenza di "comodità euristica", proietterebbe delle istanze del tutto pratiche-personali che vanno a sovrapporsi a quella teoretica-oggettiva di legittimare un metodo attinente a giungere a una visione di verità nei confronti della realtà, con l'inevitabile conseguenza di falsare la metodologia, deviandola dall'obiettivo di conoscere la realtà oggettiva, e fermarsi a concezioni dogmatiche che rinunciano già in partenza a mettere in discussione gli assunti derivanti dai pregiudizi tradizionali e consolidati, ma non per questo razionali. Così, diamo per scontato che il drago non sia nella stanza, solo perché per pigrizia non si ha voglia di andare a esplorare ogni angolino, perché richiederebbe troppo tempo (ma che fretta c'è in fondo!?) e tiriamo pomodori all'illusionista o a chi parla di unicorni, perché non si ha voglia di ammettere quel margine di errore irriducibile che rende le verifiche sperimentali in cui l'unicorno non appare esistere solo probabilistico e non certo. Tutto legittimo, ma a condizione di allontanarci dalla risoluzione dei problemi epistemici. Checchè ne pensi il pragmatismo anglosassone, l'epistemologia è una branca della filosofia teoretica, non applicazione di una saggezza pratica, e la teoresi ha tanto più successo nella misura in cui si pone in rapporto col reale di pura contemplazione, sospendendo, epoche fenomenologica, ogni istanza pragmatica e performativa, per porci in uno stadio di passiva ricezione delle cose stesse per come si manifestano alla coscienza, utilizzando poi la logica per astrarne le strutture evidenti. Cioè l'obiettivo dell'epistemologia dovrebbe essere l'individuazione della strategia argomentativa che sia più funzionale ad aprire la coscienza a rivelazione delle cose stesse, rendendola il più possibile ad essa fedele, e non a formulare un metodo tarato sui nostri bisogni di uomini pratici alle prese con urgenze di natura extrateoretica. Nessuno ci obbliga a fare lo scienziato-filosofo ricercatore della verità, ma se si sceglie di farlo occorre mettere in conto che l'efficacia del lavoro implichi per forza sacrificare tempo ed energie dedicabili ad altri ambiti. Quindi se si vuole argomentare razionalmente l'assenza del mostro nella stanza, ci si prende tutto il tempo che occorre per ispezionarla da cima a fondo, e se non si ha tempo o voglia di farlo, la cosa più onesta sarebbe sospendere in modo più o meno neutro il giudizio riconoscendo il margine di incertezza dovuto ai limiti della visione del reale entro cui è riferita l'assenza del fenomeno in questione.