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Messaggi - Phil

#1351
Tematiche Filosofiche / Re:La mano e la moneta
23 Dicembre 2019, 20:31:37 PM
Citazione di: davintro il 23 Dicembre 2019, 17:34:24 PM
mentalità "anglosassone").Phil parla di un rallentamento della procedura di verifica che si verrebbe a determinare nel caso di dover applicare l'onus probandi a una tesi negativa, un verificare l'assenza del mostro nella stanza andando a cercare in ogni angolo [...]Così, diamo per scontato che il drago non sia nella stanza, solo perché per pigrizia non si ha voglia di andare a esplorare ogni angolino, perché richiederebbe troppo tempo (ma che fretta c'è in fondo!?) [...]Quindi se si vuole argomentare razionalmente l'assenza del mostro nella stanza, ci si prende tutto il tempo che occorre per ispezionarla da cima a fondo, e se non si ha tempo o voglia di farlo, la cosa più onesta sarebbe sospendere in modo più o meno neutro il giudizio riconoscendo il margine di incertezza dovuto ai limiti della visione del reale entro cui è riferita l'assenza del fenomeno in questione.
Il problema sorge, come ho già anticipato, non tanto se si tratta di una ricerca confinata in una stanza o in uno spazio dove la pazienza e la fattibilità della ricerca è decisamente a misura d'uomo:
Citazione di: Phil il 23 Dicembre 2019, 01:08:59 AM
Chiaramente finché si tratta di enti empirici facilmente enumerabili, poiché chiusi in una stanza, la situazione è rapidamente risolvibile, basta la vista e poco altro; se invece qualcuno afferma che «nel mondo c'è un dragone», o peggio, senza dare indizi, «esiste un dragone», «un dragone c'è», mi sembra più ragionevole che sia lui a dimostrarne l'esistenza, piuttosto che noi a perlustrare tutto il globo o il cosmo solo per dimostrare a lui la falsità della sua affermazione (pur concedendogli la buona fede).

Va inoltre considerato che se si richiede l'onere della prova a chi afferma qualcosa (sia essa esistente o non esistente), sarebbe al contempo un tiro piuttosto mancino prospettargli una ricerca che va oltre le sue concrete possibilità di "prova", ovvero una dimostrazione impraticabile. Se parliamo di (dimostrazioni di) esistenza è secondo me inevitabile valutare lo sporcarsi le mani con la realtà, considerare i limiti delle verifiche possibili, fare i conti con gli aspetti pragmatici del metodo di verifica, etc.
L'appello alla concretezza "anglosassone" della prassi dimostrativa non può essere accantonata se ciò che si richiede è appunto una dimostrazione epistemologica e non un'ammissione di possibilità di "esistenza fino a prova contraria" (che si può, volendo, concedere facilmente, ma al prezzo di abbandonare l'onere della prova e quindi il piano epistemologico).

Inoltre, sempre guardando alla concretezza della ricerca (filosofica o altro), o meglio alla pratica della ricerca: se affermo l'esistenza di qualcosa, è plausibile che lo faccia perché ho indizi, spunti, intuizioni, etc. che mi spingono a ritenerlo esistente; proprio da questi spunti che posseggo è ragionevole che parta una possibile prova dell'esistenza. Chiedere a chi non ha avuto quelle "prove", indizi, spunti, etc. di dimostrare che mi sono sbagliato è metodologicamente ostile e inefficiente: se non provo a dimostrare l'esistenza di qualcosa che credo esista per determinati motivi, perché mai delego ad altri l'onere della dimostrazione del contrario (assolvendomi dall'onere della prova affermando che «l'assenza di prove d'esistenza non è prova dell'assenza dell'ente»)?

Proviamo a calare tale differenza di oneri (esistenza / non-esistenza) all'interno di una verosimile equipe di ricerca: ci sono alcuni ricercatori che collaborano negli stessi esperimenti alla ricerca di una nuova molecola, uno di loro afferma che tale nuova molecola c'è (e magari ne descrive anche le proprietà), tuttavia anziché di-mostrarne l'esistenza ai colleghi (che magari sono scettici in merito) chiede loro di dimostrare che tale molecola non esiste... onestamente, non credi che converrebbe, sotto tutti i punti di vista, che sia lui a svelare la nuova molecola (di)mostrandone l'esistenza?
#1352
Tematiche Filosofiche / Re:La mano e la moneta
23 Dicembre 2019, 01:08:59 AM
Citazione di: davintro il 23 Dicembre 2019, 00:18:02 AM
Non potrei giudicare "in questa stanza non ci sono sedie", senza che la negazione dell'esistenza delle sedie non sia accompagnata dal giudizio [...] in cui affermo la realtà della stanza, nella rappresentazione mentale in cui la percepisco. E se questa affermazione, in quanto tale, soggiace all'onere della prova, a questo obbligo epistemologico soggiace necessariamente anche la negazione della presenza delle sedie.
Probabilmente è una questione di snellezza metodologica (e di "tempi ragionevoli"), nel senso che l'onere della prova dell'assenza rischierebbe di diventare, come accennavo, l'onere della prova dell'infinito: l'esistenza, in un dato intervallo di tempo, è fatta da un numero di enti verificabili finito, mentre i potenziali enti assenti sono infiniti, quindi è impossibile dimostrarne l'assenza in modo completo.

Banalmente, se affermo che c'è una sedia nella stanza e ne dimostro la presenza, non ho bisogno di dimostrare la sua assenza; se dimostro invece l'assenza di una sedia, dovrei tuttavia poi dimostrare l'assenza di infiniti enti prima di poter affermare «la stanza è vuota»; oppure per concludere che «nella stanza c'è solo una sedia» dovrei dimostrare che non ce ne siano due, né tre, né quattro, etc. poi che non c'è nemmeno un tavolo, etc. all'infinito.
Chiaramente finché si tratta di enti empirici facilmente enumerabili, poiché chiusi in una stanza, la situazione è rapidamente risolvibile, basta la vista e poco altro; se invece qualcuno afferma che «nel mondo c'è un dragone», o peggio, senza dare indizi, «esiste un dragone», «un dragone c'è», mi sembra più ragionevole che sia lui a dimostrarne l'esistenza, piuttosto che noi a perlustrare tutto il globo o il cosmo solo per dimostrare a lui la falsità della sua affermazione (pur concedendogli la buona fede).
Va infatti notato come nell'affermare la non-esistenza ci si possa limitare ad un «fino a prova contraria», che nel caso dell'esistenza suonerebbe un po' meno razionale: si potrebbe affermare l'esistenza di qualunque fantasia o ente e poi avallarlo con un «fino a prova contraria» lasciando agli altri l'onere di dimostrare falsa l'affermazione di esistenza.

In ambito più euristico, va comunque considerato che per quanto riguarda l'esistenza ha senso pragmatico ed utilità epistemologica apportare prove (o anche indizi) di evidenza positiva e dimostrativa; la più antica, che precede logicamente il di-mostrare, è il mostrare («guarda, ecco qui il dragone»). Mentre per la non-esistenza sarebbe contraddittorio poter portare prove di evidenza positiva, e quelle negative sarebbero molto più dispersive e inefficienti: «qui il dragone non c'è... aspetta che guardo sotto il letto... no, non è neanche lì... forse è in frigo... no...» e così all'infinito per ogni ente pensabile e immaginabile.
#1353
Tematiche Filosofiche / Re:La mano e la moneta
22 Dicembre 2019, 22:22:00 PM
Citazione di: davintro il 22 Dicembre 2019, 20:38:04 PM
Il carattere intenzionale che attiene per essenza a ogni giudizio, per il quale ogni giudizio, affermativo o negativo che sia, è sempre la presentazione di una visione mirante a rappresentare il reale in modo oggettivo, fa sì che la differenza tra forma affermativa e negativa, resta un'accidentalità linguistica formale che può trapassare da un modo all'altro senza alterare il contenuto significato intenzionalmente posto
Per me non è da confondere il referente dell'affermazione di esistenza con le qualità (o "accidenti") del referente affermato, soprattutto se una qualità apparente consiste in realtà in un (o più) altro referente:
- se dico «c'è una stanza», affermo l'esistenza di una stanza e magari poi la dimostro ricorrendo alla definizione di «stanza» e mostrando la sua corrispondenza con l'ente di cui si parla;
- se affermo «c'è una stanza rossa», affermo l'esistenza di un referente con una determinata qualità, è quindi anche possibile che esista il referente (stanza) ma non la qualità, o la qualità (il rosso) ma non nel referente affermato (ad esempio se sono in presenza di una macchina rossa, non di una stanza)
- se invece affermo «c'è una stanza in cui non ci sono sedie (ovvero in cui sono assenti sedie)» ci sono due referenti, due sostantivi (da «sostanza» intesa alla medievale), ovvero due presunte esistenze, distinte e separate, di cui si parla, la stanza e le sedie, e le dimostrazioni delle due affermazioni sono (onto)logicamente indipendenti: posso dimostrare l'esistenza di sedie, ma eventualmente non localizzate in una stanza (magari in un camion) o l'esistenza di una stanza ma senza sedie (se non se ne riscontra la presenza). La suddetta non è dunque una affermazione di esistenza, ma una affermazione di due esistenze o, ugualmente, due affermazioni di esistenza ipoteticamente correlate.

Che esista almeno "una realtà (la nostra) in cui sono assenti unicorni" è empiricamente falsificato: esistiamo io e te (se anche fossimo due chatbot, saremmo comunque reali), o almeno uno dei due, quindi una realtà c'è, Cartesio docet. In tale realtà sono assenti gli unicorni? Non direi: possiamo pensarli, disegnarli, descriverli, etc. rendendoli una presenza.
Ritenere che gli unicorni siano reali oltre il loro essere disegnati, nominati, etc. non riguarda più la realtà di cui abbiamo (di)mostrato l'esistenza con la nostra conversazione (anche fosse un soliloquio onirico). La "nostra" realtà empirica è dimostrata dal "cogito" (o dallo "scrivo", nel nostro caso) così come il suo contenere unicorni, di cui stiamo ragionevolmente scrivendo.
Tuttavia, se si ritiene che gli unicorni abbiano un'esistenza che va oltre (meta-...) quella sperimentabile e verificabile in discorsi, disegni, etc., ciò riguarda chiaramente un'altra realtà che esula da quella sperimentata e verificata dal nostro scrivere (con tutte le eventuali esitazioni del caso). Che esista un'altra realtà in cui gli unicorni sono esseri viventi, indipendenti dal discorso che ne parla, resta quindi da dimostrare. Se poi definiamo gli unicorni in modo che risultino indimostrabili (impercepibili, infalsificabili, etc.) allora l'affermazione della loro esistenza non potrà percorrere la strada della dimostrazione epistemologica.

La differenza fra predicare l'esistenza e la non-esistenza è ontologica, prima che epistemologica; pur trattandosi formalmente di due affermazioni, la differenza è rilevante: nel primo caso ci si riferisce a qualcosa di esistente e presente, nel secondo invece ci si riferisce ad un'assenza determinata, ad un concetto senza referente empirico o "sostanziale" (sempre per dirla alla medievale).

Facendo dell'ontologia spiccia e limitata esemplificativamente alla percezione: posso avere (parafrasando Cartesio) «una percezione chiara e distinta» di ciò che è, ma non di ciò che non è; questo differenzia radicalmente l'affermazione di esistenza (e una sua possibile dimostrazione) da quella di non esistenza.
Infatti se parlassimo di "percezione dell'assenza di qualcosa" sarebbe un giocoso sofisma (che non hai commesso), come dire che guardando una stanza vuota ho una percezione delle persone che non ci sono, dei clowns che non ci sono, degli elefanti che non ci sono, etc. tutti enti che, al di là del sofisma, non percepisco affatto, perché la percezione (tanto sensoriale quanto intenzionale) in quanto tale, si rivolge alla presenza determinata non all'assenza indeterminata (l'assenza determinata del percepire che "qualcosa c'era ma ora non c'è più" richiederebbe addentrarsi sul tema della memoria, tangente ma non essenziale a quello della dimostrazione intersoggettiva di esistenza). Ha semmai senso affermare che percepisco il "vuoto" della stanza, non tutti gli infiniti enti possibili che potrebbero riempirla ma non ci sono (salvo riuscir a dimostrare che riesco a percepire l'infinito in un istante; anche in questo caso, è chi nega la percezione dell'infinito in un istante che deve dimostrarlo tanto quanto chi l'afferma? Comunque qui ce la caviamo facilmente facendo appello alla definizione stessa di "infinito" che mal si presta ad essere percepito esaustivamente in un batter d'occhio; salvo scenari estetici oppure accontentarsi del suo simbolo, confondendo così, quasi "dolosamente", segno e referente).
#1354
Riflessioni sull'Arte / Re:Percezione e Forma
21 Dicembre 2019, 16:23:47 PM
Citazione di: NiMo il 21 Dicembre 2019, 13:25:59 PM
La forma riconoscibile è infatti una relazione morfologico semantica tra il soggettivo e l'articolazione oggettuale dell'individuazione percettiva.
[...]
Il linguaggio formale nella forma amorfa è quindi un adeguamento della soggettività impressiva alla possibilità semantica del simbolo, la quale giace o sul rapporto di significato, o sulla possibile pareidolia, o su entrambe le possibilità sovrapposte, o ancora sulla forma svincolata dal significativo - qual ultima possibilità incarnata nell'avvicendamento di forme private della speculazione della coscienza.
[...]
Per amorfo si deve intendere dunque ciò che è di mutevole oggettivazione.
Come la metamorfosi dell'oggettivazione è durevole o caduca a seconda dell'osservazione di piani morfologicamente incerti, la percezione di un detto "conosciuto" segue l'appartenenza dell'azione contemplativa del detto microcosmo, la quale si adagia o sulla precedente informazione o su un rapporto mutevole dell'oggettivazione animata dell'effettualità dell'esistenza nei suoi differenti piani oggettivanti ed oggettivati.
L'estrazione cosciente, se vogliamo dialogica, del rapporto (s)oggetto-oggetto, viene così rappresentata dalla percettività in relazione direzionale in ambo i versi dell'oggettivante ed dell'oggettivato, sgorganti nel momento-durata della reiterazione ciclica-spirale del microcosmo particolare. Il lato oggettuale dell'immagine può essere dunque tanto interno (come un ricordo o una fantasia immaginativa) quanto esterno.
Presupponendo una possibilità esperitiva del possibile microcosmo tendente all'infinità delle potenzialità dell'effettualità "oggettuali e soggettive", intuibile come un punto senza confini dalle infinite possibili centralità (queste non necessariamente concernenti tale totalità) il dialogo tra un (s)oggetto ed una forma può portare all'infinita presentarsi della particolarità, relazione postulata dalla verità reale nel momentaneo "apparente" della presenza delle generalità nelle loro estrinsecazioni.
L'a-morfo è un concetto limite come altre «etimologie negative»(cit.) che ambiscono a negare le dimensioni imprescindibili per l'umano (in-finito, im-materiale, etc.) e che proprio per questo lo delimitano, quindi lo identificano, quindi lo con-formano a ciò che chiami «sinolo» (adescando Aristotele fuori dall'ontologia per installarlo nella semantica dell'estetica). Essendo l'amorfo un concetto limite, non consente al soggetto una totale esperienza del limite, ma il vissuto possibile si ferma entro la parzialità del lato interno del limite stesso; l'a-morfo è inaccessibile (l'uomo, "strutturalmente", assimila e conosce solo tramite ciò che può identificare come in-formazione), ma ci sono labili sintomi dell'accostarsi al suo limite: la meta-morfosi delle identità che affiorano e si deformano nella grafite, il polimorfismo delle figure che scandisce la polisemia dell'esperienza estetica, indicano l'approssimarsi asintotico (in stile Rorschach) al limite della forma.
Quanto più la forma oscilla, si sfalda, si ri-formula (o meglio, viene fatta oscillare, sfaldare, etc. dal climax dell'intenzionalità appercettiva del soggetto), tanto più la deformazione è sul punto indefinito (e minaccioso, quanto può esserlo un "suicidio indotto") di diventare caleidoscopica assenza. Assenza di segno e di significato che è nondimeno presenza di una forma marginale (abissale cornice di tale assenza): un foglio perfettamente bianco ha comunque una forma, pur essendo privo di segni e di significati (ammenoché, a guardar bene...).
#1355
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la "vita"?
07 Dicembre 2019, 20:12:29 PM
Citazione di: Ipazia il 07 Dicembre 2019, 19:10:27 PM
devi aggiungere qualche altra caratteristica alla tua definizione di vita per escludere l'IA.
Non sento come un "dovere" l'escludere l'IA; dipende appunto dai parametri che scegliamo: se intendiamo per «vita» un'"attività" che va trasmessa "naturalmente" (senza scendere nei dettagli), che abbia un metabolismo biochimico (metafore a parte) e in cui il simile produce il simile, allora nessuna macchina o automa o programma informatico può essere considerato «vita», non essendo un prodotto bio-logico ma tecno-logico, risultando inoltre totalmente altro (geneticamente, chimicamente, etc.) rispetto ai "padri" e "madri" che lo "generano" (tecnici, programmatori, etc.).
Se per «vita» intendiamo solo la capacità di un aggregato "materiale" di "nutrirsi" scambiando energia con il mondo circostante e di poter riprodurre (almeno potenzialmente, o i soggetti sterili non sono esseri viventi?) un aggregato simile a lui, allora, quando inventeranno un automa autonomo, ovvero in grado di produrre (da solo o con suoi "simili") degli altri automi, senza che l'uomo lo "allatti" con corrente elettrica, gli faccia (u)manutenzione, etc. ci ritroveremo a fronteggiare le tematiche di «Io, robot», «Transcendence», «Blade Runner», «Ghost in the shell», etc.
Di base, come tutte le questioni che iniziano con «che cos'è...?» si tratta della indecidibile questione trasversale delle definizioni, dell'identificazione e di altre pratiche concettuali umane.
#1356
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la "vita"?
07 Dicembre 2019, 18:53:28 PM
Citazione di: Ipazia il 07 Dicembre 2019, 18:26:40 PM
@phil

Una IA sofisticata é vita ?
Non so se si possa parlare propriamente di «metabolismo» nel caso dell'IA, soprattutto se si ammicca (con delusione) alla genetica:
Citazione di: Phil il 07 Dicembre 2019, 15:27:50 PM
Con «attività» non intendo ovviamente solo quella cinetica, ma anche quella metabolica, scambio di energia, etc. [...] Forse la programmazione di tale attività non può che essere genetica, quindi, da profano, tendo a trovare intuitivamente calzante quanto osservato da Mayr [...] Tuttavia, obietterei che quando l'animazione vitale di un corpo cessa, non viene meno il suo essere ancora geneticamente strutturato, quindi avremmo materia inanimata pur in presenza di un genoma, contrariamente a quanto previsto dal suo parametro discriminante; il che mi fa propendere ancora per la visione ingenua della vita come attività (nei sensi suddetti), senza sbilanciarsi nei dettagli della sua causa [...] (anche se resta chiaramente utile come criterio per individuare tracce di vita passata)
nondimeno mi prendo tutta la responsabilità della pigra ambiguità di quell'«etc.».
#1357
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la "vita"?
07 Dicembre 2019, 15:27:50 PM
Nel mio piccolo ho sempre inteso la vita come una condizione di attività immanente ad un corpo, dove per «immanente» intendo non causata totalmente da altri corpi: la mia condizione di essere vivente è stata causata dai corpi dei miei genitori, tuttavia solo come innesco iniziale, dopodiché il mio corpo ha proceduto nelle sue attività autonomamente; viceversa, se un sasso viene fatto rotolare giù da un monte, la sua attività è dovuta totalmente alla spinta che ne ha innescato il movimento, terminato l'effetto della quale, il sasso interrompe il suo rotolamento passivo e ritorna inerte. Con «attività» non intendo ovviamente solo quella cinetica, ma anche quella metabolica, scambio di energia, etc. e l'inerzia cinetica dei vegetali sappiamo essere ricca di attività fotosintetiche, etc. Forse la programmazione di tale attività non può che essere genetica, quindi, da profano, tendo a trovare intuitivamente calzante quanto osservato da Mayr, se l'ho ben compreso (senza cadere in forme fallaci di ilozoismo scientista o panteismo immanentista). Tuttavia, obietterei che quando l'animazione vitale di un corpo cessa, non viene meno il suo essere ancora geneticamente strutturato, quindi avremmo materia inanimata pur in presenza di un genoma, contrariamente a quanto previsto dal suo parametro discriminante; il che mi fa propendere ancora per la visione ingenua della vita come attività (nei sensi suddetti), senza sbilanciarsi nei dettagli della sua causa, che rischia appunto di permanere anche dopo la morte, risultando inefficace come criterio di distinzione fra vivo-animato/morto-inanimato (anche se resta chiaramente utile come criterio per individuare tracce di vita passata).

P.s.
Su Gödel mi permetto di segnalare che i suoi teoremi di indecidibilità (incompletezza), nonostante le sue riserve espresse in una nota del testo in cui li presentava, sono potentemente applicabili anche ad ogni deduzione logica (in senso "tecnico", non come è intesa "volgarmente") come già intuito ed affermato, ma non dimostrato formalmente, da Crisippo, Aristotele e probabilmente altri. La conseguenze filosofiche sono piuttosto rilevanti, ma anche decisamente off topic.
#1358
Tematiche Filosofiche / Re:Così è se vi pare!
03 Dicembre 2019, 15:35:55 PM
Citazione di: Eutidemo il 03 Dicembre 2019, 13:30:01 PM
Quanto al fatto che, come tu scrivi, se "...postuliamo il noumeno come fondamento della realtà, tolto lui, viene meno la realtà, il che è lapalissianamente impossibile", questo, semmai sarebbe un argomento a sostegno della sua esistenza, e non contro.
Mi sembrava doveroso, per par condicio, spezzare una lancia a favore dell'"opposizione", anche perché, non essendo comunque falsificabile, è un'ipotesi pur sempre possibile e ciò va rispettato.

Sorvolando sulle questioni su cui concordiamo, non colgo perché il tertium della congettura "solo fenomeni" sia da scartare:
Citazione di: Eutidemo il 03 Dicembre 2019, 13:30:01 PM
Dunque, l'unica opzione che resta è tra:
- il "solipsismo", e, cioè, che esiste solo la "mia specifica mente" (con nome,  cognome, codice fiscale e indirizzo e-mail), il che suonerebbe alquanto paradossale, se non addirittura autocontraddittorio;
- l'"idealismo metafisico", ", e, cioè, che esiste "una mente universale", (ovverso l'Essere, l'Uno, o Dio come preferisci chiamarla), che "sostanzia" i "noumeni" sottostanti a tutti i "fenomeni".
Il che pure non può essere minimamente dimostrato; ne convengo!
Ma, almeno a me, appare la più plausibile delle congetture.
forse un indizio è questo:
Citazione di: Eutidemo il 03 Dicembre 2019, 13:30:01 PM
Postulare la "realtà come esclusivamente fenomenica", a mio avviso, è una contraddizione in termini, poichè "fenomeno", dal greco "ϕαινόμενον",  significa esclusivamente "cio' che si manifesta", e "non ciò che è"; in altre parole è il "νόuμενον" quando "φαίνεται",  cioè la "cosa in sè" (mentale o materiale), quando "si manifesta" alla nostra mente!
La "manifestazione" è sempre "manifestazione" di qualche altra cosa: non certo del "nulla" nè di "se stessa"!
Tuttavia se, congetturando, ci sono solo manifestazioni (e se il senso di una parola dovrebbe dipendere dalla realtà, e non viceversa) forse si può ripensare il senso del termine «fenomeno» (termine nato non proprio ieri) sostituendo «manifestazione di un noumeno» con «percezione umana di una parte della realtà», dove per «realtà» non si intende un misterioso "mondo dei noumeni", bensì, come ricordato da Ipazia, il campo di applicazione delle analisi scientifiche (rapporti causali, microscopi, etc.). Si tratta di una congettura, a mio avviso, meno interlocutoria del solipsismo assoluto e meno ridondante del noumeno inattingibile, che sarebbe (fra il serio e il faceto) una "congettura al quadrato": la "congettura dell'in sé" della "congettura del fenomeno" (che risulta comunque un po' più esplicativa di entrambe le altre sul come sia possibile fare scienza).
Certo, si potrà sempre obiettare che
Citazione di: Eutidemo il 03 Dicembre 2019, 13:30:01 PM
Il punto della nostra discussione è che anche le "cose" che presumiamo di "conoscere", sono soltanto "fenomeni" mentali, "conosciuti" esclusivamente come tali; e, che si tratti della "percezione" di cose esterne, è solo una "congettura" (fondata o meno che essa sia).
e quindi potrebbe sembrare che
Citazione di: Eutidemo il 03 Dicembre 2019, 13:30:01 PM
Per questo, come divevo, congetturare "necesse est"!
Eppure, se io fossi non nella realtà ma in un sogno, o meglio, in ciò che in questa realtà onirica ho definito «sogno», cosa cambierebbe, almeno fino al mio ipotetico risveglio?
Non mi pare necessario congetturare che la tastiera, la casa, il pianeta Terra siano reali e non illusori: finché tale "dimensione illusoria" è l'unica che conosco (e in cui "sono") e presenta delle sue regolarità (le stagioni, le leggi fisiche, etc.) che mi consentono di "viverci" (qualunque cosa significhi), per me non ha molto senso né chiedersi né congetturare se sia la vera realtà o sia una realtà solo apparente-fenomenica o sia un sogno o altro.
Come dicevo sopra a myfriend, qui un sano ed onesto «non lo so» non ha nessun effetto collaterale, tantomeno l'esigenza logica di congetturare "altro" (veramente reale, non onirico, etc.) da ciò che percepisco (o credo di percepire), essendo io per me la «misura delle cose/sogni/congetture che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono». Certamente l'apparenza a volte inganna, ma nondimeno, pur limitandoci al mondo fenomenico, l'abbiamo spesso verificata e dimostrata (pervenendo a fenomeni che "funzionano regolarmente"), sempre restando "confinati" all'interno del soggettivo e fenomenico «così è se mi (ap)pare», anzi, "così mi (ap)pare che sia" fino a prova contraria (o risveglio o altro).
#1359
Tematiche Filosofiche / Re:Così è se vi pare!
03 Dicembre 2019, 13:08:42 PM
Citazione di: myfriend il 03 Dicembre 2019, 09:54:30 AM
Tuttavia non riusciamo a vedere dietro le quinte...non riusciamo a vedere cosa c'è e chi c'è dietro le quinte.
Uno dei peccati capitali della filosofia (e anche di alcuni fautori della scienza, da quanto sto capendo) mi pare sia il non accettare un punto momentaneo di arresto delle certezze di fronte alla suddetta impossibilità "oggettiva" di vedere «dietro le quinte», confondendo il "senso" degli sforzi per superare tale limite con degli "atti teoretici di fiducia", basati su teorie esplicative indimostrate (o addirittura indimostrabili). Probabilmente è più faticoso di quanto sembri, di fronte ad una domanda, fermarsi ad uno schietto «non lo so, ma ci stanno lavorando» (o «ci stiamo lavorando» se parla un ricercatore).
Nonostante la storia ci insegni "ottimisticamente" che è una questione di paziente e laboriosa applicazione e ricerca, l'uomo (dall'uomo di scienza all'"uomo della strada") lancia spesso le sue deduzioni oltre le sue verifiche e questo fornisce spunti interessanti e preziosi per progredire con sperimentazioni, scenari di possibili scoperte, etc. tuttavia, secondo me, non bisogna mai dimenticarsi di tenere ben chiaro il già conquistato confine fra induzione (verificata, ma provvisoria) e deduzione (universale, ma tautologica).
Trattandosi spesso di concetti o entità o teorie non sperimentate, si prestano alla cosiddetta fallacia dell'affermazione del conseguente: "se x allora y; y; quindi x". Ovvero: postulo che qualcosa causi un evento, riscontro l'evento, concludo che dunque quel qualcosa ha causato l'evento. Palesemente si tratta di una non-dimostrazione, un ragionamento non valido e appunto fallace: se il moto delle pinne dei pesci è il motore della rotazione terrestre allora la terra dovrebbe girare; la terra effettivamente gira; quindi il moto delle pinne dei pesci è il motore della rotazione terrestre. In questo banale esempio si ha la fortuna di poter falsificare empiricamente il nesso causale, evitando di attribuire ai pesci una responsabilità non da poco, tuttavia se ponessimo un'implicazione che parte da un postulato infalsificabile (come l'esistenza dello spirito, della coscienza universale, del noumeno o altro) o non dimostrato (le varie teorie deduttive della scienza, il campo unificato, etc.), ecco che avremmo una pseudo-dimostrazione della suddetta ipotesi postulata.

Il successo storico di tale fallacia è secondo me il rifiuto istintivo di accettare l'ignoto, cercando di renderlo forzatamente il più identificabile possibile, anche a costo di mettere un "tappo indimostrato o indimostrabile" all'estremità della catena causale: dal motore immobile di Aristotele (che non emana, ma attrae il tutto, sagace espediente che lascia alla cosmologia la sua dignità di scienza) fino all'eterno ritorno che decostruisce il problema dell'inizio causale (sostituendolo però con altri). Probabilmente non si è mai lasciato, almeno in filosofia (ma forse anche nella scienza), un sincero spazio vuoto o "in bianco" (da non confondere banalmente con il nulla, la magia o altro) in cui lasciare onestamente in sospeso la nostra descrizione del reale. Anche nello schema tassonomico che hai postato, si (sup)pone un risolutivo «campo unificato» a fare da tappo-limite; limite indimostrato (l'escamotage dell'immaterialità, seppur aggiornato ai moderni limiti strumentali, è ben noto sin dai tempi della teologia medievale) e oggettivamente irrelato (potrebbe essere solo un tunnel, dicevamo) alle scienze che dovrebbe fondare. Non a caso nei secoli scorsi sarebbe stato posto, con egual "certezza", ad un livello precedente; se dicessimo che «intanto lo mettiamo lì perché più in là la nostra conoscenza non va» allora dovremmo forse fermarci a riflettere sull'"ontologia mobile" di tale postulazione.

Inoltre mi pare curioso (e al contempo sintomatico) come tale "tappo" (divinità, campo unificato, coscienza universale, etc.) sia sempre pensato/a al singolare: ipotesi per ipotesi, la vita biologica nasce ad esempio dalla combinazione di (almeno) due elementi complementari, perché lo "spirito del cosmo" (o chi per lui) dovrebbe essere necessariamente unico? Perché non potrebbero essere tre o più? Pigrizia logico-intellettuale, inconsapevole eredità dei monoteismi o pura arbitrarietà estetico-metaforica?

Accettare che la conoscenza "certa" abbia un punto di arresto (seppur momentaneo) e riconoscere che la logica della deduzione (oltre ad avere le sue fallacie) non è garante di corrispondenza con il mondo, mi sembrano due binari ragionevoli su cui lasciar viaggiare sia le ricerche scientifiche (che non hanno certo bisogno dei miei moniti), sia le proprie interpretazioni del mondo, con la consapevolezza che guardando le interpretazioni differenti (se logicamente coerenti e non ancora falsificate) non si può non concedere un «così è se vi pare».
#1360
Tematiche Filosofiche / Re:Così è se vi pare!
02 Dicembre 2019, 20:45:55 PM
Citazione di: myfriend il 02 Dicembre 2019, 19:04:39 PM
la Scienza ragiona così. E cioè, quando entra in una zona che non può misurare nè riprodurre in laboratorio avanza delle ipotesi deduttive che devono avere una loro coerenza logica.
Ben vengano le ipotesi di lavoro, le teorie esplicative e, soprattutto, la coerenza logica. L'importante, secondo me, è rispettare lo statuto "probabilistico" di tali deduzioni, valutare il peso dei differenti indizi (o rilevare la loro assenza) e distinguere le catene di causa/effetto verificate da quelle tautologicamente dedotte (oltre ad essere cruciale il saper dedurre correttamente, senza fallacie).
Probabilmente mi avevano tratto in inganno le frecce che emergevano dallo Unified Field, nel senso che ne avevo sopravvalutato l'attendibilità (di cui ho infatti chiesto). Un po' di fantasia e di inventiva sono da sempre il motore della scienza, hanno un ruolo prezioso, anche se non per questo possiamo concedere il "telepass" ad ogni elucubrazione deduttiva (non mi riferisco a te, dico in generale).
#1361
Tematiche Filosofiche / Re:Così è se vi pare!
02 Dicembre 2019, 17:18:09 PM
Citazione di: myfriend il 02 Dicembre 2019, 15:20:17 PM
è a partire da questi fenomeni fisici che si arriva alla deduzione che la "realtà immateriale" (o "Campo") da cui questi fenomeni scaturiscono (o emergono) deve necessariamente essere una Entità dotata di "intenzione" - quindi di autocoscienza, autoconsapevolezza e creatività - e di intelligenza.
Mi pare che la deduzione che proponi non possa fondarsi su fenomeni fisici (come ogni deduzione in quanto tale), perché non è connessa ad un dimostrato rapporto causale con tali fenomeni, ma è piuttosto una postulazione di esistenza indimostrata (ancor più nelle sue qualità). Se ho ben capito, le "evidenze" si fermano al «vuoto quantistico» e alla sua immaterialità (tale almeno fino a prova contraria); in tre righe si passa purtroppo dalla constatazione scientifica «non sappiamo cosa sia questo "campo immateriale" e nemmeno da "cosa sia fatto"» alla congettura filosofica «Questo campo è la "causa prima" di ogni cosa»:
Citazione di: myfriend il 02 Dicembre 2019, 15:20:17 PM
Quindi non sappiamo cosa sia questo "campo immateriale" e nemmeno da "cosa sia fatto".

Parliamo quindi di "deduzione".

Questo campo è la "causa prima" di ogni cosa.
pur essendo indimostrabile che non sia esso stesso causato da altro e senza evidenza che esso sia la vera causa delle leggi fisiche citate (vedere un'auto che esce da un tunnel non dovrebbe far dedurre che il tunnel abbia generato l'auto e tutte le leggi che la fanno muovere, solo perché non riusciamo a vedere oltre il tunnel...).

Ti segnalo che, parlando di «deduzione», sono stati postulati assiomi come i medievali postulavano dogmi teologici (e non è affatto offensivo): se sostituiamo a «campo» la parola «dio», possiamo applicare (alla parte non scientifica del tuo discorso) tutte le osservazioni e confutazioni formali applicabili alle varie prove ontologiche dell'esistenza di una divinità, senza che la scienza possa prevenirne le fallacie. Al di sotto di quelle tre frecce mi pare ci sia dunque un mero accostamento (di una congettura filosofica ad un insieme di teorie scientifiche) più che un rapporto causale (confermando le perplessità già emerse dall'articolo di wikipedia).


P.s.
Citazione di: Ipazia il 02 Dicembre 2019, 16:03:26 PM
Quando uno parla di "migliore disposizione", presuppone che ce ne sia pure una "peggiore" e che l'interlocutore concordi intersoggettivamente con lui su tale scala di valori, al netto della soggettività dei concetti di malattia e salute. Altrimenti la metafora non funzionerebbe  ;)
Concordo; tuttavia, chiedere a un sofista quale sia la «disposizione migliore» in ambito filosofico (quindi fuor di metafora medica, se è vero che essa è strumentale al senso del testo e non viceversa) ci riporta alle antilogie, all'eristica, al metron, etc.
#1362
Tematiche Filosofiche / Re:Così è se vi pare!
02 Dicembre 2019, 15:49:47 PM
Citazione di: Eutidemo il 02 Dicembre 2019, 14:05:38 PM
In effetti, si tratta di una situazione simile a quanto si narra della caverna platonica, che, a dire il vero, non mi sembra affatto invertita; ed infatti, guardando le immagini apparenti (fenomeni percepibili) creiamo concettualmente qualcosa che si suppone reale (noumeno impercepibile) e "supponiamo" che sia esso a creare le immagini.
La definivo invertita perché, secondo me, siamo noi a "creare" il (concetto di) noumeno a partire delle immagini dei fenomeni e non il noumeno a creare le nostre immagini dei fenomeni (anche per il noumeno dovrebbe valere il buon vecchio onere della prova per chi ne afferma l'esistenza, senza offesa per le deduzioni kantiane).

Citazione di: Eutidemo il 02 Dicembre 2019, 14:05:38 PM
l'unica sua evidenza non è la sua esistenza, ma la sua utilità teorica per dare un fondamento, per quanto indefinito, ai fenomeni che percepiamo; però, a ben vedere, questo vale per tutte le teorie, compresa quella della relatività, circa la quale, però, non mancano indizi e riscontri concreti (almeno a livello fenomenologico).
Il livello fenomenologico fornisce appunto almeno indizi e riscontri; la congettura noumenica, no.

Citazione di: Eutidemo il 02 Dicembre 2019, 14:05:38 PM
Ed infatti, se esso non esistesse, si cadrebbe nel "solipsismo" più assoluto; e, cioè, che tutto ciò che esiste è un mio sogno individuale (cosa bel diversa dall'"idealismo" in senso puro).
Scienza e scienziati compresi; ed infatti, quale mai sarebbe "la scienza che avanza", se anche lei fosse soltanto un sogno della mia mente individuale?
Se postuliamo il noumeno come fondamento della realtà, tolto lui, viene meno la realtà (il che è lapalissianamente impossibile: almeno "io", qualunque cosa "io" sia o stia facendo, devo pur avere una qualche forma di esistenza, noumenica o meno). Se invece postuliamo la realtà come esclusivamente fenomenica, con la scienza che "avanza" studiando appunto i fenomeni, il problema dell'esistenza al di là del fenomeno trova risposta nei differenti livelli della materia (alcuni possiamo percepirli, altri no; scoprendoci «misura delle cose che sono in quanto sono, etc.»). Che poi la nostra (ap)percezione sia sempre parziale e mai simultaneamente a 360 gradi, non ci impedisce, a quanto pare, di fare comunque scienza (pur con tutti i suoi limiti).

Citazione di: Eutidemo il 02 Dicembre 2019, 14:05:38 PM
Se la "cosa in sé" fosse solo una congettura ridondante (e mistificante), lo sarebbe anche la scienza, perchè farebbe anche essa parte della mia illusione onirica.
[...]
Ciò significa che, se non azzardo qualche ipotesi, mi devo necessariamente richiudere in uno sterile solipsismo!
Fra l'ipotesi del solipsismo radicale e l'ipotesi del noumeno, ci può essere l'umile tertium dell'ipotesi (forse persino un po' più epistemica delle altre due) di una realtà umana che è inevitabilmente fenomenica e parziale, essendoci probabilmente cose che esistono e non possiamo percepire e/o conoscere (finora).
Come dicevo altrove, la "cosa" è un'astrazione concettuale umana, un'identificazione compiuta dalla nostra mente, per cui la "cosa in sé" sarebbe l'illusione dietro tale miraggio, praticamente un nulla. Riprendo l'esempio: la mia mano è identificata come tale (distinta dal corpo), ma in sé è fatta di tessuti, molecole, etc. non esiste davvero la "cosa-mano" (allora perché dovrebbe esistere la "cosa-mano in sè"?), ma è solo una porzione fenomenica del tutto che io isolo cognitivamente ed identifico come tale (arbitrariamente, in alcune culture magari la chiamano "punta del braccio" e, sempre magari, per loro la "cosa-polso" non "esiste").

Citazione di: Eutidemo il 02 Dicembre 2019, 14:05:38 PM
Aumentando lo "zoom", che è anch'esso sperimentato solo a livello mentale (come nei sogni),  forse vedrei  infatti il mare, poi le onde, poi la molecola dell'acqua (della plastica, etc.) fino a scendere ad un livello in cui non c'è più nel il blu né tantomeno l'oceano, bensì altre "cose".
Sì, ma tutto questo appare sempre solo nella mia "mente individuale", se non suppongo che esista un mondo "noumenico" esterno, ovvero un mondo "noumenico" mentale universale che trascenda la mia singola mente individuale; come io sono portato a credere.
Come dicevi (e come da definizione di noumeno) non saprai mai quale è e come è il noumeno, per cui inferire che esso esista (se è), pur senza poterne verificare l'esistenza, è forse uno spunto squisitamente metafisico, ma poco epistemologico.

Citazione di: Eutidemo il 02 Dicembre 2019, 14:05:38 PM
Quanto al fatto che i "cultori" della "cosa in sé" diranno che tale mancato rinvenimento del "noumeno" è inevitabile (e tautologico), perché la "cosa in sé" è per definizione inattingibile all'uomo, è indubbiamente vero che affermare l'indimostrabile mette al riparo da ogni confutazione;  ma il "così è se vi pare" non c'entra niente, in quanto si tratta di una alternativa "inevitabile"!
Intendi che non è possibile pensare ad un mondo fenomenico senza noumeni inattingibili? Cosa ci dimostra che non può bastare un mondo solo fenomenico?
Se faccio girare di fronte a me un mappamondo, inevitabilmente ne vedrò sempre solo una parte, ma la sequenza percettiva mi farà supporre che si tratti di una "sfera" che rappresenta la Terra. L'immagine astratta che costruirò di tale oggetto, sottoponendolo magari anche a verifiche intersoggettive, finché si rivela esatta non necessita di un "inattingibile noumeno del mappamondo" (come direbbe il pluricitato Ockham). 
Se nondimeno dubito di tutte queste percezioni, discorsi intersoggettivi, etc. l'aver fiducia nell'esistenza di un noumeno non credo aiuti a dare maggiori certezze.

Citazione di: Eutidemo il 02 Dicembre 2019, 14:05:38 PM
Ed infatti, "io" sperimento ESCLUSIVAMENTE ed OGGETTIVAMENTE, solo "immagini mentali" (visive, acustiche tattili, olfattive e gustative); il fatto, poi, che si tratti di "percezioni", è solo una congettura, in quanto io esperisco solo "immagini mentali", che potrebbero essere anche frutto di mere "allucinazioni".
Quello che affermano gli altri e la "scienza", è anche esso una mia mera "immagine mentale" di riviste, libri e documentari, che non potrò mai acquisire "direttamente".
Quindi, congetturare un "noumeno", secondo me, "necesse est!".
Secondo me, proprio perché possiamo arrivare persino a dubitare dei sensi e delle percezioni (il sogno della farfalla di Chuang Tzu), dubitare del nostro dialogare con altri, etc. non ha molto senso aggiungere al dubitabile anche un noumeno sovrasensibile e non percepibile: se i sensi mi ingannano, dov'è la necessità di qualcosa che per congetturale definizione non posso nemmeno conoscere?
#1363
Tematiche Filosofiche / Re:Così è se vi pare!
02 Dicembre 2019, 14:14:26 PM
Citazione di: myfriend il 02 Dicembre 2019, 12:14:28 PM
L'Essere è alla base dell'energia, della materia (che è una forma di energia) e di tutte le leggi che compongono l'universo in tutte le sue "forme".
L'Essere è "pura coscienza immateriale", intelligente, cosciente e autoconsapevole. E, ogni cosa nell'Universo, è "manifestazione", istante-per-istante, di questo Essere che è alla base dell'universo stesso.

Quindi...c'è una visione "filosofica" di questo Essere che, però, deriva da un modello Fisico/teorico ben preciso dell'Universo.
Cioè...la visione "filosofica" da cui origina l'Essere si sposa e combacia perfettamente con una visione Scientifica (Fisico/teorica) dell'Universo.
Quello che a mio giudizio è fondamentale, per tale raccordo fra filosofia e scienza, è quel diramarsi delle tre frecce (Bose Fields, Supersymmetry, Fermi Fields) a partire dall'Unified Field; sono frecce che rappresentano: un rapporto causa/effetto (dimostrato o almeno sperimentabile) derivando da un'unica causa (Anassimandro approverebbe), o un denominatore comune concettuale (seppur ontologicamente incerto), oppure le tre frecce non hanno comprovata medesima origine, tuttavia per "comodità logica" vengono fatte partire dal punto in cui si ferma la nostra attuale conoscenza?

Approcciando la questione da un altro lato: cosa sappiamo con certezza dell'Unified Field al punto da identificarlo chiaramente, senza poterlo confondere con altro (una divinità, un esperimento alieno, etc.)? Come possiamo dichiararne le qualità («intelligente, cosciente e autoconsapevole») se (non lo so) è oltre le nostre possibilità di "studio"?
Cosa impedisce di terminare lo schema con le tre frecce che, anziché unificarsi, "penzolano" ognuna per conto suo, lasciando aperta la domanda su cosa ci sia "sotto" (in quanto loro causa)?

Chiesto più in sintesi: quanto c'è di scientifico-induttivo(verificabile) in quel punto blu da cui si diramano le tre frecce e quanto di filosofico-deduttivo(congetturale)?


P.s.
Forse ho esagerato con le domande, ma sono direttamente proporzionali sia alla mia ignoranza in materia che al mio interesse.
#1364
Tematiche Filosofiche / Re:Così è se vi pare!
02 Dicembre 2019, 12:09:34 PM
Non per fare l'avvocato di Protagora, né il suo discepolo (Euatlo docet), ma la stessa dicotomia sano-malato è stata ed è tuttora spesso meno "oggettiva" di quanto sembri (dalle riflessioni di Foucault alla "classificazione" dell'omosessualità, passando per l'Asperger). Certo, ci sono casi piuttosto indiscutibili di malattia, ma siamo pur sempre in una metafora; se ne usciamo, rientrando nel discorso filosofico, interpretativo-valutativo del reale, etc. Protagora forse ci chiederebbe: c'è una dicotomia parimenti netta e indiscutibile?
Nel "misurare" un vivo da un morto, la scienza fallisce di rado, ma suppongo il buon Protagora si riferisse al misurare le differenti identificazioni (più o meno ontologiche), il giusto dallo sbagliato, il vero dal falso, etc. senza escludere (aggiungerei) la scappatoia di andar a cercar analgesici prescritti alla "farmacia di Platone" (come direbbe qualcun'altro).
#1365
Tematiche Filosofiche / Re:Così è se vi pare!
01 Dicembre 2019, 14:21:58 PM
Citazione di: Eutidemo il 01 Dicembre 2019, 11:19:40 AM
infatti, il "noumeno" "E'", mentre il "fenomeno" è soltanto la sua "manifestazione"; che noi chiamiamo "materia"!
[...]
- noi, però, non abbiamo alcun modo di constatare che ciò avvenga anche tra "livelli diversi", ad esempio rilevando che il "noumeno" fuoco in se stesso, sia la causa del "fenomeno" calore.
E' solo una "congettura"!

***
A mio avviso, peraltro, è anche una congettura molto discutibile, in quanto, essendo in presenza di due piani diversi di realtà, mi sembra un po' arbitrario che possa sussistere un nesso di causalità vero e proprio, tra "noumeno" e "fenomeno".
Il noumeno stesso è una congettura, quindi ogni volta che lo chiamiamo in causa, il discorso assume inevitabilmente un aspetto congetturale. Si tratta di un doppio legame per cui noi "proiettiamo" alcuni aspetti "parziali" e apparenti del fenomeno verso un ipotetico noumeno "completo" e non apparente (non percepibile), al contempo supponiamo che tale noumeno "proietti" il suo fenomeno, o meglio, le sue apparenze fenomeniche, che noi percepiamo e conosciamo. Situazione simile a quanto si narra della caverna platonica, solo che in questo caso la proiezione è invertita: guardando le immagini apparenti (fenomeni percepibili) creiamo concettualmente qualcosa che si suppone reale (noumeno impercepibile) e ci fidiamo che sia esso a creare le immagini; si passa quindi dalla caverna, in cui l'oggetto reale proietta l'immagine ingannevole, al cinema in cui l'immagine reale rimanda ad un'oggetto, concettualmente ingannevole e indimostrabile. Una volta usciti dalla caverna platonica si potevano ammirare gli oggetti reali, mentre nel caso del noumeno è impossibile uscire dal cinema fenomenico, tutto ciò che c'è è solo un'immagine; certo, proiettata (magari semplicemente da ciò che abbiamo giusto sopra gli occhi, ma non divaghiamo) e non potendo uscire dalla "sala dei sensi" (con il sesto che pone più problemi di quanti ne risolva) non possiamo sapere da "cosa", per questo abbiamo inventato il concetto, tanto risolutivo quanto poco epistemico, del noumeno.

Essendo il noumeno, per definizione concettuale, non percepibile, non studiabile, non falsificabile, etc. l'unica sua evidenza non è la sua esistenza, ma la sua utilità teorica per dare un fondamento, per quanto indefinito, ai fenomeni che percepiamo. Dire che il noumeno "è", può significare che il noumeno è un'idea (come altre altrettanto utili al ragionamento o ad altro), ma non che esso sia qualcosa che esiste davvero, essendo la sua esistenza, appunto, congettura indimostrabile. La considerazione che «deve pur esserci qualcosa che genera i fenomeni» sarebbe a sua volta da dimostrare: quanto più la scienza avanza, tanto più il concetto di "cosa" ("che è in quanto è o non è in quanto non è") diventa problematico e arbitrario. Se è la nostra percezione mentale (input sensoriali elaborati dal cervello) a creare il fenomeno "cosa", identificandola, astraendola dal suo contesto (la cosa «mano» identificata distinguendola concettualmente dal braccio, distinto dal corpo), nel creare l'identità della "cosa" non abbiamo necessariamente bisogno che tale identificazione rimandi ad un noumeno; se la "cosa" è identificata e distinta dalla mente, la "cosa in sé" è una congettura ridondante (e mistificante) smentita dalla scienza (che divide la mano in cellule, le cellule in atomi, etc. senza mai incontrare la "cosa in sé" della mano... o forse moltiplica le differenti supposte "cose in sé" ad ogni divisione analitica, spostando il problema all'infinitamente divisibile, direbbe Zenone?).

Altro esempio banale: guardando dallo spazio la terra, saremmo portati a pensare che «deve esserci un noumeno del blu dell'oceano», ma la percezione di quel blu sappiamo che non corrisponde ad alcun "noumeno del blu dell'oceano" (lo stesso vale per la cosa «oceano») essendo una questione di prospettiva, illuminazione, rifrazione, etc. al punto che forse ha più senso affermare che il blu dell'oceano non esiste piuttosto che supporre che ci sia un "noumeno del blu dell'oceano": aumentando lo zoom, vedremmo infatti il mare, poi le onde, poi la molecola dell'acqua (della plastica, etc.) fino a scendere ad un livello in cui non c'è più nel il blu né tantomeno l'oceano, bensì altre "cose".
I "cultori" della "cosa in sé" diranno che tale mancato rinvenimento del noumeno è inevitabile (e tautologico), perché la "cosa in sé" è per definizione inattingibile all'uomo; ancora una volta, affermare l'indimostrabile mette al riparo da ogni confutazione, aprendo la porta al «così è se vi pare».