Citazione di: davintro il 23 Dicembre 2019, 17:34:24 PMIl problema sorge, come ho già anticipato, non tanto se si tratta di una ricerca confinata in una stanza o in uno spazio dove la pazienza e la fattibilità della ricerca è decisamente a misura d'uomo:
mentalità "anglosassone").Phil parla di un rallentamento della procedura di verifica che si verrebbe a determinare nel caso di dover applicare l'onus probandi a una tesi negativa, un verificare l'assenza del mostro nella stanza andando a cercare in ogni angolo [...]Così, diamo per scontato che il drago non sia nella stanza, solo perché per pigrizia non si ha voglia di andare a esplorare ogni angolino, perché richiederebbe troppo tempo (ma che fretta c'è in fondo!?) [...]Quindi se si vuole argomentare razionalmente l'assenza del mostro nella stanza, ci si prende tutto il tempo che occorre per ispezionarla da cima a fondo, e se non si ha tempo o voglia di farlo, la cosa più onesta sarebbe sospendere in modo più o meno neutro il giudizio riconoscendo il margine di incertezza dovuto ai limiti della visione del reale entro cui è riferita l'assenza del fenomeno in questione.
Citazione di: Phil il 23 Dicembre 2019, 01:08:59 AM
Chiaramente finché si tratta di enti empirici facilmente enumerabili, poiché chiusi in una stanza, la situazione è rapidamente risolvibile, basta la vista e poco altro; se invece qualcuno afferma che «nel mondo c'è un dragone», o peggio, senza dare indizi, «esiste un dragone», «un dragone c'è», mi sembra più ragionevole che sia lui a dimostrarne l'esistenza, piuttosto che noi a perlustrare tutto il globo o il cosmo solo per dimostrare a lui la falsità della sua affermazione (pur concedendogli la buona fede).
Va inoltre considerato che se si richiede l'onere della prova a chi afferma qualcosa (sia essa esistente o non esistente), sarebbe al contempo un tiro piuttosto mancino prospettargli una ricerca che va oltre le sue concrete possibilità di "prova", ovvero una dimostrazione impraticabile. Se parliamo di (dimostrazioni di) esistenza è secondo me inevitabile valutare lo sporcarsi le mani con la realtà, considerare i limiti delle verifiche possibili, fare i conti con gli aspetti pragmatici del metodo di verifica, etc.
L'appello alla concretezza "anglosassone" della prassi dimostrativa non può essere accantonata se ciò che si richiede è appunto una dimostrazione epistemologica e non un'ammissione di possibilità di "esistenza fino a prova contraria" (che si può, volendo, concedere facilmente, ma al prezzo di abbandonare l'onere della prova e quindi il piano epistemologico).
Inoltre, sempre guardando alla concretezza della ricerca (filosofica o altro), o meglio alla pratica della ricerca: se affermo l'esistenza di qualcosa, è plausibile che lo faccia perché ho indizi, spunti, intuizioni, etc. che mi spingono a ritenerlo esistente; proprio da questi spunti che posseggo è ragionevole che parta una possibile prova dell'esistenza. Chiedere a chi non ha avuto quelle "prove", indizi, spunti, etc. di dimostrare che mi sono sbagliato è metodologicamente ostile e inefficiente: se non provo a dimostrare l'esistenza di qualcosa che credo esista per determinati motivi, perché mai delego ad altri l'onere della dimostrazione del contrario (assolvendomi dall'onere della prova affermando che «l'assenza di prove d'esistenza non è prova dell'assenza dell'ente»)?
Proviamo a calare tale differenza di oneri (esistenza / non-esistenza) all'interno di una verosimile equipe di ricerca: ci sono alcuni ricercatori che collaborano negli stessi esperimenti alla ricerca di una nuova molecola, uno di loro afferma che tale nuova molecola c'è (e magari ne descrive anche le proprietà), tuttavia anziché di-mostrarne l'esistenza ai colleghi (che magari sono scettici in merito) chiede loro di dimostrare che tale molecola non esiste... onestamente, non credi che converrebbe, sotto tutti i punti di vista, che sia lui a svelare la nuova molecola (di)mostrandone l'esistenza?

