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Messaggi - Phil

#1366
In fondo, quando parliamo di "intellettuali", oggi, a chi ci riferiamo? 
I settori della conoscenza, come ricorda InVerno, sono così specialistici e sufficientemente ricchi di contenuti da render obsoleta la figura dell'intellettuale tout court, interdisciplinare, la cui parodia è forse quella dell'opinionista tuttologo, specialista in nulla ma minimamente competente in tutto. I docenti universitari, i ricercatori, gli scrittori sono probabilmente ritenuti intellettuali nei rispettivi ambiti; pare che l'intellettuale di oggi sia definibile come colui che, anche senza essere ammesso al Mensa, vive d'accademia e/o di carta stampata abbinata a qualifiche "elevate", preferibilmente in ambito umanistico (quanti definirebbero Einstein un intellettuale?), essendo nondimeno uno specialista, quasi un "tecnico" della sua disciplina (nel senso che sa usarla bene e ne conosce gli strumenti, non nel senso che si occupi di sola pratica senza teorizzare nulla); gli altri sono semplici opinionisti (e forumisti).

P.s.
@InVerno
Chiedo senza retorica (non essendo competente): se venisse meno il consumismo, ormai, non ci sarebbe uno stallo o una crisi economica con sgradevoli ripercussioni sociali? Cosa intendi parlando di intellettuali (s)favorevoli al consumismo o con «"filosofia" facile da attaccare»? Qual'è il rapporto oggi fra (eventuale "compito" degli) intellettuali e consumismo?
L'ondata ecologica, ad esempio, in fondo non altera le dinamiche consumistiche, le rende saggiamente compatibili con l'ambiente, ma come "meccanismo" di massa resta tale (il "consumismo verde" è pur sempre consumismo, quando il verde non è addirittura strumentalizzato a scopi di marketing).
#1367
Tematiche Filosofiche / Re:Così è se vi pare!
30 Novembre 2019, 11:15:19 AM
Citazione di: myfriend il 30 Novembre 2019, 10:26:15 AM
Nel nostro universo, le particelle si creano e svaniscono contemporaneamente.
Eppure se è vero che nulla si crea e nulla di distrugge, forse (chiedo da ignorante in materia) non è possibile che tale "svanire" e tale "crearsi" in tale "vuoto" siano dovuti (qui concordo con baylham) dalla nostra incapacità di seguire tali fenomeni quando entrano in un campo che ancora non riusciamo ad osservare?

Probabilmente è anche una questione di linguaggio (parlare di «vuoto» nella sezione filosofica innesca una certa precomprensione del tema): in fondo, anche nei link che hai postato (grazie per l'approfondimento) si ricorda che «il vuoto non è il nulla, è un oggetto fisico non spaziale» (G. Vota, secondo link) e che «il vuoto non è realmente vuoto ma pieno di fotoni virtuali» (S. Girvin, primo link).
#1368
Tematiche Filosofiche / Re:Così è se vi pare!
29 Novembre 2019, 23:09:30 PM
Citazione di: myfriend il 29 Novembre 2019, 20:50:27 PM
questo Campo Unificato IMMATERIALE che è in tutto l'Universo...è il TUTTO - o l'UNO - dal quale scaturisce o emerge o appare la materia.
Questo dice la Scienza. Ed esistono numerose conferme sperimentali di questo fatto.
Incuriosito da un eventuale approfondimento su come l'immateriale producesse il materiale, ho consultato Wikipedia dove, stando a questa introduzione sul tema, pare che si tratti di teorie scientifiche non sperimentate né verificate, quindi non esattamente "oggettive", ma perlopiù teoriche e ancora molto problematiche. Dunque finora, almeno stando a Wikipedia, sono teorie pertinenti ad uno scientifico «così è se vi pare» (come simbolicamente rappresentato dal cambio di prospettiva di Hawking). Tuttavia non è da escludere che si tratti semplicemente di una wiki-pagina non aggiornata.

#1369
Tematiche Filosofiche / Re:Così è se vi pare!
28 Novembre 2019, 22:34:16 PM
Citazione di: Eutidemo il 28 Novembre 2019, 13:08:17 PM
L'assunto di Pirandello, in sostanza, somiglia moltissimo a quello di Protagora, il quale, almeno nella versione riportata da Platone nel "Teeteto" ( 151e-152a), sosteneva che: "L'uomo è la misura di tutte le cose; di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono" (Panton chrematon metron anthropon, einai. Ton men onton hos esti, ton de ne onton hos ouk estin).
Nel suddetto motto mi piace mettere l'accento sulla «misura» (metron), di conseguenza l'espressione «l'uomo è la misura di tutte le cose [...] di quelle che non sono in quanto non sono» non lo ridurrei (onto)logicamente al non-essere parmenideo (@Ipazia), per nulla "a misura umana", quanto ambiziosamente a misura universale. Intendo piuttosto l'esser-misura dell'uomo come l'ammissione della possibilità di un fuori-misura, che esiste senza che l'uomo possa dirne l'esistenza, perché eccede il suo metro(n) di identificazione.
Come fa allora a parlarne se per lui non esiste? Chiaramente si accorge della sua esistenza solo nel momento in cui diventa compatibile con il suo metro(n); prima era nell'in-definito (non ancora definito) delle «cose che non sono» in quanto fuori-misura, sebbene non in quanto "assolutamente" inesistente.
Dall'indefinito delle «cose che non sono in quanto non sono» sono nel tempo emerse molte "cose" che abbiamo scoperto essere già da tempo come, notizia fresca, un buco nero che pare «non sarebbe dovuto esistere» (sempre in barba al profetico «finora e fino a prova contraria»). Resta infatti inverificabile e immisurabile se sia più estesa la schiera delle cose che sono e conosciamo, o quella delle cose che (finora) non sono perché non le conosciamo.

Leggo quindi quel motto un po' come dire «l'occhio umano è misura di tutte le cose, di quelle visibili in quanto visibili e quelle invisibili in quanto invisibili» e/o «il pensiero umano è misura di tutte le cose, di quelle pensate in quanto pensate e quelle non pensate in quanto impensate», intendendo con non-visibili e non-pensate le "cose" incompatibili con la vista e il pensiero umano attuali, ovvero che per esso, per il suo metron, finora non esistono, tuttavia possono in teoria avere un'esistenza, seppur non ancora "misurata" (quindi attualmente indefinita).
Ad esempio, gli atomi "non sono" nel mondo a misura di aborigeno amazzonico (lui li annovera ancora nell'indefinito delle «cose che non sono in quanto non sono»), ma invece "sono" nel mondo a misura di scienziato; gli ultrasuoni erano fra «le cose che non sono» ai tempi di Protagora, ma ora per l'uomo attuale sono fra «le cose che sono».
Essendo l'uomo differente nel tempo (e nello spazio) ci sono differenti "misure" e quindi differenti «cose che non sono in quanto non sono» e «cose che sono in quanto sono».
#1370
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
27 Novembre 2019, 20:03:29 PM
Hai ragione, in teoria saremmo in un topic che ha per tema la morte; coerentemente, il tema stesso è morto lasciando spazio ad un post mortem di discussioni su etica, "videogame", logica, etc. a metaforica dimostrazione di come sia un tema fatalmente sfuggente, indicibile, che ci rimbalza sempre nell'al di qua.
#1371
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
27 Novembre 2019, 17:07:30 PM
Citazione di: davintro il 27 Novembre 2019, 00:01:34 AM
A rigor di termini, i sensi non sbagliano né correggono mai, per la semplice ragione che non giudicano, cioè non pongono il contenuto che recepiscono come uno stato di cose oggettivo di fronte alla quale tale presa di posizione può essere errata o meno. Anche nel caso in cui tutto ciò che i sensi recepiscono corrispondesse pienamente alla realtà oggettiva, ciò non porterebbe a porre la sensibilità come parametro sufficiente a legittimare razionalmente il valore di verità di una conoscenza fondata su di essi
Credo dipenda molto dal tipo di oggetto che ci apprestiamo a conoscere: se è un oggetto sensibile, le percezioni (ovviamente elaborate da un cervello pensante) sono talvolta sufficienti (per conoscere e studiare una finestra, ad esempio); se parliamo di oggetti da conoscere del tipo di concetti, idee, etc., la questione è decisamente più complessa e sovrasensibile, perché tale conoscenza scopre il fianco alle problematiche della comunicabilità, interpretazione, verificabilità, etc. spesso in senso extra-empirico e ricade nella conseguente ambiguità logica (di cui sotto).

Citazione di: davintro il 27 Novembre 2019, 00:01:34 AM
Se ci attenessimo rigorosamente all'esperienza da cui l'induzione trae le generalizzazioni dovremmo limitarci a giudicare che "i cigni FINORA osservati sono bianchi", mentre la legge scientifico/zoologica "tutti i cigni sono bianchi" presuppone l'utilizzo della categoria "tutti", comprendente anche tutti i cigni finora mai osservati", e dunque un elemento non empirico, ma presente alla nostra mente in modo originario (se il termine "innato" infastidisce).
Si può "lavorare" bene, sia in scienza che in filosofia, ponderando adeguatamente quel «finora» o un «fino a prova contraria»; non vedo alcuna necessità, né logica né pragmatica, di universalizzare (vecchio vizio dei filosofi): agisco e penso basandomi sulla casistica (e sulle sue previsioni annesse), senza precludermi la possibilità di gestire un'eccezione alla regola generale. «Finora tutti i cigni osservati sono bianchi» e se mi imbatto in un cigno nero, non deduco che non possa essere un cigno perché è nero, né lo classifico come (brutto) anatroccolo; piuttosto aggiorno la casistica e modifico la norma generale in «finora la gran parte dei cigni osservati sono bianchi». Se invece mi fidavo della legge universale «tutti i cigni sono bianchi», la confutazione empirico-induttiva di tale assioma comporta crisi nella struttura di pensiero che vi si fondava (praticamente, fuor di metafora, quello che è successo alla metafisica classica, alla logica aristotelica, alla geometria euclidea, etc. nel famigerato novecento).
Secondo me, in tutta la scienza onestamente sperimentale c'è quello sbiadito «finora» prima della generalizzazione che segue.

Citazione di: davintro il 27 Novembre 2019, 00:01:34 AM
L'induzione (ma forse sarebbe meglio dire l'esperienza) può smentire una deduzione nelle sue premesse, ma entro i limiti in cui le premesse presumono di poggiare, a loro volta, sull'esperienza. Tutto ciò che fischia è una locomotiva-Socrate fischia-Socrate è una locomotiva è un esempio di deduzione la cui premessa è facilmente smentibile dall'esperienza, ma questi sillogismi sono solo per Aristotele esempi applicativi di deduzione, la loro falsificabilità empirica non tocca l'essenza del metodo, che consiste nella necessità consequenziale dei passaggi logici che connettono le premesse alle conclusioni: l'esperienza può smentire le premesse su cui le deduzioni poggiano, ma mai i principi logici che strutturano formalmente il ragionamento, e la deduzione filosofica fa leva su questi ultimi, non sul contenuto empirico delle premesse, e in questo senso non è vero sia infalsificabile, e dunque non scientifica.
La deduzione in sé non è falsificabile o meno, scientifica o meno: come ricordavo a donquixote, la logica formale (usiamo il singolare semplificando) consente ragionamenti validi, ma non necessariamente veri: il tallone d'Achille della logica è la "compilazione" dei suoi elementi, dei suoi assiomi, delle sue proposizioni, etc.. La conseguenza filosofica (e non) è che la validità logica non comporta affatto attendibilità veritativa: circoli viziosi, falsità, fallacie semantiche, etc. possono essere costituite da ragionamenti perfettamente validi dal punto di vista logico.
Per questo la logica deduttiva non serve a conoscere attendibimente se non è verificata "dal basso", dall'empiria, e ciò che non può essere verificato, o almeno potenzialmente falsificato, non è da considerare attendibile solo perché è logicamente coerente (come dimostrano le varie "prove logiche" dell'esistenza di un dio, dai medioevali a Godel: è un semplice concetto infalsificabile, non ha senso scomodare petitio principii o duellare sofisticamente partendo da assiomi e paradigmi differenti).

Citazione di: davintro il 27 Novembre 2019, 00:01:34 AM
Infatti proprio perchè gli assiomi logici costituiscono regole comuni a ogni pensiero, in via ipotetica ogni pensiero può provare a smentirne il valore di verità, che poi di fatto ciò sia impossibile (se provassi a contestare il principio di non contraddizione finirei per contraddirmi e dunque per autoinvalidare la critica) non attesta l'infalsficabilità e la non-scientificità del valore di verità delle regole, ma anzi ne conferma necessariamente e costantemente la sua validità, regge alla prova della falsificazione, solo la regge ad un livello superiore rispetto a quello delle verifiche empiriche delle scienze naturali, perché in ogni caso il tentativo di smentirle può in ogni momento essere provato e constatato come fallimentare
Il principio di non contraddizione non fa eccezione al suddetto problema della "compilazione"; non sono esperto di logiche paraconsistenti (che tuttavia esistono e violano in modo controllato il principio di non contraddizione), quindi faccio un esempio banale: due rette parallele prolungate all'infinito, si toccano o non si toccano? Ognuna delle due risposte ha un suo sistema di riferimento non auto-contraddittorio; eppure, ci chiederebbe un "monista", qual'è allora la verità?
All'interno della validità della logica aristotelica (limitandoci quindi a quella più basilare, lasciando fuori quelle modali, le suddette paraconsistenti, il tema della temporalità, etc.) non abbiamo alcuna garanzia di conoscenza veridica, ma solo di formulazione logicamente valida (che, come ricordato, non esclude circoli viziosi, falsità, etc.). L'induzione ci dà i dati, gli elementi, le evidenze (per quanto fallibili e interpretabili) per ancorare, fino a prova contraria, la validità alla verità, pagando però il prezzo di perdere l'agognata universalità e/o assolutezza che faciliterebbero l'assiomatizzazione della conoscenza.


P.s.
Non intendo certo sconsigliare l'uso della deduzione o sminuire il ruolo fondamentale della logica formale, ma considerarne gli "angoli ciechi" è comunque interessante; su astrazione/innatismo deduttivo, metafisica, etc. discutemmo già abbastanza approfonditamente qui, per cui evito di innescare ripetizioni.
#1372
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
26 Novembre 2019, 21:42:04 PM
Citazione di: myfriend il 26 Novembre 2019, 17:37:32 PM
la persona consapevole non è quella che NON ha un'etica. Ma è quella che non abbraccia un'etica che gli viene calata "dall'alto". Agisce in base a un processo valutativo interiore che tiene conto della complessità della realtà cercando la risposta più "integra" o "intera" possibile.
La persona consapevole è la persona delle risposte "complesse"[...]
Questo è il punto: la persona consapevole è la persona delle risposte "complesse", perchè ha maturato la consapevolezza che la realtà è "complessa" e va valutata da diversi punti di vista. Non si può tagliare a fette con una visione etica semplicistica. La decisione finale deve riuscire a fondere le giuste istanze che provengono da tutte le parti.
[...]
La persona consapevole è la persona delle risposte "complesse" che cerca di "fondere" in un'unica risposta le giuste istanze che provengono da tutte le parti. Che cerca di "tenere assieme" piuttosto che dividere.
Capisco questa etica della "diplomazia", dell'«in medio stat virtus», della reciprocità, etc. tuttavia non mi sembra specificamente fondata su una consapevolezza della complessità del reale, né, soprattutto, sull'illusorietà dell'individualità della coscienza. Ad un'etica di questo tipo non si arriva necessariamente con la conoscenza (del cosmo, del cervello, del "videogame", etc.) ma anche semplicemente con un'impostazione cristiana, buddista, filantropica, non-violenta o altro, impostazioni contro cui non ho nulla in contrario, ma mi era parso che fosse stata prospettata una derivazione di tale etica da premesse cognitive, che qui si rivelano premesse valoriali (ovvero che considerano alcuni valori come assiomi fondanti una determinata etica). Certo, qualcuno aderirà a tali impostazioni senza la minima consapevolezza, solo per inerzia culturale, spirito gregario, etc. eppure, inversamente, direi che è anche plausibile che non si arrivi a tali valori partendo dallo studio epistemologico della realtà (anche perché questo studio tende a suggerire che tali valori non abbiano alcun ancoraggio "oggettivo" con il reale, riconducendoli alla dialettica a cui accennavo in precedenza fra natura e cultura, ben prima di decostruire l'autopercezione dell'"io").

Per voler sedare una rivolta spingendo le due fazioni al dialogo, magari trovando un denominatore comune di ragionevolezza in entrambe le (op)posizioni, non necessito di consapevolezza cognitiva particolare, mi basta avere un'indole pacifista e ragionevole; il credere ad una divinità che apprezza questo mio gesto, o credere al karma, etc. mi renderebbe poi ancor più motivato e convinto nella mediazione di pace (pur in totale assenza di consapevolezza della complessità e della struttura del reale).
Intendo dire che non riesco a vedere tale etica come "tappa avanzata" di una presa di coscienza della complessità dell'esistente (questo è lo scenario che suggerivi, se non ho frainteso), ma piuttosto come "canonica" applicazione di valori, appresi o auto-prodotti, in cui si crede, al di fuori da ogni dimostrazione "oggettiva" (o scientifica) che li riveli euristicamente preferibili ad altri, soprattutto se si è giunti alla conclusione che l'"io" è un'illusione percettiva. Lo spontaneismo del «verrà da sé»(cit.) riferito all'etica, mi pare ancora molto condizionato da fattori biografici, culturali, etc. piuttosto che univoca conseguenza logica di una consapevolezza cognitiva.
Se intendevi che "verrà da sè" ogni singolare e individuale prospettiva etica, in base alla consapevolezza raggiunta, si finisce quasi con l'avallare qualunque prospettiva etica con un'autofondazione tautologica (in cui la coscienza individuale viene esaltata e responsabilizzata, piuttosto che scollegata dal "videogame" e ricondotta alla totalità universale).

Se per «consapevolezza» intendi invece la consapevolezza di matrice buddista (la "retta consapevolezza" dell'ottuplice sentiero) o la presenza a sè stessi del mindfulness, allora non credo si possa collegare l'etica che ne consegue ad un approccio epistemologico o a nozioni scientifiche (e con «nozioni» non intendo nulla di dispregiativo, la conoscenza è fatta anzitutto da nozioni, intese come "atomi di conoscenza"; l'etica individuale è fatta forse perlopiù da sensazioni: sentire che è giusto, sentirsi in colpa, sentire il peso del rimorso, sentirsi bene per aver aiutato, etc. e questo sentire mi pare abbia le sue spiegazioni psicologiche, antropologiche, etc. anch'esse riferibili al suddetto dualismo natura/cultura, ma senza univocità negli esiti né fondazione etica nella conoscenza del reale: le suddette discipline scientifiche che studiano la genesi di tale sentire etico, non ne costituiscono il fondamento etico).
#1373
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
26 Novembre 2019, 16:43:05 PM
Citazione di: viator il 26 Novembre 2019, 16:18:01 PM
Salve Phil. Citandoti : "Detto più in sintesi: se sono consapevole di come funziona e cosa sia il cosmo, dalla galassia più lontana all'atomo più piccolo nel "mio corpo" (o di ciò che ritengo tale), dove troverò la risposta, o almeno qualche indizio, per affrontare un qualunque quesito etico (accoglienza migranti, teorie gender, bioetica, etc.)?".
Dal momento che bene, male, etica sono, come tu stesso ammetti ed io condivido, concetti relativi riferibili unicamente alla condizione umana, il tuo quesito di cui sopra perde secondo me ogni senso poichè tu lo riferisci ad una situazione in cui io risulterei onniscente, quindi in possesso di un attributo assoluto e completamente extraumano. Anzi, visto che non è che gli attributi assoluti rendano "simili a Dio", ma che risultano propri ed esclusivi di Dio................. Saluti.
Era una proposta sicuramente parossistica (un espediente narrativo-esemplificativo), ma non intendevo necessariamente alludere all'onniscienza; mi premeva piuttosto chiedere a myfriend, riferendomi alla sua prospettiva, delucidazioni sul rapporto che propone fra etica e conoscenze nozionistiche.
#1374
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
26 Novembre 2019, 15:11:26 PM
Citazione di: myfriend il 26 Novembre 2019, 12:13:30 PM
Il problema quindi non è l'etica o non-l'etica.
Ma è coltivare la nostra cosnapevolezza...crescere e maturare in consapevolezza. Più sei consapevole...e più l'etica viene da sè...e più il bene si manifesta. Senza bisogno di sottomettersi a un'etica che è sempre un meccanismo (la sottomissione a un'etica imposta da qualcuno) della nostra natura inferiore. Cioè dell'inconsapevolezza.
[...]Un vero maestro spirituale ti dice: lavora...rifletti...analizza....approfondisci e cresci in consapevolezza. E l'etica verrà da sè.
Non metto bene a fuoco questo passaggio dal cognitivo al comportamentale, dalla consapevolezza (della struttura della realtà, delle sue interpretazioni virtuali-umane, etc.) al giudizio etico («questo è bene, quello è male»). L'esito della consapevolezza di essere in un "videogame" (o "Matrix" o "Samsara" o altro) come può fondare la dicotomia etica «giusto/sbagliato» su cui orientare la prassi?
Se ogni etica, in quanto tale, non può che avere una funzione valutativa, basata su assiomi morali, etc. la consapevolezza dell'illusorietà tanto dell'idea di una coscienza individuale quanto delle sovrastrutture culturali, mi pare possa fondare piuttosto un'atarassia (passo successivo all'amor fati), ma non un'etica (che per esser tale dovrebbe basarsi appunto sulle idee di «coscienza individuale», «altro uomo», «valutazione delle azioni», «bene/male», etc.).
Salvo intendere per "etica" uno sviluppo etologico dell'uomo, in cui le scelte razionali e consapevoli siano l'evoluzione biologica, metaforicamente, del comportamento del gatto che non è abituato a cacciare se non ha fame o se ha una preda che non scappa (o non segue un pattern familiare al predatore). Tuttavia, in tal caso le categorie valutative di «bene» e «male» andrebbero sostituite con altre descrittive e, appunto, etologiche («stimolo/risposta», «bisogno/soddisfazione», etc.) ricadendo in quella "pulsione rettiliana" (se ho bene inteso), seppur evoluta, che privilegia l'istinto spontaneo più che la ragione (tirando in ballo la dialettica fra empatia, neuroni specchio, etc. e sedimentazioni e istituzioni culturali "contro-istintive").
Come hai già osservato, se non sbaglio, nel mondo etologico, chimico, quantistico, etc. il "bene morale" dell'individuo è un'idea tanto inconsistente ed illusoria quanto quella della coscienza individuale e dell'"io"...
Inoltre, se (ammesso e non concesso) si raggiungesse lo "stato" in cui non si potesse non fare il bene, verrebbe meno ogni etica e il bene non sarebbe più tale (al netto della discriminazione fra «linguaggio convenzionale» e «linguaggio ultimo», parafrasando Nagarjuna).

Detto più in sintesi: se sono consapevole di come funziona e cosa sia il cosmo, dalla galassia più lontana all'atomo più piccolo nel "mio corpo" (o di ciò che ritengo tale), dove troverò la risposta, o almeno qualche indizio, per affrontare un qualunque quesito etico (accoglienza migranti, teorie gender, bioetica, etc.)? In che senso "verrà da sè", dopo aver di fatto destrutturato tutto ciò che è necessario per fondare un'etica razionale umana?
#1375
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
25 Novembre 2019, 22:59:48 PM
Citazione di: Phil il 25 Novembre 2019, 12:56:36 PM
Non lasciarti fuorviare da un forum di nietzschiani, spiritualisti e altre strambe correnti.
Citazione di: davintro il 25 Novembre 2019, 19:18:05 PM
Intendendo "spiritualismo" come posizione di una realtà spirituale trascendente quella fisica, questa "stramba corrente" è in realtà l'unica entro la quale la possibilità di filosofare resta sensata
A scanso di eventuali equivoci: con «strambe correnti» non mi riferivo né a Nietzsche né allo spiritualismo, ma alle altre posizioni che non ho citato (fra cui anche la mia, per intenderci).

Citazione di: davintro il 25 Novembre 2019, 19:18:05 PM
Una conoscenza di questo tipo potrebbe solo fondarsi sulla logica, sulla capacità del pensiero di analizzare le implicazioni coerenti tra le idee considerate nella loro essenza, in ciò a partire da cui le definiamo, per collocarle in un sistema di verità in cui essere razionalmente riconosciute come necessarie, dunque valenti oggettivamente, al di là della soggettività senziente. Questo è un punto di vista filosofico, cioè non fondato sui sensi, ma sulla logica deduttiva a priori, ed è l'unico punto di vista nel quale è possibile rendersi conto dei limiti della conoscenza sensibile riguardo alla rappresentazione del reale, in quanto, per rendersi conto di tali limiti occorre necessariamente adottare un punto di vista altro rispetto a quello a cui i limiti sono riferiti [...] sono proprio quei saperi fondati sulla sensibilità, come quelli naturalistici, che sono impossibilitati a risolvere il problema di una realtà oggettiva posta al di là della soggettività, proprio perché i sensi, a differenza del pensiero, non hanno intenzionalità, cioè non mirano ad alcun riferimento extrasoggettivo, ed è impossibile che una conoscenza fondata per via sensibile possa riconoscere i limiti della rappresentazione sensibile, altrimenti dovrebbe autoinvalidarsi misconoscendo la sua base fondativa.
Ciò sarebbe vero se partissimo dall'assunto che «tutti i sensi si sbagliano sempre»; per fortuna, non è così drammatica la situazione e sono spesso i sensi a correggere gli stessi sensi; solito esempio banale: il bastone immerso nell'acqua sembra spezzato allo sguardo, ma il tatto mi dice che non lo è (se lo tocco quando è immerso); poi la ragione mi conferma che non può spezzarsi e ricomporsi perfettamente a seconda che lo si immerga o meno; deduzione o induzione? Quella conferma dipende dall'"essenza" del legno che costituisce il bastone o dal non aver mai riscontrato un legno che si comporti in quel modo (spezzandosi e ricomponendosi)?
Da considerare che la generalizzazione e l'astrazione (che consentono di parlare di un "tutto" estensionalmente ipotetico) non sono affatto estranee ai metodi induttivi, nè alle scienze induttive; altrimenti non avremmo gran parte della scienza attuale e, soprattuto, della ricerca scientifica (inoltre, vado a memoria, anche l'intenzionalità è induttiva: la noesi del noema costruisce l'oggetto, con i suoi "adombramenti", non lo deduce; ai tempi di Husserl le neuroscienze avevano comunque un po' meno da dire rispetto a quelle attuali).
Osserverei en passant che un'induzione può falsificare mille deduzioni, ma non viceversa; per questo l'epistemologia deve riflettere su ciò che è falsificabile e ciò che non lo è (la filosofia metafisico-deduttiva può invece non porsi tale problema, nel bene e nel male).
#1376
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
25 Novembre 2019, 12:56:36 PM
Citazione di: myfriend il 25 Novembre 2019, 09:26:54 AM
Ad esempio, la filosofia non si pone la domanda cruciale: Se il nostro corpo è solo una entità virtuale creata dal nostro cervello all'interno del videogame, che cos'è in realtà il nostro corpo nella realtà REALE fuori dal videogame?
Altra domanda ignorata totalmente dalla filosofia: Perchè nel videogame percepiamo "nascita" e "morte" quando invece nella realtà REALE nulla nasce e nulla muore (Primo principio della termodinamica)? Cosa sono "nascita" e "morte", che noi percepiamo nel videogame, dal punto di vista della realtà REALE...o se le collochiamo nella realtà REALE?
La filosofia attuale si pone questi problemi, dialoga con le scienze e, come sempre, cerca persino di sbilanciarsi per anticipare possibili esiti o percorsi di sviluppo delle scienze stesse, in attesa che esse li compiano o li dimostrino impercorribili (perché sono due approcci che anche quando percorrono la stessa strada, fianco a fianco, non possono pestarsi i piedi, avendo livelli di approfondimento, metodi, impostazioni, etc. ben differenti). La filosofia antica non è l'unica filosofia possibile, anzi, limitarsi ad essa significa per me continuare a pensare con categorie inattuali (o usarle metaforicamente), almeno tanto quanto riprenderle ed attualizzarle (alle luce di tutti ciò che quei filosofi non potevano sapere) è invece fertile terreno di indagine filosofica.
Non tutta la filosofia resta arroccata nella basilare logica aristotelica (come se dopo di lui tale disciplina non avesse fatto proliferare altre logiche) o diffida a priori dei sensi e della tecnica (come se la mente fosse più affidabile e potesse prescindere dagli input esterni), anziché indagare con sensi, tecnica e mente i rispettivi limiti (al riguardo ricordo sempre volentieri la metafora della barca di Neurath).
Quando si parla di filosofia, soprattutto nel vecchio continente, si rischia di ancorarsi agli inizi del '900, tuttavia la filosofia non è letteralmente morta durante quel secolo (tranne per chi pensa che «filosofia» sia sinonimo di «metafisica» classica, de gustibus), ha solo ritarato i suoi discorsi su tematiche contemporanee (come d'altronde fanno tutte le discipline umane, tecniche e non), discorsi che deludono sicuramente gli amanti della teoresi ontologica dell'"ancien regime" (teoresi tutt'ora praticabile), ma che restano nondimeno discorsi ritenuti filosofici, nel senso attuale del termine, da chi fa filosofia (docenti di filosofia, etc.).

Thomas Metzinger, Richard Rorty, Jaegwon Kim, etc. vengono considerati filosofi e, per le tematiche più contemporanee, credo abbiano qualcosa da dire sugli interrogativi che hai posto (a differenza di neoplatonici, neotomisti, etc.). Non lasciarti fuorviare da un forum di nietzschiani, spiritualisti e altre strambe correnti.
#1377
Tematiche Filosofiche / Re:Dei pregiudizi dei filosofi
25 Novembre 2019, 12:39:39 PM
Citazione di: donquixote il 25 Novembre 2019, 12:08:32 PM
Citazione di: Phil il 24 Novembre 2019, 15:46:31 PMMi permetto di ricordare che è possibile che sillogismi con premesse false abbiano come valida conseguenza una conclusione vera (quello che la logica non consente è che da premesse vere derivi, in un sillogismo valido, una conclusione falsa). Per quanto riguarda la verità extra-empirica in filosofia, quindi a prescindere dal suo essere compilativo valore di predicati logico-scientifici, credo sia un elemento adeguatamente riformulato, demistificato, immanentizzato dalla post-metafisica, sebbene per comprendere le filosofie del passato sia indubbiamente necessario contestualizzarne il senso in un orizzonte metafisico greco-giudaico. Mi pare che il filosofo odierno sia chiamato ad essere, ragionevolmente (non me ne voglia Severino), sempre più interprete della realtà e sempre meno cercatore di verità, ma questa mia prospettiva è viziata (come previsto dal circolo ermeneutico) dalla precomprensione che ho nella lettura della questione (in momentanea assenza di considerazioni ricalibranti, retroattive sul suddetto circolo).

Mi sfugge come l'aggettivo "valido" possa essere sinonimo di "vero", nè come l'inserimento di tale attributo (che mi figuro utilizzabile solo nella "prassi" scientifica) possa modificare il senso del sillogismo aristotelico (che è un mero calcolo matematico applicato al linguaggio).
Credo che non si possa essere "interpreti della realtà" senza assumere dei parametri attraverso i quali "leggerla", ma se si abolisce la verità come parametro e ognuno utilizza legittimamente dei parametri di interpretazione personali allora, come si dice, "tutto è permesso".
Di solito in logica si intende «valido» un sillogismo in cui c'è un'inferenza corretta fra le premesse e la conclusione, a prescindere dai rispettivi valori di verità (per approfondimenti c'è questo).
Interpretare non significa rinnegare il rigore logico, anzi, quanto più l'interpretazione si dimostra calzante e pertinente, tanto più è vincolata a ciò che interpreta, dovendo ridurre le proprie "licenze poetiche" (è lo stesso interpretandum a imporre dei limiti alle interpretazioni possibili). Si tratta di non confondere il molteplice (più interpretazioni possibili) con l'indiscriminato («tutto è permesso»).
#1378
A proposito di intellettualismo, credo che questa storiella possa risultare simpaticamente eloquente:

Un giovanotto ebreo, figlio di una di quelle famiglie secolarizzate, laiche, progressiste, moderne, dopo la laurea in logica e dialettica socratica, vuole darsi un'infarinatura di cose ebraiche. Si sa... fa cosi chic! Si reca dunque da un grande rabbino e gli dice:
"Rabbino, vorrei arrotondare la mia cultura con un po' di ebraismo. Mi
darebbe qualche lezioncina?". "Capisco giovanotto - risponde il rabbino - ma tu hai studiato il nostro Toyre? la Bibbia nostra
intendo, il Talmud?". "Andiamo rabbino! Io sono laureato in Logica e Dialettica socratica! Non so se mi spiego!". "D'accordo figliolo questa è una bella cosa, ma "leshon ha Kodesh" la nostra lingua santa, l'ebraico lo conosci? E l'aramaico?". "Rabbino, lei mi sta solo facendo perdere tempo. Mi faccia un test! Mi metta alla prova per vedere se sono all'altezza!". "Come tu vuoi, figliolo". Il rabbino alza di scatto due dita proprio davanti agli occhi del baldanzoso
giovane e...: "Attento giovanotto! Due uomini scendono dallo stesso
camino: uno ha la faccia sporca e l'altro ce l'ha pulita, chi si lava
la faccia?". "Hahaha! Ma rabbino, questa è una domanda per bambini
deficienti! È evidente. Quello con la faccia sporca". "Sbagliato
figliolo. Quando quello con la faccia sporca vede che l'altro ce l'ha
pulita, pensa di avere la faccia pulita e non si lava la faccia. E
quello con la faccia pulita che vede che l'altro ce l'ha sporca, pensa
di avere la faccia sporca e quindi si lava la faccia". "Ah!... Certo
rabbino! Come ho potuto cadere in una trappola cosi' banale. La prego,
mi sottoponga ad un altro test per favore, comincio a capire... Molto,
molto sottile!". "Va bene figliolo, come tu vuoi, non c'è problema!
Attento". Di nuovo il rabbino fa scattare le due dita in alto: "Due
uomini scendono dallo stesso camino: uno ha la faccia sporca e l'altro
ce l'ha pulita, chi si lava la faccia?". "Rabbino, non sono mica
scemo, lo abbiamo già detto. Quello con la faccia pulita". "Sbagliato
figliolo. Quello con la faccia sporca vede che l'altro ce l'ha pulita,
pensa di avere la faccia pulita e non si lava. Quello con la faccia
pulita vede l'altro con la faccia sporca, pensa di avere la faccia
sporca e si lava la faccia. Ma... quando quello con la faccia sporca
vede che quello con la faccia pulita si lava la faccia, pensa di
doversi anche lui lavare la faccia. Quindi tutti e due... si lavano il
faccia". "Ah! mmm... certo ...il ribaltamento dialettico ...molto
arguto... Vede rabbino, sono un po' freddino... La prego, mi faccia
un'altra domanda". "Come tu vuoi, figliolo, non c'è problema". Ancora
una volta il rabbino alza le due dita di scatto: "Molto attento,
ragazzo! Due uomini scendono dallo stesso camino: uno c'ha la faccia
sporca e l'altro ha la faccia pulita, chi si lava la faccia?".
"Rabbino, insomma non mi esasperi! Non lo abbiamo appena detto? Sono
totalmente d'accordo con lei. Tutti e due si lavano la faccia!".
"Sbagliato figliolo. Vedi, quando quello con la faccia sporca vede
quello con la faccia pulita, pensa di avere la faccia pulita e non si
lava la faccia. Cosi, quando quello con la faccia pulita vede che
l'altro con la faccia sporca non si lava la faccia, pensa anche lui
che non c'e' nessuna ragione per lavarsi la faccia. Quindi... nessuno
dei due si lava la faccia". Lo studente è quasi a pezzi, ma per non
essere umiliato dice: "Adesso ho capito, rabbino, ne sono sicuro.
Riconosco di essere stato presuntuoso, ma lei non deve negarmi
un'ultima domanda. La scongiuro!". "Va bene, come tu vuoi, figliolo,
come vuoi. Allora vediamo...". Il rabbino immancabilmente fa scattare
in su le due dita e...: "Molto, molto attento mio caro giovanotto! Due
uomini scendono dallo stesso camino, uno ha la faccia sporca e l'altro
ha la faccia pulita. Chi si lava la faccia?". "Pietà di me, rabbino!
Me l'ha appena detto e io ne convengo assolutamente, non insista!
Nessuno dei due. Nessuno dei due si lava la faccia. Non è cosi?".
"Sbagliato figliolo. Senti figliolo, ma come puoi pensare che due
uomini scendano dallo stesso camino, e abbiano uno la faccia sporca e
l'altro la faccia pulita! L'intera questione è un'idiozia! Passa la
tua vita a rispondere a stupide questioni della tua dialettica... e
vedrai cosa capirai di ebraismo!". 
(da "L'ebreo che ride", di Moni Ovadia; tratto da qui).
#1379
Tematiche Filosofiche / Re:Dei pregiudizi dei filosofi
24 Novembre 2019, 15:46:31 PM
Citazione di: donquixote il 24 Novembre 2019, 09:41:21 AM
ogni pensiero che voglia affermare una verità deve partire da premesse certe e vere (secondo il sillogismo aristotelico) [...] la logica aristotelica, ma questa afferma che se anche il procedimento è corretto quando le premesse sono errate anche la conclusione lo sarà
Mi permetto di ricordare che è possibile che sillogismi con premesse false abbiano come valida conseguenza una conclusione vera (quello che la logica non consente è che da premesse vere derivi, in un sillogismo valido, una conclusione falsa).
Per quanto riguarda la verità extra-empirica in filosofia, quindi a prescindere dal suo essere compilativo valore di predicati logico-scientifici, credo sia un elemento adeguatamente riformulato, demistificato, immanentizzato dalla post-metafisica, sebbene per comprendere le filosofie del passato sia indubbiamente necessario contestualizzarne il senso in un orizzonte metafisico greco-giudaico.
Mi pare che il filosofo odierno sia chiamato ad essere, ragionevolmente (non me ne voglia Severino), sempre più interprete della realtà e sempre meno cercatore di verità, ma questa mia prospettiva è viziata (come previsto dal circolo ermeneutico) dalla precomprensione che ho nella lettura della questione (in momentanea assenza di considerazioni ricalibranti, retroattive sul suddetto circolo).
#1380
Citazione di: baylham il 24 Novembre 2019, 11:47:44 AM
Non condivido la netta distinzione tra scienza e filosofia. Secondo me la scienza, come la filosofia, non è concludente, non è conclusiva.
La filosofia discute anche di scienza, in particolare di epistemologia e di gnoseologia, e viceversa.
Sono entrambe metaforicamente esplorazioni.
Indubbiamente ci sono punti di contatto e di scambio fra i due ambiti (come osservava il citato Dilthey), ma credo che la divergenza essenziale non venga mai compromessa, in virtù della specificità e settorialità dei rispettivi discorsi, metodi, approcci e conclusioni (tanto innegabili quanto, talvolta, provvisorie). Quando la filosofia si declina in epistemologia non entra nel merito delle procedure, dei dati, degli strumenti, etc. in un modo che possa definirsi scientifico; se non sbaglio, resta solitamente su un piano meno specialistico, più interdisciplinare (l'epistemologia non si differenza troppo a seconda che si parli di biologia, chimica, fisica, etc. la cui distinzione è invece preliminare per ogni impostazione e applicazione scientifica). Nel discutere di scienza, la filosofia non rinnega la sua differenza essenziale rispetto alla scienza, non si con-fonde con essa.
Quando la scienza si dà alla filosofia, il discorso diventa più ambiguo, proprio perché la filosofia ha coordinate di discorso molto più ampie e meno pragmatiche (v. distinzione fra ciò che la filosofia fa e ciò che essa fa fare), potendosi giovare di una apparente "carta bianca" che alla scienza è preclusa dalla strutturale esigenza di calcoli, esperimenti e dimostrazioni (empiriche o teoriche, ma mai solo "filosofiche").
La filosofia sconfina spesso nell'estetica, nell'esistenzialismo, nella politica, etc. ambiti che per la scienza sono quasi solo delle divagazioni, ma che per lo scienziato hanno quel tepore umano che non può lasciarlo indifferente. Inoltre, nella scienza è sempre più rilevante l'apporto dei macchinari e dell'informatica; alla filosofia bastano carta e penna, anzi, matita (di quelle con la gomma inclusa). Storicamente, non è poi da sottovalutare come la scienza abbia sottratto terreno d'indagine alla filosofia, ma non viceversa; è sensato dire che la scienza sia nata da una costola della filo-sophia, ma credo anche si possa osservare, senza voler provocare la nota suscettibilità dei filosofi, che la scienza ha risolto problemi nati in filosofia (all'interno di una collaborazione basata sulla complicità a cui ho accennato in precedenza).
Direi che quindi la distinzione fra le due è piuttosto marcata, anche se la separazione non è certo radicale né priva di punti di contatto; se non altro perché la filosofia in quanto disciplina corteggia la scienza (affascinata dalle sue certezze), lo scienziato in quanto uomo corteggia la filosofia (mosso dalle sue incertezze).

La settorialità delle discipline e il fattore umano extra-disciplinare ci ricollegano al discorso di partenza sull'intellettualismo: visto dall'interno, ogni settore non è mai intellettualistico per gli addetti ai lavori, ma può esserlo visto dall'esterno, quando i contenuti della sua specificità marcano la differenza nozionistica (e non solo) rispetto ad un pubblico non specializzato. Ad esempio, il contesto popolare dei mass media presuppone che la massa non sia, per definizione, competente di alcune tematiche specifiche, per cui citare nei dettagli una teoria settoriale o l'opinione di uno specialista, può essere letto come intellettualismo (usato per affabulare e convincere, oppure per confondere e azzittire l'interlocutore, sia esso singolare o plurale). Inversamente, l'anti-intellettualismo non è forse il dare in pasto alla massa (o a un individuo) informazioni divulgative, semplificate e sintetiche, digeribili senza troppo sforzo (e magari associabili spontaneamente ad emozioni primarie)?
Dietro questo uso dell'anti-intellettualismo c'è a sua volta l'"intellettualismo" delle discipline che si occupano della comunicazione, sebbene quando vengono trattate in pubblico corrono appunto il rischio di essere tacciate di intellettualismo (almeno se la platea non è incuriosita da quelle discipline e disposta ad approfondirle, magari per "legittima difesa").