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Messaggi - Phil

#1366
Tematiche Filosofiche / Re:L'origine del male e del bene
07 Settembre 2019, 17:01:45 PM
Citazione di: Ipazia il 04 Settembre 2019, 08:26:00 AM
Il relativismo ha da essere relativista per sua coerenza interna (forse questo intendeva dire Phil) rimandando sempre ad un background a priori.
Riesumato, confermo.
Citazione di: Ipazia il 04 Settembre 2019, 08:26:00 AM
Per l'ethos condiviso l'a-priori è la finitezza e vulnerabilità della vita umana. Non si scrive e riscrive su una lavagna nera, ma sui vincoli che la natura e la civiltà pongono alla vita umana.
Concordo, mi pare oggettivo che all'esordio della scrittura della propria vita non ci sia nessuna tabula perfettamente rasa, sarebbe possibile solo se fossimo un allevamento di cervelli in vasca (prodotti in serie in laboratorio).
La nave di Neurath è mera scialuppa di quella di Teseo, ma le onde del mare sono uguali per tutti, cambiano sono le loro conseguenze sui differenti tipi di imbarcazione... ovvero, ognuno opera inevitabilmente con ciò che ha (cervello, Weltanschauung, etc.), il che presuppone il problema (qui off topic) dell'identificazione, e il flusso di eventi in cui siamo immersi è un interpretandum che può essere affrontato in vari modi, pur nella sua ipotetica, "noumenica", olistica, unità/unicità.
Citazione di: Ipazia il 04 Settembre 2019, 08:26:00 AM
Vincoli che nessuna ideologia religiosa, politico-economica o metafisica può aggirare realmente, ma solo misti(fi)camente.
Le ideologie, in quanto tali, interpretano deduttivamente, sono figlie del loro tempo; quando invece hanno fatto il loro tempo, forse conviene pensionarle rispettosamente nei libri di storia, per non ritrovarsi a maneggaire categorie orfane del rispettivo paradigma (quindi utili perlopiù ad impastare ambigue metafore). Oggi di categorie orfane in giro ce ne sono, al di là della maiuscola o meno, proprio in virtù del soverchiante condizionamento del suddetto background non neutro. Per questo nei temp(l)i laici vige ancora la sacralità del V/vero, del B/bene, etc. canuti orfani di un'epoca in cui ontologia ed etica non potevano che scambiarsi giocosamente le vesti, avendo la stessa taglia, la M (di metafisica). Oggi potrebbero anche non farlo, tuttavia elaborare il (possibile) distacco o addirittura "lutto", non è mai facile (v. fuor di metafora l'ubiquo successo storico di concetti continuativi nel/del post-mortem come "anima", "fantasma", etc).
L'alternativa è ingegnare nuove categorie più attuali (e possibilmente figlie fertili del nostro tempo) oppure, per farla più facile/difficile (dipende), andare a ripescare gli insuccessi storici di categorie inattuali al loro tempo, o di quelle soffocate dal coevo mainstream storico.

Il titolo del topic è probabilmente sintomo della fulgida persistenza della onto-etica, dell'eco roboante della nostra cultura nella sua dimensione storica. Eppure, una volta preso atto che oggi è possibile anche pensare al bene e al male come utili artifici convenzionali, che fine fa allora l'etica (intesa in senso forte)? Se non possiamo fondarla nel cielo dobbiamo fondarla sulla terra, seguendo quel dovere autoreferenziale che è a sua volta etico: è sommamente immorale non avere una morale, il primo metaimperativo etico è averne una. Tuttavia, ciò è proprio come l'orfano che pensa che i suoi genitori, se non sono in terra, devono essere in cielo... lutto mancato e confusione, in buona fede, fra dover-essere e poter-essere.
Provare a fondare la morale sulla terra-natura sarebbe infatti fallace, poiché, una volta appurato che la natura non funziona secondo giusto/sbagliato, ma secondo funzionale/disfunzionale, istintivo/controistintivo, etc. radicare il giusto/sbagliato su qualcosa che non lo prevede è un'altra forma, per quanto accoratamente ottimista, di rinnegare il lutto (un po' come imbalsamare un cadavere, confondendo "corpo" e "vita"). Innestare un'etica nell'ethos, significa amalgamare ciò che è (attualità dell'ethos), con ciò che dovrebbe essere (normatività dell'etica), descrizione e prescrizione (come diceva Hume), in una sorta di fallacia naturalistica, defibrillatore retorico che dovrebbe vorrebbe far resuscitare lo spirito di un esanime corpus di lettere morte a partire dai rispettivi fantasmi della tradizione (sia chiaro: opinione mia; per chi è dentro la metafisica, non ci sono cadaveri né lutto... e non è detto che non sia io a scambiare un momentaneo abbiocco per irreversibile morte).
Una volta capito dove l'etica (non) possa essere fondata, può essere proficuo considerare che l'opposizione legge-etica-di-dio / legge-etica-degli-uomini (opposizione immanente a faccende puramente gestionali: potere temporale / potere secolare), sta trovando sempre più sintesi "hegeliana" nella legge di natura (genetica, neuroscienze, etc.).

Eccoci dunque al pensiero sfidante (l'anti-scandalo, rovesciando Kierkegaard): e se, non avendo dove fondarli, abbandonassimo i concetti di «etica», «bene» e «male»?
Per vivere socialmente bastano le leggi (rasoiata drastica, ma non mi dilungo), con il loro dualismo legale/illegale, e dove esse non arrivano, ci sono di default le consuetudini (comunque abitabili criticamente) con i loro rituali laici e la tassonomia civile/incivile, che muta nei tempi e nei luoghi; lusso che l'etica, il bene e il male, per il loro statuto meta-fisico, non dovrebbero/potrebbero concedersi... salvo usarli come metafore, ma allora bisognerebbe render(se)ne conto.
Un'etica che, in quanto tale, abbia pretese universalistiche (sempre e dovunque), può risultare persino ostile alla società (seppur funzionale a ridurre il sovraffollamento del globo, tema da sempre molto caro ad Ares), fomentando scontri fra assoluti, magari inibendo possibili compromessi (parolaccia?) in vista di un equilibrato quieto vivere (a cui magari tutti aneliamo, ma che se ha qui un'accezione "immorale", è forse perché frustra l'ardore testosteronico dei "moralizzatori militanti").
Certo, l'etica non deve essere per forza universalistica e fondata su leggi divine, e forse è proprio questo il punto (e lo spunto): ha ancora senso parlare di «etica» e «bene/male», parole forti e non certo prive di tradizione e carico semantico, nell'epoca delle visioni del mondo sincretiche, laiche (non tutte, chiaro), fatte in casa (e su internet), etc.? A questo punto chi obietterà che tale scenario rappresenta una nefasta perdita e che un'etica deve esserci, non susciterà alcun biasimo, poiché la prospettiva (nostalgico-)metafisica fa indubbiamente parte di quel pluralismo pulsante che essa stessa vorrebbe uniformare con i suoi assiomi. Chi invece sostiene che oggi l'etica sia proprio un "lavoro in corso", si ritrova poi (correggetemi pure se sbaglio) un po' in difficoltà a spiegare come tale etica possa avere l'ambizione di essere valida anche per il prossimo, dal momento che anche lui potrà proporre la sua "etica in corso d'opera", e allora quale criterio meta-etico sbroglierà il diverbio? Il calcolo(?) della "felicità" del maggior numero di persone al minor "prezzo" (Bentham)?
Il risultato non potrà comunque che essere un'imposizione dell'etica dominante sull'etica altrui (e riecco l'assolutismo monista-metafisico rientrare ghignando dalla finestra), meccanismo piramidale che è certamente la chiave di volta del diritto entro i confini di uno stato, ma se parliamo di etica o, peggio, di trascendenza, tale imposizione è la pietra angolare dell'"oppressione etica" (ossimoro?) di tutte le minoranze del mondo: l'imperialismo culturale (e anche economico, etc.) dell'occidente ha qui, da sempre, il suo alibi assoluto e assolvente. Detto altrimenti: all'atto pratico, conciliare l'indagine laboriosa del «secondo noi» (vigente in un gruppo) con la constatazione sociale che «la nostra etica è numericamente vincente», è manovra d'assestamento che rischia di cedere alla tentazione di confondere qualità e quantità, spostando l'ago della bilancia sempre, guarda caso, sull'indicatore più propizio (la massa si appellerà sulla quantità, l'elite o la minoranza rivendicherà la qualità).

Resterebbe nondimeno da chiedersi: una volta fatta la boutade di relegare il concetto di «etica» nelle enciclopedie, perché qualcuno potrebbe voler aiutare chi ha bisogno, se non c'è una legge che gli intima di farlo? Istintiva empatia? Educazione ricevuta? Esibizionismo estetico? Sommessa speranza di "credito karmico"? Secondo me, anche (am)mettendole tutte assieme, restiamo comunque fuori dall'etica, dalla sua normatività e soprattutto dalla sua univocità (più o meno latente, più o meno dissimulata).
Più approfondiamo i moventi delle nostre scelte, azioni, etc. e di tutti i condizionamenti ad esse connesse, più il paradigma etico-metafisico, con annessi concetti di «bene», «male», etc. perde (almeno ai miei occhi) di credibilità, e ridurlo a funzionale residuo fenomenologico-culturale è il miglior requiem che gli possa concedere.

Non intendo dire che sia da boicottare né desertificare il campo etico, ovvero quello imprescindibile dell'interazione fra uomini (lasciando in sospeso gli dei), ma che tale campo possa essere anche indagato e strutturato oggi con categorie meno vaghe e sbrigativamente sintetiche di "bene" e "male", magari declinandole (in entrambi i sensi) in altre categorie (e se non erro, ma dovrei verificare, l'Oriente ci fornisce spunti in merito sin dai tempi di Confucio, al netto della traslitterazione occidentalizzante dei termini e di tutta la discutibilità teoretica dei fondamenti).
«Bene» e «male» sono risultati e risultano così versatili nel tempo e nello spazio (ironicamente ambendo spesso all'esatto contrario) da suscitare talvolta il sospetto che siano in fondo come un assegno in bianco associato ad un conto inesistente. Mi si dirà che invece c'è gente a cui l'importo di tale assegno è stato estorto con il sangue; in merito, la natura ci ricorda con il suo tipico disincanto premetafisico (curiosamente molto affine a quello postmetafisico) che, per nuocere al proprio simile non è necessaria una visione etica, politica o economica, del reale. Ovviamente la realtà umana ha una complessità superiore di quella stigmatizzata "leone/gazzella", tuttavia al di sotto di ogni artificiale (sovra)struttura antropologica, il detto «mors tua, vita mea» resta il denominatore comune "interspecie" dei viventi, dai batteri ai pachidermi, dallo zoo a Wall Street. Il plusvalore fatale è che noi umani alleghiamo a «vita mea» anche capricci e velleità che vanno ben oltre i bisogni primari (e non è una semplice questione di capitalismo o globalismo); noblesse oblige per essere la specie più evoluta...


Fatta questa breve premessa (in puro stile TL;DR), sintetizzando un commento sul tema del topic, direi che l'origine del male è secondo me nel paradigma che lo definisce (meccanismo tautologico che ne rende irrilevante la definizione), il quale, inevitabilmente, è anche l'origine del bene, essendo bene/male una questione di categorizzazione (e di narrazione), non di ontologia (il significato non è il referente).
E tale paradigma dove ha origine? In un cervello con del potenziale individualmente strutturato che si modifica interagendo con l'ambiente, modificandolo a sua volta. Nel medioevo non potevano (e non "dovevano") nemmeno pensarlo; oggi, speculazione per speculazione, si può anche puntare su una tesi simile, in virtù della sua legittimità meta-etica (dall'ur-etica all'uber-etica?).
#1367
@Ipazia
Avveduta (meta)architettura che prova a contenere con una sinottica "mise en abîme" le altre architetture. Tuttavia, ogni stile architettonico è l'archè dei suoi stessi progetti, e neanche questo "edificio" ben congegnato può fare eccezione, come già notato da Lou: che i piani ontologici da rispettare e abitare siano proprio quelli, deriva a sua volta da una precisa impostazione architettonica, usata come criterio tassonomico per le altre architetture. Nella fattispecie:
Citazione di: Ipazia il 20 Maggio 2019, 12:14:14 PM
le opposte distorte visioni in cui si pretende di tradurre nelle proprie grammatiche epistemiche ontologie altre
forse più che una pretesa è una inevitabilità circolare (e se ogni prospettiva ontologica fosse distorsione del reale?); ad esempio, stando nella mia "scommessa prospettica", è "spontaneo" (non un dovere) che tutto imploda nel «piano 1», gli altri piani sono solo trompe l'oeil affrescati dai miei avi sul soffitto e l'inaccessibile botola di accesso al «piano 0» è solo un fenomeno anamorfico sul pavimento.
Quali e quante sono tutte le ontologie? Qualunque risposta le identifica interpretando, le circoscrive discriminando, e più si va lontani dai sensi (che pure ingannano) più i dissensi proliferano, come nella storia dell'elefante e dei ciechi. «Elefante» potremmo giocosamente farlo derivare da «eleos» e «fantem», ovvero "parlare con misericordia" ed è infatti proprio il voler parlare, in buona fede, che spinge i ciechi all'incomprensione e al diverbio: potendo identificare l'elefante solo con le mani, ne prendono/perdono inevitabilmente sempre una parte e, nondimeno, la velleità di spiegare agli altri cos'è davvero l'elefante, fa degenerare la situazione (in merito, ho parlato già di "guerra delle affermazioni" contro "lavoro di equipe", fermo restando che le equipes funzionanti non possono essere certo formate con estrazione a sorteggio...).
Ne consegue l'aporia, sesto cavaliere della bonaria apocalisse filosofica (dopo i tre "maestri del sospetto" Nietzsche, Marx, Freud e i cosiddetti "tre umiliatori dell'uomo", ovvero ancora Freud, Darwin e Copernico). Se non ci fosse tale aporia (la cui consapevolezza può aprirsi in pluralismo differenziante sebbene non univeritativo), non ci sarebbero architetture ermeneutiche (qui sono forse piuttosto graffiti da writers metropolitani, anelli della catena di senso che passa per Lascaux) ad attendere che il "cantiere" trasversale dell'epistemologia costruisca la sua torre, dove e come è possibile. Nel frattempo, distinguere fra negazione logica e negazione dialettica, piani logici e piani ontologici, etc. non è il peggiore dei passatempi.

Citazione di: Lou il 20 Maggio 2019, 18:33:01 PM
Prospetticismo che, ovviamente, reca in sè, come sua premessa, la pluralità di sguardi. Perciò, il busillis che mi intriga, sono i piani del reale a creare prospettive o gli sguardi a creare piani o, meglio, la prospettiva reale posta dallo sguardo è di per se stessa un piano, tra i millepiani?
Pensando al «piano 3» di Ipazia, questa allusione a «Millepiani» di Deleuze e Guattari va esplicitata, perché il passaggio dalla forma atavica «gerarchia» alla bio-metafora postdialettica del «rizoma» (nel senso dei due signori citati prima), (s)corre sulla rete in cui qui siamo, inizia ad "inverarsi" e a porre germoglianti questioni sul "senso" della connessione, su intelligenza connettiva/collettiva, sulla realtà dell'intelligenza artificiale e l'intelligenza della realtà artificiale, etc.
#1368
Citazione di: odradek il 19 Maggio 2019, 13:42:36 PM
La coscienza è "definita" come "medium", o come link o come ponte che segnapostano la medesima FUNZIONE.

La coscienza è il nome di una funzione.
Posso seguirti quando definisci la coscienza una «funzione» e anche quando rilevi che «come tale non svolge alcuna influenza sul "reale"»; il mio interesse è però attratto dalla tua considerazione che, in quanto funzione, la coscienza «come tale esiste sul piano di tutte le altre funzioni». Mi chiedo dunque quale sia l'esistenza («realtà» l'hai bocciata) o il «piano ontologico» (per i nostalgici) di tale "piano di tutte le funzioni".
Si tratta del piano dell'immateriale? A quanto pare, diresti di si; cito: «Una funzione è immateriale [...] **la coscienza è una "cz" di funzione** e come tale è immateriale» (simpatico il tono tarantiniano che ben si sposerebbe con l'antica figura dell'anti-eroe... e qui la faccina ammiccante ci poteva anche stare).
Probabilmente, correggimi pure, intendi con «immateriale» ciò che nel mio post intendevo con «astratto» (v. corsivo): ovvero ciò che non è tangibile, ma mentale. Se intendevi un altro piano, allora non ho capito e sono sceso al piano sbagliato.
Per me, comunque, l'astratto mentale non è immateriale perché necessita (per esistere) di essere (autocito) «sempre e comunque pensato da qualcuno» che compia tale astrazione e, mia opinione selvaggia, tale astrazione è un processo fisico (proprio come il funzionamento di una app o di un programma informatico).
Di conseguenza ("conseguenza" solo dal mio punto di vista), anche la funzione, anzi il piano di tutte le funzioni, è materiale, in quanto materialmente pensato da qualcuno (per me il pensiero è attività materiale; mia follia indimostrata), così come è (cerebralmente) materiale il pensare la funzionalità di un ponte, l'eseguire una moltiplicazione, o il riflettere sul libero arbitrio.

Detto altrimenti: secondo me la funzione di una penna, scrivere, non è materiale perché la scrittura lascia tracce e compie gesti materiali, bensì perché "lo scrivere", concetto astratto, esiste solo come pensiero ed ogni pensiero è cerebralmente materiale, in quanto immanente a un cervello che lo pensa. Anche se, essendo il pensiero nel cervello, non posso prenderlo e appoggiarlo sul tavolo, proprio come non posso prendere un programma di videoscrittura (Word o altro), e tirarlo fuori da un computer per metterlo su una bilancia, pur sapendo che in realtà il suo esistere coincide con una serie di eventi esclusivamente materiali (elettrici, fisici, etc.).

L'alternativa sarebbe concepire un piano immateriale-platonico in cui astrazioni, funzioni, etc. esistano indipendentemente dai cervelli che li pensano (piano della cui esistenza non è facile dare dimostrazioni) oppure, di nuovo, si ricade nel buco nero che non spiega come il materiale (cervello) pensi/produca l'immateriale (astrazioni, funzioni, etc.) e/o come l'immateriale possa essere (rac)colto e pensato dal materiale (ribadisco che l'«è così!» è abbastanza carico di storia per lasciarmi piuttosto diffidente).
Non che la mia fanta-scommessa sia più valida, anzi, è spudoratamente controintuitiva per il senso comune (su cui si basa l'obiezione che prende per "evidente" l'immaterialità di pensiero, mente, coscienza, etc.), ma finché mi si fanno domande in merito, cerco di rispondere (sebbene difficilmente avrò novità e aggiornamenti sul tema; bontà vostra il richiedere ciò che ho già scritto...).


P.s.
A proposito, sulla questione della doccia e della chiusura casuale volevi una mia opinione o ti rivolgevi a chi ha parlato di docce e chiusura casuale (non io)?
Inoltre, anche @sgiombo, a scanso di eventuali equivoci: «il medium nella sua progettuale, cogitante, immaterialità» è una citazione dal post di Ipazia, da me riportata, non una mia definizione (che sarebbe contraddittoria con quanto affermo).


P.p.s.
@sgiombo
Per come la vedo, spiegare non è dimostrare. Quindi affermare che
Citazione di: sgiombo il 19 Maggio 2019, 14:48:08 PM
Per ora e per sempre.

Ciò che non  riusciamo a studiare materialmente (ovvero «il medium nella sua progettuale, cogitante, immaterialità») lo possiamo spiegare molto bene

con un "parallelismo" e non un "interazionismo" fra materia e progettuale, cogitante immaterialità.
non si dimostra più valido della tesi che nega. Finché non si potrà studiare la questione in modo materiale, quindi intersoggettivo e falsificabile, il parallelismo e l'interazionismo (e magari altro, ma non tutto), sono spiegazioni epistemologicamente indimostrate e plausibili (misticismo e religioni docunt).
#1369
Citazione di: Ipazia il 19 Maggio 2019, 12:04:23 PM
La coscienza ha tempo e spazio negli elementi emergenti dalle funzioni del snc. Tali elementi hanno un carattere immateriale che modifica la materia a mezzo di materia
La questione che non mi è chiara è come un «carattere immateriale» possa modificare «la materia a mezzo di materia», che tale carattere, essendo immateriale, non ha/é.
Il "link" fra materiale e immateriale mi sembra per ora un buco nero che impedisce il fondamento logico di ogni discorso sull'immateriale, che non sia a sua volta una ipotetica "giustificazione" di ciò che non riusciamo a studiare materialmente (ovvero «il medium nella sua progettuale, cogitante, immaterialità»).
In assenza di prove, la mia propensione per la dimensione materiale è fondata (non su un lancio di dadi, per quanto...) sul rilevare che lo studio del cervello sta portando risultati parziali in una certa direzione, che ha già fagocitato alcune realtà ritenute in precedenza immateriali (linguaggio, memoria, umore, etc.); che tale direzione conduca alla totale spiegazione materiale di mente, coscienza, etc. è tutt'altro che sicuro; per questo parlo di "scommessa". Tuttavia, quantomeno c'è una direzione di ricerca; riguardo all'immateriale non so nemmeno se si possa parlare di ricerca o solo di speculazione (che resta attività dignitosa, nel rispetto dei differenti risultati perseguibili).

Citazione di: Ipazia il 19 Maggio 2019, 12:04:23 PM
Il piano ( ;D) in cui opera è quello trascendentale dell'universo antropologico emergente dall'evoluzione naturale.
Evoluzione naturale che vedo semplicemente come materiale, nonostante le astrazioni denotative e connotative con cui il nostro cervelo la identifica. L'«universo antropologico», in quanto oggetto astratto di un discorso, è sempre e comunque pensato da qualcuno; quindi è o materia (nel senso estensionale dell'attuale universo antropologico) o pensiero (intensionale, quindi, scommessa mia, è materia in azione, "output interno" e altre mie amene facezie indimostrabili... nell'attesa che qualcuno esegua un trapianto di cervello, semmai sia possibile).

Citazione di: Ipazia il 19 Maggio 2019, 12:04:23 PM
Ma soprattutto, aldilà delle architetture teoriche, è rispettata la realtà empirica dei fatti che girano intorno alle manifestazioni della volontà umana.
Anche qui, da Libet in poi ci leggo (viziatamente) l'andare in una certa direzione... e convengo che studiare anche solo il piano empirico dei risultati dalla volontà, sia attività fondante e fondamentale per le scienze umane.
#1370
Citazione di: viator il 18 Maggio 2019, 21:46:18 PM
Dunque....un cervello può esistere (e magari funzionare a "bassi livelli", cioè riferiti a funzioni elementari) anche senza la coscienza (coma, INCOSCIENZA, svenimento, sonno profondo.......).

Perciò la COSCIENZA sicuramente non è prigioniera del cervello.
Che ci siano anche cervelli senza coscienza, mi pare dimostrare che il cervello non sia "prigioniero" né dipendente della (sua) coscienza, esistendo anche senza di lei; non viceversa.
Ci possono essere coscienze senza il rispettivo cervello? Da profano, scommetterei sul «no».

Citazione di: viator il 18 Maggio 2019, 21:46:18 PM
Quindi il problema non è il DOVE stia la COSCIENZA, bensì il QUANDO ed a quali condizioni la coscienza possa fungere.
D'altronde il quando si è coscienti (mi) sembra facilmente rilevabile, il dove servirebbe invece a localizzare la coscienza. Come dire, con un esempio non troppo "distante": il quando c'è vita nel corpo, è abbastanza riscontrabile (medicalmente, etc.) ed esistono corpi umani senza vita umana, sorvolando dunque sulla vita dei micro organismi che vivono nei cadaveri (in fondo, la vita senza corpi non è mera poesia o astrazione cerebrale?). Tuttavia per inquadrare meglio la vita gioverebbe anche un dove... in tutto il mio corpo? Risposta onesta. Più nel cuore che nel mignolo? La morte fa prima ad accadere in assenza di cuore più che in assenza di mignolo (ma qui si rischia di confondere la "condizione" con la "causa della condizione", non divaghiamo). Non è da nessuna parte, ma ha anche un suo tempo "umano"? Indimostrabile sul piano umano, essendone fuori.
Idem per la coscienza: se amputiamo un dito o abbiamo delle paralisi agli arti, la coscienza sussiste (nonostante l'area della percezione sia ridotta), quindi non è (solo) lì; e il cuore? Se non sbaglio, si possono trapiantare cuori, ma non so se ciò comporti anche un trapianto di coscienza... magari sul cervello per ora bisogna sospendere il giudizio, ma credo sia un indagato plausibile.
Se invece affermiamo che la coscienza non ha uno spazio (ma solo un tempo) ed è immateriale, si ritorna sempre al solito problema di come l'immateriale condizioni il materiale e, ancor prima, come affrontare l'onere della prova dell'immateriale (e un semplice «è così» suonerebbe epistemologicamente piuttosto deludente, perché è la stessa risposta che si dava un tempo a «perché gli oggetti cadono verso terra?»).
#1371
Le citazioni sono dal post di 0xdeadbeef... per il resto, lessi e commentai la tua esperienza già l'anno scorso (o due anni fa); oggi, quella coppia di espressioni, considerata nel suo insieme, mi fa pensare banalmente alla geometria.
#1372
Citazione di: viator il 18 Maggio 2019, 17:14:13 PM
Certo ci sono le tesi precostituite (storiche in quanto fondate da altri attraverso le scuole ed i tempi) e ci sono (o meglio, dovrebbero esserci, visto che non me ne vengono in mente) i contributi originali, cioè quelli (belli o brutti, deliranti o razionali) che evitino di citare il già detto, preferendo concentrarsi su delle interpretazioni innovanti, inconsuete, discutibili.

Personalmente non amo i vessilliferi di "verità" e "tradizioni" preconfenzionate, d'altra parte se chi le sostiene è convinto di esse...........basterà che non se ne mostri ossessionato, altrimenti le sue insistenze da convincenti potranno solo diventare annoianti.
Rivisiterei in merito la domanda del topic: cosa accade quando l'immanente si apre all'esperienza del trascendente, ovvero quando una teoria non viene presentata agli altri nella sua immanenza (struttura logica, argomentazioni, categorie, domande, etc.) ma nella sua esperienza trascendente di verità (magari esperita individualmente)?

In ambito amatoriale (forum) è normale l'imprecisione della forma e dei contenuti ed è curioso che con questa raffazzonata base di partenza si abbia talvolta la velleità di propugnare la verità dei propri "maestri". Finché si propongono i ragionamenti dei/sui propri idoli, si può aiutare i meno informati in materia ad imparare qualcosa e magari può innescarsi uno stimolante "lavoro di equipe" (sulla comprensione, non sulla verità). Tuttavia se invece si propone direttamente la verità (propria o di un maestro) è piuttosto normale trovare talvolta diffidenza da altri punti di vista e persino obiezioni autorevoli ed autorali (ricorrendo ad altri autori, con il rischio che scatti la "guerra delle citazioni" e la filosofia degeneri in filologia).

La differenza fra la comprensione di una prospettiva filosofica e l'identificazione della verità (filosofica) è che la prima può essere praticata anche partendo da paradigmi differenti (se lo scopo è capire il pensiero di un autore o di una corrente), la seconda invece tende ad unificare assiomi e impostazioni (fermo restando che, in generale, per ognuno la propria verità sarà "evidente" e saranno gli altri a non capirla).

Chiaramente, capire un autore non significa essere d'accordo con lui, ma, secondo me, è persino più utile e interessante di essere d'accordo con lui, soprattutto se senza averlo capito in "profondità" (comunque nei limiti della superficialità propria dei forum come habitat amatoriale). Qual'è dunque la priorità di un qualunque thread: la ricerca dell'aver ragione o il capire la ragione altrui? Se si cerca la verità (filosofica o altro), questo è davvero il posto adatto?

Un esempio eloquente possono essere le citazioni: quando si parla di un autore, si citano spesso le sue conclusioni (che con il suo nome affianco suonano autorevoli), anche se costituiscono materiale logico inutilizzabile per la discussione, poiché ciò da cui una discussione filosofica attinge materiale può essere il processo che ha portato a quei risultati (il famoso «argomentare»), non tanto una conclusione decontestualizzata e incorniciata. Sarebbe come enunciare il risultato di una formula matematica senza esplicitare la formula e poi chiedere di parlarne: probabilmente altri useranno altre formule e giungeranno ad altri risultati.

Ad esempio (non me ne voglia Carlo se lo uso come esempio) l'ultima citazione di/da Jung contiene una interessante constatazione storica («nel diciannovesimo secolo...») seguita da un'osservazione personale non spiegata né argomentata: «la coscienza comune non ha ancora scoperto che...» seguita da affermazioni che criticano «il credere con assoluta certezza» in alcuni rapporti, redarguendolo come «presuntuoso e fantastico». Non c'è alcuna argomentazione; infatti qualcuno potrebbe definire "presuntuoso e fantastico" il contrario rispetto a Jung, innescando uno scontro fra affermazioni piuttosto che un dialogo sulle argomentazioni (assenti).
Ovviamente non si possono citare intere pagine di un libro, nondimeno citare affermazioni non argomentate rischia di alimentare solo quell'ipse dixit che oppone i propri idoli a quelli degli altri, in una diatriba fra "idola theatri"(Bacone) in cui il forumista diventa "vassallo del suo signore", più che pensatore in proprio (ruolo che in forum potrebbe ambire ad avere).

Fare invece il caustico recensore dei grandi nomi della storia della filosofia, comporterebbe invece una conoscenza di base (e una comprensione dei loro temi) ben oltre quella di Wikipedia e Treccani, altrimenti si ricade nella "(post)verità che è ciò in cui si crede del pensiero altrui" (alimentando magari una casistica che, beffardamente, è proprio quella che si tende a screditare).
#1373
Citazione di: viator il 17 Maggio 2019, 23:41:42 PM
Salve. Scusate. Avete mai preso in considerazione l'esistenza di una trascendenza relativa e di una trascendenza assoluta ?
[...]
La trascendenza relativa è quella che vede generarsi significati non immanenti [...] perchè è proprio e solamente da tale evidente paragone che una trascendenza (relativa, appunto) può venir riconosciuta come tale.

La trascendenza assoluta è invece, "semplicemente", uno degli attributi dell'assolutezza, cioè il suo risultare estranea ed intrinsecamente separata dal relativo.
Questa distinzione ricorda un po', pur con qualche differenza, quella fra «trascendente» (contrario di «immanente») e «trascendentale» (in Kant ma anche in altri; come qui è brevemente spiegato).
#1374
La domanda del topic, secondo me, contiene già la sua risposta: le visioni (quelle oggetto del discorso) sono soggettive, nel senso di personali, così come sono personali i 5 o più sensi (ovvero non possono essere interscambiati fra più soggetti); anche la mistica, come vissuto esperenziale, è soggettiva (in tutti i sensi del termine).
Il punto di partenza della domanda mi sembra essere che le visioni mistiche non possono che essere soggettive (in sincerità, non so se siano mai accadute spontanee "visioni di massa", senza che girassero fra la folla tisanine di ayahuasca o altri "richiami" per spiritualità). Tali visioni soggettive sono anche illusioni? Essendo percettivamente soggettive e non trasferibili, l'eventuale vaglio intersoggettivo presuppone delicato dialogo ed estrema fiducia nella narrazione dell'esperienza; ciò nonostante non si potrà mai verificare se siano davvero illusioni, illuminazioni o illocuzioni affermative (salvo vivere collegati a determinati macchinari, ipotesi piuttosto improbabile e che comunque non vieterebbe di sostenere che quelle anomalie cerebrali siano il modo biologico con cui l'immateriale comunica con il materiale... all'infalsificabilità immaterialistica mi pare non ci sia soluzione).

Se ho esperienza sensibile di una bottiglia, posso passartela ("tu" generico) e sapere che ne pensi; anche tu la percepisci trasparente, liscia, leggera, etc.? Forse si, forse no. Se Kant parla di a priori trascendentali della conoscenza (o qualunque altro filosofo parli di categorie gnoseologiche), se ne può discutere anche in piazza: «quanti ragionano e conoscono secondo le categorie kantiane, alzino la mano!»; segue poi rapida conta di coloro con le mani basse a cui si chiedono spunti di riflessione per un paradigma alternativo o integrativo.
Se invece ho un'esperienza mistica con visioni, non posso porgerle al mio vicino e chiedergli se anche lui vede quelle forme, quei colori, quei simboli, etc. per sapere che ne pensa. La differenza fra esperienza mistica soggettiva (spirituale) ed esperienza percettiva "condivisibile" (materiale) è perlopiù questa. Il che non significa che l'esperienza materiale e condivisibile sia "più vera" (non è detto che la quantità faccia la qualità), ma almeno c'è un'esperienza comune su cui riflettere.
[Sono superfluo nello "spiegare" questa differenza, ma ho notato che talvolta se ne parlava come fosse un'argomentazione dirimente fra "pregiudizi" materialisti e diritti spiritual-teoretici della metafisica "razionale" (appellativo figlio del "compromesso storico"... anche se al volo non ne colgo il senso: c'è anche una metafisica che si autodefinisce irrazionale? Forse quella di De Chirico?)]

Se non si sente il bisogno di ricorrere alla comprensione (in entrambi i sensi) del pubblico, sia esso composto da credenti, psichiatri, occultologi, filosofi, forumisti o altro, potrebbe essere perché ci si è posti su un cammino individuale (di fede e/o rivoluzione dello scibile umano) che non necessita, prima del "compimento", né di approvazione comunitaria, né di prematura divulgazione. Viceversa, l'incomprensione e la polemica sono dietro l'angolo; soprattutto se si è nella sezione «filosofia» (forse in «spiritualità» ci sarebbe stata un'accoglienza meno avversa).
E a questo punto che fine fa il contenuto delle visioni?
«Ognuno parla inevitabilmente del suo scarafaggio», direbbe Wittgenstein (e Pino Daniele avrebbe una colorita, ma non volgare, postilla da aggiungere).


P.s.
@paul11
Il filone Kant-Husserl-Derrida (trascendentalismo-fenomenologia-decostruzione) è di per se tanto fertile quanto spigolosamente impopolare; soprattutto il passaggio fra gli ultimi due è un momento chiave e futuribile della contemporaneità (e qui il «secondo me» non ci stava bene), sebbene la sua "storia degli effetti" (Wirkungsgeschichte, per dirla con Gadamer) è ancora "immatura" per essere patrimonio consapevolmente condiviso dalla comunità (o meglio, viceversa), resta una questione ancora molto "specialistica" (comunque condivido l'istanza del tuo spunto).
#1375
Tematiche Filosofiche / Re:L'immagine della realta'
15 Maggio 2019, 20:03:18 PM
Citazione di: Sariputra il 15 Maggio 2019, 11:33:40 AM
Tra l'altro i problemi non sono solo quelli che sorgono per effetto del pensiero, ma anche quelli dati dall'avere un corpo...
Credo che finché il corpo alimenta "a presa diretta" lo specchio, non si stia poi malaccio; o meglio, suppongo sia la vita standard di tutti gli animali, fra dolore e piacere, "fortuna" e "sfortuna", etc. I problemi tipicamente umani sorgono quando si mette di mezzo (fra corpo e specchio) il pensiero, che può produrre meraviglie tecniche e falsi rebus, paranoie e capolavori artistici, etc.
Per questo credo fermamente anche io che
Citazione di: Sariputra il 15 Maggio 2019, 11:33:40 AM
Avere consapevolezza dei limiti della ragione, della logica e quindi di tutta la manipolazione simbolica  aiuta
e quasi quasi direi che è l'aspetto più utile delle filosofie, perché senza il senso del limite, che spesso è anche il limite del Senso (per quanto aporetico), secondo me ci si abbrutisce (filosoficamente) più di un qualunque animale senziente.



Citazione di: Ipazia il 15 Maggio 2019, 13:08:32 PM
ciò da cui intendo salvarmi è quella particolare declinazione che, rifiutando aprioristicamente ogni fondamento etico, sfocia nel mare magnum che Hannah Arendt definì efficacemente "banalità del male". Includendo in ciò anche le tecniche palesi e occulte di banalizzazione.
Pur risultando spesso consapevole spacciatore di banalizzazione, concordo che il male non sia (mai) banale e forse proprio l'esperienza del male è il primo passo per fondare una morale. Che poi ci siano più mali, quindi più fondamenti possibili e quindi più morali, non comporta che il pluralismo vada a braccetto con la banalizzazione. Anzi, decifrare e capire una pluralità di paradigmi (come ci consigliano sia la realtà che la storia della filosofia) è sfida ben più impegnativa (e interessante, almeno secondo me) di ridurre tutto ad una chiave di lettura con categorie al singolare (la verità, giustizia, bellezza, bontà, etc.).
Ovviamente non sto parlando dello stabilire la forma dei pianeti o studiare la forza di gravità, ma del rapporto uomo/filosofia. Anche se, come ricordava Sariputra, de gustibus... e accettare che nei "gustibus" altrui possa rientrare anche il banalizzare un filosofo antico, è un esercizio propedeutico molto utile alla pratica del "pluralismo estremo".
#1376
Tematiche Filosofiche / Re:L'immagine della realta'
15 Maggio 2019, 11:18:07 AM
Citazione di: Sariputra il 15 Maggio 2019, 09:36:30 AM
Trovo del tutto giusto quello che dici a proposito della coscienza se la intendiamo "come atto consapevole del pensare", ma io lo vedo già come il momento dopo, quando inizia la manipolazione simbolica. Lo specchio è "prima" di quel momento... [...] Per questo mi sembra corretto dire  , come dico spesso, che la coscienza (che io intendo, alla "buddhista", come pura consapevolezza percettiva non discriminante o anche "retta attenzione"...in mancanza della quale si resta inebriati dai propri pensieri) contiene i fenomeni 'materiali' e non viceversa.
Secondo me la coscienza come flusso di percezioni non discriminanti, non è in sé un problema, proprio perché se è non discriminante non può essere problematica.
Problematici sono piuttosto i cocenti riflessi (e le riflessioni) del pensiero che evapora dallo "Specchio", appannandolo.
Il meta-problema è che tali problemi sono "necessari" se si accetta la comune interazione sociale, altrimenti vivremmo come (non è dispregiativo) animali senzienti allo stato brado (ovvero un armonioso paradiso in terra), senza quasi tutta la tecnologia (che servirebbe solo a produrre simulacri, attaccamento e brame), senza illusioni e senza nemmeno avere il bisogno di "lucidare lo specchio" (conoscerai i relativi koan meglio di me).
Per questo, rispondendo tardivamente alla tua domanda, non mi interessa il Nirvana: preferisco una pacifica partita al "gioco di società" che mi circonda (forse per una questione di masochismo, se il buddismo è antidoto al dolore).


P.s.
@Ipazia
Qualche post fa hai citato «extra ecclesiam nulla salus»; questo motto latino è connesso a (la condanna religiosa del)l'indifferentismo, la cui definizione ci può aiutare a capire meglio cosa non è il relativismo (per amor di sfumature), così magari non lo percepiremo come una minaccia da cui "salvarci" (per quanto è lecito che ognuno abbia le sue fobie).
#1377
Tematiche Culturali e Sociali / Re:La volgarità
14 Maggio 2019, 16:13:52 PM
«Volgare» etimologicamente significa «che appartiene al volgo, alla gente», ovvero: a tutti. 
Si tratta dunque del denominatore comune che ci unisce ai nostri simili, l'irremovibile punto di partenza della differenziazione sociale, che poi rende alcuni meno (esplicitamente) volgari. Quello che unisce tutti è la natura biologica umana, soprattutto nelle sue funzioni basilari che, di conseguenza, sono le prime ad essere volgari (sia etimologicamente che non): il mangiare, il defecare, l'urinare, il copulare, etc. Ne consegue che i principali divieti anti-volgarità sono: non si mangia con la bocca aperta e/o quando si parla, non si defeca/urina in pubblico (i bagni sono gli ultimi avamposti della privacy in un mondo "telecamerizzato"), non si parla pubblicamente della propria attività sessuale (qui i tempi sono un po' cambiati, ma sorvolo...), etc.

Piuttosto ironico che ciò che accomuna tutti non possa essere oggetto di discorso con tutti. Ancor più ironico che ciò che accomuna tutti, dopo la sua rimozione da parte dell'educazione (che ci e-duce dalla nostra volgarità di base), possa riaffermarsi e quasi riscattarsi/rivalutarsi in veste di comicità, seppur "comicità volgare" (che non richiede particolare arguzia per essere decifrata nelle sue sagaci trame allusive). 
Il fatto che tutte le espressioni volgari più diffuse (in molte, se non tutte, le lingue) abbiano a che fare con organi genitali e affini, è dovuto alla necessità di far appello al substrato comune (tutti abbiamo quegli organi) e/o è un modo per riportare a galla il censurato, sapendo così di scandalizzare e dare veemenza al proprio discorso (facendo leva sulla cultura sociale che reprime tali espressioni)?
Qui la prassi linguistica è nuda nella sua pedissequa convenzionalità: semanticamente, perché darmi del "testa di k@##0" (due parti del corpo) dovrebbe offendermi più dell'apostrofarmi come "orecchio di ombelico"(idem)? Solo perché nella prima si cita un organo sessuale? Usanze (non addentriamoci sulle dinamiche sottese all'offesa linguistica).

L'essere volgari, quando è sinonimo di essere naturali (spontanei), sia fisiologicamente che "narrativamente", è indice, come hai osservato, di confidenza e profonda amicizia. Proprio come il mostrare all'altro sesso i propri organi sessuali (almeno qui in europa) è sinonimo di predisposizione all'accoppiamento; viceversa, entra in gioco il pudore-vergogna come vestito sociale che copre la volgarità della propria nuda natura (che oggi, nell'epoca del "culto del corpo", significa: mi lascio giudicare solo da alcuni e in determinate condizioni).

La volgarità fa appello al nostro essere sempre e comunque gente (volgo) umana, questo può essere certamente strumentalizzato in vari modi: c'è stata l'epoca dove la volgarità andava repressa, "i figli dovevano andare in città a studiare" (non in campagna a lavorare), ciò che era bello era anche raffinato e raro, etc.. ora siamo forse nell'epoca della nemesi storica, per cui la volgarità è onesta trasparenza (v. il "tu" contro il "lei"), c'è il ritorno alla campagna e la svalutazione delle lauree, il bello estetico rivaluta anche il vintage e lo sfarzoso è diventato a sua volta "volgare", etc. 
Contrappassi e dialettiche dello "spirito del tempo" (Zeitgeist).

Tuttavia, come sempre, senza una forza oppositiva, senza un'avversione, qualunque elemento sociale (soldi, valori, mode, arte, etc.) può dilagare indiscriminatamente, inflazionandosi e perdendo la sua "forza performativa" (a causa dell'assuefazione), "forza" che si basa proprio sul non essere comune, scontato e... "volgare".
#1378
Citazione di: odradek il 13 Maggio 2019, 21:31:56 PM
citazione Phil :
la chiusura causale del mondo fisico è per me ipotesi logica, non postulato metafisico

citazione Ipazia :
Vedo che dopo di te qualcuno ha cercato subito di indurire la "chiusura"

Indurire la chiusura si, ma mai abbastanza.
Con "chiusura causale del mondo fisico" -concetto "utilizzato" nella filosofia della mente, ed inspiegabilmente utilizzato qua, totalmente fuori contesto- si intende la concezione che un atto mentale non possa "influenzare" il mondo fisico.

Come lo si intende qua non ho ben capito, ma pare essere una teoria secondo cui il mondo risponda solo ed esclusivamente a leggi fisiche.
Per «chiusura causale del mondo fisico» mi rifaccio alla definizione (trovata online): «ogni  evento  fisico  ha  nella  propria  storia  causale  solo  eventi  fisici  e  proprietà fisiche», definizione imputata a D. Robb e citata anche nell'approccio fisicalista di Jaegwon Kim.
Se dunque ogni evento fisico è causato solo da eventi fisici, allora c'è una catena causale di eventi fisici che non può essere aperta causalmente da trascendenze o da supposti enti immateriali; è a questo che alludevo quando scrissi
Citazione di: Phil il 03 Maggio 2019, 13:23:59 PM
Forse la "via empirica" suggerisce piuttosto che l'immateriale non ci sia (tautologia?); tutelando così la famigerata "chiusura causale del mondo fisico" che, altrimenti, esigerebbe una spiegazione di come ci sia uno spiffero-pneuma d'immaterialità a penetrare tale chiusura
La mia discutibile "scommessa" è che non ci sia altro rispetto a tale chiusura fisica del reale, includendovi anche ciò che viene genericamente definito "mente" e che non mi stupirei si rivelasse attività materiale esperita da un uomo materiale (molti hanno già palesato il loro totale dissenso in merito, tuttavia, in attesa/assenza di prove dirimenti, non cambio la mia "puntata").
#1379
Citazione di: Ipazia il 13 Maggio 2019, 10:47:16 AM
Citazione di: Phil il 09 Maggio 2019, 22:16:31 PM
non contesto l'utilità della metafisica (v. il mio ritenerla da tutelare, studiare, etc.), né tanto meno nego che sia utilizzata anche oggi da molti (il fatto che io non lo faccia, non è per me un vanto, solo una scelta, anzi «scommessa»); sulla sua validità e sulle sue tematiche classiche, ho addirittura scomodato Godel e il modus ponens per illustrarne la solidità logica: che poi la ritenga infalsificabile (poiché «valido», in logica, non significa «vero»), è dovuto alla sua stessa struttura, alla sua storia, al suo deduttivo scontrarsi con la chiusura causale del mondo fisico (almeno per come la vedo... fino a prova contraria).
Scommessa persa in partenza visto che la stessa chiusura causale del mondo fisico è un postulato metafisico "infalsificabile". (tu accetti le faccine ?)
Tuttavia, se provo a sbilanciarmi su quel tema, non mi resta che scommettere, proprio perché non c'è falsificazione possibile. L'alternativa sarebbe dire che non mi interessa, ma perché (rin)negarmi questo divertissement filosofico?

Inoltre, ad essere precisi, la chiusura causale del mondo fisico è per me ipotesi logica, non postulato metafisico (esempio del pensiero forte che "legge indurito" anche quello debole, perché altrimenti non lo decifra?).
Diventa postulato metafisico qualora è oggetto di fede e quindi viene creduto vero nonostante sia infalsificabile; tuttavia in tal caso siamo ben oltre lo scommettere: si scommette su ipotesi, si crede in postulati.
Un passo dopo: la fede produce certezze (quindi, dialogandone, diverbi e talvolta dilemmi); la scommessa produce al massimo "letteratura filosofica" (nel mio caso amatoriale; per gli "scommettitori professionisti", le poste in gioco sono di ben altro valore... o almeno così credono).


P.s.
Faccine indubbiamente ben accette (anche se ho scommesso di essere capace di farmi capire senza usarle più).
#1380
Citazione di: davintro il 12 Maggio 2019, 22:27:16 PM
la possibilità di dimenticare il concetto di "penna" dopo averlo formato non toglie in nulla il carattere di universalità. A prescindere dal fatto di dimenticarlo o ricordarlo, resta comunque un concetto che poniamo come valente per tutte le penne possibili in ogni circostanza, dunque come universale.
Non parlavo del concetto di penna in generale ma de
Citazione di: Phil il 09 Maggio 2019, 00:51:52 AM
la sua esatta forma astratta, ma è solo un "calco vuoto" nella mia mente
ed è qualcosa che nella tua mente (probabilmente) non c'è, perché magari non hai mai visto la forma esatta della mia penna, quindi non hai potuto astrarla. Il che non significa che tu non la riconosca come penna, ma dimostra che, come dicevo, l'astrazione non è sempre universale (almeno non lo è quella della forma esatta ed astratta della mia penna particolare).

Citazione di: davintro il 12 Maggio 2019, 22:27:16 PM
Il linguaggio non produce il pensiero, in quanto già nel momento in cui decidiamo di creare una parola per comunicare un'idea quell'idea dovrebbe per forza essere stata pensata
Eppure, nel momento in cui leggi (non pensi) una parola nuova ma intuitiva (il mio improvvisato esempio era «disilluminare»), il pensiero dell'azione corrispondente non è forse creato prodotto dal linguaggio scritto?
Se «il linguaggio non produce il pensiero»(cit.), com'è possibile apprendere nuovi concetti? Perché leggere libri (soprattutto, di filosofia)? Mera anamnesi?

Comunque, riguardo le idee che preesistono il rispettivo contenuto di esperienza cosciente, come dicevo
Citazione di: Phil il 09 Maggio 2019, 00:51:52 AM
Non entro nel merito dell'esistenza di idee platoniche latenti, eterne e universali, poiché è indimostrabile sia la loro presenza (almeno finché non affiorano/si formano) che la loro assenza (essendo per definizione inverificabili).