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Messaggi - Phil

#1381
Citazione di: Ipazia il 23 Novembre 2019, 22:59:12 PM
perchè Platone e non Carneade ? Mi rispondo da sola così saltiamo un passaggio. Non tutti gli orizzonti di senso si equivalgano, ovvero certe altezze "orizzontali" vengano replicate da miriadi di Carneadi senza nulla aggiungere - o molto poco - al Platone che quell'orizzonte ha fissato. Questo polarizzarsi personale ed epocale di determinati orizzonti non potrebbe avere a che fare con una lettura più "sentita" del reale circostante tale da prenotare il successo di una filosofia, in sintonia con l'ermeneutica che interpreta le ragioni di quel successo ?
Decisamente sì; è il senso della mia battuta sulle fritture che non sono tutte uguali e, aggiungo ora, non soddisfano ugualmente i palati del grande pubblico; per quanto anche i gusti dei palati mutino con il tempo: i Protagora, i Gorgia, i Buddha, i Diogene, i Lao Tzu, persino i Carneade, etc. sono ad esempio più "appetibili" oggi che magari mille anni fa; inversamente, proprio Platone risulta oggi un po' più insipido di mille anni fa; altri, di cui magari si sono perse le tracce, non sono stati appetibili in passato né lo sono ora. Ciò che è cambiato è sia il "sentire", che la lettura della "realtà circostante".

Citazione di: Ipazia il 23 Novembre 2019, 22:59:12 PM
esemplificando: non è che l'idea di un principio spirituale unitario di Platone sollevasse l'orizzonte dal coacervo terra-terra di idoli d'ogni sorta fornendo al modello trascendente un orizzonte a cui si farà riferimento per qualche millennio a seguire ?
Eppure la constatazione del successo di quel modello, trattandosi di una constatazione storiografica, non va per me confusa con la sua valutazione filosofica; guardare ad oriente giova sempre per attingere differenti possibilità di pensiero e differenti successi storici, oppure si può semplicemente considerare come la cultura analitico-americana, nata "tardi", recepisca le nostre filosofie antiche. Non a caso oggi si sta rivalutando proprio il "terra-terra" (inteso come materialismo) da cui Platone (neoplatonici, etc.) sembrava averci emancipato e, altro esempio, molte riflessioni sul linguaggio degli antichi sofisti potrebbero essere impeccabilmente assegnate ai neopositivisti logici di inizio novecento (e l'antica dottrina buddista del non-io, anatta, risulta più compatibile con le attuali scienze cognitive, di quanto lo siano molte delle dottrine occidentali successive al buddismo).

Citazione di: Ipazia il 23 Novembre 2019, 22:59:12 PM
è sensato trarre dalla storia, sociologia, antropologia anche la koinè da cui ogni grande interprete del suo tempo è partito per porre il suo orizzonte di senso.
Concordo; volevo solo sottolineare l'importanza di distinguere l'approccio storico, quello antropologico, etc. da quello specificamente filosofico, senza che ciò significhi rifiutare il prezioso legame contestuale fra una filosofia e l'epoca in cui è stata pensata e/o si è affermata; fare storia della filosofia non è fare filosofia, per quanto indubbiamente partire dalla prima agevoli la seconda.
#1382
Secondo me, l'orizzonte di senso ogni filosofia lo fonda più di quanto lo tragga; l'orizzonte di senso, come dicevo, è la concludenza (e talvolta la conclusione) del filosofare di un filosofo: ogni autore ci propone infatti il suo orizzonte di senso da interpretare (ermeneutica), ponderare, attualizzare, etc.
Dove fonda una filosofia o, per semplificare, un autore, il suo orizzonte di senso? Chiaramente sul suo filosofare. Su cosa si fonda tale filosofare? Sui ragionamenti dell'autore. Su cosa di fondano tali ragionamenti? Su osservazioni, interpretazioni, intuizioni, etc. Su cosa di fondano queste osservazioni, interpretazioni, etc.? Sull'imprinting culturale, sulle esperienze vissute, sulle pregresse riflessioni dell'autore, etc.
Almeno mi pare sia questa, in breve, la catena (aporie e tautologie comprese).
#1383
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
23 Novembre 2019, 16:32:11 PM
Citazione di: paul11 il 22 Novembre 2019, 23:09:08 PM
Ma perché mai essere virtuosi, morali, etici, se tanto è l'agone dell'esistenza presa per sé, in quanto con la morte......puff....tutto svanisce in un nulla?
Se non si deve esserlo per il minaccioso giudizio del tribunale celeste, si può esserlo per salvarsi dai tribunali terrestri; per tutto ciò che non è giudicato da tali tribunali (consuetudini, piccoli gesti, etc.) vale anche la domanda al contrario: «perché non essere virtuosi, morali, etici se... etc. ?».

L'ambiguo motto dostoevskiano (di cui si è già discusso) non tiene apparentemente presente il contesto umano: se fossimo nella giungla, tutto sarebbe lecito e vigerebbe la legge animale del più forte; tuttavia siamo, quasi tutti, abitanti di società legiferate e socialmente strutturate: se decidiamo di non comportarci in modo virtuoso, morale, etc. sappiamo già quali sono i rischi e gli eventuali benefici pre mortem (come quando chiediamo o meno la fattura per un servizio ricevuto); pur in assenza di valori religiosi, ci sono valori comuni nella società, nella cultura di ogni popolo, riflettendo sui quali ciascuno può compiere le sue scelte, senza necessariamente pensare al post mortem.
Che cosa ci sia dopo la morte è certamente rilevante per i credenti, ma resta eloquente il fatto che la maggior parte dei non credenti, in risposta alla tua domanda, pur confidando nell'assenza di giudizio divino post mortem, non tendano per questo a lasciarsi andare spensieratamente alle peggiori nefandezze, sebbene persuasi che
Citazione di: paul11 il 22 Novembre 2019, 23:09:08 PM
Non c'è giudizio, non c'è verità........e intanto le logiche universalicon i suoi cicli  continuavano prima di noi e continueranno dopo noi.
#1384
Citazione di: Ipazia il 23 Novembre 2019, 10:15:20 AM
Però non saprei da dove la filosofia potrebbe trarre un criterio per determinare la conclusività di certe filosofie di successo se non dai dati storici, sociologici, antropologici, che la testimoniano. A prescindere, e spesso contro, ogni loro concludenza logica  ;D
Direi che della concludenza se ne occupa la logica, della conclusività se ne occupa l'ermeneutica (del successo storico la storiografia, delle ripercussioni sociali la sociologia, etc.). Secondo me, per restare sul piano filosofico, non bisogna impantanarsi nei dati che fanno statistica e/o storia, per mantenere chiara la distinzione fra ciò che la filosofia fa (produce orizzonti di senso) e ciò che essa fa fare (attuazioni storiche, sociologiche, antropologiche, etc. di tali orizzonti); la filosofia fa riflessioni politiche, esistenziali, estetiche, etc. e fa fare rivoluzioni, apostasie, opere artistiche, etc. ma questo secondo gruppo non è propriamente un filosofare perché presuppone che sia stata già fatta una filosofia d'innesco (e chiaramente l'architetto deve considerare la fattibilità di ciò che chiede di fare al muratore). Inoltre, per riprendere un'immagine à la page, direi che è comunque importante saper distinguere il fritto della nonna da quello del McDonald's; fermo restando che "non di solo fritto vive l'uomo".
#1385
Citazione di: baylham il 20 Novembre 2019, 14:15:56 PM
Per esempio, questo argomento di discussione oppure in generale il forum Logos sono concludenti o inconcludenti?
Domanda con gradevole "doppio fondo" filosofico, velato dall'assonanza fra «concludente» e «conclusivo», entrambi derivati da «chiudere» («claudere»). La filosofia, o più umilmente, il ragionare in questo forum, dove (si) conclude e/o che cosa dischiude?
I discorsi concludenti e conclusivi su un argomento spettano, di diritto e di fatto, alle scienze ("scienze della natura" diceva Dilthey) con le loro verifiche empiriche, dimostrazioni oggettive, esperimenti, validità extra-soggettive, etc. alla filosofia "appartiene" (con compito talvolta socialmente ingrato) molto di ciò che è fuori da tali conclusioni inconfutate. All'epoca dei fisici presocratici, la filosofia "doveva" deontologicamente interrogarsi sull'archè, sulle sostanze, etc. perché erano domande senza riposta concludente (tantomeno conclusiva); poi la scienza ha fornito risposte solide che hanno sollevato la filosofia da tale inadatto incarico. Oggi la filosofia può discutere di etica, politica, etc. perché nessuna «scienza dello spirito» (ancora Dilthey) ha proposto risultati così concludenti e conclusivi da risolvere tutte le divergenze alla luce di un'"oggettività", al punto da rendere inopportuna o impraticabile ulteriore proficua riflessione. E forse è proprio questo il punto: in assenza di un'evidenza conclusiva, la pluralità dei discorsi filosofici (o, più poveramente, forumistici), presenta molteplici approcci concludenti, uno per ogni prospettiva che sia ben argomentata e minimamente compatibile con la lettura del reale circostante (quindi non ogni prospettiva solo in quanto tale). L'apertura del discorso filosofico si basa sull'inconclusa ricerca di una soluzione definitiva, quindi sull'apertura dei possibili orizzonti di senso, concludenti nei rispettivi risultati (più o meno teoretici), ma non conclusivi per l'interrogazione di partenza. La condizione di possibilità della riflessione filosofica è quindi l'assenza di un discorso concluso in quanto "risolto" (e l'inconcludenza logico-semantica di alcune interrogazioni, filosofiche e non, rivela come alcune questioni siano falsi problemi, effetti collaterali di un domandare maldestro o malposto).

Quando una prospettiva filosofica si ritiene conclusa (da un autore, un metodo, un approccio, etc.) e definitiva (ogni chiusura è sempre, a suo modo, sia una fine che il fine), smette di essere filosofica e, purtroppo per lei, le viene chiesto di dar conto delle sue "verità" conclusive (ed è qui che spesso proliferano circoli viziosi, fallacie varie, etc.).
Alcuni osserveranno che anche questa stessa prospettiva pluralista e inconclusiva (ma non inconcludente) della filosofia sembra spacciarsi a sua volta come conclusiva e definitiva (oltre che definitoria); tuttavia così non può essere, perché essa prevede esattamente l'esistenza di altre posizioni divergenti (ma non per questo di minor legittimità filosofica), ognuna ritenentesi conclusiva (o almeno concludente), il che conferma proprio la suddetta pluralità e l'inconclusività (assoluta) di ogni singola posizione (sempre fino a prova contraria, in attesa di prove inconfutate o almeno confutabili, come direbbe Popper).


P.s.
Notoriamente non tutti gli approcci filosofici hanno avuto lo stesso successo storico, la stessa quantità di proseliti, la stessa diffusione culturale, etc. ma, secondo me, non è questo un criterio filosofico per valutarne l'inconcludenza (logica) o la conclusività (quei fattori possono ben essere criteri storici, sociologici, antropologici, etc.).
#1386
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
19 Novembre 2019, 19:10:18 PM
Mi permetto di parassitare inadeguatamente i versi di Jean:

«C'è un segno che distingue l'ombra dalla luce
un segno che separa il fiume dalla sponda,
un altro rende il senso quando ti traduce
in parola scritta il mister che ti circonda»
e pare allora che il trambusto si riduce
al mite silenzio in cui tutto sprofonda.

«Ampio come fiume, sottile qual capello
il vento lo cancella e l'acqua lo scolpisce
pur se l'ama, come statua il suo scalpello
cui deve la forma che il pubblico stupisce»
ammaliata folla accalcata in gran ostello
la cui permanenza come inizia, così finisce.

«L'imago vede il marmoreo manufatto
cinto qual corona da innumerosi tocchi
a trar la vita mentre il blocco vien disfatto
e infin uscirne dall'iride degli occhi»
che misterioso è l'autore d'ogni impatto,
come se l'ignoto fosse in cerca di balocchi.

«Anche c'è un segno quando s'appressa il tempo
per quelli che cercano la rima di chiusura,
chi avanti di gettar la lega nello stampo
l'abbia ben pulito per bloccare la morsura»
chi percorre assorto il suo ultimo campo
per dar vita al perenne ciclo della natura.

«Orbene questa traccia ci lega tutti quanti
qual filo dell'ordito sul qual cresce la trama
di magici color che lo spazio tien distanti
intanto che la notte affilerà la lama»
e se ci vorran giorni, anni, oppure istanti,
c'accoglierà l'abbraccio della paziente dama.

«Uno dopo l'altro veniam colti dall'ignoto
ma uno dopo l'altro da esso proveniamo,
se v'è inizio e fine allora non è vuoto,
se tu mi rispondi vuol dir che io ti chiamo»
e se restiamo muti e indugiamo un poco,
sarà nell'attesa il senso che cerchiamo?
#1387
In questo breve saggio ho ritrovato molti dei temi di cui si è discusso recentemente: nichilismo, Nietzsche, senso dello schema universale, dio, meontologia, destino, teodicea, consapevolezza, etc.
https://www.academia.edu/32846687/Note_sul_nulla_un_indagine_sul_nichilismo_nel_pensiero_di_Emil_Cioran
#1388
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
14 Novembre 2019, 16:36:51 PM
La morte è un tema così ricco di storia e di narrazioni che forse si fa fatica a semplificarlo, tuttavia ho l'impressione che sia oggi uno dei temi classici più "sopravvalutati": la mia autocoscienza, autopercezione, autoconsapevolezza, autoetc., ha avuto un suo innesco biologico (dalla fecondazione alla nascita, etc.) a cui seguirà un disinnesco altrettanto bio-logico (differenti possono esserne le cause), che lascerà la materia del mio corpo priva di quell'attività (neurologica, vascolare, etc.) chiamata «vita». Fin qui ho pochi dubbi.
Pensare che a seguito dell'innesco biologico debba crearsi una (auto)coscienza eterna (attributo per sua definizione inverificabile) che continui la sua attività prescindendo dal corpo che l'ha ospitata (ipotesi infalsificabile nell'al di qua) mi sembra epistemologicamente piuttosto infondato, al netto di tutte le tradizioni culturali e dei topos letterari. Quali prove, che non siano narrazioni degli antichi (ricchi di fantasia ma poveri di nozioni), depone a favore di tale generazione di un'attività immateriale eterna partendo da un innesco biologico?
Quando la fiamma di una candela si spegne (tanto per usare un esempio originale), dove va? Oppure non va da nessuna parte, ma cambia semplicemente il suo stato fisico, non essendo più fiamma bensì fumo (non più uomo-vivo bensì cadavere)? L'uomo non è una candela, certo, ma intanto, fino a prova contraria, nonostante l'abbondanza di teorie infalsificabili (che non forniscono prove in merito), la vedo piuttosto semplice.
#1389
Tematiche Culturali e Sociali / Re:Civiltà occidentale
03 Novembre 2019, 00:19:39 AM
Per comprendere un fenomeno, un'epoca, una prospettiva, dobbiamo secondo me prima interrogarci su quale paradigma usare: uno estraneo al fenomeno (la nostra precomprensione), quello interno al fenomeno (quindi tautologico) o uno che cerchi di essere dinamico nel passare dal primo (inevitabile) al secondo (non sempre totalmente comprensibile). Uso come esempio le considerazioni di Sariputra sullo yoga: se valutiamo la generale ricezione attuale dello yoga dal punto di vista della sua "ortodossia" originaria, dobbiamo concludere che quello di oggi praticamente non è yoga; se valutiamo il fenomeno attuale dal suo interno, dalle scuole di yoga d'oggi, i nuovi maestri metropolitani, etc. allora quello è yoga "rivisitato", "attualizzato" (e altri termini tipici della fruizione odierna di elementi del passato); se guardiamo al fenomeno come passaggio dallo yoga "ortodosso" ad uno "yoga contemporaneo", potremo rintracciare ciò che lo accomuna al passato (la fisicità, alcuni esercizi, la respirazione, etc.), ciò che lo rende sensato nel presente e futuribile (benefici mentali e fisici, etc.) e ciò che è stato perso (l'aspetto "spirituale", yama e niyama, etc.). 
Nessuna delle tre prospettive mi pare più "giusta" delle altre; la comprensione del fenomeno "yoga" dipenderà dunque da quale paradigma sceglieremo e a tale comprensione sarà connesso il giudizio che ne daremo: svaluteremo i nuovi praticanti come scimmiottatori dello yoga autentico, li apprezzeremo come smaliziati fruitori dei suoi benefici reali o li comprenderemo come posteri di una tradizione millenaria inevitabilmente mut(u)ata in un'epoca differente?

Il famigerato nichilismo, in veste di "negazione determinata" (direbbe Hegel), è una fase storica che innesca un cambiamento di cultura: un po' per esorcizzarne la novità, un po' per inerziale attaccamento "materno" ai fondamenti abituali, un po' per la radicalità del contrasto all'epoca precedente, si parlerà subito di "svuotamento dei valori", di "crisi del pensiero", di "degenerazione verso il caos", etc.: ne avranno parlato già gli antichi romani di fronte all'avvento della repubblica, i teologi di fronte alle teorie degli illuministi, i latifondisti di fronte all'abolizione della schiavitù, i nonni di fronte ai nipotini "zombieficati" dagli smartphone, etc. Nel secolo scorso (o poco prima) è stato coniato questo nome, «nichilismo», ma non credo siamo di fronte a un fenomeno effettivamente nuovo (lo sarebbe forse se il nihil fosse davvero tale); come presa di coscienza delle dinamiche umane e come autocomprensione dell'uomo nel cosmo, è solo un'altra tappa storica (non particolarmente rivoluzionaria e per altro già in rapido tramonto) e sta a noi scegliere come interpretarla: ci basiamo sul passato, sul presente o sulla genealogia fra i due (con le sue forze distruttive, oltre che rimodulative, i suoi traumi, etc.)?

Certo, la "storia dei nichilismi" non indica una direzione casuale: generalizzando, siamo passati dall'astrologia all'astronomia (annichilendo l'orizzonte di senso poetante degli astri); dallo sciamanesimo alla medicina (annichilendo la mistica taumaturgica); dalla metafisica dei pensieri forti alle ermeneutiche dei significati dialoganti (annichilendo le velleità monistiche ed univeritative di alcune prospettive); dallo spiritualismo al neuro-psicologismo (annichilendo il trascendente in favore di epistemologie immanenti); dalle guerre fra stati confinanti alle diplomazie "economicistiche" (annichilendo le politiche imperialiste ed espansionistiche), etc. questa direzione di annichilimenti di un certo "vecchio" in favore di un certo "nuovo", possiamo giudicarlo come un declino verso l'estinzione della razza umana, come un ritorno più "competente" a quella materialità da cui sono partite le culture millenni fa, come un progresso che ci avvicina gradualmente a conoscenze sempre più certe che rendono la socialità umana quasi una contingenza etologica, come un cammino verso l'emigrazione in un altro pianeta, etc. siamo sempre e comunque sul filo di quell'equilibrio (un po' circense per me, sebbene ci prendiamo sempre sul serio) fra constatazione ed interpretazione.


P.s.
Se un marziano leggesse i nostri discorsi, forse non capirebbe al volo la coerenza fra la lamentela verso un'individualismo alienante, quella verso l'omologazione spersonalizzante, quella verso il nichilismo atarassico, quella verso la permanenza di ingerenze religiose, quella verso la lamentela sulle lamentele, etc.; individualisti eticamente e omologati socialmente? Solipsisti massificati? Nichilisti transculturali? Nostalgici tecnofili?
Tuttavia, anche a lui si porrebbe probabilmente la (meta)questione preliminare: da quale paradigma giudicherebbe la nostra incoerenza (prima di lamentarsene a sua volta)?
#1390
Citazione di: iano il 02 Novembre 2019, 01:38:30 AM
Non esiste misura senza osservatore.
L'osservatore potrebbe influenzare la misura.
Aggiungerei, per aumentare la "scomodità", che non esiste misura senza strumento/tecnica di misura, e che l'osservatore influenza (l'uso del)lo strumento/tecnica che influenza la misura.

Citazione di: iano il 02 Novembre 2019, 01:38:30 AM
Sapere che la palla esiste e che ha una posizione è propedeutico alla misura , ma non è parte della misura.
Questa consapevolezza dell'osservatore , in quanto espressione dell'osservatore , può essere considerata superflua , quindi eliminata , in quanto potrebbe influenzare la misura.
Quindi , ai fini di una buona misura , noi non sappiamo che la palla esiste e che ha una posizione.
Eppure l'influenza di quel presupposto di esistenza è imprescindibile: se non suppongo che esista una palla e che sia situata nell'area a cui rivolgo la misurazione, la misurazione stessa non può letteralmente avere luogo. Più che «eliminata» in quanto «superflua», forse la supposizione di esistenza va considerata come necessaria ipotesi-guida della misurazione (almeno fino a prova contraria).

Citazione di: iano il 02 Novembre 2019, 01:38:30 AM
Lo sappiamo solo quando misuriamo la sua posizione, ed essa esiste e ha una posizione solo nel momento in cui misuriamo.
Non possiamo da ciò dedurre che essa esiste ed ha una posizione prima e dopo della misura anche se noi lo abbiamo percepito , perché la percezione dell'osservatore non è un dato scientifico.
Tuttavia, la misurazione e i suoi risultati, non rientrano essi stessi nelle percezioni dell'osservatore? Il ruolo dello strumento è esentato dal dubbio percettivo, ma in fondo lo strumento, proprio come l'osservatore, non è mai irrilevante nei confronti dei suoi stessi risultati (talvolta persino "indeterministici").
#1391
Tematiche Filosofiche / Re:La serenità d'animo
27 Ottobre 2019, 19:34:59 PM
Ti ringrazio per le precisazioni; da profano, alludevo alla differenza fra la settima e l'ottava rettitudine, fra l'aspetto mentale della presenza a se stessi (più "facilmente" fruibile anche nelle azioni quotidiane) e l'aspetto più "contemplativo" della meditazione seduta o camminata (che, mi concederai, ha maggior "pervasività"... e non so se anche le neuroscienze rilevino tale differenza).
#1392
Tematiche Filosofiche / Re:La serenità d'animo
27 Ottobre 2019, 13:44:31 PM
La meditazione (non credo sia sinonimo di presenza mentale nell'ottuplice sentiero) è favorita non a caso dal silenzio (o da canti liturgici o mantra) e dall'esser praticata in luogo tranquillo da cui assorbire la "serenità d'innesco" (ovvero "si vince facile"); praticarla durante una riunione di condominio è ben altra sfida: i problemi sorgono infatti quando dal pensiero si passa alla parola e all'azione. Posso non identificarmi con i miei pensieri e trarne distaccata serenità, tuttavia quando devo interagire con gli altri e con il mondo circostante, sono chiamato ad essere vigile (anche metaforicamente) su quali pensieri e desideri indirizzo verso la concretezza di azioni e discorsi. Posso osservare la nascita e lo svanire di pensieri "cattivi" mentre sono fermo a meditare, ma nel momento in cui agisco, tali pensieri non sono più pensieri di un sé illusorio, da lasciar scorrere fino a riversarsi nel mondo, ma piuttosto da bloccare prima che diventino un'azione "cattiva" (soprattutto se è vero che anche le azioni fanno karma).

Secondo me, la capacità di educarsi, di orientarsi verso una determinata visione del mondo, inizia proprio con l'addestrarsi ad una certa "inclinazione" di pensiero che sa discriminare lo sconveniente e l'inopportuno dal meritevole e "giusto" (senza entrare nel merito delle classificazioni possibili), fino a rendere tale inclinazione permanente e spontanea (la cosiddetta forma mentis, i cosiddetti pattern mentali, etc.). 
Finché medito, "devo" lasciare che i pensieri nascano, scorrano e poi spariscano (in una serena catarsi); tuttavia quando interagisco con l'altro, e non mi posso limitare solo al pensiero, è necessario decidere chi/come voglio essere, perché non posso essere né solo istinto (socialmente non durerei molto) né solo spettatore della mia vita (salvo vivere, come ricordo sempre, in "riserve umane", comunità "speciali" per regolamento interno e presunta condivisione di intenti, come monasteri o simili). 
Per questo credo che l'utilità laica della meditazione (come momento di pratica, non condizione ascetica permanente) sia quella rilevata dalle neuroscienze, più che quella "spirituale" (qualunque cosa significhi).
#1393
Tematiche Filosofiche / Re:La serenità d'animo
26 Ottobre 2019, 22:31:59 PM
Citazione di: daniele75 il 22 Ottobre 2019, 12:08:02 PM
Non sembra vero ma questo meccanismo naturale è simile a quello delle dipendenze. Durante le brevi fasi di felicità, il cervello rilascia dopamina, endorfine ed altri chimici che ci fanno stare bene [...] Il segreto sta nel comprendere che siamo dipendenti dalla dopamina e la cerchiamo ovunque. [...]Con la giusta consapevolezza possiamo adattarci allo stato di normalità, vivendo con una mentalità diversa, accettando di conseguenza lo stato primario umano. Smettendo di cercare continuamente picchi di dopamina e avvalendosi del pensiero positivo, valutiamo lo stato di normalità dentro di noi, meditando.[/size]
Citazione di: daniele75 il 26 Ottobre 2019, 14:33:43 PM
Ricerchiamo dopamina, l'ormone della felicità. [...] Il marketing conosce bene la mente umana inconscia è sa come hackerare il meccanismo, riempiendoci di desideri secondari che stimolano dopamina. [...]Praticare meditazione giornalmente sapete che rilascia dopamina
Fidandomi di ciò che hai scritto, nel suddetto circolo vizioso della dopamina (e affini), la dipendenza dalla (soddisfazione dopaminica della) meditazione è certamente più salutare dalla dipendenza dallo shopping o da picchi di adrenalina; tuttavia, non dipendere da entrambi, forse consente una maggiore auto-nomia (che non cancella certo la dipendenza dai bisogni primari e dai meccanismi psicologici di appagamento che ogni "carattere" porta con sé). Secondo me, la meditazione può aiutare a ri-centrarsi, a prendersi una sana tregua dall'affanno e dal disagio sia esistenziale (ansia, depressione, etc.) che corporeo (ipertensione, etc.), tuttavia se si esagera, facendola diventare una necessità quotidiana (o comunque ciclica), ho il sospetto, da profano, che possa risultare a sua volta una dipendenza che, per quanto benefica, può avere effetti collaterali se non viene assecondata (magari, banalizzando e generalizzando molto, se sono abituato a meditare ogni giorno e poi per un mese non ho più modo/tempo per meditare, divento più "decentrato" di chi non medita affatto o comunque devo fronteggiare tale "astinenza"...). Praticamente, fra il serio e il faceto, credo sia la stessa differenza fra usare la cannabis per scopi terapeutici ed essere rastafariani.
#1394
Tematiche Filosofiche / Re:La serenità d'animo
26 Ottobre 2019, 22:10:55 PM
Citazione di: Hlodowig il 21 Ottobre 2019, 10:38:23 AM
Mi piacerebbe condividere con te, ma anche con gli altri amici tutti, un video che ha molta attinenza con quanto si discute costruttivamente in questo topic (ma anche in altri):

https://youtube.com/watch?v=FzDjoZ1fiZs

[...]Se si conosce anche la teoria del colore e della geometria, si può notare anche come lo stesso studio, i vestiti, le pose ed il tono della voce, inducano nello spettatore, uno stato rilassato e curioso, per poter sorbaccarsi l' ora e quasi 13 minuti di discussione.
Guardando il video con occhio inesperto, mi è parso quasi il contrario: il "linguaggio del corpo" del conduttore incarna una apparente scomodità (mano spesso "puntata" sul tavolo su cui si scarica il peso del gomito tenuto lontano dal corpo, spalle "storte") e la matita manipolata, nonostante non sia necessario scrivere nulla, la associo ad insofferenza (o valvola scarica-tensione o "scettro d'autorità"); lo sfondo "a punte" mi pare più respingente che accogliente e le linee squadrate o circolari (mai oblique o ondulatorie) danno un senso di stasi; i colori (che suppongo siano quelli ufficiali del canale, quindi comunque obbligatori) mi ispirano freddezza-distacco essendo sulla tonalità del blu; i vestiti dei due interlocutori fanno pandant con lo sfondo, rendendoli più figure inglobate nel set che elementi catalizzatori del filmato, nella uniformità cromatica noiosa più che rilassante (soprattutto per un video di più di un'ora); persino la barba bianco-brizzolata del conduttore è abbinata al bianco del colletto della camicia, quasi per evitare ogni stacco o dinamismo cromatico (e che l'unico arredamento verticale sia un traliccio di metallo lucido, non fa sentire troppo "a casa" lo spettatore, quasi si volesse ricordare forzatamente che si è in uno studio...).
Secondo me la piacevolezza del video (dinamicizzato quasi solo dal "didattico" gesticolare dell'ospite e dai filmati esemplificativi) è dovuta soprattutto, come hai osservato, al tono colloquiale, agli esempi, alle battute, al ritmo vocale coinvolgente ma non frenetico dei due interlocutori, etc. come impostazione di produzione per un video lungo, forse più che una sobria affabilità si è ottenuto un effetto grafico di piattezza (salvato dalla suddetta "piacevolezza umana", proprio a dimostrazione che colori, forme, etc. sono comunque di contorno rispetto all'atto comunicativo vero e proprio, fatto soprattutto dal flusso verbale, emotività, gesti, etc.).

P.s.
Al minuto 31:45 viene ricordato che la comunicazione dipende dal contesto, anche storico, dai destinatari e dallo scopo di chi comunica; a occhio e croce se n'era già parlato in altro topic, è quindi una piacevole conferma.
#1395
Citazione di: Sariputra il 22 Ottobre 2019, 09:10:28 AM
E' questione di tempo, anche il nostro attuale progetto, convinzione, o riferimento si dissolverà sotto i colpi di "nulla -che- non c'è", che lo rivelerà gratuito e infondato .
Eppure «gratuito e infondato» non equivale a «niente» (soprattutto se è tutto ciò su cui si può contare). Secondo me il nulla, in quanto tale, non colpisce; l'altro-da-me, invece, sì e colpendomi mi può far diventare altro-da-ciò-che-ero (ontologia del divenire?). Proprio come la freccia di Zenone non diventa nulla fra un istante e l'altro, così il mutamento (fisico, mentale, prospettico, valoriale, etc.) non viene scalzato dal nulla, ma da qualcosa di altro (o qualcosa dell'Altro, direbbe forse Levinas), che produce o coincide con il mutamento. A volte si rischia di chiamare «nulla» solo l'ignoto, qualcosa che "funziona" diversamente da ciò a cui eravamo abituati e che inizialmente ci sembra distruttivo (ma, a ben vedere, la distruzione stessa non è mai un nulla).

Citazione di: Sariputra il 22 Ottobre 2019, 09:10:28 AM
una semplice ricetta fatta di piccoli 'sensi quotidiani', rivela la sua inconsistenza, la sua profonda ipocrisia, il suo "non voler vedere"...
Ciò nonostante alcuni vivono di/in piccole narrazioni, di/in «piccoli sensi quotidiani»; si ingannano? C'è più inganno e/o più senso nelle grandi narrazioni culturali (per quanto siano prodotto inevitabile della vita sociale)?
E se il «non voler vedere» fosse invece un "vedere e tollerare", perché la loro prospettiva (etichettabile in differenti modi) glielo consente? Proprio come chi cammina su un ponte teso sopra un abisso (tanto per essere originali) e guarda davanti sia il vuoto che è di fronte a lui (non si vede ancora la fine del ponte), sia la sottile linea del camminamento instabile che gli consente, nonostante la vertigine dell'abisso, di procedere. Forse proprio l'esigenza di procedere rende ogni nichilismo superabile (e superato, v. postmoderno): a prescindere dal fondamento dei valori e dei sensi che si usano, risulta davvero impossibile difficile non averne nessuno ed essere mesti "portantini del nulla".

In che senso «la ricetta fatta di piccoli "sensi quotidiani"» ha una sua «profonda ipocrisia»?
Forse ipocrisia come ipo-crinein: distinzione sottostante, comprensione "bassa" (la "banalità" di cui parlavo). Ipocrisia alimentata dalla crisi delle grandi narrazioni e dei sistemoni metafisici, (ipo)crisi(a) che ricorda all'uomo, nell'"autolettura" della sua gettatezza caduca, la complessità delle dinamiche che lo circondano e, soprattutto la necessità di stare al "gioco della vita", da cui non può alienarsi nemmeno alienandosi dalla vita sociale contemporanea, radunandosi in piccole comunità di "ipocriti" con i loro piccoli sensi quotidiani e la loro presenza a se stessi nello spazzare le foglie della/dalla mente, manutentare la struttura abitativa, praticare la consapevolezza, studiare, questuare fra gli eruditi civilizzati, restando pronti a bruciare la statua di Budda per scaldarsi se è troppo freddo (citazione, non provocazione, e mia aspirazione che rimando per ulteriore vecchiaia, al netto della progettualità cangiante di questi tempi moderni...).

Citazione di: Sariputra il 22 Ottobre 2019, 09:10:28 AM
La risposta allo 'svuotamento' , per essere realmente efficace, deve maturare nel corpo malato. La domanda allora è: questo corpo occidentale, ormai 'mondiale', ha ancora degli 'anticorpi' sufficienti? [...] il nichilismo, distruttore di tutti i fondamenti e i valori, è solo un'altra casa in cui ci installiamo, e da cui giudichiamo che "nulla vale"
[...] cessare il dolore del nichilismo
Secondo me il nichilismo non è necessariamente una malattia da curare (dipende cosa si intende per salute, ovviamente), automatico sinonimo di dolore, anzi può essere affrontato (se lo si prende con filosofia) senza pessimismo cosmico esistenziale, ma come tappa "evolutiva" della storia occidentale o più semplicemente come disincanto della propria riflessione sulla realtà. Certo, il nichilismo non fa promesse allettanti, non rincuora, è come l'arte povera; proprio dall'estetica, soprattutto quella orientale, ci possono venire spunti per trovare la bellezza e il valore del "piccolo e debole", del decaduto, del consumato, del quasi vuoto, etc. e se facciamo fatica o "vediamo nero" è anche perché il nostro palato occidentale è più avvezzo alla maestosità degli archi di trionfo, dei templi e dell'oro, che altrove veniva usato, con sensibilità che oggi definiremmo forse nichilistica (svalutante, quasi sacrilega), per "mettere assieme i cocci" (kintsugi).