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Messaggi - Phil

#1396
Citazione di: Ipazia il 08 Maggio 2019, 10:09:24 AM
una società umana deve tendere ad un grado di bellezza e armonia tale da rendere raccapricciante ogni sua violazione etica.
Questo "dovere" (im)posto dal basso all'alto, racconta di un dover-essere desiderato, che ha luogo "altrove" (nelle altezze iperuraniche) e rappresenta l'ottimo; mi sembra nondimeno un dovere, o meglio, un volere etico che cerca appoggio sull'estetica, trovandolo solo nel "bello" di una politica utopica.
Per me la "bellezza" dell'armonia sociale (per quanto auspicabile) è una metafora e ha ben poco di estetico (nel senso di "artistico", con cui se ne parlava nel topic).

Citazione di: Ipazia il 08 Maggio 2019, 10:09:24 AM
il degrado estetico è presupposto di degrado morale.
L'estetica dell'urbanistica di massa, il pubblico decoro, etc. non mi pare siano il cuore dell'estetica dell'arte (né l'estetica filosoficamente intesa). Chi conosce le periferie problematiche sa che la loro brutta presentazione agli occhi dei visitatori non è né causa né effetto della moralità di chi vi risiede, ma solo effetto del livello di reddito e dell'occupazione lavorativa degli abitanti, oltre che della tipologia di interventi pubblici.
Se mettessimo le riproduzioni di capolavori artistici sulle pareti di una fabbrica cinese e facessimo vestire i suoi operai da Armani (non è un messaggio promozionale, sostituitelo a piacere), il fatto che loro lavorino 12 ore al giorno, senza ferie, etc. diventerebbe più "bello e giusto"?
Che in un'officina meccanica ci sia grasso, pareti "affumicate", puzza di gomma e benzina, calendario Pirelli, etc. lo rende un ambiente moralmente degradante?
L'estetica Il decoro non è l'etica.

Citazione di: Ipazia il 08 Maggio 2019, 10:09:24 AM
Laddove si lavora per la bellezza (nel territorio, lavoro, rapporti sociali ed umani) si lavora anche per la giustizia.
Assunto che non mi convince: in fondo, i boss mafiosi hanno belle ville, gare d'appalto illegali costruiscono anche bei condomini, i "caporali" danno lavoro cancellando la brutta scena dei disoccupati in strada, etc. o anche, più banalmente, un writer che lavora a un graffito (illegale), un cittadino che decora con i fiori l'aiuola di una rotonda pubblica (illegale), non lavorano per la giustizia, tuttavia lavorano, a loro modo, per una bellezza estetica.

Citazione di: Ipazia il 08 Maggio 2019, 10:09:24 AM
una reazione emotiva, il disgusto, in cui è difficile - ed in ciò sta pure una dimostrazione empirica - districare la componente etica dall'estetica. Pensiamo ad una catasta di cadaveri da pulizia politico-etnico-religiosa.
Anche Guernica di Picasso rappresenta una scena "brutta" moralmente, ma è anche brutta esteticamente? Se non distinguiamo etico ed estetico finiamo in ostaggio del linguaggio metaforico (con annessa sindrome di Stoccolma).
Il suscitare disgusto per il suo contenuto (guerra, etc.) proposto dall'arte, non è il suscitare disgusto per la sua mera presenza (cadaveri, etc.) proposto dalla realtà immediata; è proprio il "meccanismo" di mediazione/rappresentazione che rende tali l'arte e l'estetica (evitando, per amor di sintesi, i dibattiti più contemporanei in merito).

Citazione di: Ipazia il 08 Maggio 2019, 10:09:24 AM
L'assenza di bellezza che si vede nelle lavorazioni centrate sullo sfruttamento umano è indicatore di degrado morale.
Rimanga fra noi, in confidenza, piramidi e templi non piacciono nemmeno a me, ma non diciamolo in giro...

Citazione di: Ipazia il 08 Maggio 2019, 10:09:24 AM
La ricerca ha prodotto persino una sua scienza della bellezza applicata al lavoro: si chiama ergonomia.
L'ergonomia non è il dominio della funzionalità, concedendo il minimo sindacale alla bellezza nel suo asservimento a scopi di vendita (non all'estetica)?
Nonostante la vaga parentela, il design non è sinonimo di ergonomia; non a caso Vitruvio distingueva fra «bellezza» e «funzionalità» (con «solidità» a completare la sua "trinità progettuale").
#1397
Giocando spudoratamente a fare lo psicologo, le sfumature di senso potrebbero essere molteplici:
- (delusione) la canzone dice «andiamo... raccoglieremo...» al plurale, ma il fatto che poi ti ritrovi solo nel campo, senza un "noi", genera inevitabilmente tristezza, come il ritrovarsi da soli ad un appuntamento;
- (inadeguatezza) il disagio nel campo di grano potrebbe simboleggiare il pensiero di un compito eccessivo, o percepito come tale, a cui non ti senti pronto: un solo uomo non può mietere facilmente il grano di un intero campo; 
- (frustrazione/rimpianto) l'impossibilità di mietere il campo, pur essendo una bella giornata, prefigura la spiacevole prospettiva di non poter "raccogliere l'amore"; ovvero, ci si trova in una situazione di per sé non brutta, ma non è possibile godere delle sue potenzialità di miglioramento, sprecando una possibilità allettante (non è un campo spoglio e arido, la giornata è anche propizia, ma non è comunque possibile procedere con il raccolto)
Contestualizzare questi possibili contenuti emotivi nella tua vita o nei tuoi ricordi, spetta chiaramente solo a te.


P.s.
Trattandosi di una canzone, la fruizione emotiva dei significati semantici del testo è vincolata (se non sottomessa) alla melodia, che presenta principalmente (potrei sbagliarmi) il passaggio fra due accordi che, nella nostra tradizione musicale, associamo alla malinconia o comunque non alla gioia (si minore e fa diesis settima); questo spiegherebbe la tua sensazione di tristezza a prescindere dal senso del testo.

P.p.s.
Qualcuno dice che per schiodare la canzone ricorrente, si può provare a cantarla fino alla fine o anche cantare solo il finale, in modo che il cervello lo consideri un processo terminato.
#1398
Continuo con le domande e i contro-esempi perché ancora non riesco a capire esattamente (dal punto di vista logico).
Citazione di: davintro il 07 Maggio 2019, 23:32:10 PM
una nozione, che significando un contenuto immateriale, non può essere pensato come un'insieme di spazi di cui l'immaginazione ne inventa l'unificazione, ma come un'unità semplice e primitiva che richiede una realtà ad essa corrispondente responsabile della sua presenza tra le potenzialità del nostro pensiero. Questa richiesta è un'esigenza della nostra razionalità, non ci trovo nulla di infalsificabile
Qual'è la ragione di tale «esigenza»? Ovvero, se così non fosse, se non ci fosse una «unità semplice e primitiva che richiede una realtà ad essa corrispondente responsabile della sua presenza tra le potenzialità del nostro pensiero»(cit.), ma tale presenza fosse generata in modo endogeno (come intuizioni, colpi di genio, fobie, etc.), dove sarebbe il crollo della razionalità?

La razionalità richiede di identificare un'identità logica (a=a); che a ciò corrisponda qualcosa di esistente o meno è irrilevante per la logica.
Posso infatti postulare l'idea di un fantasma invisibile (esempio banale, ma l'ora è tarda e la fantasia latita) come idea non commensurabile ai miei sensi né alla mia esperienza, ma ciò non "esige" razionalmente l'esistenza reale del fantasma, solo perché "se non esistesse, non sarei stato in grado di immaginarlo". Giusto?

Citazione di: davintro il 07 Maggio 2019, 23:32:10 PM
Questa richiesta è un'esigenza della nostra razionalità, non ci trovo nulla di infalsificabile
Il suo contenuto non è forse infalsificabile? Ad esempio
Citazione di: davintro il 07 Maggio 2019, 23:32:10 PM
un ente per definizione spirituale, immateriale, irriducibile all'essere un insieme di parti spaziali da unire tramite l'immaginazione.
L'esistenza di un tale ente è infalsificabile? Se è razionalmente (o in altro modo) falsificabile, come?

Citazione di: davintro il 07 Maggio 2019, 23:32:10 PM
chi intende falsificare tale esigenza è libero di argomentare riguardo la riconduzione della modalità di formazione delle idee di enti immateriali alla stessa di quelli materiali
Come dicevo nel post, credo che il processo di astrazione sia sufficiente: ogni idea di un ente immateriale (dio, anima, fantasmi, etc.) nasce astraendo caratteristiche del reale e poi alterandole o pensandone l'opposto; la stessa idea di im-materiale, nasce così (negando astrattamente il materiale), no?

Citazione di: davintro il 07 Maggio 2019, 23:32:10 PM
Far coincidere il piano della pensabilità potenziale con quello delle attualizzazioni del pensiero porterebbe a concepire assurdità come pensare che la potenzialità per il pensiero umano di apprendere la matematica si originerebbe nel momento in cui effettivamente il bambino impara a contare a scuola, e allora, una volta negato ogni innatismo della predisposizione, facendo coincidere quest'ultima con la sua esplicita attualizzazione dell'idea, dovremmo arrivare a sostenere che qualunque essere, anche un cane o una pianta, potrebbero con la stessa facilità imparare a contare, proprio perché le differenze ontologiche, essenziali di predisposizione non avrebbero più alcuna autonomia rispetto al momento in cui si passa dalla predisposizione all'attuazione del pensiero.
La predisposizione alla matematica è il pensiero astratto (anche altri animali hanno pensiero astratto; ce ne sono infatti alcuni che sembra siano stati addestrati a contare, ma non è questo il punto). Al contrario: un cane e una pianta non contano, eppure, stando alla tua prospettiva, potremmo davvero dire che hanno comunque la predisposizione a farlo, pur non avendola ancora attualizzata (poiché, come suggerisci, non dobbiamo «far coincidere il piano della pensabilità potenziale con quello delle attualizzazioni del pensiero»)?
Possiamo dimostrare che non abbiano tale predisposizione e che fra qualche eone non inizino a contare?
Ancora: se usiamo idee indimostrabili, tutto è possibile; tuttavia il possibile non è il reale (per quanto astratto) che non è l'esistente (fino a prova contraria).

Citazione di: davintro il 07 Maggio 2019, 23:32:10 PM
In realtà, così come la mente umana è predisposta a contare indipendentemente dal fatto di ricevere quegli stimoli che portano a tematizzare esplicitamente tale facoltà, così l'idea di Dio è eternamente presente tra le potenzialità del pensiero umano
L'«eternamente presente» è un'altro fattore infalsificabile (che "giustifica" chi non crede in un dio come chi non ha ancora "attivato" quell'idea; come chi potrebbe imparare la matematica, ma non l'ha ancora dimostrato; sia esso uomo o cane. Non so se l'epigenetica concordi con tale "rigidità cognitiva"... ma è altro argomento e non ne sono affatto esperto).

Secondo me, le potenzialità del pensiero umano (quindi anche pensare a fantasmi o uomini invisibili ed immortali) non rispecchiano sempre la potenzialità effettive del reale (uomini immortali e invisibili non sono geneticamente possibili) e nemmeno l'esistenza dei contenuti delle idee pensate (non ci sono i fantasmi... ma sempre fino a prova contraria, semmai si possa averla... altrimenti tocca "scommettere").
#1399
Citazione di: Ipazia il 07 Maggio 2019, 20:24:09 PMLa dialettica è congiuntiva, convergente: è bello fare ciò che è giusto ed è giusto fare ciò che è bello.
Non vorrei deviare troppo il discorso proposto da Carlo, ma il fatto che possa sembrare «bello fare ciò che è giusto», per me confonde la bellezza estetica con la "bellezza spirituale", delle "anime belle" (per quello scrissi «bello» fra virgolette). Ciò che è giusto, per definizione, andrebbe fatto, ed è un fare etico che in sé non (ri)guarda all'estetica; ad esempio, se è giusto rinchiudere un colpevole, non mi pare ci sia bellezza estetica in tale azione (per quanto si possano scrivere anche poesie al riguardo, ma la scelta etica e la scelta estetica a malapena si sfiorano).
Viceversa, «è giusto fare ciò che è bello», senza mettere il «giusto» fra virgolette, rischia di subordinare il giusto al bello che è, almeno socialmente, inaccettabile (difficilmente una mamma darà tale consiglio al proprio figlio)

Se consideriamo le due espressioni assieme, dialettizzandole con un ardito coup de theatre, mi pare che il senso classico di etica ed estetica vada in cortocircuito, producendo un leggero residuo estetico: è infatti una frase ad effetto (estetico); la morale che ne traspare (assist; te ne dovevo almeno uno) è «la morale dell'esteta», per quanto sia una (est)etica ad alto rischio inattualità (e immoralità, almeno comunemente intesa).
Chiaramente, è possibile talvolta fare un gesto bello e giusto, ma l'eccezione non fa la regola; inoltre, le regole del bello estetico non sono le regole del giusto etico (a quanto sembra); la loro occasionale convergenza è forse solo una fortuita (fortunata?) eterogenesi dei fini.
#1400
Citazione di: Ipazia il 07 Maggio 2019, 08:10:19 AM
Forse è il caso di meditare sulla prossimità che Wittgenstein pone, e  su cui lo stesso Nietzsche si sofferma, tra estetica ed etica, tra καλός e ἀγαθός.
Per come la vedo (en passant rispetto al topic): in pubblico, l'etico è estetico (è "bello" fare ciò che è giusto); in privato, l'estetico è etico (è "giusto" fare ciò che è bello).
Non a caso, la forza radicale del giudizio divino sarebbe quella di poter sbirciare anche nel privato (fin dentro l'intimo della psiche?).
Attualmente, il rovesciamento dialettico fra etico ed estetico, mi pare sempre più malcelato (per quanto dissimulato ai limiti dell'inconsapevole), essendo nell'epoca delle "case di vetro", della privacy difficile da tutelare, della religione/morale fai-da-te, dei sincretismi concilianti, etc.
Che, sotto le loro mentite spoglie assolutistiche, καλός e ἀγαθός cambino di pari passo con le epoche, è il classico segreto del Pulcinella omertoso: «si sa, ma non si dice».
#1401
Per me l'idea di fondo, oltre alla prospettiva del guadagno, è che «se chiunque può usare qualcosa, chiunque può anche abusarne»; principio che non fa eccezione nel campo della comunicazione, come dimostrano vari fenomeni già in atto nei social (haters, trolls, fake news, etc.). Probabilmente molti (ma non tutti) di coloro che scriverebbero messaggi inopportuni (per provocazione, per istintività, per disinformazione, etc.) non sono tuttavia disposti a pagare di tasca loro per farlo. Questo "filtro economico", per quanto possa suonare discutibile secondo alcuni (la comunicazione diventa "facilitata per i ricchi"), avrebbe lo scopo di garantire meno messaggi di disturbo, o fare in modo che (anche) i messaggi di disturbo producano almeno un guadagno per chi li ospita. Inoltre, in una società in cui commentare è ormai hobby nazionale, gratuito e spudorato, forse la carta stampata, anche nei sui alter ego virtuali, cerca qualcosa per distinguersi nella babele cacofonica ad ingresso gratuito: metterla sul piano economico è un'idea opportuna? Paga davvero con risultati qualitativi e/o economici?
Ai post(eri) l'ardua sentenza.
#1402
Nell'arte la dimensione astorica e atemporale del sacro gioca (secondo me) un duplice ruolo: da un lato, serve ad attualizzare il sacro (divinità o altro) inserendolo nella contemporaneità dell'artista, che è un modo per "(re)impossessarsene" e/o per celebrare la vitalità ancora pulsante del sacro, senza relegarlo ad un passato ormai lontano ed emotivamente distante. Da l'altro lato, la traslazione storica che decontestualizza gli eventi (biblici o altro), serve a sottolineare che il valore trascendente del sacro non è legato alla scansione del tempo umanamente intesa, per cui il conforto della Madonna, il sacrificio di Cristo, etc. sono sempre presenti, non hanno data perché il loro "senso" ha "durata" infinita. 
Per dirla in sintesi, il sacro può essere presentificato/presantificato dall'autore nella sua epoca perché il suo valore trascende il tempo umano ed è, a suo modo, sempre (nel) presente.

L'appropriazione e la rivisitazione laica dei temi religiosi in quanto classici (ovvero senza tempo) sono una pratica artistica anche della contemporaneità da Dalì (la "crocifissione cubista", la Madonna di Port Ligur, la Pietà) fino a "the other Christ" di Andres Serrano.


P.s.
Sarebbe comunque interessante allargare il discorso anche alle altre religioni.
#1403
Citazione di: davintro il 05 Maggio 2019, 23:53:02 PM
la negazione della possibilità, in sede teoretica, non filologica/storiografica, di astrarre tale modello dal contesto storico religioso, per riconoscerne una legittimazione razionale, poi si può discutere sull'effettivo rigore delle argomentazioni razionali
In merito ho citato la dimostrazione di Godel che, con inappuntabile rigore logico, dimostra la necessità dell'esistenza di Dio partendo... dall'esistenza come attributo necessario di Dio. Da un punto di vista logico, a quanto (mi) pare, non si può fare di meglio.
«Astrarre un modello da un contesto storico» comporta l'andare in direzione opposta rispetto al piano dell'esistenza: se astraggo da ogni democrazia storica, il modello della democrazia, è più probabile che mi stia dirigendo verso l'u-topia che verso l'esistenza.

Citazione di: davintro il 05 Maggio 2019, 23:53:02 PM
l'idea di Dio a cui faccio riferimento, quella la cui esistenza sarebbe ragionevolmente richiesta dalla presenza della sua idea all'interno delle possibilità del pensiero umano
Il fatto che sia possibile pensare ad un dio ne rende possibile e/o necessaria l'esistenza? Sono le idee a necessitare l'esistenza reale dei loro contenuti o viceversa ("necessità" dal punto di vista umano, ovviamente)?
Ogni idea che abbiamo in testa è necessariamente "a misura d'uomo", poiché da lui è elaborata e da lui è decifrata. Ciò mi sembra valere anche per le idee a cui non sappiamo dare un contenuto empirico: ad esempio, l'idea di post-mortem non ha corrispondenza reale e non nasce (metempsicosi a parte) dall'esperienza (trascendente o meno) del suo contenuto; eppure c'è.
La presenza dell'idea di Dio, rappresenta l'astrazione del grado massimo di alcuni attributi pensabili sull'esistenza, fatti convergere in un unico ente: la temporalità diventa eternità, la mortalità diventa immortalità, la causalità diventa causa prima incausata, etc. è un'idea quasi "necessaria" come idea-limite del pensiero. Tuttavia, passare dall'ideale al sostanziale/esistente, è il passaggio inverso rispetto all'astrazione ed è il passaggio, mi pare, in cui non si incontrano indizi razionalizzabili sull'esistenza di un dio (se non una sua deduzione di matrice idealistica, sempre infalsificabile).

Ci sarebbero alcuni spunti sotto forma di teologie delle varie religioni, ma se, come proponi, togliamo all'idea di dio qualunque connotazione storico-culturale di rivelazione, incarnazione, etc. (seguendo in ciò il deismo, ancora molto attuale, in cui si rinnega la propria "cittadinanza" in una religione, ma non si riesce ancora a vedersi come a-polidi, quindi ci si inquadra in una meta-cittadinanza) allora credo diventi davvero difficile dire qualcosa che lo riguardi e, ancor più, indagarne le caratteristiche, poiché non si hanno elementi a disposizione su cui discutere.

Citazione di: davintro il 05 Maggio 2019, 23:53:02 PM
la discussione è ritenuta impossibile da ogni mio eventuale interlocutore
Più che impossibile è forse ritenuta impraticabile perché troppo possibilista, nel senso che si potrebbe teorizzare (quasi) di tutto, come (e non lo dico per scherno/scherzo) se si volesse parlare della famigerata "teiera di Russell".
#1404
Citazione di: Ipazia il 05 Maggio 2019, 13:02:36 PM
la questione etica nella corretta prospettiva storico-evolutiva, che corregge, allargando la prospettiva, l'impostazione relativista dura del gusto soggettivo arbitrario.
La questione etica, per elevarsi al di sopra della morbidezza del "gusto soggettivo arbitrario", avrebbe bisogno di un fondamento forte (soprattutto se vuole essere un'etica forte); se il fondamento non può (più) essere quello teologico (e quello meta-fisico pone problemi logici di autoreferenza), rimane in gioco il piano fisico.
A tal proposito è forse significativo notare che le prime istruzioni che vengono inculcate nei bambini (cuccioli di uomo non inculturati) sono quelle a fondamento delle società: non bisogna essere violenti (il bambino tende ad aggredire alcuni dei suoi simili), non si ruba (il bambino tende ad appropriarsi di ciò che vuole, non ha il concetto di proprietà privata), non si mente (il bambino tende a dire solo ciò che gli conviene / gli piace), etc. Al cucciolo di uomo vanno dunque impartite le regole della convivenza "civile" perché, naturalmente, egli non le possiede (ciò che possiede è invece una serie di istinti volti all'autosussistenza: cercare il seno-nutrimento, aggrapparsi per non cadere, etc.).

Se questi precetti "universali" (e forse anche altri) fondano la vita sociale e la morale globalmente praticata, bisogna tuttavia osservare che la riflessione morale dà per scontate queste basi e diventa invece problema (filosofico) su ben altre questioni, non certo ristrette al (né risolvibili con) "quieto vivere, senza omicidi, furti, stupri e menzogne... o almeno ci si prova".
Ad esempio, di fronte a una questione etica (immigrati, diritti lgbt, pena di morte, alzarsi per far sedere un anziano sul bus, etc.), su cosa si fondano la morale/i valori che ci fanno giudicare «questo è giusto/quello è sbagliato»?
A partire da questa domanda, ineludibile se si vuol parlare filosoficamente di morale, il problema centrale di ogni morale post-religiosa è (secondo me) sempre quello del fondamento.


P.s.
Per dare il buon esempio, non svicolo della domanda: la mia risposta è alla prima riga, rigorosamente fra virgolette poiché allude a discorsi lunghi e discutibili (come già ben sa Ipazia, una di quelli con cui ho tentato in passato di spiegarmi sulla questione).
#1405
Citazione di: 0xdeadbeef il 05 Maggio 2019, 11:12:07 AM
Trovo che il tuo punto di vista possegga certamente delle buone ragioni, ma che altrettanto
certamente sia permeato da grande (eccessivo...) ottimismo.
L'ottimismo sarebbe valutativo; mi sembra che il mio post sia invece piuttosto descrittivo. In che senso ti risulto ottimista? Lo chiedo perché non mi percepisco come tale e il modo in cui vengo letto è un feedback importante.

Citazione di: 0xdeadbeef il 05 Maggio 2019, 11:12:07 AM
Ma non
si può nel medesimo tempo dimenticare che nella "specie umana" vi sia stato, vi sia e
presumibilmente vi sarà sempre più marcata una "individuazione" (come nei secoli è venuta emergendo,
(dall'antica "tribù", passando dalla negazione ockhamiana degli "universali" e dalla "monade" di
Leibniz fino al moderno "individulalismo" - che vediamo ultimamente accompagnarsi ad una inquietante
ripresa del concetto di identità etnica - mascherata da "culturale").
Tale "individuazione" è sempre e comunque contestualizzata in un habitat sociale, che in quanto tale, per la sua coesione, necessita di un'etica (e di leggi) condivisa.
L'identità et(n)ico-culturale fa da contrappunto al (presunto) individualismo monadico, nel senso che il singolo ha comunque bisogno, per sopravvivere (anche psicologicamente, l'homo sapiens è animale da branco, non solitario), del contesto che lo identifica (e nella cui morale spesso si identifica).

Citazione di: 0xdeadbeef il 05 Maggio 2019, 11:12:07 AM
Quanto all'"autorità", che nella tua visione sarebbe perpetrata da "legislatori rappresentanti
del volere/valore popolare, mi limito a ricordarti la attualissima e profonda crisi in cui
versa la particolare forma politica della democrazia, oggi sempre più sostituita da una presunta
competenza "tecnica" (e sto chiaramente parlando dei paesi tradizionalmente a vocazione democratica...).
Nel rilevare che la demo-crazia sia in atto, non intendevo valutarla come in ottima salute (che sia questo il qui pro quo che ti ha fatto pensare ad un mio implicito ottimismo?).
Talvolta si tende a leggere (anche) fra le righe, senza preventivare che fra le righe ci possano essere solo, banalmente, spazi bianchi.
#1406
Citazione di: 0xdeadbeef il 04 Maggio 2019, 22:16:02 PM
sono sostanzialmente d'accordo con la tua risposta, con il distinguo però rappresentato proprio dalla "finzione" con cui viene velata la (almeno presunta) natura convenzionale del valore morale.
Concordo che la natura convenzionale della morale sia opportunamente (tra)vestita da "assoluto", per mano degli "stilisti della rettitudine" (gli addetti alla giustizia); anche se è un vestito che, con il logorio dei secoli (e del potere secolare), sta diventando sempre più trasparente...

Citazione di: 0xdeadbeef il 04 Maggio 2019, 22:16:02 PM
Che ne sarebbe del valore morale laddove emergesse chiaramente tale natura?
Perderebbe di fascino e di assolutezza, tuttavia, non verrebbe intaccata la sua necessità sociale.

Citazione di: 0xdeadbeef il 04 Maggio 2019, 22:16:02 PM
Credi forse che non ci sarebbe una generale presa d'atto che, in fondo, è solo la volontà di potenza che fonda la moralità?
Più che la volontà di potenza (troppo epica ed individuale, per come la ricordo), direi banalmente la necessità antropologica della convivenza sociale (e di una cultura aggregante e identitaria).

Citazione di: 0xdeadbeef il 04 Maggio 2019, 22:16:02 PM
E che fine fa la "autorità" nel senso classico in un tal quadro (e forse sarebbe già il caso di dire che fine ha fatto...)?
Sarebbe costituita da legislatori rappresentanti del volere/valore popolare; come, a quanto pare, già è.

Citazione di: 0xdeadbeef il 04 Maggio 2019, 22:16:02 PM
la convenzione ha pur sempre bisogno di fondarsi su un qualcosa cui si attribuisce una "qualità" (mentre la convenzione è per sua stessa natura quantitativa).
La qualità della convenzione è la sua funzionalità pragmatica; di generazione in generazione, le convenzioni si perpetuano con adattamenti agli eventi e ai tempi che mutano; adattandosi, proprio come gli uomini, le convenzioni sopravvivono (anche le lingue, non a caso, hanno un loro aspetto diacronico, per poter aderire meglio ai cambiamenti della realtà di cui devono saper parlare).

Citazione di: 0xdeadbeef il 04 Maggio 2019, 22:16:02 PM
Pensi che l'uomo è o sarà mai capace di accettare che la storia millenaria del suo pensiero finisca nell'accettazione razionale (perchè questo è l'unico esito possibile, cioè l'unico esito razionale) della volontà di potenza?
Non sono sicuro sia l'unico esito possibile, né l'unico razionale; ma forse dipende da come si declina il concetto di «volontà di potenza» (vaghe reminiscenze, ma non sono esperto di Nietzsche).
#1407
Citazione di: 0xdeadbeef il 04 Maggio 2019, 19:20:00 PM
Ad esempio, per poter parlare di "legittimità" bisogna che questo "sistema operativo neurologico"
possegga un riferimento che non è se stesso.
Chiaramente non è un sistema chiuso e isolato: l'apprendimento, l'influenza di esperienze dirette, l'interazione con altri, etc. modificano il sistema.

Citazione di: 0xdeadbeef il 04 Maggio 2019, 19:20:00 PM
Quindi riformulando l'amico Socrate78 io direi così: se non esiste una realtà-altra ove questi
concetti, per così dire, "acquistano oggettività", i valori morali sono mera illusione.
Oggettività e moralità risultano per me incompatibili, poiché la prima si ritiene, in generale, assoluta e indipendente dal soggetto (che si limiterebbe a constatarla, con le inevitabili deformazioni "prospettiche"), mentre la seconda, almeno nel (mio) pensiero laico, è puramente arbitraria, convenzionale e soggettiva (per quanto sia culturalmente canonizzata in regole comunemente accettate).
La differenza di base è quella del fondamento: difficile che l'oggettività e la moralità abbiano un fondamento comune, perché la prima si basa sui fatti (Tizio colpisce Caio), la seconda sulla loro valutazione (non è giusto / non è bene che Tizio abbia colpito Caio).
Quindi, secondo me, si può dire che «i valori morali sono mera illusione» (cit.) solo se ci si aspettava che potessero essere oggettivi; non sono invece un'illusione nel momento in cui regolamentano nella prassi (e nel diritto) la vita di una società, affermandosi come forma di (pseudo)oggettività concordata e condivisa (l'oggettività autentica dovrebbe essere eventualmente condivisa, ma non concordata).
Fra la soggettività individuale e l'"oggettività del reale", c'è inevitabilmente la mediazione alterante di una convenzione contingente (linguaggio, cultura, etc.).
#1408
Citazione di: sgiombo il 04 Maggio 2019, 15:25:23 PM
Se le parole con le quali parliamo hanno un senso, gli unici modi che hai per ottenere percezioni localizzate (di ciò che realmente c' é e accade) nella tua testa sono uno specchio e qualcuno che ti scopra chirurgicamente la volta cranica, oppure indirettamente l' imaging diagnostico (o al limite l' elettroencefalogramma o altri più moderni e sofisticati modi di rilevare le attività elettriche cerebrali).
Intendi che quando sento il mal di testa (o, dopo un po' di lavoro "mentale", mi sento mentalmente stanco) e lo localizzo nella testa, mi inganno?

Citazione di: sgiombo il 04 Maggio 2019, 15:25:23 PM
"Output che resta interno" é una perfetta contraddizione in termini.

Infatti alla frase (o meglio: alla sequenza di caratteri tipografici) "l'output resta interno al sistema che lo elabora / lo vive" non vedo come possa mai attribuirsi un senso.
Provo a spiegarmi con un esempio (restando nel parallelismo): un sensore interno al case rileva che la temperatura del processore inizia a farsi critica (input), quindi (output) aumenta la velocità di rotazione della sua ventola per raffreddarlo. Il tutto accade dentro il case, dentro il "sistema" di cui il video è solo la periferica esterna che ne rende visibile parte del contenuto (il video potrebbe mostrare indicatori per il controllo della temperatura, la velocità delle ventole, avvisi di rischio, etc.).
Giocando ancora metaforicamente con input/output: se leggo una frase (input) il mio cervello le dà un senso, la associa a ricordi, etc. (output) e ciò avviene all'interno del mio sistema cerebrale.
#1409
Citazione di: Jacopus il 03 Maggio 2019, 16:19:13 PM
Ma non può l'uomo conservarsi una parte sconosciuta e al di fuori del suo dominio?
Potrebbe conservarsela, ma pur non volendo, è inevitabile che tale zona d'ombra abbia sempre un passo di vantaggio nel cammino dell'uomo; è sempre indicata dalla domanda «perché?»: qualunque conoscenza ottenuta non è definitiva, basta chiedersene il perché e la ricerca, inevitabilmente, continua verso «la parte sconosciuta e al di fuori del suo dominio». Inoltre, non escluderei che anche all'interno del suo dominio, ci siano piccole zone d'ombra o ancora illuminate solo fiocamente.

Citazione di: Jacopus il 03 Maggio 2019, 16:19:13 PM
Qual'e' il costo di desacralizzare ogni cosa?
Il costo che paghiamo è quello dell'incanto, del mistero, dell'inquietante (in senso etimologico); ciò che otteniamo in cambio sono spiegazioni e fruibilità di procedure manipolative del reale. Non è detto che sia un baratto vantaggioso per tutti.

Citazione di: Jacopus il 03 Maggio 2019, 16:19:13 PM
Possiamo conservare un dominio del sacro e nello stesso mantenere il principio moderno di ottenere la verità come sfida umana e laica?
Se manteniamo il sacro nello "scrigno dell'infalsificabile", quindi metafisico, sarà abbastanza al riparo da ogni laica indagine sul vero; al sacro toccherebbe però "sacrificarsi" a rinunciare alla custodia del vero, per lasciarsi custodire dell'inverificabile (compromesso dignitoso, direi).
I due livelli possono coesistere nell'uomo, come dimostrano molti scienziati che hanno loro ipotesi non-scientifiche sul sacro.

Citazione di: Jacopus il 03 Maggio 2019, 16:19:13 PM
Se è tutto così material/ razionale perché continuiamo a sognare, ad ascoltare musica, a fantasticare sopra libri d'avventura o fantascienza?
Perché, secondo me, oltre a essere razionali, siamo spontaneamente simbolici, edonistici e "sognatori"... in una parola «estetici».

Citazione di: Jacopus il 03 Maggio 2019, 16:19:13 PM
Eppure, al solito ci si divide in due squadre: i razionalisti puri e gli spiritualisti puri, ma in questo mondo ciò che è puro ha di solito una faccia nascosta di violenza terribile.
L'uomo contamina da sempre la razionalità con l'estetica; questa può prevaricare sino a diventare spiritualismo, remando talvolta (ma non sempre) contro la ragione; tuttavia non credo che, inversamente, la ragione possa meccanizzarsi al tal punto da ridurre l'umano all'an-estetico.
Ciò non toglie che la dimensione estetica potrebbe avere una sua spiegazione razionale e materiale (v. neuroestetica); tornando all'esempio del dolore: sapere come esso funzioni fisiologicamente/materialmente, non lo rende un vissuto meno spiacevole, e lo stesso vale per il piacere di ascoltare musica, leggere, etc.

Sulla violenza: il «puro» può diventare (e storicamente lo è diventato più di una volta) un pensiero forte ed escludente, che vuole "purificare"/rimuovere il differente, imponendosi come pensiero unico. Il valore s(c)ommesso del pensiero debole, plurale e contaminato (quindi non puro) è invece proprio il tendere alla non violenza, con lo sfidante effetto collaterale di dover fronteggiare equilibri precari e dinamici, senza mai riposarsi in "puro" equilibrio.


P.s.
@sgiombo
Il mio sentire i pensieri nella testa è una percezione localizzata, non un mero atto linguistico non pronunciato ad alta voce. Posso sbagliarmi, tuttavia, fino a prova contraria, mi fido della mia percezione.
Il parallelismo fra computer (case, in inglese, per essere esatti) e cranio ha senso finché non si mischiano i due piani del paragone; la differenza fra un output a una periferica esterna (computer/video) e un output che resta interno (cervello/cervello) non prevede l'ingerenza di "omuncoli" o simili, ma è proprio ciò che differenzia i due piani del parallelismo e spiegherebbe come mai aprendo il cranio non si vedono i pensieri (l'output resta interno al sistema che lo elabora / lo vive).
La scommessa sulla plausibilità di questo parallelismo è chiaramente mia personale, la scienza seria "gioca" a ben altri "giochi".
#1410
Citazione di: sgiombo il 03 Maggio 2019, 23:16:22 PM
Spazio (estensione) ce l' hanno i processi neurofisiologici cerebrali (per esempio miei nella tua esperenza cosciente), non affatto i pensieri (per esempio i miei nella tua cosienza; o viceversa).
Sento (per quanto i sensi possano ingannare) che i (miei) pensieri hanno un loro spazio di "residenza", quello contenuto nel cranio, proprio come i processi neurofisiologici; certo, non posso fare l'esperimento di asportarmi il cervello e poi controllare dove sento i pensieri o se sia ancora in grado di pensare... per questo, riguardo la materialità dei pensieri, parlavo di «scommessa» priva di certezze empiriche.
Parimenti la scienza "scommette" che chi osserva le reazioni di un cervello abbia a sua volta un cervello che funzioni in modo approssimativamente simile, sorvolando quindi sul discorso mio cervello/tua coscienza e tuo cervello/mia coscienza.

Osservando l'interno del cranio non si vedono i pensieri così come osservando l'interno di un computer non si vedono i programmi, che pure stanno funzionando in quel momento; sappiamo già che i programmi sono materiali e funzionano grazie all'interazione materiale fra le componenti materiali interne del computer. La differenza cruciale nel parallelismo con la mente/coscienza/pensiero è che, nel caso del computer, il monitor che rende visibili i programmi è una periferica esterna, osservabile da tutti, mentre la mente/coscienza/pensiero non può essere "mostrata" agli altri, nel suo essere esperita internamente in prima persona.
Almeno, questa è la tesi su cui scommetterei i miei quattro spicci di fiducia.