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Messaggi - Phil

#1456
Tematiche Spirituali / Re:Ciò che Dio vuole da noi
24 Dicembre 2018, 00:49:28 AM
@Socrate78

Consentimi una precisazione: l'insieme degli atei si basa su un criterio negativo (non credenza in qualcosa), quindi dedurne denominatori comuni affermativi, è sempre molto rischioso e spesso fuorviante. 
L'ateismo non ha comandamenti; per dirla altrimenti, il non praticare sport non è comunque una forma di sport; oppure, il non ascoltare musica classica non comporta sempre e necessariamente l'ascoltare rock... si tratta solo di rispondere «no» ad una domanda, tuttavia è a cosa si risponde «si» che delinea un'identità precisa (fermo restando che non tutti i «no», sono uguali).

Infatti, non tutti gli atei sono 
Citazione di: Socrate78 il 24 Dicembre 2018, 00:02:14 AMconvintissimi che non ci sia assolutamente nulla dopo questo brevissimo (rispetto alla vita della Terra un nulla....) percorso terreno. 
poiché alcuni atei scommettono (anti-pascalianamente) sul «no», sebbene non siano «convintissimi» che sia la risposta esatta, essendo non ancora verificabile (né falsificabile il contrario).
Parimenti non tutti gli atei considerano ovvio 
Citazione di: Socrate78 il 24 Dicembre 2018, 00:02:14 AM
che la morte [...] sia uno sprofondare in quel nulla in cui eravamo prima di nascere, 
perché per alcuni è una metafora metafisica che nel loro orizzonte non ha senso (quindi non è né vera né falsa, ma piuttosto insensata): prima di nascere non eravamo e dopo la morte plausibilmente non sprofonderemo nel Nulla, al massimo sotto terra, ma non saremo più "noi".
Alcuni atei concorderanno con te sul fatto che
Citazione di: Socrate78 il 24 Dicembre 2018, 00:02:14 AM
La nostra ragione è limitata e non è in grado di sondare una realtà trascendente.
E ci sono altre differenze interne all'insieme degli atei che lo rendono difficilmente riconducibile "ad un solo fascio" (ad eccezione di quel «no» in comune, seppur con differenti sfumature).
#1457
Tematiche Culturali e Sociali / Re:L'istinto paterno.
22 Dicembre 2018, 16:42:24 PM
Secondo me (da profano in materia) l'istinto biologico, sia maschile che femminile, è innegabilmente rivolto all'accoppiamento, ma non necessariamente alla riproduzione: anche se umanamente (transculturalmente, archetipicamente, etc.) i due aspetti sono stati da sempre ritenuti collegati (presentando il secondo come auspicabile finalità del primo), credo che l'istinto biologico non sia di essere padre, né madre (e qui forse mi farò delle nemiche  ;D ), quanto piuttosto di copulare (il romanticismo non è infatti istintivo; per quanto, dopo adeguato allenamento, se dotati di "inclinazione", possa diventare spontaneo quasi come un istinto).

Sicuramente di fronte al figlio/bambino, nella madre/donna (in generale) si innescano istinti (biologici, neurologici, etc.) di cura, ma il figlio potrebbe essere anche solo causa di tali reazioni istintive, non effetto a sua volta di un istinto della procreazione.
Banalizzando con un esempio: se mi trovo davanti una tigre, l'istinto mi dice di scappare, ma non è l'istinto a farmi cercare una tigre da cui scappare. Detto altrimenti, se lasciassimo una coppia maschio/femmina in un'isola deserta, sono certo che, raggiunta la pubertà, in entrambi si risveglierebbe l'istinto all'accoppiamento, ma non sono altrettanto certo che uno dei due (o entrambi) sentirebbe un giorno il bisogno istintivo di generare un terzo essere da crescere ed accudire (il che non toglie che all'arrivo, magari inatteso, del terzo umano, non scattino poi meccanismi di genitorialità, protezione, etc.).

Suppongo che agli albori dell'homo sapiens neanche si sapesse perché nascessero i bambini, ma quando ciò accadeva era istintivo per la madre (semper certa) prendersene cura; tuttavia, lei sentiva già prima l'istinto di diventare madre? Questo ci aiuterebbe a discernere quanto sia rilevante l'impatto della cultura sulla genitorialità e quanto ci sia invece di istintivo; purtroppo, temo che non potremo intervistare "Madame Sapiens"...  
Che l'istinto conscio all'accoppiamento celi un istinto inconscio alla riproduzione della specie? Schopenhauer direbbe di sì  ;)

Probabilmente è uno di quei temi in cui il confine (e l'influenza biunivoca) fra cultura e biologia è davvero difficile da focalizzare e, nel dubbio, ci rassicura pensare che la nostra cultura sia di matrice biologica e che le nostre reazioni acquisite culturalmente siano di fondo istintive (nonostante, se non erro, la bibliografia clinica e antropologica dimostri come l'esperienza del proprio esser-figli si proietti sulle modalità del proprio esser-genitori, al punto che l'unico istinto non indotto è quello dell'atto che precede la procreazione, mentre le modalità della genitorialità che ne consegue sono eredità cultural-psicologiche più che istintivo-biologiche).
#1458
Tematiche Filosofiche / Re:L'altruismo
20 Dicembre 2018, 19:03:30 PM
Citazione di: viator il 19 Dicembre 2018, 17:44:48 PM
Mi incuriosiva conoscere se secondo voi a questo mondo, dalla comparsa dell'uomo, qualcuno ha mai compiuto un atto od una scelta interiore che non rispondessero alla sua intenzione di procurarsi una utilità, un piacere, una tutela o una soddisfazione.
Utilità e piacere (a cui fanno eco tutela e soddisfazione) sono indubbiamente i principali moventi della volontà (e dell'istinto umano); quindi in generale sono i criteri dominanti con cui si compiono scelte ed atti.

Citazione di: viator il 19 Dicembre 2018, 17:44:48 PM
In altre parole, è mai esistito un altruismo deliberato e scevro da conseguenze positive (non importa se solo sperate) per chi lo ha espresso ?
Volendo proprio trovare un'eccezione (poco filosofica), ma non nell'altruismo, semmai nel suo contrario (mi scuso se ribalto un po' la domanda :) ): ho un amico (si dice così, no? ;D ) che quando un mendicante gli chiede un po' di spicci, lui (quasi sempre) rifiuta, e mi dice che comunque non lo trova piacevole (spesso chiede formalmente scusa), né soddisfa un suo bisogno (non avverte come bisogno quello di tenersi tre centesimi in tasca, pur non essendo milionario), né fa qualcosa di utile (non evita di donare quei pochi centesimi perché sa che gli torneranno utili; più probabilmente li perderà prima o poi salendo in auto o tirando fuori il fazzoletto), né sente che così facendo tutela la sua persona, la sua identità sociale o la sua integrità morale («anzi...» direbbe qualcuno); eppure, decide di non darli e prosegue la passeggiata.

Cosa ha «intenzione di procurarsi»(semicit.) non dando quei tre centesimi: utilità, piacere, tutela o soddisfazione? Qualunque finalità si procuri, le (poche) volte che invece dà i pochi centesimi, perché cambia tale finalità? Questione di volubilità, di umore, di reazioni cognitive contingenti?

In questi piccoli gesti gratuiti e spensierati (improvvisati) nel quotidiano, quelli di cui se ci viene chiesto il perché, rispondiamo con «non so, mi è venuto spontaneo», forse in questi piccoli eventi (azzardo l'ipotesi) possiamo trovare esempi di eccezioni ai suddetti moventi-guida della nostra volontà.
Almeno finché non facciamo supposizioni che sconfinino nell'inconscio che, come al solito, si confermerebbe saccente "guastafeste".
#1459
Tematiche Filosofiche / Re:Buddhismo
19 Dicembre 2018, 23:07:47 PM
Non ti trovo affatto prolisso, anzi (mi) risulti chiaro e ben misurato (senza voler sminuire i lunghi corridoi e le lunghe notti, presto innevate, della Villa  ;) ).
Tuttavia, proprio quello che non hai commentato del mio post, è forse ciò che mi lascia più perplesso del rapporto fra Istruzione (buddista, e non solo) ed Etica:
Citazione di: Phil il 19 Dicembre 2018, 12:11:57 PMD'altronde, se invece mi metto d'impegno e d'intenzione a dare attente martellate al marmo, non potrò diventare pittore, semmai diverrò "spontaneo" scultore...
oppure, riprendendo la tua metafora dell'orto: se semino pomodori, non nascerà insalata... ovvero, almeno a quanto pare (guardandosi intorno), ogni culto-cultura può essere interiorizzato-a al punto da diventare "spontaneo-a" (anche quelli-e meno favorevoli al prossimo...).

P.s.
Nondimeno, ci siamo già spiegati in precedenza sulle rispettive differenti vedute sulla "naturale" indole umana; non voglio ripetere l'impasse  :)
#1460
Tematiche Filosofiche / Re:Buddhismo
19 Dicembre 2018, 12:11:57 PM
Citazione di: Sariputra il 18 Dicembre 2018, 21:28:44 PM
La mente non s' impone di provare compassione  ( per seguire un precetto buddhista...), è la sua natura  il provarlo quando è libera dalle radici nocive presenti in essa. Si parla infatti, in questo caso, di una mente praticante che "segue la legge della propria specie" [...]
con la pratica, diventa spontaneo. La presenza mentale è fondamentale. Non esiste seria pratica buddhista che possa fare a meno della coltivazione costante di essa. Non si può comprendere il Buddhismo leggendo solo i discorsi  o i commentari filosofici. Questi vengono SEMPRE dopo la pratica. [...]
"Raggiungere intenzionalmente l'assenza di intenzioni, ecco la giusta via". Questa affermazione è anche un famoso detto in Pali: Sasankharena asankharikam pattabbam, ossia "La spontaneità può essere ottenuta tramite uno sforzo intenzionale premeditato". La spontaneità della pennellata dell'artista arriva sempre dopo, molto dopo, l'intenzione di imparare a dipingere... :)
L'aporia a cui accennavo, quella fra l'aspetto sociale e quello individuale del buddismo, è proprio il contrasto fra l'esigenza (e l'urgenza) di un'etica pre-illuminazione e lo svanire dell'etica nell'illuminazione (lasciando posto ad una benevola spontaneità "impersonale"). Se la pratica è fondamentale per raggiungere la consapevolezza adeguata (che ci renda compassionevoli), è anche vero che tale pratica sarà guidata da precetti e concetti (come tutti quelli che hai giustamente citato: sila, 4 stati mentali salutari, etc.) che rendono l'etica buddista un'altra etica «all'occidentale» (@Ipazia, ovviamente generalizzo per continenti), con regole e norme da seguire perché orientate al bene (che in questo caso è l'illuminazione che interiorizza tali norme al punto di renderle "istintive").
Se la via per l'illuminazione è lastricata di buone intenzioni, di regole e concetti canonizzati, di fatto è questa l'etica che viene generalmente praticata (fra una sesshin e l'altra), e non accade per spontaneità, ma per applicazione e studio di un culto (che è il mio preferito, a scanso di equivoci :) ).
Se mi metto d'impegno ad imparare a dipingere, «dopo, molto dopo» (quasi tardi?) nella peggiore delle ipotesi, smetterò per insoddisfazione dei risultati o per eventi avversi; nella migliore delle ipotesi, acquisirò una pennellata spontanea... perché tale pennellata era da sempre "in me" (buona natura innata) o perché l'ho "costruita" io ("educazione" alla benevolenza)?
D'altronde, se invece mi metto d'impegno e d'intenzione a dare attente martellate al marmo, non potrò diventare pittore, semmai diverrò "spontaneo" scultore...
Secondo me, l'intenzione e l'applicazione plasmano più di quanto rivelino (pur partendo da una base minimamente compatibile).

P.s.
Prendendo per le corna il toro, anzi il bue (quello della parabola): i praticanti dell'etica buddista, la praticano in quanto etica indotta da cultura, lettura, etc. (il che non è un peccato) o in quanto spontaneo risultato dell'illuminazione?
Quando mi riferivo all'aporia del «proporsi in chiave etica ai popoli della terra» mi riferivo a questo; per pochi (quasi nessuno?) e non per tutti  :) 

P.p.s.
Sul non-attaccamento come indifferenza alla mondanità e alla socialità (e al prossimo, anche se suona male  ;) ), forse sono eloquenti le scelte di alcuni maestri (illuminati?) di ritrarsi in solitudine, prendendo rifugio nella solitudine dei boschi più che nello sangha. Sempre che non si tratti di leggende, non sono molto informato in merito.



Citazione di: Ipazia il 19 Dicembre 2018, 10:01:16 AM
Mi pare che la posizione buddista descritta da Sari sia più realistica di quella evangelica che, anche in occidente, appartiene più alla teoria che alla prassi.
Se parliamo di etica, l'aggettivo «realistico» mi pare in netto fuorigioco; se parliamo di quale dei due approcci sia più facilmente comprensibile e coerentemente praticabile dalle masse, l'evangelismo è in esiguo vantaggio (più semplice, leggermente meno incompatibile con inevitabili "inciuci" economico-politici della vita laica); se poi devo dirti a quale mi sento personalmente ed esistenzialmente più vicino, propendo per il personaggio che ha in croce solo le gambe sul grembo e dal sorriso enigmatico e insondabile tipo Gioconda  :)
#1461
Tematiche Filosofiche / Re:Buddhismo
17 Dicembre 2018, 16:12:51 PM
Citazione di: Sariputra il 17 Dicembre 2018, 11:40:29 AM
Il Buddhismo parla di "intenzione", riferendosi ad una volontà che deve spingere l'uomo a porsi in un rapporto di solidarietà, di benevolenza con tutti e con il tutto. [...] presenza di due motivi inerenti al Dhamma buddhista stesso: la negatività del desiderio, che porta inevitabilmente all'attaccamento, e la negazione dell'individualità. [...] Perché dunque, non riconoscendo la sostanziale individualità degli esseri, l'etica buddhista insiste così tanto nello sforzo per coltivare benevolenza e compassione? [...] La benevolenza del buddhista non distingue, non predilige, non s'inchina di qua più che di là: é indifferente e neutrale. Essa é sostanzialmente compassione e pietà per chi, ancora travolto dall'ignoranza, si dibatte tra le onde del `Samsara'.
Qui forse c'è l'aporia a cui il buddismo si espone, se vuole proporsi in chiave etica ai popoli della terra: «indifferenza» e «neutralità« non sono facilmente compatibili con «compassione» e «pietà». Se anche la compassione-pietà per il prossimo non è imposta da un precetto, ma sboccia spontaneamente dalla «retta visione», nel momento in cui la pratico intenzionalmente, significa che il prossimo non mi è indifferente (mi rivolgo a lui) e io non gli sono neutrale (so che potrei/vorrei modificarlo).
Pur abbandonando l'identificazione di «io» e «prossimo», il mio rivolgermi a "lui" in un certo modo (benevolo, o qualunque esso sia), dimostra non-indifferenza e non-neutralità (verso quella parte del tutto che chiamo «lui»). Se anche non premedito alcuna finalità, né nel prossimo («come fine e non come mezzo» diceva qualcuno) né nell'azione compassionevole che gli dedico, la mia bene-volenza non può che essere dettata dalla discriminazione bene/male: se fosse relazione gratuita e disinteressata, indifferente e neutrale, allora non distingueremmo (eppur lo facciamo) fra benevolenza e malevolenza, al punto che la non-compassione e non-pietà rientrerebbero nella visione del non-attaccamento e non-discriminazione. Queste due farebbero dunque legittimamente parte di quella «intenzione», che tratteggi, non a caso, come «volontà che deve spingere l'uomo a porsi in un rapporto di solidarietà, di benevolenza con tutti e con il tutto» (corsivo mio) ed ecco il dovere morale inteso all'occidentale...
Certo, nel buddismo tale bene-volenza coincide con la volontà "illuminata", che non può non volere ciò che una discriminazione (pre-illuminazione) definirebbe come «bene»; tuttavia, proprio tale volere compassionevole, in quanto tale, non è di fatto né indifferente né neutro.

Estinguere la propria sofferenza (dovuta all'attaccamento), non comporta estinguere anche l'attaccamento alla sofferenza altrui? A questo punto, illuminati e consapevoli della "ruota del karma", perché la sofferenza altrui non ci potrebbe anche lasciare indifferenti e neutrali? Il voto di salvare tutti gli essere senzienti è una missione tutt'altro che indiscriminante e impersonale...
Se estinguiamo anche questo ulteriore attaccamento (alla sofferenza altrui), il mondo ci sarà indifferente e noi saremo indifferenziati dal mondo; l'etica sarà allora solo un "gioco di società" fra esseri senzienti e differenzianti; gioco che ci lascerà... indifferenti  :)
#1462
Tematiche Filosofiche / Re:Cos'è la verità
16 Dicembre 2018, 22:04:45 PM
Citazione di: Ipazia il 10 Dicembre 2018, 08:37:18 AM
L'ho "ascoltata" anch'io, ieri mattina da Vito Mancuso, teologo errante, su Radio Tre. Malignamente ho pensato: che la teologia si affidi alla bellezza per sparare le sue ultime cartucce porta bene. [...] Rimane solo Dostoevskij: dio salvato dalla bellezza. Che a questo punto diventa verità.
Non so come lo intenda quel teologo, ma il rapporto fra teologia e bellezza mi sembra l'essenza delle origini dei culti: se intendiamo la bellezza come sublime (esperienza del limite, a suo modo), il passaggio al mistico (anelito a superare il limite) è un passo breve e quasi conseguenziale. Se le religioni sono nate per dare un senso (secondo la "semiopatia" tipica dell'uomo) allo stupore verso il mondo e le dinamiche umane, siamo adesso alla chiusura del cerchio: dopo aver cercato di trapiantarsi nella ragione (ma, dal medioevo in poi, quel terreno è sempre meno ospitale), la religione torna al sentimento extra-razionale per ritrovare un suolo adatto alle sue radici, e qui ha certamente migliori possibilità di germogliare.
Tuttavia per rinverdire nuovamente (e in modo nuovo) forse bisogna attendere che la pioggia del tempo lavi via un po' di quel diserbante di prescrizioni e dogmi, che nondimeno è servito a proteggere la pianta; a concimarla ci pensano già le creature che si cibano dei suoi provvidenziali frutti (senza offesa ovviamente; forse quest'ultima immagine, seppur innocua, non è proprio bucolica  ;D ).
#1463
Attualità / Re:sul diritto d'autore
16 Dicembre 2018, 18:26:58 PM
Tema complesso e dai mille aspetti, quindi abbozzo un brainstorming:

- Sulla questione dell'autorialità, Derrida, in tempi in cui le potenzialità endemiche della tecnologia erano ancora embrionali rispetto ad ora, parlava di «disseminazione», riferendosi sia ad aspetti di mutazione semantica, sia a vicissitudini postali di "invio" (oggi diremo di condivisione). Riattualizzare quella chiave di lettura potrebbe essere un'introduzione teoretica alla dialettica autore/opera.

- Il legame fra autore ed opera, per ciò che viene prodotto oggi, ha rovesciato la classica problematica dell'"esposizione" del neofita, per cui era difficile conquistare una vetrina: ora la vetrina è aperta a tutti (internet), il problema è quello di farsi identificare come autore meritevole. Prima era difficile far sapere ciò che si faceva, esporlo; ora che quasi tutti espongono, la difficoltà è emergere, non come autore ma come autorevole (artista); e spesso è inizialmente una questione di numeri: visualizzazioni, followers, etc. iniziano a contare più delle copie vendute o mostre organizzate (e sono inoltre monetizzabili secondo i principi del marketing on line).

- Se oggi è più facile creare contenuti mediatici (canzoni, film, testi o altro), è anche molto facile copiare e condividere contro la volontà del creatore; l'impatto di questa valanga di opere, informazioni e distorsioni, è un'onda d'urto sociale non sempre facile da gestire. Qui mi viene in mente un titolo: «L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica» (W. Benjamin)

- La tecnologia invita spesso ad un'appropriazione anche attiva, una condivisione creativa, tramite le modifica e personalizzazione di ciò che viene condiviso (siamo nell'epoca della parodia, della citazione, della rivisitazione, del sincretismo, etc.). Ad esempio, youtube ha integrato da anni, nel profilo dell'utente, un editor per modificare i video da caricare. Dall'altro lato, nonostante alcuni blocchi e cancellazioni attuate per motivi di copyright, è evidente che youtube non è in grado di (o non vuole?) controllare e filtrare il flusso di video caricati quotidianamente (come se 10 poliziotti dovessero controllare 1000 ingressi a un museo), con il risultato che quello che si trova nei negozi di dischi o al cinema, si trova spesso gratis anche su youtube (e che esistano programmi per scaricare e convertire i file di youtube, per non parlare di emule e torrent, è conseguenza socialmente inevitabile, considerando che fra "guardie" e "ladri" non c'è spesso nemmeno un gap tecnologico, oltre che numerico, nettamente a vantaggio dei primi).

- Armonizzare il diritto degli autori al guadagno (detto schiettamente), quello dell'opera di restare chiusa nella sua identità originaria e incontaminata (ma chissà se un giorno avremo solo "arte open source"?) e il diritto del pubblico a fruire dell'opera (sebbene oggi fruire non sia più solo contemplare e collezionare, ma anche manipolare e far circolare), richiede una griglia di priorità "di diritto" che inevitabilmente tutelerà più qualcuno a discapito di qualcun'altro. Non credo si possa avere l'autore ricco e famoso, l'opera immacolata e condivisa, il fruitore con portafoglio pieno e libero di diventare a sua volta "autore di seconda mano", chiudendo il cerchio (o è una spirale?).
#1464
Citazione di: Ipazia il 15 Dicembre 2018, 12:06:39 PM
Non intendo incartarmi sulla felicità che si manifesta come ciliegina psicologica su una torta assai più consistente di contenuti
Capisco; eppure se aspettiamo di avere tutta la torta per gustarci la ciliegina... rischiamo di morire di fame (e far ammuffire la ciliegina); forse se (ci) incartiamo (sul)la ciliegina, magari eviteremo di "non vederci più dalla fame" (messaggio non promozionale!  ;D ) .
Chiaramente, lo dico sempre partendo dalla liceità del «de gustibus» individuale.

Citazione di: Ipazia il 15 Dicembre 2018, 12:06:39 PM
la libertà. La quale, anche nella felicità più illusoria, decreta la sua debordante facoltà di trascendere ogni limite  :D Il che, per dei supposti automi, è semplicemente fantastico  ;D
Concordo sul «fantastico» (in tutti i sensi ;) ): è infatti la fantasia a distinguerci dagli automi meccanici che stiamo creando in laboratorio.
#1465
Citazione di: Ipazia il 15 Dicembre 2018, 08:13:54 AM
Che la felicità sia un parametro fragile per definire la libertà lo riconosco, ma pure che c'entri molto con la definizione datane da viator, è altrettanto indubitabile.
Ciò che mi lascia perplesso di quella definizione (oltre al sontuoso slittamento dal piano emotivo a quello esistenziale) è l'«ogni»: se devo aspettare di soddisfare ogni desiderio e ogni bisogno per ritenermi felice (se non ho frainteso), significa che getto la felicità nell'abisso dell'utopia: si creano costantemente nuovi desideri e i bisogni si rinnovano quotidianamente, dunque più ci si attacca ad essi e più ci si distacca dalla felicità? Le riflessioni del buddismo in merito risultano illuminanti.

Secondo me, la felicità che non è un'emozione provata, ma un predeterminato traguardo personale da raggiungere, è piuttosto una metafora della felicità. Trovo quindi utile la triplice distinzione di sgiombo che pur rispetta le connessioni fra piano emotivo, personale e sociale (felicità/realizzazione/giustizia).

Citazione di: Ipazia il 15 Dicembre 2018, 08:13:54 AM
andare in qualche fatiscente deposito di carne umana da lavoro nero per capire che non occorrono voli metafisici per inquadrare il problema del liberatore, libertà e connessa "felicità".
Forse le virgolette redimono la questione e forse allora mi concederai che
Citazione di: Phil il 12 Dicembre 2018, 22:01:55 PM
se lo schiavo ne è comunque contento, il disagio è tutto nella condizione di chi lo giudica nella «peggior condizione»
e sottolineo il "se" di partenza  :)
#1466
Mi ero già sbilanciato in merito, per quanto forse in modo un po' implicito:
Citazione di: Phil il 13 Dicembre 2018, 17:04:50 PM
La felicità è semplicemente un'emozione primaria, se viene provata da qualcuno (senza voler scendere nella verifica fisiologica), non credo bisogni farne una questione di geopolitica, di eroismo, di valori, di realizzazione personale.
Per scoprire le «emozioni primarie» a cui mi riferisco, basta wikipedia  ;)
Non direi quindi che è solo «avvenuta evasione od eliminazione di ogni bisogno e desiderio» (cit.), piuttosto appunto un'emozione che può essere legata a tale realizzazione di un desiderio o bisogno (ma neanche sempre: se trovo 10 euro per terra sono felice, ma non perché desiderassi trovarli o ne avessi bisogno).
#1467
Citazione di: Ipazia il 14 Dicembre 2018, 17:05:48 PM
Miracolo metafisico, da autentico mondo delle idee, riuscire ad estrapolare la felicità individuale dalle condizioni socioevolutive. Prescindendo da queste ultime.
Non sono così impudente da far appello alla tua esperienza personale di felicità (lo ammetto, è per "cavalleria sessista" ;) ), ma chiedo in generale: se qualcuno mi dice di essere «felice» (non «realizzato» o altro), prima di credergli, davvero dovrei indagare attentamente la sua condizione socioevolutiva?
Un bimbo che gioca dicendosi felice, non è davvero felice ma solo prigioniero nella "grotta della spensieratezza"?

Il «miracolo metafisico da autentico mondo delle idee» (cit.) è essere felici per la propria condizione (come insegnano alcuni monaci, aborigeni e perpetue anziane) oppure vincolare la felicità a mitici traguardi metafisici ideali che trascendono la propria condizione?
Non discuto il valore di alcuni ambiziosi percorsi personali, né voglio sottovalutare la rilevanza umana degli aspetti socioevolutivi, tuttavia parlare di «felicità» è altro tema (almeno secondo me).

Citazione di: Ipazia il 14 Dicembre 2018, 17:05:48 PM
Gli aborigeni si sono dati all'alcool appena hanno incontrato un mondo diverso dai loro dei.
Suppongo che il "filantropo" che li ha tirati fuori dalla loro grotta sia fiero e felice di tal risultato... e magari affermerà orgoglioso che "la verità rende liberi" («liberi di» sbronzarsi: in vino veritas  ;D ).


@Sariputra
Si, spesso i patiti di "abbronzatura" cercano compagni, magari che gli facciano ombra per non ustionarsi... e anche gli speleologi, d'altronde, si sentono più sicuri in compagnia; in fondo, siamo animali sociali  :)
#1468
Citazione di: Ipazia il 14 Dicembre 2018, 07:57:54 AM
Chi è dentro e chi è fuori lo dice la storia umana, la storia dell'evoluzione umana.
Forse mi sono perso nei cunicoli della mia caverna, ma si parlava di grotte in rapporto alla felicità individuale, non al successo evolutivo e/o social-culturale (rispetto al quale, chiaramente, la questione della grotta cambia di "profondità").

Se guardo l'aborigeno, il monaco zen o la vecchietta in prima fila a messa, mi viene il sospetto che possano essere felici nella loro grotta almeno tanto quanto lo sono io nella mia (seppur arredata diversamente) e, nel mio piccolo, non mi sento in dovere (verbo sempre affilato, ancor più se dotato di impugnatura etica, molti l'hanno usato per affettare il prossimo) di tirarli fuori per spiegargli che possono trasferirsi altrove, in quella che credo sia la superficie, ma è magari solo la mia grotta-attico.
«Ogni uccello ha il suo tipo di nido», come concorderebbero sia l'"ornitologo multiculturale" che il nativo americano.
#1469
Citazione di: Ipazia il 13 Dicembre 2018, 20:44:40 PM
Tu non devi dire nulla a nessuno; devi solo portarlo fuori dalla grotta.
Tuttavia prima bisognerebbe essere certi di aver ben capito chi è dentro e chi è fuori...
L'"alibi del salvatore" (potenziato dalla promessa di libertà) è uno dei più usati nel plagio delle menti altrui (e non solo nelle sette).

Citazione di: Ipazia il 13 Dicembre 2018, 20:44:40 PM
Nulla vieta il masochismo.
Lungi da me l'imporre divieti; infatti, dicevo
Citazione di: Phil il 13 Dicembre 2018, 17:04:50 PM
de gustibus  :)
#1470
Citazione di: Lou il 13 Dicembre 2018, 16:18:03 PM
trattare il libero arbitrio alla stregua di uno stato di cose, un evento, un fatto, a cui competono criteri di verificazione e falsificazione
Credo che il libero arbitrio venga solitamente supposto come «stato di cose» (libertà da) o «fatto» (libertà di) o condizione reale (appesa a stagionare sopra le aporie a cui accennavo in precedenza). Per metterlo al riparo dal campo minato della logica e della verifica semantica (se non empirica), possiamo definirlo come trascendente; tuttavia poi si porrebbe il classico problema di come tale trascendenza condizioni (causalisticamente o "liberamente"?) la nostra volontà, la nostra materia, etc.
Quel «libero» prima di «arbitrio», mi sembra in fin dei conti comportare solo una spuria (non pertinente) complicazione "controfattuale" (ma resta pur sempre solo la mia opinione).