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Messaggi - Sariputra

#1471
Se Yeoshwa non avesse promesso la "vita eterna" dell'Io, che successo avrebbe avuto il Cristianesimo come essenziale religione dell'agape? Se proprio questo Io personale, nel quale mi identifico, non fosse stato nobilitato dalla speranza di sopravvivenza eterna ( e non solo dell'Io ma di tutto il corpo "trasfigurato"...) quanti di noi non lo tratterebbero come un semplice, profondo e magari affascinante, percorso di pochi iniziati, un daoismo di natura mediorientale, per capirci? Ci domandiamo mai perché le religioni come il Cristianesimo e l'Islam abbiano fatto tanti proseliti in tutti le classi sociali dell'umanità? Forse perchè erano più "vere" delle altre o perché invece costruite a misura dell'Io umano che non accetta la sua trasformazione? Se Yeoshwa avesse detto: "Dovete amare con tutto voi stessi l'altro...ma sappiate che non ve ne verrà alcuna ricompensa, nessun vantaggio in questa vita e neppure nell'altra". Credete che staremo qui sul forum a discuterne per 32 pagine? No signori...ne parliamo e se ne parla tanto perché vogliamo sopravvivere alla morte! E' l'io , con la sua insaziabile sete di godimento, che pensa sia desiderabile vivere in eterno. Perché vivere in eterno? Se pensiamo ad una dimensione come quella prospettata dal Cristianesimo nella Parusia ci accorgiamo , se guardiamo con mente serena e sgombra di pregiudizi, che è esattamente il mondo perfetto costruito a misura dell' io umano. Per non parlare della visione del Paradiso islamico in cui non c'è solo l'eternità dell'io umano ma pure anche i suoi godimenti attuali...Tutto questo ha un sapore troppo umano, per esser vero...
Siamo capaci di amare solo per amore dell'amore? Senza aspettarci nulla? Nessuna lode e nessun biasimo; nessun paradiso e nessun inferno; nulla...se non le nostre mani vuote che lentamente muoiono?...
In queste mani vuote c'è una Bellezza che nessun "testo sacro" può descrivere, nessuna religione indicare...nessuna filosofia abbracciare...
#1472
Attualità / Re:crisi di governo e nuovo incarico
11 Dicembre 2016, 13:50:31 PM
Citazione di: mchicapp il 11 Dicembre 2016, 13:47:32 PMla scelta è caduta su gentiloni. in ben pochi sanno chi sia e che faccia abbia. il sospetto che sia stato scelto proprio perché è un illustre sconosciuto è piuttosto forte. è impossibile infatti parlarne male. a dirla tutta è anche impossibile parlarne bene. in effetti è impossibile parlarne e questo sembra che piaccia. per lo meno non dispiace. forse è il caso che ci abituiamo che le nuove personalità politiche non devono essere veramente delle personalità. il consenso? ci si deve accontentare di un non dissenso.

" Un asino intelligente a volte è preferibile ad un cavallo scemo!"... ;D ;D
#1473
Sulle difficoltà , anche da parte dei "simpatizzanti" buddhisti occidentali, di poter credere a qualcosa come la rinascita dopo la trasformazione del corpo materiale nel processo della morte, bisogna, a mio parere, tener in debito conto la sostanziale differenza filosofica tra la visione delle religioni abramitiche , con la netta separazione tra coscienza e materia ( profondamente neo-platonica, con la separazione del mondo materiale dal mondo delle idee)e quella indiana, in cui questa separazione non è mai avvenuta praticamente. Coscienza e "mondo" formano un tutt'uno per la visione e la percezione meditativa indiana: non può essere dato l'uno senza l'altro. La coscienza interna ( vinnana) è lo spazio dove si depositano e prendono forma le azioni morali volontarie o involontarie (Kamma). Nel loro prendere forma costruiscono il "mondo condizionato" come appare ai cinque aggregati e in particolare alle volizioni. Questo processo ininterrotto di costruzione dei "mondi" da parte di vinnana, condizionata dall'ignoranza sulla natura anatta di tutti i fenomeni, è la base della ri-nascita della brama, o sete inestinguibile di esistere in eterno. Nella visione specificamente buddhista ( o per meglio dire del buddhismo delle origini...) la vinnana non è un elemente inattivo , ma bensì invece estremamente creativo. Bisogna dar conto che i cinque aggregati (skandha) interagiscono costantemente fra loro e l'elemento vinnana ( coscienza) è , dagli altri quattro , continuamente proiettato all'"esterno" di sé, per aggrapparsi alle forme costruite dagli aggregati e cercarvi il piacere e la soddisfazione, ignaro che questo processo è insoddisfacente e causa di sofferenza, in quanto l'aggrapparsi a qualcosa in perenne mutamento è impossibile di fatto e frustrante. Quando si parla del processo di ri-nascita s'intende propriamente questo continuo sorgere ( o ri-sorgere) nella coscienza della brama di aggrapparsi ai mondi da lei stessa ( in comunione con gli altri aggregati che formano la persona) immaginati e costruiti. Questo processo è chiramente visto nella consapevolezza (sati-panna) quando osserviamo in noi il continuo ri-nascere del desiderio, che non riesce a trovare vero appagamento. Questo processo di ri-nascita dell'attaccamento alle proprie costruzioni mentali, da parte di vinnana, è , secondo la visione buddhista, influenzato dal potere dell'azione ( kamma). Un'azione moralmente salutare sarà dunque quella che impedirà il ri-nascere dell'attaccamento; un'azione moralmente dannosa sarà quella che farà ri-nascere l'attaccamento della coscienza alle proprie insostanziali visioni e costruzioni del "mondo". Non essendo mai avvenuta, nel buddhismo, la scissione tra vinnana e nama-rupa (mente-corpo/ nome e forma) il processo della trasformazione  del corpo ( che non è solo materia, come lo consideriamo noi occidentali, ma per il Buddha anche vinnana, cioè coscienza), spingerà l'aggregato vinnana , man mano che si chiudono le porte sensoriali ( per ultima quella dell'udito, nel processo della morte) ad introiettarsi al suo interno ( in quello che la psicologia occidentale definisce come "inconscio"), in quanto la coscienza non può esistere indipendentemente dai suoi contenuti; non trovando più contenuti a cui aggrapparsi nelle percezioni e nelle sensazioni, in quanto il corpo sta morendo, si aggrappa, per continuare ad esistere nei suoi contenuti interni. Questi contenuti interni però sono essenzialmente il frutto dell'azione volontaria ( le tracce, le impronte...)  con cui si è condotta ( in senso moralmente salutare oppure dannoso) la propria esistenza. Se questi contenuti sono salutari , cioè privi di attaccamento, vinnana non troverà nulla a cui aggrapparsi per ri-esistere e perciò si avrà la realizzazione del Parinibbana;  se invece troverà la possibilità di aggrapparsi al contenuto dannoso dell'azione darà vita a nuovo nama-rupa, si avrà perciò quella che viene comunemente definita ri-nascita, ossia ri-nascita dell'attaccamento di vinnana a nama-rupa ( ri-nascere dell'attaccamento dell'aggregato coscienza a nuovo mente-forma).
E' piuttosto complesso...spero di essere stato sufficientemente leggibile... :-\ molti termini e concezioni buddhiste non trovano analogie, se non per approssimazione, con corrispondenti idee della filosofia o della psicologia occidentale...
Per finire la mia solita, classica, immancabile citazione "dotta" ;D :
« 54. "E cos'è questa nāma-rūpa, qual è l'origine di questa nāma-rūpa, qual è la cessazione della nāma-rūpa, qual è la via che conduce alla cessazione della nāma-rūpa? La sensazione, la percezione, la volizione, il contatto e l'attenzione, questi sono detti nāma. I quattro grandi elementi e la forma materiale che deriva dai quattro grandi elementi, questi sono detti rūpa. E così questa nāma e questa rūpa sono quello che si dice nāma-rūpa. Con il sorgere della coscienza c'è il sorgere di nāma-rūpa. Con la cessazione della coscienza c'è la cessazione dināma-rūpa. La via che mena alla cessazione di nāma-rūpa è proprio questo Nobile Ottuplice Sentiero e cioè retta visione... retta concentrazione. »
« 55. "Quando un nobile discepolo ha così compreso nāma-rūpa, l'origine di nāma-rūpa, la cessazione di nāma-rūpa e la via che mena alla cessazione di nāma-rūpa... egli qui e ora pone fine alla sofferenza. È così anche che un nobile discepolo è dotato di retta visione... ed è giunto all'autentico Dhamma." »
Majjhima-Nikāya 9, Sammaditthi Sutta, "Il discorso sulla Retta Visione".

Buona domenica a tutti i lettori del forum da Villa Sariputra, immersa in una nebbia gelida che raffredda ogni ardore dell'animo...

P.S. Mi sono dimenticato di scrivere che è molto più importante , per il Buddha, comprendere come mai ri-nasce continuamente in noi l'attaccamento qui e ora, che non immaginare con la fantasia quale forma vinnana ( coscienza) andrà ad assumere dopo la trasformazione nella morte. In quanto è qui e ora che possiamo indebolire e poi annullare questo ri-nascere della sete d'esistere in eterno...
#1474
Citazione di: Apeiron il 09 Dicembre 2016, 23:24:31 PM
Citazione di: Sariputra il 09 Dicembre 2016, 23:15:26 PMProvo a entrare nella discussione anche se il mio cervello funziona ottenebrato dagli antidolorifici...succedono, questi stati dolorosi,proprio per non farci dimenticare la nostra reale natura ;D... Leggendo e rileggendo le posizioni di Apeiron e anche di Bluemax mi sembra di poter affermare che non sono propriamente posizioni buddhiste, soprattutto sulla natura dell'anatta, che è obiettivamente molto sfuggevole e di difficile comprensione( e' sicuramente il pronunciamento del Buddha più controverso e più originale, in campo religioso, a mio modesto parere...). Il primo fraintendimento è quello di ritenere ilun'illusione". Il termine "illusione" va riferito alla credenza del pensiero sulla permanenza duratura del sè e non sul sé in quanto tale. Il sè esiste ma, come tutti i fenomeni composti da aggregati, è impermanente, ossia non è dotato di sostanza propria che non sia quella degli aggregati che lo compongono( a loro volta impermanenti...). Dobbiamo sempre sforzarci di comprendere che il Buddha storico ha insegnato la via di mezzo, ossia quella visione del reale lontana dai due estremi in cui , solitamente, si rifugia il pensiero. Buddha rifiuta la visione di una sostanza eterna nelle cose e , nello stesso tempo, rifiuta la visione che le cose siano illusorie come "bolle di sapone". Ossia rifiuta in egual misura l'idea che i fenomeni (interiori ed esteriori) siano oppure non siano realmente esistenti ( qui per realmente esistente s'intende che un fenomeno sia dotato di natura intrinseca, duratura, eterna, non modificabile...). Quando si parla di non-sé ci si deve riferire alla sua inconsistenza , impermanenza e assenza di identità. Questa inconsistenza non deve essere intesa come una fantasmagoria, una magia, un "velo di maya" che come una nebbia cela la realtà del "vero sé". Non c'è alcun vero sé , al di là degli aggregati che compongono il sé. Postulare l'esistenza di un vero sé ci farebbe cadere nell'estremo positivo dell'eternalismo, chiaramento rigettato dal Buddha. Affermare però semplicemente che "il sé non esiste" ci farebbe a sua volta precipitare nella visione negativa del nichilismo, a sua volta chiaramente e indubitabilmente rifiutata da Gotama. Tutti gli asceti e i brahmani che concepiscono le molteplici ( cose o idee) come un sé, concepiscono i cinque aggregati, o uno qualsiasi di essi, ( come un sé). Samyutta Nikaya, 22:47 L'ordinaria formulazione della dottrina dell'anatta:" Questo non fa parte di me, io non sono questo, questo non è il mio io" fa ritenere da alcuni ( anche autori buddhisti...) che il buddha presupponeva l'esistenza di un "sé" al di fuori, o al di là, dei cinque aggregati ai quali si riferisce, di solito, la formulazione. Questa deduzione errata viene smentita dal Buddha stesso che dice chiaramente che tutte le molteplice concezioni di un sé sono sempre relative ai cinque aggregati. Come potrebbe formarsi una qualsiasi idea di un sé o di una personalità, se non in base al materiale costituito dai cinque aggregati e ad un fraintendimento al loro riguardo? Su che altro potrebbero essere fondate le nozioni riguardo al sé? :o Buddha, nel seguito del testo citato, afferma che questa è la sola possibile causa per la formazione delle idee di un sé: "Se ci sono il corpo, le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza, a causa di essi e dipendentemente da essi si manifesta la credenza nell'individualità ( indipendente)...e lo speculare relativo a un sé ( Samyutta Nikaya, 22: 154,155). Nessuna concezione eternalistica di un "vero sé" oltre le apparenza del sè convenzionale, e nessuna concezione eternalistica del Nirvana, in qualsiasi forma, è conciliabile con gli insegnamenti del Buddha esposti nei testi più antichi, ossia nel Canone pali. Personalmente ho trovato sempre utile tenere a mente che l'anatta ( o non-sé) è l'effetto di anicca ( impermanenza di tutti i fenomeni). Solo nella comprensione profonda, nel nostro "animo", che tutto passa si può capire la dimensione esistenziale dell'anatta. Per colui, Kacchana, che considera, secondo la realtà e con vera saggezza, l'originarsi del ( e nel) mondo, non c'é quella che nel mondo è chiamata 'non-esistenza' (natthita). Per colui, Kacchana, che considera, secondo la realtà e con vera saggezza, il cessare del ( e nel) mondo, non c'è quella che nel mondo è chiamata 'esistenza' (atthita). Questo mondo, Kacchana, è generalmente imprigionato nelle inclinazioni, negli attaccamenti e nei pregiudizi. Ma per quanto concerne queste inclinazioni, attaccamenti, rigidi atteggiamenti mentali, pregiudizi e tendenze profondamente radicate, egli ( l'uomo che ha la giusta comprensione) se ne tiene lontano, non vi aderisce, non nutre l'atteggiamento mentale: 'Io ho un sè'. Egli non ha dubbi o incertezze sul fatto che è la sofferenza, in verità, che appare ed è la sofferenza che cessa. Riguardo a questo la sua conoscenza non dipende dagli altri. Questo, Kacchana, è ciò che qualifica l'uomo che ha una giusta comprensione". (Samyutta Nikaya, 12:15). Adesso vado a bermi un pò di tachidol... :P
Come sempre ti ringrazio per la chiarezza Sariputra. Però d'altronde il Buddha dice chiaramente che per abbracciare l'anatta devi riconoscere che la ricerca del sé fallisce nei riguardi dei cinque aggregati. Quindi almeno come concetto lo devi usare e devi provare ad applicarlo alla realtà. La conclusione di tale ricerca però per il Buddha è l'impossibilità di trovare il Sé, non la sua assenza e nemmeno la sua presenza. Tuttavia almeno all'inizio devi pensare che sia possibile trovarlo altrimenti non inizi nemmeno a chiederti se gli aggregati sono o no il sé.

Che schifo il tachidol! Secondo voi mi farebbe male sciacquarmi la bocca con quel che mi resta del vino novello, ormai passato...? :-\


Ma chi è che si chiede se esiste il sé ? Anche Buddha stesso iniziava, a volte, i suoi discorsi con : "Io affermo, o monaci, che...ecc."  ;D E' evidente che c'è un senso innato del sé che può dire "Io affermo..." e questo sé esiste  in dipendenza delle parti che lo compongono ( corpo, sensazioni , percezioni, coscienza,ecc...). Un albero può esistere indipendentemente dal terreno , dalla luce , dall'ossigeno, ecc.? Non lo può fare. ma questo non significa che non ci sia "un albero"! Allo stesso modo un sé può esistere indipendentemente dai suoi aggregati? Non lo può fare, ma questo non significa che non ci sia un sé...
#1475
Provo a entrare nella discussione anche se il mio cervello funziona ottenebrato dagli antidolorifici...succedono, questi stati dolorosi,proprio per non farci dimenticare la nostra reale natura ;D...
Leggendo e rileggendo le posizioni di Apeiron e anche di Bluemax mi sembra  di poter affermare che non sono propriamente posizioni buddhiste, soprattutto sulla natura dell'anatta, che è obiettivamente molto sfuggevole e di difficile comprensione( e' sicuramente il pronunciamento del Buddha più controverso e più originale, in campo religioso, a mio modesto parere...). Il primo fraintendimento è quello di ritenere ilun'illusione".  Il termine "illusione" va riferito alla credenza del pensiero sulla permanenza duratura del sè e non sul sé in quanto tale. Il sè esiste ma, come tutti i fenomeni composti da aggregati, è impermanente, ossia non è dotato di sostanza propria che non sia quella degli aggregati che lo compongono( a loro volta impermanenti...). Dobbiamo sempre sforzarci di comprendere che il Buddha storico ha insegnato la via di mezzo, ossia quella visione del reale lontana dai due estremi in cui , solitamente, si rifugia il pensiero. Buddha rifiuta la visione di una sostanza eterna nelle cose e , nello stesso tempo, rifiuta la visione che le cose siano illusorie come "bolle di sapone". Ossia rifiuta in egual misura l'idea che i fenomeni (interiori ed esteriori) siano oppure non siano realmente esistenti ( qui per realmente esistente s'intende che un fenomeno sia dotato di natura intrinseca, duratura, eterna, non modificabile...). Quando si parla di non-sé ci si deve riferire alla sua inconsistenza , impermanenza e assenza di identità. Questa inconsistenza non deve essere intesa come una fantasmagoria, una magia, un "velo di maya" che come una nebbia cela la realtà del "vero sé". Non c'è alcun vero sé , al di là degli aggregati che compongono il sé. Postulare l'esistenza di un vero sé ci farebbe cadere nell'estremo positivo dell'eternalismo, chiaramento rigettato dal Buddha. Affermare però semplicemente che "il sé non esiste" ci farebbe a sua volta precipitare nella visione negativa del nichilismo, a sua volta chiaramente e indubitabilmente rifiutata da Gotama.
Tutti gli asceti e i brahmani che concepiscono le molteplici ( cose o idee) come un sé, concepiscono i cinque aggregati, o uno qualsiasi di essi, ( come un sé).  Samyutta Nikaya, 22:47
L'ordinaria formulazione della dottrina dell'anatta:" Questo non fa parte di me, io non sono questo, questo non è il mio io" fa ritenere da alcuni ( anche autori buddhisti...) che il buddha presupponeva l'esistenza di un "sé" al di fuori, o al di là, dei cinque aggregati ai quali si riferisce, di solito, la formulazione. Questa deduzione errata viene smentita dal Buddha stesso che dice chiaramente che tutte le molteplice concezioni di un sé sono sempre relative ai cinque aggregati. Come potrebbe formarsi una qualsiasi idea di un sé o di una personalità, se non in base al materiale costituito dai cinque aggregati e ad un fraintendimento al loro riguardo? Su che altro potrebbero essere fondate le nozioni riguardo al sé? :o
Buddha, nel seguito del testo citato, afferma che questa è la sola possibile causa per la formazione delle idee di un sé:
"Se ci sono il corpo, le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza, a causa di essi e dipendentemente da essi si manifesta la credenza nell'individualità ( indipendente)...e lo speculare relativo a un sé  ( Samyutta Nikaya, 22: 154,155).
Nessuna concezione eternalistica di un "vero sé" oltre le apparenza del sè convenzionale, e nessuna concezione eternalistica del Nirvana, in qualsiasi forma, è conciliabile con gli insegnamenti del Buddha esposti nei testi più antichi, ossia nel Canone pali. Personalmente ho trovato sempre utile tenere a mente che l'anatta ( o non-sé) è l'effetto di anicca ( impermanenza di tutti i fenomeni). Solo nella comprensione profonda, nel nostro "animo", che tutto passa si può capire la dimensione esistenziale dell'anatta.
Per colui, Kacchana, che considera, secondo la realtà e con vera saggezza, l'originarsi del ( e nel) mondo, non c'é quella che nel mondo è chiamata 'non-esistenza' (natthita). Per colui, Kacchana,  che considera, secondo la realtà e con vera saggezza, il cessare del ( e nel) mondo, non c'è quella che nel mondo è chiamata 'esistenza' (atthita). Questo mondo, Kacchana, è generalmente imprigionato nelle inclinazioni, negli attaccamenti e nei pregiudizi. Ma per quanto concerne queste inclinazioni, attaccamenti, rigidi atteggiamenti mentali, pregiudizi e tendenze profondamente radicate, egli ( l'uomo che ha la giusta comprensione) se ne tiene lontano, non vi aderisce, non nutre l'atteggiamento mentale: 'Io ho un sè'. Egli non ha dubbi o incertezze sul fatto che è la sofferenza, in verità, che appare ed è la sofferenza che cessa. Riguardo a questo la sua conoscenza non dipende dagli altri. Questo, Kacchana, è ciò che qualifica l'uomo che ha una giusta comprensione". (Samyutta Nikaya, 12:15).

Adesso vado a bermi un pò di tachidol... :P
#1476
Citazione di: Angelo Cannata il 08 Dicembre 2016, 06:14:53 AM
Citazione di: Sariputra il 08 Dicembre 2016, 00:14:54 AMIl problema del male , il suo mistero, appare veramente irrisolvibile, se esaminiamo il mondo con gli occhi del cristiano. Verrebbe facile dire che ci sono anche altri occhi per vedere...ma non è questo il punto in discussione. Credo che gia partendo dalla formula del Padre Nostro, con quel "..e non ci indurre in tentazione" si sollevino molte sopracciglia. Perché Dio, che è sommo bene, dovrebbe indurci ad essere tentati dal peccato? Che significato può avere, se Lui vuole che noi non pecchiamo? Alcuni sostengono che Dio, in piena libertà, rinuncia alla propria onnipotenza per permettere il pieno e totale esercizio della nostra libertà. Si direbbe, in questo caso, che il valore della libertà abbia più importanza per la divinità che non il peso del male. Un auto-limitarsi per permettere alle sue creature di essere. In effetti un 'entità che può tutto, può anche decidere di non volere, ossia non voler intervenire. Nel topic " Ma Dio.. è buono o cattivo?" ho ampliato il raggio d'azione del "male", includendo l'intera sofferenza delle creature senzienti; quindi anche la sofferenza non legata all'eventuale libertà dell'uomo di compiere il male, ma l'intera sofferenza naturale. In un famoso passo dei fratelli Karamazov di Dostoevskij il fratello maggiore dice al minore che la sofferenza di un bambino è motivo sufficiente per chiamare Dio in giudizio. E' anche vero però che, nei momenti di più grande, disperato dolore sorge spesso l'amore. Questa unione di dolore-amore viene simboleggiata e resa concretamente esistenziale nella Croce. La Bibbia non ci aiuta a penetrare in profondità in questo abisso; troppo ermetica, di difficile interpretazione, soggetta a mille conclusioni, troppo piena di rimandi all'AT...però mi sembra di cogliere come la voce sommessa di una corrente sotterranea, come il famoso silenzio del vento...forse dobbiamo solo ascoltare...
Il problema del "... non c'indurre in tentazione..." ha talmente disturbato molte menti devote che la Chiesa Cattolica, nella nuova traduzione in italiano della Bibbia, nel 2008, ha deciso di cambiare il Padre Nostro, traducendo Matteo 6,13 con "non abbandonarci alla tentazione". Uno schifo. La cosa curiosa è che la Chiesa predica di amare la Bibbia, ma lei per prima le fa tutta la violenza che le pare e piace. Se il testo è quello, è inutile modificarlo per renderlo comprensibile alla nostra stupidità: è molto più semplice ammettere che non lo comprendiamo, ci risulta difficile e basta. Nella Bibbia questo indurre al male da parte di Dio non è una novità: nei racconti delle tentazioni di Gesù siamo costretti a concludere che lo Spirito Santo conduce Gesù verso il diavolo affinché Gesù venga tentato; nel racconto dell'uscita degli Ebrei dall'Egitto, il testo dice che Dio indurì il cuore del faraone così che il faraone oppose un rifiuto alla richiesta di Mosé di far uscire gli Ebrei dall'Egitto; la cosa si fa ancora più sorprendente quando il testo afferma che Dio successivamente punì il faraone per aver indurito il proprio cuore. Lo stesso racconto di Adamo ed Eva è un racconto di tentazione da parte di Dio, poiché, se di quell'albero non dovevano mangiare, non si capisce il motivo per cui Dio avrebbe piantato quell'albero nel giardino. Queste stranezze della Bibbia non vanno interpretate con escamotage filosofici, come quelli che hai proposto ora tu: è più corretto tener presente che il Dio della Bibbia non è un Dio filosofico, ma trae le sue origini da una mentalità mitica, antropomorfica ed esperienziale. Anche l'idea che dal dolore possa nascere amore non funziona come spiegazione del male: se Dio può tutto, allora poteva anche creare un mondo in cui non ci fosse bisogno del dolore per far nascere amore, supponendo che sia vera quest'idea che hai proposto. Insomma, come ho detto, non esistono spiegazioni del male in grado di reggere alla critica. L'ultima proposta che hai tentato di accennare, riferita al mistero della Bibbia, a qualcosa di sotterraneo che si dovrebbe ascoltare, fa riferimento ad esperienze eccessivamente vaghe, fumose, per niente chiare, che cozzano contro l'estrema chiarezza, concretezza, materialità del male. Alla fine, questa mancanza di chiarezza viene a corrispondere alla fallimentare risposta che Dio dà nel libro di Giobbe, cioè un rifugiarsi di Dio nella propria irraggiungibilità, che non è altro che un sottrarsi alla chetichella al confronto con il problema, un nascondersi dietro un dito. Troppo comodo risolvere i problemi in questo modo. Trovo più leale ammettere che non c'è soluzione.


Non pensavo affatto di risolvere il problema, cha anche a me sembra irrisolvibile, della presenza del male e del dolore nella nostra realtà partendo e accettando la visione cristiana. Quando parlo di "corrente sotterranea" ecc. intendo proprio che questo libro ( la Bibbia) può essermi utile per investigare se c'è una strada per giungere all'essenziale e non certo la sua accettazione in toto e la sua venerazione dogmatica. Capisco ovviamente che questa "relativizzazione" non sia accettabile per la chiesa o per coloro che si dichiarano cristiani. Concordo con te che, dal punto di vista della teologia cristiana, tutte le risposte date per un'eventuale soluzione del mistero della presenza del male non sembrano convincenti. Tentare di passare ad una comprensione non teologica ma esperienziale della possibile connessione, che ho solo ipotizzato, tra dolore e amore probabilmente ci porterebbe lontano da quella che è la visione ufficiale del cristianesimo. Penso altresì che ognuno può seguire liberamente e con sincerità le eventuali risonanze che possono sorgere nel suo "cuore". Ma questa è un'altra cosa... :)
#1477
Citazione di: Angelo Cannata il 07 Dicembre 2016, 16:17:58 PM
Citazione di: Sariputra il 07 Dicembre 2016, 09:25:21 AMPraticamente , una data persona, riceve l'annuncio che è amato da Dio ( dei cristiani...) e lo si invita a riflettere su un testo "sacro" per comprendere chi lo ama, per avere consapevolezza storica del perché è amato. Questa persona però non si è mai sentita amata da Dio e rifiuta di credere che quell'annuncio sia veritiero. Cos'è allora che impedisce alle persone di sentirsi amate da Dio?
Stiamo procedendo ottimamente, siamo arrivati ad un punto cruciale della questione, che mi attendevo, e che penso sarà compreso tanto meglio proprio per tutto ciò che abbiamo discusso finora. Siamo cioè giunti al problema del male, detto anche problema della "teodicea". Ciò che hai scritto tu non è altro che una delle tante sfaccettature con cui questo problema si presenta. In termini generalissimi si pone nei seguenti termini: se Dio è infinitamente potente e infinitamente buono, perché non toglie subito tutto il male dal mondo? Se Dio ha tutta la volontà di togliere il male e tutta la capacità di farlo, perché non lo fa? Nessuno al mondo finora ha mai saputo rispondere a questa domanda. Per quanto riguarda il Cristianesimo, di fronte a chi dica di non credere in Dio perché non ha esperienza dell'essere amato da lui, non ha assolutamente nulla da rispondere a parole; la sola cosa che rimane da fare ai Cristiani in questa situazione è tentare di persona di far sperimentare all'altro quest'amore, quindi amare quella persona. Non c'è altro. Ovviamente un sacco di pensatori, teologi e filosofi si sono cimentati in questo problema. La risposta più classica che si usa dare è quella del rispetto della libertà umana: Dio non toglie il male per lasciare all'uomo la libertà di rifiutarlo, oppure per lasciare all'uomo la libertà di fare ciò che Dio non vorrebbe. Tutte le risposte tentate finora, compresa questa che ho citato, hanno in comune lo stesso difetto: possono soddisfare qualche mente teorica, ma si dimostrano comunque troppo staccate dall'esperienza pratica. Basti fare un semplice esempio: se io vedo due miei figli che si stanno strappando gli occhi a vicenda, io per prima cosa intervengo immediatamente e li separo, non mi farò scrupolo di infrangere la loro libertà di strapparsi gli occhi. Dopo ci metteremo a discutere sulla libertà e su tutto quello che vogliamo. Dio no. Dio lascia che i suoi figli si scannino a vicenda e sta a guardare inerte. Da questo punto di vista viene a risultare che io, pur con tutte le mie miserie, i miei limiti, tradimenti e ipocrisie, sono più buono di Dio. Questo è ciò che mi ha fatto decidere per l'ateismo. Tra tutte le risposte date al problema del male, ce ne sono altre due che meritano di essere ricordate. C'è la risposta che Dio stesso dà nell'Antico Testamento, nel libro di Giobbe: Dio risponde facendo leva sulla piccolezza dell'essere umano, che il quel caso è Giobbe; gli dice in pratica: "Tu non sai niente, non sai cos'è il bene e cos'è il male, la tua mente non è capace di capire la benché minima idea, e avresti la pretesa di chiedere conto a me di quello che faccio?". Questa risposta non regge alla critica: non ha senso rifugiarsi nell'irraggiungibilità, tanto più che Dio si è sempre vantato di essere vicinissimo all'uomo, raggiungibilissimo da lui. L'altra risposta è quella data da Gesù morendo in croce. Qui è questione di interpretazione. La mia interpretazione di questo fatto è che Gesù ci dice che di fronte al problema del male Dio viene sconfitto, muore, soccombe; l'unico rimedio che Gesù è in grado di proporre, e che per me è di estrema importanza e validità, è di provare a vivere l'inevitabilità del male cercando di metterci il meglio di ciò che sappiamo mettere in pratica. Si tratterebbe poi di discutere su cosa sia questo meglio; non approfondisco per non dilungarmi. Ovviamente i Cristiani interpretano invece la morte di Gesù dal punto di vista della fede nella sua risurrezione. Si tratterebbe a questo punto di approfondire cosa significa che Gesù è risorto; anche su questo preferisco non dilungarmi.

Il problema del male , il suo mistero, appare veramente irrisolvibile, se esaminiamo il mondo con gli occhi del cristiano. Verrebbe facile  dire che ci sono anche altri occhi per vedere...ma non è questo il punto in discussione. Credo che gia partendo dalla formula del Padre Nostro, con quel "..e non ci indurre in tentazione" si sollevino molte sopracciglia. Perché Dio, che è sommo bene, dovrebbe indurci ad essere tentati dal peccato? Che significato può avere, se Lui vuole che noi non pecchiamo? Alcuni sostengono che Dio, in piena libertà, rinuncia alla propria onnipotenza  per permettere il pieno e totale esercizio della nostra libertà. Si direbbe, in questo caso, che il valore della libertà abbia più importanza per la divinità che non il peso del male. Un auto-limitarsi per permettere alle sue creature di essere. In effetti un 'entità che può tutto, può anche decidere di non volere, ossia non voler intervenire. Nel topic " Ma Dio.. è buono o cattivo?" ho ampliato il raggio d'azione del "male", includendo l'intera sofferenza delle creature senzienti; quindi anche la sofferenza non legata all'eventuale libertà dell'uomo di compiere il male, ma l'intera sofferenza naturale.
In un famoso passo dei fratelli Karamazov di Dostoevskij il fratello maggiore dice al minore che  la sofferenza  di un bambino è motivo sufficiente per chiamare Dio in giudizio. E' anche vero però che, nei momenti di più grande, disperato dolore sorge spesso l'amore. Questa unione di dolore-amore viene simboleggiata e resa concretamente esistenziale nella Croce. La Bibbia  non ci aiuta a penetrare in profondità in questo abisso; troppo ermetica, di difficile interpretazione, soggetta a mille conclusioni, troppo piena di rimandi all'AT...però mi sembra di cogliere come la voce sommessa di una corrente sotterranea, come il famoso silenzio del vento...forse dobbiamo solo ascoltare...
#1478
Dopo le belle parole, immeritate, spese dall'amico Sgiombo, a cui ovviamente risponderò e ringrazierò in separata sede, e ancora in stato... confusionale  :o  cerco di rispondere al quesito postomi da bluemax su rinascita ed ego...

La domanda è: Se non ci sono , secondo la visione buddhista, né il sè né un'anima, chi o che cosa rinasce? Chi o che cosa trae beneficio o danno dai frutti delle azioni?
Fondamentalmente, secondo la mia opinione, non c'è nessuno che rinasca e nessuno che goda dei frutti delle azioni. Ciò che ri-nasce, in continuazione ( e lo possiamo già sperimentare nella nostra vita) è il desiderio e conseguente attaccamento. Il "processo" della rinascita non appartiene a nessuno, è solo un processo causato da condizioni. La comprensione di questo processo si ritrova nella teoria degli anelli della produzione condizionata ( paticcasammupada). Non mi addentro nel territorio minato dell'esperienza della rinascita, che molti bambini dicono , o a cui sembra di ricordare, aver sperimentato. Questi "ricordi" che tendono a sparire intorno ai 5-6 anni di vita sono oggetto di studio da parte di psichiatri che praticano l'ipnosi regressiva. Il più famoso è J.B. Tucker che ha esaminato migliaia di questi casi e fatto tutte le necessarie verifiche e che parla di "prove concrete della sopravvivenza  di emozioni umane ( ricordi) in presenza di specifiche circostanze ( soprattutto nel caso di morti improvvise o violente...). Un giorno forse racconterò la storia vera di Katsugoru e di Tozo. Personalmente non prendo posizione su queste cose e mi limito ( come faccio sempre... :) ) a citare il sommo poeta :
Ci sono più cose, in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia (Amleto).
#1479
@bluemax scrive:
ora la domanda... quando viene compresa la vacuità penso (forse erroneamente) che il resto degli insegnamenti perda di importanza (se non di significato) o qualcosa mi sfugge ?

Perdono di importanza e di significato se si raggiunge la buddhità (Nibbana). Ma le cause dell'attaccamento alle idee condizionate non si esaurisce semplicemente con la comprensione intellettuale del concetto di vacuità. Pertanto, come giustamente scrivi:

E' importante però non limitarsi ad una mera comprensione intellettuale, ma cercare invece di praticarlo quotidianamente anche se molto difficile.

Il concetto compreso di "vacuità ( shunyata) dovrebbe spingere alla pratica della realizzazione esistenziale , se così si può dire, della condizione.  Il rischio è di diventare degli "adoratori" della vacuità. Ovviamente questo sarebbe un assurdo dal punto di vista del Dhamma...
Quando , nel sutra del Cuore, il bodhisattva Avalokiteshvara si rivolge al mio omonimo Sariputra rivela: "Forma è vuoto, vuoto è forma. Così anche per i quattro restanti skandha".
Normalmente si mette l'accento sulla prima parte ( forma è vacuità di forma), ma bisogna considerare anche la seconda parte (La vacuità è forma). Questo per non cadere in due errori basilari: ritenere che la vacuità esista indipendentemente  dalla forma (questo porterebbe all'estremo positivo dell'eternalismo, darebbe uno statuto ontologico alla vacuità) e quello di ritenere che la forma venga annientata dalla sua vacuità ( quest'altro porterebbe all'estremo negativo del nichilismo, ambedue chiaramente rigettati dal Buddha come concezioni erronee della realtà). La vacuità è essa stessa priva di esistenza intrinseca, infatti se ne può parlare solo in rapporto alla forma: se non c'è forma , non può esserci vacuità della forma. L'aspetto più problematico è l'aspetto paradossale o "illogico" del concetto di Shunyata. Come può un elemento della realtà essere e non-essere nello stesso identico istante? Per risolvere, o almeno mitigare questo dilemma, dobbiamo tenere bene a mente che la concezione intellettuale della Vacuità non è la Vacuità di per sé. La prima è un'astrazione proiettata e creata dalla mente degli uomini, mentre la seconda è un'esperienza diretta in cui ci si imbatte nell'Illuminazione. questo significa che la Shunyata concettuale è enormemente differente dalla Shunyata esistenziale. Possiamo crearci un concetto di Shunyata, ma non possiamo percepire direttamente la Shunyata in sè mediante la concettualizzazione. Se anche sembra che il concetto di Vacuità sia in contrasto con quello di Essere ( bhava ), la Shunyata in sé non è in opposizione con gli esseri.
Se la Shunyata fosse qualcosa si potrebbe dire che è in opposizione a qualcos'altro, ma siccome la Shunyata non è per niente un "qualcosa", come potrebbe essere in opposizione o in contraddizione a qualcosa? "La forma è vuoto e il vuoto è forma" è una descrizione di una realtà esistenziale, non una teoria filosofica astratta. Quando il bodhisattva Avalokiteshvara dice "la forma è vuoto", non ha intenzione di dare a chi lo ascolta un'idea o un concetto; tenta solamente di riferire, con i limiti strutturali del linguaggio, un'esperienza di prima mano assai, assai difficile da descrivere. Dal momento che tutti i nostri concetti sono per natura limitati dal linguaggio stesso, qualsiasi concetto di Vacuità fallisce necessariamente il suo scopo. Così si finisce che la formulazione di un concetto di Shunyata annulla di solito il suo fine. Per questo i "saggi illuminati" rimangono in silenzio... :)
Come possiamo fare per non considerare la vacuità un qualcosa ?  La difficoltà mi pare inevitabile e può essere smantellata solo tramite realizzazioni dirette, esistenziali della vera vacuità. Però aggiungerei che, anche se la Shunyata non è di per sé un concetto, farsi un concetto della stessa può aiutare a colpire un bersaglio altrimenti irraggiungibile. Ovviamente, anche qui, come la famosa zattera che ci porta all'altra riva, va abbandonato una volta che si è centrato il bersaglio...
Nel suo fondamentale trattato Madhyamika-Karika (13.7), Nagarjuna dice:

Se ci fosse una cosa che è non-vuota,
Allora ci dovrebbe essere qualcosa che è vuoto.
Dal momento che niente è non-vuoto,
Come ci potrebbe essere una cosa vuota?
I Vittoriosi affermano la Vacuità
Allo scopo di rifiutare tutti i punti di vista;
Colui il quale afferma che c'é una Vacuità
Tutti i Buddha lo diranno incurabile.
#1480
Citazione di: Angelo Cannata il 07 Dicembre 2016, 06:10:49 AM
Citazione di: Sariputra il 06 Dicembre 2016, 21:23:05 PMPertanto si riafferma la supremazia dell'agire per amore rispetto a qualunque posizione e pretesa teologico/dottrinaria, che a mio avviso è "abbellimento" e non sostanza. La sostanza rimane l'amore/dono autentico a prescindere da qualunque definizione dello stesso. ... Questo significa non essere cristiani? E' solo una definizione...l'importante appare vivere l'amore, non speculare su di esso...
A scanso di equivoci, ricordo che le risposte che sto dando sono soltanto un riferire ciò che la Chiesa Cattolica risponde alle questioni di cui ci stiamo occupando. Riguardo al rapporto tra salvezza e dottrina, la possibilità di salvarsi senza essere Cristiani non è sufficiente ad affermare una sufficienza dell'amore rispetto alla dottrina. Il nocciolo della questione si pone in questi termini: se è possibile salvarsi anche al di fuori della Chiesa, a che serve la Chiesa? La Chiesa risponde presentando il suo essere come parte essenziale del progetto storico di Dio. Il progetto storico di Dio non è soltanto salvezza del mondo, ma include la volontà di farsi conoscere, quindi di instaurare con l'uomo una relazione di consapevolezza. In questo senso la salvezza agli occhi di Dio non consiste esclusivamente nell'entrare in paradiso, ma include una storia di conoscenza di lui, che egli ha voluto che iniziasse già su questa terra. Ciò può essere espresso adeguatamente col termine "rivelazione": Dio vuole non solo salvare l'uomo, ma anche rivelarsi a lui. La rivelazione storica non è indispensabile per entrare in paradiso, ma Dio l'ha voluta perché a lui non basta che l'uomo entri in paradiso: ha voluto per il genere umano anche una storia di presa di coscienza. Ora, una volta che il vero Dio, secondo la Chiesa Cattolica, è solo quello che si è manifestato in Gesù Cristo, e il massimo di consapevolezza di Gesù Cristo è possibile solo nella Chiesa Cattolica, ecco che quest'ultima viene a risultare come luogo primario, sebbene non esclusivo, per una salvezza che includa il miglior percorso di consapevolezza storica. Ovviamente, a questo punto nascerà la domanda: su quali basi la Chiesa stabilisce che il Dio giusto e vero è solo quello annunciato da lei e che quindi il massimo di consapevolezza storica si può realizzare solo in essa? La Chiesa risponde di poter affermare ciò perché essa è ispirata dallo Spirito Santo; chi stabilisce dove sta l'ispirazione storica fondamentale dello Spirito Santo? Lo stabilisce la Chiesa, in quanto incaricata dallo Spirito a fare esattamente ciò. Ovviamente in questo c'è un circolo vizioso, che però non è tale agli occhi di chi compia la decisione di credere nella Chiesa, cioè credere in Dio accettando il modo in cui egli viene presentato dalla Chiesa. Cos'è che può suscitare l'adesione al Dio presentato dalla Chiesa? L'esperienza di due cose: aver ricevuto l'annuncio di questo Dio e aver sperimentato nella propria vita l'amore da parte di questo Dio. In questo senso l'uomo può compiere questo ragionamento: visto che mi è stato presentato un Dio preciso, con certe caratteristiche e visto che da questo Dio mi vedo amato, decido di credere in lui e quindi seguirlo. Può avvenire che manchi una di queste due cose: se manca l'annuncio, ma si aderisce ugualmente, per esperienza di sentirsi amati, a questo Dio sconosciuto, abbiamo il caso dei cosiddetti "cristiani anonimi", cioè cristiani che si comportano come tali, pur non essendolo esplicitamente. Se manca l'esperienza, è impossibile aderire a Dio, anche se la Chiesa me lo annuncia. Da questo punto di vista l'esperienza contiene innegabilmente un suo primato di essenzialità, ma non può vantare di essere tutto quanto basta, visto che, come ho detto prima, a Dio non basta che tu stia bene, ma vuole anche che tu sappia chi è che ti ha fatto stare bene, non per farti sentire obbligato nei suoi confronti, ma perché si instauri con lui una relazione che sia fatta anche di consapevolezza. Diversamente, si potrebbe pensare che anche una pianta o un animale stanno bene, ma non instaurano con Dio un rapporto di consapevolezza.

Si presenta sempre il problema dell'annuncio e della credibilità di coloro che annunciano...
Praticamente , una data persona, riceve l'annuncio che è amato da Dio ( dei cristiani...) e lo si invita a riflettere su un testo "sacro" per comprendere chi lo ama, per avere consapevolezza storica del perché è amato. Questa persona però non si è mai sentita amata da Dio e rifiuta di credere che quell'annuncio sia veritiero. Cos'è allora che impedisce alle persone di sentirsi amate da Dio? Probabilmente verrà detto loro che è lo stato di peccatori orgogliosi che impedisce di sentirsi amati da Dio; al cessare dello stato di peccatori diventa "naturale" il sentire la presenza amorevole del Dio. Però non è forse proprio il non sentirsi amati da Dio ( o più in generale da nessuno...) che genera lo stato di peccatore orgoglioso? Se la persona vivesse costantemente nella consapevolezza e nella sensazione del suo stato di creatura amata da Dio non potrebbe certo realizzare lo stato del non sentirsi amata da Dio... 
Per sentirsi amata , la persona in questione, dovrebbe essere cristianamente amata, fin dalla più tenera età, dalle persone che la circondano. Ma questo spesso non avviene. A volte i genitori stessi non trasmettono amore , incapaci di farlo, alle loro creature...Perché questo avviene, se è volontà di Dio stesso che tutti lo conoscano e lo amino? Perché nei cuori , gelidi per la sofferenza di vivere in un mondo privo d'amore, privo persino dell'amore di molti che dicono di sentirsi teneramente amati da Dio, si siede implacabile il senso del vuoto d'amore?
Quel vuoto però interroga, è vissuto come una mancanza, sorge la ricerca del perché si prova quel vuoto e se per caso si possa colmare...
#1481
@ A.Cannata scrive:

Se parliamo di sforzo, è necessario precisare da dove può nascere questo sforzo. C'è una sola origine che lo rende possibile: l'essersi sentiti amati da Dio.

 Lungi da me l'intenzione di contraddire una versione "professionale" dell'agape. Ma questa affermazione come può essere intesa pragmaticamente nella comune esperienza del vivere?  Forse che tutti noi sperimentiamo il "sentirsi amati da Dio" nella nostra vita? Non si può affermare che tutti si sono sentiti amati da Dio nella loro vita , perché io potrei obiettare che io "non mi sono mai sentito amato da Dio" ( quel particolare dio di cui stiamo parlando...) In realtà sperimentiamo una moltitudine di sentimenti, tra questi è possibile anche l'agape, ma noi non siamo in grado di riconoscerlo. Mancando questa possibilità di riconoscerlo, tra il flusso continuo di sensazioni in divenire, viene a mancare le premessa stessa che sta alla base dell'atto di fede. Se infatti la Grazia, che come giustamente scrivi è gratuita, può essere riconosciuta in noi solo attraverso segni esteriori ( testi sacri e loro interpretazione teologica dottrinaria) ne viene escluso colui che non possiede la "chiave"  di comprensione dei segni. Se però questa persona, senza aver mai letto la Bibbia dei cristiani e senza mai aver partecipato ad un'eucarestia, vive con pienezza di amore/dono la propria esistenza, può essere escluso dalla "salvezza"? Ovviamente no, se no questo andrebbe a contraddire la bontà di Dio e l'insegnamento stesso del Cristo. Pertanto si riafferma la supremazia dell'agire per amore rispetto a qualunque posizione e pretesa teologico/dottrinaria, che a mio avviso è "abbellimento" e non sostanza. La sostanza rimane l'amore/dono autentico a prescindere da qualunque definizione  dello stesso.
Sono consapevole che il mio "abito mentale" è condizionato dalla visione buddhista,  che sorge essenzialmente come critica di ogni speculazione  e dogmatismo, facendo dell'esperienza il suo fondamento. L' amore che può essere dono è essenzialmente un'esperienza del vivere; dal mio punto di vista  questa è una buona base per investigare se questo amore possa sanare i nostri dubbi riguardo all'amore stesso. In definitiva si può credere nell'agape e viverlo con sincerità a prescindere da qualsiasi ingabbiatura dello stesso all'interno di una religione costituita . Questo significa non essere cristiani? E' solo una definizione...l'importante appare vivere l'amore, non speculare su di esso...
#1482
Citazione di: donquixote il 05 Dicembre 2016, 23:38:32 PM
Citazione di: Sariputra il 05 Dicembre 2016, 22:56:39 PMAttualmente la teologia indica l'agape come amore disinteressato, fraterno, smisurato ( Wikipedia). Mi sembra che , nella primitiva chiesa, essa indicava anche il momento della celebrazione eucaristica comunitaria e fraterna, come un vincolo fraterno d'amore. Penso che l'espressione come amore/dono indica l'amore che va verso l'altro e non il solo sentimento mistico d'amore tra Dio e la sua creatura e ne sottolinea la gratuità. Il termine amore è generico perché può indicare anche l'eros, in cui è presente una componente di attrazione fisica. Personalmente non mi dispiace la traduzione come "amore/dono", mi sembra in linea... :) @Apeiron L'amore disinteressato non mi appare come qualcosa di irraggiungibile. Arduo sicuramente sì, ma non irraggiungibile...
Visto che sei molto abile con la logica e l'immaginazione, prova ad immaginare di vedere realizzato l'ideale che predica la Chiesa, ovvero che ognuno offra se stesso all'altro in maniera totale e disinteressata. Intendo ogni persona sulla terra che realizza questo ideale. Cosa ne sortirebbe? Tu mi spieghi come vedi questo mondo ideale e poi ti dico come lo immagino io, poi confrontiamo i risultati e tentiamo di fornirgli un senso logico e soprattutto realistico, e vediamo come dovrebbe diventare il "mondo perfetto" secondo gli insegnamenti della chiesa moderna. Questo "giochino" vale ovviamente per chiunque ci voglia provare, garantisco che se fatto seriamente è alquanto illuminante.

Immaginare il "Regno" nella sua attuazione immanente è impresa titanica. Mi vengono in mente alcune conseguenze :
- Cesserebbe totalmente la Paura ( dell'altro ) in quanto amandoci sinceramente tutti non avremmo alcun timore della cattiveria altrui.
-Cesserebbero di conseguenza le Leggi umane che arginano e disciplinano la bestia umana e il suo egoismo.
-Cesserebbe la proprietà privata. Non avrei alcun bisogno di qualcosa di "mio, in quanto tutti condividerebbero tutto con generosità e amore.
-La casa in cui vivo sarebbe un porto di mare, con gente che viene e che va, tutta amabilmente accolta e ristorata con i beni che mi sarebbero messi a disposizione da tutti. Io stesso entrerei liberamente nelle altre case per usare il loro bagno , se il bagno dell'edificio in cui vivo fosse occupato da altri. ;D
-Cesserebbe qualunque forma di consumismo personale, in quanto tutti i beni disponibili sarebbero al servizio di tutti e sempre scambiabili a seconda delle necessità.
-Ci si dividerebbe amorevolmente, si farebbe a gara si potrebbe intuire, per sollevarci vicendevolmente dai lavori più gravosi, tipo pulire le fogne e le latrine.
-Le persone sofferenti e ammalate sarebbero sostenute da tutti i vicini e non solo da pochi familiari.
-Non si ucciderebbero più animali per consumo di carne, trovandolo odioso e rivoltante segno di violenza. Le bistecche sarebbero sostituite dal seitan e dal tofu...
-Sparirebbero tutte le armi e tutti gli eserciti e ogni corpo di polizia e di controllo della bestia umana e del suo egoismo. Sarebbero infatti del tutto inutili...
-Tutte le diatribe ( tipo incidente stradale o altro...) sarebbero amorevolmente risolte, visto che non sarebbe possibile ravvisare dolo volontario in nessuno...
-Le scuole insegnerebbero per prima cosa ad amare Dio , ma non sarebbe difficile in quanto tutti i bimbi e i ragazzi già lo amerebbero naturalmente. Diciamo che approfondirebbero la Bellezza di quest'amore. In subordine si insegnerebbero i vari mestieri  così che tutti possano cavarsela nell'intercambiabilità continua, data dall'aiutarsi e sollevarsi a vicenda dalla fatica...
-Le distinzioni tra ricco e povero, naturalmente, scomparirebbero. Usufruendo tutti di tutti i beni disponibili, non ci sarebbe più alcuna scala gerarchica.
-Non ci sarebbe alcun governo e nazione con i suoi confini. Sarebbe assurdo e totalmente inutile.
- E così via...
Già da questo mi pare che i vantaggi supererebbero di gran lunga gli svantaggi. Tutta l'unica società umana globale sarebbe priva del "mio". Ogni senso di possesso personale cesserebbe...
#1483
Citazione di: Angelo Cannata il 06 Dicembre 2016, 02:03:00 AMCredo che siate fuori strada, perché siete tornati a trascurare il principio essenziale che vi avevo citato. Se vogliamo approfondire il significato di agape al di fuori del Cristianesimo è un conto; ma se vogliamo indagare cosa significa nel Cristianesimo, è d'obbligo vincolare il suo significato alla figura di Gesù Cristo. Questo ha delle conseguenze importanti: - significa che per rendersi conto del suo significato il lavoro principale da fare non è l'indagine filologica sul termine (cosa pur sempre ottima), ma l'indagine sul modo in cui Gesù Cristo l'ha realizzato; in questo senso è significativo Gv 15,12, "Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amato" in cui la parte essenziale è il riferimento finale: se volete sapere come si ama, dovete considerare come io vi ho amato; - ne consegue inoltre che la sorgente dell'amore non è lo sforzo umano di amare: lo sforzo umano si trasforma in un semplice consenso a far sì che l'amore di Gesù Cristo agisca in se stessi; una volta che il discepolo ha acconsentito a seguire il Maestro, non è più il discepolo ad amare, ma Gesù che ama in lui; ciò significa che da quel momento qualsiasi atto d'amore del discepolo, sebbene macchiato della peccaminosità del discepolo, è già redento, cioè contiene in sé la perfezione dell'amore del Maestro; in altre parole, anche se nel tuo compiere un atto di carità per il prossimo ci possono essere di mezzo tornaconto, intenzioni sbagliate, spinte egoistiche, in mezzo a tutte queste magagne rimane il fatto che ormai è Gesù Cristo che ama in te, quindi, pur con queste magagne, il tuo atto d'amore contiene ormai in sé la perfezione dell'amare divino. Ciò contiene un altro presupposto implicito: che l'amore di Dio, essendo infinitamente più grande del peccato, è in grado di vincere il peccato annullando ogni possibilità di rivincita da parte del peccato; cioè, se è Gesù Cristo che ama in te, i tuoi peccati non possono più nulla contro tale amore; - da qui viene un'altra conseguenza, che può risultare strana, ma è anche impressionante nella sua capacità di incoraggiare: se hai dato il tuo assenso affinché l'amore di Gesù agisca in te, da quel momento amare non implica più nessuno sforzo: sarà lui a vincere i tuoi peccati; da ciò consegue la scandalosa facilità con cui Gesù perdonava e che gli procurò la messa in croce, accusato di essere complice dei peccatori proprio per quest'inaccettabile facilità a perdonare; da tener presente che anche l'assenso a lasciar agire l'amore di Gesù in te non implica nessuno sforzo, poiché tale assenso non è altro che la fede e la fede è essenzialmente un dono di Dio, non uno sforzo umano. Da questo punto di vista essere Cristiani è la cosa più facile di questo mondo ed è per questo che il Cristianesimo è tutto composto di peccatori e traditori, una scelta consapevole operata da Gesù stesso. Il discorso sarebbe ancora da estendere, poiché qui subentrerebbe poi la polemica tra la posizione protestante e quella cattolica. Ho approfondito ciò per chiarire l'erroneità dell'affermazione scoraggiata di Apeiron:
Citazione di: Apeiron il 05 Dicembre 2016, 23:04:30 PML'amore disinteressato secondo me realisticamente lo raggiungi temporaneamente (ahimé io dubito anche di riuscire ad arrivare a questo livello) ma provarlo sempre significherebbe eliminare ogni egoismo, avversione ecc. Avercelo sempre mi sembra ,se non irragiungibile, tanto (ma proprio tanto) arduo (un po' come il Risveglio del buddhismo).

Se in noi fosse solo il Cristo ad amare, ne conseguirebbe che non ci sarebbe alcun valore personale nell'amare e quindi nessuna possibilità di giudizio, tanto più se questo assenso a lasciar agire in noi l'agape del Cristo non fosse per sforzo personale , ma per semplice benevolenza divina e a suo assoluto e insindacabile giudizio. Dovremmo trarre la conclusione che la salvezza è già predestinata da Dio stesso e così pure la dannazione. Se non siamo noi  ad amare, non esiste libertà d'amare. Questo però cozza contro il concetto di Dio come sommo bene e buon pastore, che lascia le novantanove pecore nell'ovile e va in cerca di quella smarrita. A mio parere quando si afferma che è Cristo che ama in noi, significa stabilire una comunione tra l'agape da noi liberamente esercitato e l'agape di Dio stesso. Nonostante lo stato di "peccatori" il bene raggiunge l'altro. Se , per es., io visito l'ammalato, compio il bene indipendentemente dal fatto che io sia un santo o che, dieci minuti prima, sia andato con una prostituta. In ogni caso io visito l'ammalato. Quando  dice:"amatevi l'un l'altro, come io vi ho amati" stabilisce la forma dell'esercizio dell'agape secondo Yeoshwa, ossia perdonando. Il perdonarsi diventa l'atto pratico della manifestazione dell'amore tra noi e in Cristo. Pensare che la Grazia d'amare venga data da Dio, semplicemente, e tutto sta nell'accettarla o rifiutarla comporta il problema reale di cui parla Apeiron:-Ma se io dubito di questa Grazia come faccio ad accettarla o rifiutarla?-Donde viene il dubbio se ho la Grazia?- E se non ho la Grazia significa che Dio fa preferenze, concedendola ad alcuni e ad altri no?- Ma questo, nuovamente, mi sembra cozzare contro l'affermazione di Yeoshwa che Dio è Padre buono. Un padre buono ovviamente non fa differenze tra i suoi figli ( e infatti nella famosa parabola non ne fa...). Forse, da quel che ho capito della tua posizione, mi dirai che è proprio Yeoshwa ad essere contradditorio... :) :-\ 
Per me le contraddizioni nascono dalla struttura stessa del linguaggio. Yeoshwa, limitato come tutti all'interno del Logos, non può far altro che indicare e cerca di bypassare la struttura stessa del linguaggio limitante formulando la sua visione del Padre e del Regno attraverso l'uso delle parabole, dei racconti e con la sua testimonianza vivente.
#1484
Citazione di: donquixote il 05 Dicembre 2016, 21:39:08 PM
Citazione di: Sariputra il 05 Dicembre 2016, 20:54:00 PM@ Donquixote scrive: L'agape evangelico non c'entra nulla col dono o con il concetto di amore cui siamo soliti riferirci oggi, che è una degenerazione successiva arrivata sino a noi per poi esplodere negli ultimi due secoli e oscurare completamente il senso originario, altrimenti il testo greco non avrebbe usato il termine agape ma il vocabolo philia, da cui appunto filantropia. Il termine philia mi sembra indichi un amore di tipo "amichevole" , mentre il termine agape indica un tipo di amore più prettamente spirituale che può giungere fino all'auto-annientamento ( kenosis). Se intendi che negli ultimi tempi la chiesa pratichi più philia che agape , posso essere d'accordo con te...
Non mi sembra proprio che la kenosis sia legata all'amore, o almeno non a quello che si intende normalmente e che anche tu esprimi con "amore/dono". La kenosis è (per quanto anch'esso sia un concetto alquanto frainteso oggi) l'annullamento dell'io che si risolve nel sé universale, praticamente il Moksha degli induisti, o il Nirvana, o il Satori, e via dicendo, e dunque non ha alcuna attinenza con l'amore come filantropia che è il moderno concetto cristiano di carità (e per inciso anche il fatto che le Bibbie moderne traducano "agape" con "carità" mentre fino a 70/80 anni fa si traduceva molto più correttamente con "amore" è segno di degenerazione delle esegesi). Negli ultimi tempi la Chiesa predica e pratica solo philia (magari sino al punto di predicare il "sacrificio" proprio a vantaggio dell'altro che non mi sembra per niente un concetto solamente "amichevole") perchè non ha più la benchè minima idea di cosa sia agape.

Attualmente la teologia indica l'agape come amore disinteressato, fraterno, smisurato ( Wikipedia). Mi sembra che , nella primitiva chiesa, essa indicava anche il momento della celebrazione eucaristica comunitaria e fraterna, come un vincolo fraterno d'amore. Penso che l'espressione come amore/dono indica l'amore che va verso l'altro e non il solo sentimento mistico d'amore tra Dio e la sua creatura e ne sottolinea la gratuità. Il termine amore è generico perché può indicare anche l'eros, in cui è presente una componente di attrazione fisica. Personalmente non mi dispiace la traduzione come "amore/dono", mi sembra in linea... :)
@Apeiron
L'amore disinteressato non mi appare come qualcosa di irraggiungibile. Arduo sicuramente sì, ma non irraggiungibile...
#1485
@ Donquixote scrive:

L'agape evangelico non c'entra nulla col dono o con il concetto di amore cui siamo soliti riferirci oggi, che è una degenerazione successiva arrivata sino a noi per poi esplodere negli ultimi due secoli e oscurare completamente il senso originario, altrimenti il testo greco non avrebbe usato il termine agape ma il vocabolo philia, da cui appunto filantropia.


Il termine philia mi sembra indichi un amore di tipo "amichevole" , mentre il termine agape indica un tipo di amore più prettamente spirituale che può giungere fino all'auto-annientamento  ( kenosis).
Se intendi che negli ultimi  tempi la chiesa pratichi più philia che agape , posso essere d'accordo con te...