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Messaggi - Visechi

#151
"Ma non esiste alcuna Verità del Nulla"

Il Nulla (ex Nihilo)

Non è sicuramente facile definire o stabilire cosa effettivamente sia quella particolare 'condizione' (termine improprio) che noi definiamo il Nulla. Non è neanche facile immaginare se realmente il Nulla esista. Anche i termini che si è costretti ad utilizzare per provare a mettere insieme una sua definizione, appaiono immediatamente dei controsensi, risultando, infatti, immediatamente del tutto inadeguati. È impensabile ipotizzare di arrivare a 'guardare' il Nulla. In effetti, se dovesse esistere non sarebbe più tale. Come si potrebbe definire o spiegare il Nulla? Non credo sia corretto immaginare di farlo coincidere con uno stato o condizione della realtà ... ci troveremmo immediatamente al cospetto di un paradosso insanabile ed irrisolvibile. Non credo neppure che il raziocinio possa venirci in aiuto; non è la speculazione intellettuale che potrà mai avvicinarci a comprenderne l'essenza, attraverso un'indagine 'diretta' circa le sue caratteristiche peculiari- quali caratteristiche poi? -. Non può essere una ricerca delle sue qualità (inesistenti, poiché stiamo parlando di un 'non qualcosa' che racchiude in sé l'insieme di 'tutto quel che non è').
Qualcuno, non ricordo chi, una volta disse: <<Un vero "nulla" non esiste, e non può assolutamente esistere. Se si dice che il "nulla" "esiste", deve necessariamente essere "qualcosa", altrimenti non esisterebbe! Soltanto quello che è qualcosa, può esistere...>>
Credo che sia corretto.
Sto inseguendo questa irrealtà, ho la sensazione che ogni qualvolta arrivo a percepirne o intravederne la coda e mi accingo a coglierne l'essenza, questo (il Nulla) mi sfugga, si mascheri, si trasformi in qualcosa d'altro, riproiettandomi  in qualcosa di diverso, di profondamente diverso. E' probabile si tratti solo di una limitazione umana: l'impossibilità d'immaginare il Nulla: ciò che immagino 'è', quindi non è 'il Nulla'.
Non è certamente l'indagine diretta, che pretenda di guardare "faccia a faccia" questa ir-realtà, ad aver ragione della sua ineffabile presenza. Dobbiamo ricorrere a quella che in altre materie speculative è denominata indagine induttiva. Si deve partire necessariamente da un diverso punto di visuale, da un'altra prospettiva. Se non possiamo inferire il Nulla approcciandolo con un'analisi che osservi il 'fuori', forse si può lambire la sua cogente vuota consistenza attraverso un'osservazione dell'intimo nostro, della nostra sfera emozionale.
Provo a partire da un altro punto. Ad analizzare me stesso, per vedere se nell'intimo recepisco un qualcosa che non c'è (altro paradosso).
Spesso succede che si avverta una strana sensazione di vuoto, di essere circondati dal non senso, di far parte del non senso. Un dolore profondo pervade l'essere. Non vi sono cause apparenti. Non si riesce a risalire a problemi scatenanti questa particolare e dolorosa condizione. Eppure, anche in assenza di motivazioni apparenti, di cause scatenanti, noi subiamo, anche in maniera molto intensa, questa particolarissima situazione, spesso passeggera: una meteora che annichilisce e fiacca le energie e la nostra voglia di fare. Cosa può essere questa sensazione? Chimica del cervello? Che tristezza, no, non credo sia solo questo. Forse, nel nostro intimo, inconsapevolmente, percepiamo ed entriamo in contatto con la vacuità, con 'il Nulla'. Non siamo in condizione di descriverlo. Il Nulla sarebbe impercettibile ed inesistente, ma produrrebbe delle alterazioni della nostra sfera percettiva ed emozionale, per cui non sarebbe corretto immaginare che noi avvertiamo il Nulla in maniera 'diretta', ma che, viceversa, percepiamo, anche chiaramente, le manifestazioni cogenti che lo stesso produce sui nostri sensi.. Le percepiamo e le subiamo ... per cui avvertiamo, appunto, l'esistenza di un 'non qualcosa'. Succede, nessuno lo può negare.
Parlo di microcosmo, di un 'Nulla' a livello umano.
#152
Citazione di: Freedom il 18 Novembre 2024, 00:03:02 AMAmmetto che mi sono un pò perso nel leggere questa peraltro interessante discussione.

C'è, tra le tante :D una cosa che non mi è chiara e che tuttavia mi piacerebbe sapere. Puoi perdonarmi Visechi, se ti pongo una domanda leggermente o, forse, anche senza il leggermente 8) Off Topic?

Chiedo scusa anche perché è molto diretta ma, spero, non indelicata.  Vado a bomba: sei agnostico o ateo?


Ateo, assolutamente ateo che però cerca di porsi nella prospettiva del sacro.
#153
Dietro di esse, lasciata la massa al suo destino, rimane l'unica cosa su cui vale la pena lavorare: la propria vita, la propria cultura, le proprie amicizie, i piccoli o grandi contributi  di qualche persona che da poco si aggira per questo mondo etc.

Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro
 perché il Male ed il Potere hanno un aspetto così tetro?
 Dovrei anche rinunciare ad un po' di dignità,
 farmi umile e accettare che sia questa la realtà?

Il Potere è l'immondizia della storia degli umani
 e anche se siamo soltanto due romantici rottami,
 sputeremo il cuore in faccia all'ingiustizia giorno e notte:
 siamo i "Grandi della Mancha",
 Sancho Panza... e Don Chisciotte!

 
Preconizzi o auspichi la resa. Un ritrarsi in noi stessi ed aver cura solo del nostro io. Credo che la cura che caldeggi o vaticini sia più che altro la principale causa del Male che rende evidente la verità del Nulla. Un grande statista della mia regione disse un giorno: "Ci si salva e si va avanti se si agisce tutti insieme".
È il solipsismo individualista, che nutre e si nutre di edonismo, il punctum dolens del vivere comunitario. Abbiamo velato la verità del Nulla investendo in relazioni e tessendo legami. Oggi abbiamo rinunciato ad essere animali di relazione e l'homus technologicus ha preso il sopravvento. L'ordito che apparecchiamo ai nostri sentimenti ed alle nostre emozioni non è più fatto di carni ed animi che s'incontrano, si parlano, si con-fondono, si amano. È costruito su intelaiature costituite da microchip e le emozioni che trasmettiamo o riceviamo sono pixel che non eccitano i sensi, non creano attesa, non producono ansie dovute all'attesa di un incontro. Sono effimere come lo è il display cui le affidiamo. La tecnica non costruisce fini, non li proietta in un oltre escatologico nutrito dalla speranza. La tecnica non ha senso, non lo porta con sé, non lo edifica. Deve solo funzionare. Affidando la nostra biografia a scatole di alluminio che ottundono le speranze, fiaccano lo spirito e annacquano la nostra umanità, stiamo perdendo ciò che più d'altro edifica l'uomo: la possibilità di fare esperienza della vita e il sovrano insegnamento che l'errare ci impartisce. Perso l'insegnamento dovuto all'errore, ci trasformiamo in errabondi dimentichi di essere in primo luogo viandanti. Persi i punti di riferimento, smarrito Marx, ucciso Dio, obliamo l'etica e ricusiamo l'homo moralis. La noia è l'abito che riveste le nostre giornate e uccidiamo il tedio ammazzando il primo che incontriamo per strada, senza un perché, senza odio, senza emozioni. Non c'è bisogno di odio perché ormai abbiamo dissecato la fonte primaria del nostro sentirci parte di un tutto: non ci identifichiamo col prossimo, percepito ormai come un corpo estraneo, neppure ostile, cui non riconosciamo il diritto di abitare il mondo.
La verità del Nulla ci ha resi inadatti alla vita, monadi senza meta, errabondi che non approdano in un porto che dia requie. Noncuranti di tutto, rifiutiamo di partecipare. Indifferenti, mettiamo il nostro futuro nelle mani di esseri privi di scrupoli. Esaltiamo l'ignoranza crassa e avversiamo chiunque ci faccia notare il nostro inesorabile precipitare entro un'area priva di senso e densa di Nulla.

Ma davvero dovremmo arrenderci alla protervia del Nulla e dovremmo tirarci indietro perché il Male ed il Potete hanno un aspetto così tetro? Dovremmo anche rinunciare ad un po' di dignità, farci umili e accettare che sia questa la realtà?
 
 
#154
Come esordio mi preme compiere un tentativo, estremo e vano, ne son conscio, di farti notare la singolarità dei costanti inviti che, anche in modo indiretto, rivolgi ad un'immaginata platea di lettori, forse estasiata dal tuo eloquio. Appelli che, a mio parere, sono sufficientemente emblematici e sintomatici del tuo particolare approccio alle tematiche che volta per volta ti vedono impegnato (l'ho notato abbastanza spesso) e dello specioso e autoreferenziale modo di porti nei confronti non solo dell'interlocutore di turno, ma, ben più singolare, rispetto ad un auditorio che, stante il tuo atteggiarti a magister, presumi avvinto dal tuo argomentare. Insomma, singolare è che, nell'esprimere il tuo pensiero (più che lecito), non ti esimi dal montare in cattedra per riprendere e rampognare il discente: "Il lettore può prendere atto che..."; "il lettore avveduto saprà capire che..." e via appellando, richiamando ed invitando.
Che necessità hai di richiamare un immaginato auditorio a convenire con i tuoi fraintendimenti? Insicurezza? Probabile si tratti dall'avvertito scricchiolio di certezze indefettibili più volte espresse ma mai dimostrate, solo enunciate. In effetti, nel prosieguo del tuo ultimo intervento qualcosa ribolle e trans-pare.
Non siamo su un palcoscenico, attorniati da un pubblico avvinto che possa simpatizzare per l'uno o per l'altro. Non immaginarti neppure su un pulpito. Te lo faccio notare perché se dovessimo proseguire a concentrare la nostra attenzione sul rispettivo interlocutore, non faremmo troppi passi avanti nella comprensione della tematica testé affrontata. Discuteremmo di noi, non d'altro, e cadremmo in una noia mortale – almeno io -, mentre il tuo estasiato auditorio ben presto ci scanserebbe, con poco danno per me, ma grave nocumento all'ipertrofia dell'ego... tuo.
Orsù, dunque, compiamo un piccolo sforzo ed asteniamoci dal focalizzarci sulle nostre persone... argomenti!
Entriamo nel merito.
 
Rilevo che, pur con qualche timidezza, testimoniata dall'utilizzo del termine "esplicita", pian piano, forse, stai prendendo commiato da qualche indefettibile certezza per convenire con il buon senso e l'esperienza umana sul fatto che non sia "necessario possedere una concezione di Dio". L'esplicita trattiene qualche riserva che potrebbe rimettere pienamente in gioco l'irrinunciabile necessità. Rinuncia all'esplicita e il concetto lo ritengo condivisibile. Più avanti riproponi il concetto ("Essa rappresenta una non esplicitezza dell'Assoluto, della Trascendenza, che vengono pensati senza ciò che la parola e l'idea di Dio significano") che, per semplificare, provo a definire "esplicitazione di Dio". Insomma, parrebbe proprio che tu, conscio dell'incombente commiato, voglia comunque aggrapparti alla possibilità che la "concezione di Dio", pur non essendo presente alla coscienza, possa essere ben viva in forma "non esplicita". Un concetto che assimilerei a quello espresso da Mancuso e al suo "principio passione", cioè un'energia eccedente la mera fisicità della realtà, non riducibile e non riconducibile alla vita psichica dell'individuo. Non è chiaro, però, se aderisci o meno a questa prospettiva, giustamente da te definita "non teista", ma non importa scoprirlo. Se non altro hai almeno concesso la possibilità che la tensione umana verso la Trascendenza (che io confermo pienamente), possa prescindere in qualche misura dalla "necessità di Dio" - diversamente da quanto da te a più riprese sostenuto -, almeno in forma "esplicita". Un passo avanti, anche se non del tutto soddisfacente. Confermo e ribadisco che io sostengo che nessuno è sufficiente a sé stesso, non capisco perché continui ad insistere su un punto che non è da me messo in discussione – "La tesi che tu sostieni sulla autonomia completa dell'uomo attesta questa tragica inversione" -. Viceversa, io sarei dell'opinione che la innegabile e ben radicata tensione umana verso la Trascendenza approssimi il suo ospite a percepire il 'pieno senso del Nulla' e la 'proterva violenza del Vuoto', comunicandogli l'intero 'significato della Morte'.
 
(Nobil natura è quella/ che a sollevar s'ardisce/gli occhi mortali incontra/ al comun fato, e che con franca lingua,/ nulla al ver detraendo,/ confessa il mal che ci fu dato in sorte...
 
Sola nel mondo eterna, a cui si volve/ Ogni creata cosa,/ In te, morte, si posa/ Nostra ignuda natura;/ Lieta no, ma sicura/ Dall'antico dolor.)
 
C'è chi sostiene, credo non senza ragione, che la percezione, se non la comprensione, dell'ulteriorità (l'Infinito ne è testimone) sia più appannaggio della poesia, cioè della nostra sfera emozionale che di quella razionale, cioè della filosofia.
La necessità di dar requie a quest'ansia, ben colta da Baudelaire e la sua ennui, ne La Nausea di Sartre, il Conatus essendi di Spinoza, l'Elan vital di Bergson (seppur in apparenza diversi nella loro enunciazione, riconducibili tutti alla medesima radice), rende necessaria una risposta. C'è chi, Al ver detraendo, abbraccia una fede (in Dio, ideologica etc...), chi, invece, Nulla al ver detraendo, non si consegna all'Illusione di Dio o di Marx. Sostengo che l'abbraccio divino non sia troppo diverso dall'abbraccio di Marx: entrambi escatologici, entrambi soteriologici, entrambi effimeri. È mia precisa opinione (questo solo posso darti, questo posso dirti) che entrambi (Marx, con i piedi per terra e Dio, con gli occhi volti al cielo) siano effetti diretti del nostro connaturato mal di vivere. Con la differenza che Marx non promette esistenze ultra mondane, non infetta l'umanità con una colpa originaria che andrebbe emendata, non racconta di un Dio crocifisso, non china il capo su un Golgota che non ha mantenuto la promessa del Regno (se vuoi ci intratteniamo su questi meravigliosi concetti).
Quel che tu definisci "spiritualità", alludendo ad un quid di realtà che sia oltre la nostra realtà e che sia pure teista, in altri contesti è definito "vita psichica": sempre un quid di realtà surreale che supera la nostra realtà, senza dei o divinità di sorta. Nessuno possiede la chiave che apre lo scrigno delle certezze, per cui la tua sicumera su questo campo è davvero fuori luogo. Io rinuncio fin dal principio a sostenere che le mie opinioni, il mio sentimento (unico mezzo che ho per collegarmi a questa metafisica priva di dei), siano l'unica vera verità possibile. È mio parere che "il sentimento del mondo attesti che il mondo stesso non sia tutto". Esiste un quid che si sottrae alle capacità speculative della scienza. La stessa – la scienza – poco può dirci sulle emozioni, sui loro perché, sulla loro genesi e sul loro immaginifico mondo. Si trastulla sui come: li descrive attraverso formule chimiche complesse ed algoritmi difficilmente decifrabili, ma senza neppure riuscire a definirli con esattezza; qualcosa le si sottrae. Poco o niente ci racconta sulla coscienza, sul suo emergere, sui suoi metafisici perché. Quel quid di realtà che rifiuta di soggiacere alle leggi che la scienza impone come metodo, riposano fra le misteriose braccia di un mondo che ritengo essere svuotato da divinità ultraterrene e ricolmo di misteri umani (troppo umani) e da byos sofisticato fino al punto da farci intravedere e connettere ad un'evanescente luce divina.
Oddio! Sul capro espiatorio compi un vero e proprio sacrilegio. Volendo ricusarne o anche solo sminuirne il peso antropologico (mah?), t'inerpichi, incespicando vistosamente, nel mondo della grecità e più specificamente della concezione tragica che il mondo classico greco aveva della vita.
Proviamo a far ordine in quel guazzabuglio di concetti mal espressi.
Il fondamento degli studi condotti da Girard non è sicuramente criminologico, bensì pienamente antropologico (mentre può essere in parte vero per quelli condotti da Pigliaru sul "Codice della vendetta barbaricina", un codice non scritto ma vincolante, nato per partenogenesi in un contesto - guarda un po' – socioculturale del mondo agro-pastorale sardo – insomma, proprio non insegni nulla). Cosa tu intenda con contesto sociale criminologico resta un mistero che varrebbe la pena di chiarire, almeno per fugare ogni dubbio sulla correttezza o meno delle tue assertive asserzioni.
Una rilettura da parte tua non guasterebbe.
Non mi dilungo oltre, c'è ben altro da commentare.
La grecità classica – poco rileva che ce ne fossero decine – non racconta la violenza, come vuoi credere tu. O perlomeno, pur essendo infarcita di violenza (Antigone, Edipo, Medea...), non è questa il fulcro e il punto focale della narrazione. La violenza è contorno, o meglio strumento per raccontare l'indecidibile genetico bordeggiare dell'animo umano conteso da forze centrifughe che tendono a dilaniarlo. Racconta il Pòlemos. Questa è la tragedia classica. Due opposte verità, entrambe sostenibili, non conciliabili: ethos vs nomos. In Antigone, per esempio, questa discrasia rappresenta il cuore pulsante dell'opera. La tragedia classica metteva in scena l'animo umano, il cuore dell'uomo in foggia di campo di battaglia, conteso da forze entrambe cogenti, non conciliabili. La violenza che cogli non è l'azione in sé, bensì la decisione (da l'etimo latino tagliare, separare operando un'azione violenta e risoluta) che determina l'azione.
Ma non intendo soffermarmi ulteriormente neppure su questo punto della tua pur sempre stimolante replica.
Ciò che veramente mi lascia stupefatto è lo scarno passaggio che fai sui legni di Cristo e sul simbolo allegorico (sic!) che l'iconica immagine rappresenta.
Innanzitutto, mostri chiaramente di far confusione fra simbolo e allegoria: l'uno non l'interpreti, perché se lo fai non è un simbolo, poiché questo non parla alla mente interpretativa, ma al profondo... Jung ti boccerebbe; l'altra, l'allegoria, devi interpretarla perché esprime il suo significato proprio perché parla alla conoscenza intellettiva dell'uomo e, quindi, alle sue capacità di analisi e decodifica. Due mondi distinti, come puoi ben vedere.
Andiamo oltre ed inoltriamoci nel campo dell'osceno (quel che non poteva essere mostrato sulla scena).
Non ti rendi conto che sminuire il Crocifisso ad allegoria che rappresenta le difficoltà della vita significa sminuirne, minarne, polverizzarne l'enorme portata spirituale? La grandissima innovazione di Gesù (una vera e propria rivoluzione teologica avvertita con la chiarezza dello scandalo dalla casta sacerdotale e dai farisei del tempo) è depositata ai piedi della croce e si esplica nella narrazione della Sua Passione, della Sua morte e della Sua risurrezione. La sua ignominiosa pretesa, la sua follia essoterica (ribadisco, essoterica), lo scandalo più blasfemo, ben enucleati da Paolo di Tarso, furono quelli di dichiararsi un Dio crocifisso, abbandonato ed abbandonate sé stesso sulla croce. In tal senso il Cristianesimo è davvero un'assurdità e il Dio Cristiano un'antinomia insanabile. Non puoi tu, cristiano, banalizzare il dolore patito da quel Cristo sulla croce ad un'allegoria della vita, ti macchi di blasfemia.
 
#155
 
E' presumibile che ogni tempo abbia vissuto e patito un senso di smarrimento analogo a quello che si patisce nei tempi odierni. Anche il tempo dei nostri padri, suppongo anche quelli dei nonni e degli altri avi, hanno condiviso questo comune sentire. Forse può risultare agevole trarre la ragione dell'usuale formula 'perdita di punti di riferimento' in Thomas Mann, specificamente nel bellissimo tomo dal titolo Doctor Faust. Anche Roth, nella sua bellissima Cripta dei cappuccini, ha marcato il sentimento di scoramento che impregna i tempi di transizione (talvolta non è necessario rivolgersi alle scienze sociali per aver contezza e cognizione che la percezione crepuscolare della storia è un leit motiv che ha attraversato i tempi, le latitudini e gli spazi).
 
Niente di nuovo sotto il sole, dunque?
 
Non sono i riferimenti ai grandi della cultura universale che debbono marcare e dare la cifra dell'odierna sensazione di decadenza. Sarebbe davvero un troppo comodo rifugio affidare le nostre sensazioni a chi ha vissuto in altri tempi e con notevole maestria ha cantato il tramontar del sol.
 
No! Sotto il sole odierno c'è ben altro.
 
Non l'usuale, non il banale, non un normale periodo di transizione. Le transizioni hanno sempre – dico e confermo sempre – maturato nel proprio seno risposte e qualità che si sovrapponevano a quelle avviate al tramontar. I fattori del senso, i significanti della vita erano in nuce nella decadenza stessa, e la decadenza si presentava non come una dissoluzione, piuttosto come un'evoluzione dei fattori sociali e psicologici che fornivano sostanza e significato all'esistenza stessa. Per effetto di questo evolversi sociale, non s'avvertiva una cesura netta fra un tempo e l'altro. La transizione, a parte lo spleen di fondo, che attiene più all'umanità che all'essere sociale dell'uomo, si poneva nel limine fra crepuscolo ed aurora, e la società avvertiva contemporaneamente il tramontare del vetusto senso e l'aurora del nuovo. Fra scoramento e speranza, si muoveva nell'unica direzione concessale dal progredire e dallo scorrere del tempo... ne seguiva la direttrice. Neppure la Grande Guerra, evento fra gli eventi, poté nulla – allora – contro questo ineluttabile mutar di forme e senso, resi necessari e istituiti proprio dalla e nella trasformazione, dal e nel divenire, dalla e nell'esigenza congenere alla vita di dissolvere e creare: rispettivamente diastole e sistole della vita e della società che vive, rappresentandone, infatti, il respiro: il respiro del NULLA.
 
I nostri giorni, piuttosto, hanno perso per strada la diastole, sono fermi alla sistole, alla contrazione che scorda e svanisce il moto d'espansione, permanendo, così nella buia via della dissoluzione: un cupio dissolvi. La transizione dei giorni nostri non si porta più appresso il gene del senso e di un significato nuovi. Essendo priva di culla che accolga la nascita di un nuovo senso, niente ha da cullare, nutrire e far crescere, mantenendosi così nel suo status embrionale di transizione inespressa. Che vede il crepuscolo ma non approda all'aurora, pur bramandola.
 
Niente più ideologie! Ciò che, nel bene e nel male, seppur sovente concepite e coltivate in maniera violenta e del tutto distorta, tenevano coese nell'individuo la brama di conseguire un repentino mutamento di forme e la spinta motivata all'azione, che di questo struggimento è, appunto, l'effetto più naturale. Eppure, nel passato, furono proprio le ideologie a dischiudere un orizzonte cui confidare e credere, e tanti, tantissimi, piuttosto che lasciarsi uccidere dalla verità del nulla, che si apre alla noia, pretendendola e istituendola, in questo orizzonte ideologizzato hanno investito, come si può investire in un amore. E quando l'idea o l'amore, tramontando, tradiscono, naturale è il vuoto che si espande, cacciando via il senso, ed è allora consueto che la verità del non sense ecceda nel suicidio... come sempre è stato.
 
Non penso e non immagino di certo un'ideologia tirannica o totalitaria – il vulnus del XX° secolo, e forse la causa della fine d'ogni ideologia -, penso più che altro all'idea che ha intriso l'esistenza dei vari Gramsci, Nenni, Pertini, Berlinguer (che piacere poterne trovare almeno due della mia terra). Ideologie intrise di fede, talvolta cieca ed acritica, ma pur sempre impregnata di senso. La stessa fede che, con la morte di Dio, si è tramutata più che altro nel laido bigottismo militante di CL o di Azione Cattolica. Non alludo, in questo caso, alla fede che ha infervorato don Milani, don Sturzo, o i tanti altri che si sono lasciati travolgere dall'amore militante. Ho in uggia e disdegno la cupida voluttà d'appartenenza, che coglie le anime piccine, ed esalto, invece, con un senso di piacevole meraviglia la militanza voluta e imposta dalla fede o dall'idea, che impregna di sé, della loro essenza, le anime di uomini grandi e nobili.
 
Sono, questi, tempi che si consumano in fretta, e di corsa corrodono e dissipano ogni ricchezza umana, soprattutto le relazioni, i momenti d'incontro. Ne sono esempi eclatanti l'uso compulsivo di chat e forum... di Internet in generale, della tecnologia, che usa l'uomo, che s'impossessa delle coscienze e s'installa nell'animo, svuotandolo d'ogni altro contenuto... sia esso il sentimento, vuoi pure le emozioni. Le stesse che nascono dall'incontro di donne e uomini veri, fatti di carne, di ossa, di paure e gioie e di sentimenti ed emozioni. Emozioni che non si esauriscano nel breve arco di tempo concesso da una fugace scopata: veloce, clandestina, nel corso della quale forse neppure il nome dei partner è mai pronunciato, perché non è elemento essenziale dell'effimero e transeunte piacere, che mai si traduce in emozione che arricchisca l'animo.
 
L'eccessivo utilizzo di 'k' e i flash da pixel, sono sintomo evidente che l'utilitarismo si riverbera e manifesta in ogni particella della nostra esistenza quotidiana. Anche nel linguaggio, il quale, per molti, non è più uno strumento di comunicazione, cioè di unione, anche momentanea, che deve quindi trasmettere per ricevere. Oggi il linguaggio, sempre più povero e scarno, non comunica, se non la superficie, rifiutando di porsi al servizio del profondo, dell'anima, del sentimento. Il linguaggio asservito alla tecnologia chiede, domanda, pretende... non è più comunicativo.
 
La transizione che viviamo è uno stare, non un andare, è cioè un qualcosa che non va oltre, che non si apre a nuove proposte e scoperte, che surroghino fede e idee, che, nel bene e nel male, hanno rappresentato il punto di riferimento di tantissimi giovani negli anni scorsi.
 
Un tempo ci si uccideva per un'idea – certo, mal interpretata -. Si era però disposti alla manganellata pur di affermare un'idea, un proprio punto di vista, seppure attinto acriticamente; oggi è la noia – non lo spleen, che è altra cosa, Baudelaire non è passato invano – ad uccidere, a muovere l'azione, a costringere l'esistenza di troppi ragazzi e ragazze, disposti a buttar via la propria gioventù nel vano inseguimento del troppo facile piacere di un attimo che ottunde il vuoto che li/ci abita. Piaceri veloci che, proprio perché troppo facili e a portata di mano, non richiedono un investimento di energie, di sentimento, non impegnano la persona, il suo intimo, ma solo l'epidermide. Superficie che è espressa anche dall'eccesso di 'k', utili per volere, pretendere, ottenere... mai per dare qualcosa, per uno scambio.
 
La transizione appare come un mastodonte che goffamente si muove nel pantano della tecnica, ed in esso resta imprigionato. Una tecnica che promette il paradiso oramai disabitato dall'ideologia, il cui tramonto ha svelato l'effimera illusione del farmaco contro il nulla che si espande. Paradiso sempre più disabitato anche a seguito della rinuncia e del rifiuto dell'eterna, irrisolta promessa della fede. Il paradiso della tecnica è freddo come il metallo e la plastica che utilizza per proporsi; effimero e falso come la pubblicità che la propone.
 
L'abbondanza di modi e mezzi di comunicazione ha ottuso la propensione a comunicare; l'enorme disponibilità di piaceri ha offuscato la gioia e il piacere all'incontro vero; l'emozione pret a porter ha reso inutile e vano l'investimento emotivo; la spiritualità da banco ha intristito e impoverito l'anima degli uomini, svuotandola della speranza, promettendo in cambio una conoscenza impossibile e la futile coscienza del Sé Superiore; l'io è diventato Dio, e la solitudine colloquia solo con le altre solitudini di cui si circonda, divenendo l'ambito e l'area entro cui, monadi, muoviamo i nostri passi. L'incontro fra persone sempre meno si coniuga nel sentimento o nell'emozione. Sempre meno si apre all'impegno, all'investimento emozionale. Sempre più assomiglia a un cleanex: lo si usa, lo si getta via, non lascia tracce.
 
Tutto, oramai, è votato all'utile, al consumo: l'uomo e la donna consumano un rapporto sessuale, non fanno più l'amore, perché anche il verbo amare, usato ed abusato, si è svuotato di senso. L'amicizia è solo uno stare insieme, un fare le cose insieme, affinché le reciproche intime solitudini non emergano, facendo così udire l'eco della voce del vuoto che si spande nel nulla. La tecnologia ha ucciso anche la bellissima illusione dell'amore fra umani, quelle dell'ideologia e della fede sono tramontate da tempo, da molto, troppo tempo.
 
Certo! Non tutto è così bigio e oscuro. So bene che resistono enclave d'umanità, ma si tratta appunto sempre più d'enclave, dove la norma dei nostri nonni è diventata eroismo. Un detto popolare – mutuato dal celeberrimo moto di Brecht -, dipinto sul muro di un'abitazione in un paesino del centro della mia terra recita: beato il popolo che non ha bisogno d'eroi: in questo detto c'è davvero tantissima saggezza. L'area del senso s'assottiglia sempre più, indietreggia al cospetto del miasmatico sentore del nulla.
 
Come non atterrire, non essere sgomenti di fronte alle confessioni d'efferati delitti: perché? (la domanda); non so! (la risposta). Ebbene, non mentono: la noia agisce ed opera senza offrire un senso, senza un vero perché. Talvolta s'incappa in un'improvvisa e inattesa sincerità: per vincere la noia!
E'questa la novità, la vera cesura fra le altre transizioni e quella presente. Neppure si odia; sempre più di frequente l'azione è priva di movente: non il furto, né la ricchezza o il potere; non un'idea da dover essere affermata anche con il ricorso alla forza, neppure l'odio... ma solo un 'non so' e tanta noia da vincere. Un gioco, ed è così! E' l'eterno gioco del nulla, che si esprime proprio in noia, in 'non so', in nulla: uniche vere vesti che il nulla sa e può indossare... il resto è belletto, maschera.
 
Il nulla oggi è nudo!
 
In altri tempi, neppure troppo lontani per non averne più memoria diretta, la transizione nasceva dal sapore e dal colore del crepuscolo, e si protendeva ad ammirare il colore e presagiva il calore dell'aurora. Entrambi ben presenti, in nuce, nel tramonto. Il Medioevo si tuffava nell'Umanesimo, il quale annunciava il Rinascimento, che era seguito dall'Illuminismo – grande e fervente fucina di controverse ideologie -. All'Illuminismo fece seguito il Romanticismo, poi il decadentismo, con tutta la cultura che ne cadenzava il passo. Il XX° secolo s'apriva segnato da un evento cruento, controbilanciato, però, dalla speranza, sicuramente anche frivola, della belle epoque. La Grande Guerra nutriva ed era nutrita dall'irredentismo. Il ventennio era il falso riscatto (creduto vero). La successiva tragica guerra si radicava in nuove attese per l'uomo, sfociate in seguito anche nella Carta universale dei diritti dell'uomo; fino a giungere ai giorni nostri, fra alti e bassi, scoramenti, paure e rinnovate speranze. Probabile che nel fondo della cornucopia domani scoveremo l'ennesima, immarcescibile, futile e transeunte nuova illusione che dissimuli la verità del nulla. Ma oggi qual è il nostro orizzonte? E' un futuro in mano alla tecnica! Morto Dio – oramai quasi sotterrato, soprattutto dalla Chiesa -, tramontate le illusorie ideologie, qual è la nuova futura illusione che potrà riuscire a dissimulare la verità del nulla e del non senso? Resta solo un'amara constatazione: forse i giovani d'oggi sono soltanto più sinceri, mostrano senza infingimenti la nudità del nulla, e di questa essenza oscura sono appunto l'espressione più consona e genuina.
 
Nessun pianto da parte mia, solo un'amara constatazione.  
 
La verità, quando si mostra nuda e cruda, intrisa dei suoi miasmatici odori e foschi colori, atterrisce e sgomenta. La società odierna registra nella cultura proprio questo sgomento.
 
#156
Racconti Inediti / L’ANIMA SARDA
05 Novembre 2024, 22:23:49 PM


Mi sorrise e col suo accento romanesco soggiunse: «Voi sardi siete assurdi. Non vi integrate mai. Dove ci sono due sardi c'è sempre il famoso circolo che gli fa da casa. Si può dire che non usciate mai dalla vostra isola. Siete come chiocciole e sempre un pochino melanconici».
Ero abituato ed anche un po' affezionato a queste sue impertinenze e sfottò. Dolcissima e strega al tempo stesso. Non me la presi. Non so bene il perché ma volli provare a raccontarle cosa è per noi la Sardegna, e con enfasi, tutto d'un fiato le dissi:
«Capisco quanto sia difficile, se non addirittura impossibile, spiegare e far comprendere a chi non lo è cosa significhi essere sardi, cosa un sardo sente nell'anima. Già, non ti meravigliare, nell'anima, poiché noi non siamo sardi solo per l'anagrafe, lo siamo soprattutto perché sentiamo che dentro di noi la Sardegna vive e pulsa, scorrendo fra le membra, portata dal sangue. Ti dirò di più, credo che la nostra anima aderisca al nostro corpo assumendo la forma stilizzata del sandalo: Sandalia, appunto.
Mi chiedo come potrei mai riuscire a farti capire cosa sia e come percepiamo noi la poesia e la letteratura sarde. Queste non nascono nelle teste degli autori. I nostri poeti e letterati non si sedettero un bel dì allo scrittoio per comporre le loro opere, col desiderio di farci innamorare. No! Qui non avviene così: Grazia Deledda o Muntanaru colsero Melchiorre, le sorelle Pintor, gli struggenti e meravigliosi Cantos de sa Solitudine nei campi, fra le rocce, fra i balzi dei fiumi e nei boschi. Qui da noi la letteratura nasce dalla terra, come una qualsiasi altra pianta; sbuca da lì e si innerva lungo le gambe di chi dalla Sardegna è prescelto per esporla in forma scritta, in versi o in prosa. Prende posto nella caverna dei sentimenti e delle emozioni e poi da qui sortisce fuori per parlare sardo ai sardi.  Non è mai poesia o letteratura di Grazia Deledda, di Sebastiano Satta, di Atzeni, è il logos della terra di Sardegna. E quest'isola delle sue perle è gelosissima.
Come potrei riuscire a spiegarti che queste opere letterarie, ma anche quelle figurative di Biasi o Spada, sono intrise dei sapori, dei colori, delle emozioni e dei profumi di Sardegna. Sciola, Nivola, Ciusa non sono forse loro stessi rocce dell'isola? La musica che sortisce fuori dall'organetto diatonico suonato alle feste e sagre dei paesini dell'entroterra è il canto sincopato dei nostri boschi. I nostri stessi balli sono il circolo che si crea intorno al focolare, e narrano in movimenti sincroni i Contos de foghile degli anziani. Il canto a tenores è l'eco che nasce dai nostri monti, antichi come il mondo, e che percorre le valli per andare incontro alle genti nei villaggi. È la loro voce: Gorropu, Lanaitto parlano sardo. Hai mai provato ad ascoltarla? E se la letteratura rappresenta l'anima, i costumi, quelli bellissimi indossati da ragazze brune come una notte stellata di agosto, che solo a guardarle ti commuovi, sono la pelle che riveste l'isola e noi sardi. In tutto ciò c'è la Sardegna. Hai mai notato che negli assembramenti di persone, fra la moltitudine di vessilli e bandiere che garriscono al vento, quella che sempre risalta per eleganza e bellezza reca l'effige gloriosa di quattro mori con la benda? Ti sei mai chiesta il perché? Noi la portiamo cucita sulla pelle, e l'abbiamo dentro di noi anche quando non la sventoliamo, tanto ne siamo fieri. Fieri di portare inciso dentro nel cuore lo stesso vessillo che ha avvolto le idee e i corpi di Gramsci, Lussu, Berlinguer e tantissimi altri che hanno dato lustro a questa folle terra.
Ma come faccio a raccontarti dei profumi di lentisco, mirto, asfodelo, corbezzolo, capperi che intridono i nostri abiti? Rinuncio a descriverti la gioia e il senso infinito di libertà e solitudine che si prova andando in estate per i campi riarsi dal sole o immersi nella bruma in inverno; non riesco a parole a trasmetterti il piacere di rubare a questa terra dura ed avara il cardo e l'asparago selvatico, come potresti mai riuscire a sentirla questa gioia, tu che calpesti solo l'asfalto delle città? I nostri fiumi sono il sangue vivo che scorre nelle nostre vene. E il nostro vino è il fiume violento e inebriante di Lethe che fluisce festoso nelle nostre gole. Non senti un suono di natura selvatica al solo nominarli? Flumendosa, Cedrino, Rio Mannu, Codula de Luna; Nepente, Cannonau, Malvasia. Come potresti tu avvertire quel fremito che sale lungo le membra? I nostri colli sono incoronati da piccoli villaggi di pastori, perciò sono i re e le regine delle nostre valli e dei nostri mari: Osilo, Castelsardo, La Plassas. Gli stessi nomi dei paesi hanno un non so che di magico: Sarule, Sorgono (che dà l'idea di un miracolo che si erge dal terreno), Laconi, Orgosolo, Mamoiada, Luogosanto (santo per la gratificazione ricevuta di sorgere al centro di una delle zone più belle del territorio, la cui vista digrada dalla collina verso un mare color dello smeraldo). Le nostre terre hanno un suono inebriante: Nurra, Trexenta, Marmilla, Barbagia, Gallura, Campidano. Che bello pronunciarne il nome per udire il suono delle vocali e delle consonanti che si spande nell'aria accompagnando il belato delle nostre greggi e il canto della natura. Puoi tu comprendere il fascino ancestrale delle sagre paesane, quando le splendide centenarie, con incisa sulla pelle incartapecorita tutta la storia dell'isola, espongono ai visitatori i propri manufatti che profumano di lavanda o di pane fresco? Non puoi sapere quanto sia bello sperdersi nell'incanto del suono delle voci dei paesani; quel suono magico che evoca un passato millenario inciso dal vento sulle pietre dei monti di Gallura o del Sarrabus o del Gennargentu (la porta d'argento che accede al paradiso), e che echeggia sull'Ortobene, cogliendoti mentre lanci uno sguardo estasiato sul cuore pulsante dell'isola. Incappare nella magica danza selvaggia dei Mamutones, dei Turpos, dei Boes e dei Merdules. E magiche sono pure le grotte che cullano il sonno agitato dei nostri miti e delle leggende: le domus de janas, le tombe dei giganti, i menhir, i dolmen sono pietre che vibrano di vita. Non so descriverti il profumo che emana dai viottoli dei paesi percorsi da sa Filonzana, che recide il filo della vita, dalle Panas, su Surbile, l'Ammuttadori e i pianti che echeggiano fra muri di sassi e fango per la visita nottetempo della Femina Accabadora. Gli stessi sassi nuragici che tengono in piedi le nostre antiche cattedrali, sparse fra i campi di Barumini o Sant'Antine, sono chicchi di riso ambrato accarezzati dal cielo. I tralci di vite da cui pende il dionisiaco frutto cantato da D'Annunzio.
Come posso trasmetterti le emozioni che questa avara, dura, dolce e poetica terra suscita in noi sardi? Come renderti partecipe della gioia che pervadeva noi bambini quando l'auto di mio padre imboccava la strada che sbuca sull'arenile di Porto Conte, dal poetico nome di Baia delle Ninfee? Quel filo di mare azzurro che si intravede in lontananza, quel gigante che fa da guardia all'insenatura; o spiegarti l'agitazione che tutti noi pervadeva in prossimità delle grandi giare colorate che contornavano la provinciale verso Platamona, il mare di Sassari. L'inquietudine che coglie il visitatore alla vista della Sella del Diavolo, all'imponenza maestosa di Tavolara, alla radiosa dolcezza dell'arcipelago de La Maddalena, al profumo di selvatico che intride le narici percorrendo i viottoli sterrati dell'Asinara. Proprio non riuscirei a farti udire il silenzio profondo della solitudine dei pastori negli ovili sperduti fra rocce dure come il diamante. O l'infinita solitudine delle chiesette sperse nel verde di valli sperdute. Rinuncio pure a descriverti la meraviglia che si coglie nello smarrirsi per boschi e per conche, o lo stupore che ancor oggi assale ogni sardo quando da Gorropu procede verso le acque tumultuose di Flumineddu, per infine tuffarsi nell'azzurro di un mare che si confonde con il cielo, tanto da non riuscire a distinguere la linea irreale che li tiene discosti.
Non puoi capire ed io non posso far altro che arrendermi all'impossibilità di farti partecipe pienamente di questa seduzione che si appropria delle genti Shardane che popolano l'isola. Un giorno regalai un bellissimo libro ad un sardo che abita nel continente – anche questo dovrebbe suggerirti quanto diversi e lontani da noi siate voi continentali – un bellissimo libro che parlava di queste cose. Con gli occhi resi umidi dall'emozione mi disse: "un sardo piange quando lascia l'isola, per il dolore che gli procura l'esilio dall'Eden; piange lontano dall'isola, per la nostalgia che permea ogni poro della sua pelle; piange quando vi fa ritorno, per l'emozione di ritrovare quest'incanto. Ma quanto è dolce questo pianto, ha il sapore del miele di corbezzolo e la consistenza del vino rosso." La nostra cultura è intrisa di questa profonda melanconia».
Tacqui!
Mi guardò con meraviglia, mi sorrise, mi abbracciò e baciò. Andammo a prendere un caffè insieme.
#157
Citazione di: PhyroSphera il 05 Novembre 2024, 13:38:25 PMMAURO PASTORE
Te ne scrivo un'altra, di risposta.
 
 Il lettore può prendere atto che tu non hai mai compreso cosa sia una prospettiva antropologica e una scienza antropologica. Non ti commisuri alle mie affermazioni. Io non avevo fatto ontologia col mio messaggio; non ho mai detto che la necessità di Dio imponga a tutti una religione o di affidarsi in un tempo specifico o da prima a Dio.


Comprendo meglio il tuo equivoco, inemendabile temo. Continui a ragionare attraverso cliché obnubilanti. Confondi la tensione (vocazione, propensione, inclinazione, predisposizione ecc...) dell'animale uomo (che sia assimilabile alla bestia – colgo il tuo accento spregiativo - forse lo puoi pensare tu) verso la trascendenza – indubitabile – con l'alquanto vaga ed incerta "necessità di Dio". Ripeto: dovresti aggiornare i tuoi files mentali e magari ridurre lo spazio che destini al dogmatismo ideologico (neppure religioso, ma proprio di vero ideologismo si tratta) per consentirne un pochino anche ad altre discipline, forse, in apparenza, poco attinenti alla fede o alla religione. Leopardi, tanto per citarne uno fra i molti possibili (sorvoliamo su Nietzsche), è uno dei più mirabili esempi di tensione verso la trascendenza, senza che però questa sia mai approdata (neppure ispirata) alla vagheggiata "necessità di Dio". Si tratta di due piani di relazione con l'ulteriorità o trascendenza ben differenti. Questa tensione tipicamente umana, pare, è causa determinante della coscienza del vuoto e percezione del nulla che impregnano l'ulteriorità. Non è la trascendenza a rappresentare una risposta al nulla, è perfettamente il contrario: ne è causa. Da qui l'esigenza – stavolta sì – di dar requie all'angoscia che si genera. Guarda un po': il perfetto contrario di quel che semplicisticamente intendi tu. Per questa ragione non c'è fede che ponga al riparo dall'angoscia. Condizione ben testimoniata da Giovanni della Croce (neanche il suggerimento hai saputo cogliere) e tanti altri mistici e credenti. Neppure Dio e la fede in Dio sono talmente radicali da sradicare quel che rappresenta l'humus ove le nostre esistenze sono radicate. Ciascuno fornisce una risposta individuale – seppur vacillante - a questa angoscia che si fa largo nell'intimo con ciò che più gli si confà. C'è chi (probabilmente tu) riempie il vuoto aggrappandosi ad una inconscia menzogna, e compensa con la consolante idea di un Dio Padre; altri, forse più sinceri, negano a sé stessi la possibilità di adeguarsi al falso, anche se consolatorio. Cerca di capirlo, insistendo su un punto che mostri proprio di ignorare o fraintendere dimostri solo un atteggiamento, seppur risoluto, abbastanza infantile.

L'Assoluto agisce sul relativo anche a prescindere dalle decisioni che provengono dalla sfera del relativo.
 Dicevo, antropologicamente, di istinto mortificato che deve esser lasciato libero per compensazione. Non si tratta infatti di trovare un bandolo con la psicologia, ancor meno con la psicoterapia, se il dissidio riguarda la totalità psicofisica.


Appunto! Psicologia e psicoterapia sono strumenti utili per approcciare il problema, per cercare di comprendere ragioni, genesi ed esiti di questa angoscia esistenziale originaria, non originale. Procedure più o meno valide, molto dipende dal professionista cui affidi la tua anima. Al più forniscono un sostegno, un aiuto, una cura palliativa, ma neppure loro, più sincere delle teologie (ne esistono diverse, con esiti differenti), pretendono di sradicare dall'uomo questa percezione angosciosa del nulla che si nutre dell'insensatezza del pieno senso e assurdo significato (apprezza le iperboli, ma tutte pregne di significato) che la morte iscrive fin dalla nascita nell'animo di ciascuno di noi. Vedi, quando parli e straparli "d'istinto represso", forse senza avvedertene, scadi nello psicologismo da quattro cents al chilo. Ed anche quando strafalcioni sui 'primitivi', alludendo in maniera smaccatamente arrogante, nonché ingenua, presumibilmente alle culture arcaiche, dimostri senza meno di avere una concezione dell'essere uomo spiccatamente meccanicistica, nonostante il tuo sproloquiare di Dio e deità. L'uomo è una 'macchina' (chissà che scandalo per chi non è abituato all'interdisciplinarietà) complessa, molto più complessa di quanto il tuo psicologismo o il tuo teologismo o antropologismo raffazzonati possano comprendere, spiegare e amare.
Di ulteriore sprovveduto e disarmante strafalcione ci fai poco gradito dono quando in poche righe ricusi l'intera opera di tale René Girard (anche la lettura de "il codice della vendetta barbaricina", opera insigne di un mio insigne corregionale, potrebbe aiutarti ad inquadrare meglio il tema) scrivendo: "Inoltre tu dici di precarietà e fai l'esempio del capro espiatorio, cioè confondi la trasgressione della colpa e del delitto (di una falsa attribuzione e di una azione cieca e violenta". Qui proprio dimostri di ignorare, ed ignorando sragioni pretendendo di ragionare e di aver pure ragione. Il sacro, caro mio, non è ciò che tu fanciullescamente credi che sia. È sempre stato percepito come un qualcosa di separato (la più probabile origine etimologica del termine 'sacro'), intoccabile, inviolabile proprio perché è da sempre una camera magmatica di caos e violenza. Il rapporto alla deità è sempre stato condito dal terrore. Ti svelo un segreto: le potenze ctonie e luciferine del sacro abitano, impregnano ed intridono di sé la parte più arcaica (non primitiva) del sacro Libro dei Libri (la Bibbia). Rileggiti Mosè e il Dio del Roveto, il Deuteronomio etc... Il sacro e la deità non sono i trastulli piacevoli ove possa riposare l'animo dell'uomo, sono il recinto ove orma di piede non con-sacrato (votata al colloquio con il sacro) non può penetrare, perché sarebbe un sacri-legio ed esporrebbe il sacrilego alla furia violenta del Dio (neppure Mosè potè guardare il Dio del Roveto "faccia a faccia": «Tu non puoi vedere il mio volto, perché l'uomo non può vedermi e vivere»). Il capro espiatorio, che tu da sempliciotto riduci ad "un'azione cieca e violenta", è, invece, un'azione che nelle comunità arcaiche si rendeva necessaria (stavolta sì che puoi parlare di necessità) per ripristinare un equilibrio violato da una trasgressione. Pur essendo un atto violento (non sempre, spesso si concludeva con l'allontanamento dalla comunità dell'innocente vittimizzato), aveva il precipuo scopo di sanare un'infrazione e dar sfogo alla violenza della comunità, incanalandola per esaurirla. Insomma, credo dovresti studiare prima di avventurarti in ambiti a te alieni.
Che dire poi della perla: "La trascendenza pensata così non ha nulla di insostenibile; i negatori della trascendenza intesa come una cosa separata sono allo stesso tempo quelli che la hanno affermata: come te.". Rassegnato, sconsolato, avvilito non posso far altro che specificare, ancora una volta, che io sostengo ed affermo che l'uomo sente la trascendenza (leggiti e medita l'Infinito, il coro dei morti, l'intero Zibaldone di Leopardi, l'inno a Satana di Carducci e svariate centinaia di opere artistiche, anche figurative, se vuoi). Questo sentimento o emozione approssima l'uomo al vuoto, al nulla e all'insensatezza dell'esistenza. La trascendenza e ciò di cui è causa abitano da sempre e pro semper l'animo dell'uomo. Sartre te lo racconta nella trilogia del Rinvio e la cura dell'impegno, cura sempre fugace ed effimera quanto la fede in un Dio morto e risorto.

#158
Citazione di: InVerno il 01 Novembre 2024, 09:53:09 AMQuando si fruisce un opera artistica in "buona fede" subentra una condizione chiamata "sospensione dell'incredulità", quel tacito accordo tra autore e lettore per cui le cosidette "licenze poetiche" vengono accettate in virtù della loro funzione e del messaggio che conveiscono, e del canone\genere in cui si presentano. Sarebbe assurdo che un padre si rifiutasse  di raccontare cappuccetto rosso alla figlia giustificandosi dicendo che "il lupo che parla non esiste", quello che accade  invece è che sospende la sua incredulità e racconta una storia che nel suo genere (la favola) è totalmente razionale, come fosse veramente accaduta, per poter conveire il messaggio. Il concetto chiave è "sospensione", nel senso che l'incredulità, data come "status di base", viene temporaneamente sospeso, non superato, prima di affrontare la finzione in oggetto. Il fondamentalismo è l'esatto opposto, anziché sospendere il giudizio riguardo la credibilità della storia, vi raddoppia il carico, è il padre convinto della bontà della favola non tanto per il suo contenuto nobile, ma perchè il lupo è veramente esistito. Nota bene che se qualcuno si comportasse con qualsiasi altro libro come i religiosi si comportano con il loro "sacro", probabilmente verrebbe internato o isolato socialmente...
Tutto vero e condivisibile, ma parlando della Bibbia, del Talmud o del Corano non stiamo certamente parlando di romanzi... per cui.
#159
Citazione di: green demetr il 01 Novembre 2024, 07:44:14 AMSiamo d'accordo, però non puoi negare che le religioni considerino il testo quacosa di sacro, nè più nè meno che l'islam.
il problema sono i contenuti di quei testi, e della riflessione che ne consegue (vedi gli hadit che riflettono la stessa religione dell'odio e della conquista).
Bel altra cosa il Talmud che invece è quasi un testo giuridico che parla della comunità.
Per quanto riguarda la grandezza umanista e liberale del critianesimo non sto nemmeno neanche a parlarne.
Guarda che la madonna dormiente, assunta in cielo è un dogma della chiesa cattolica. Poco da interpretare. La baggianata d'Elia è una narrazione che lascia pochi spazi a diverse interpretazioni. Che il testo debba essere interpretato in maniera allegorica dovresti provare a spiegarlo ad un ebreo ortodosso... rischi la lapidazione.
#160
Citazione di: InVerno il 31 Ottobre 2024, 22:16:31 PMSono religioni che si sono sviluppate in un contesto dove la scrittura ed i libri erano fonti tradizionali e liturgiche di secondaria importanza. Non è un caso che il primo resoconto scritto degli eventi cristiani tardi mezzo secolo, i masoreti aspetteranno secoli per scrivere, avevano altri grilli per la testa.  Interi attributi della forma scritta sono diacronici, per esempio il sopracitato concetto di "copia" puoi immaginare quanto fosse aleatorio in un mondo
dove era estremamente raro che due libri uguali si trovassero nella stessa stanza e nelle mani di qualcuno che sapeva leggere per poter controllare che fosse una copia. L'islamismo si manifesta quando la scrittura era culturalmente più centrale. Non è il problema di chi creda alle stramberie più assurde, noterai facilmente che le persone scelgono di credere quasi  sempre la stramberia del posto dove sono nati e non fanno cernita tra quelle che gli sembrano più verosimili. E' il modo di relazionarsi, il fondamentalismo, che a qualsiasi testo o tradizioni si applichi, porta all'assurdo, quando pigli fischi per fiaschi, la dimensione e forma del fiasco non sono il problema...
Adesso comprendo meglio ciò che intendi. In ogni caso, si definiscono "religioni del libro" tutte quel complesso di riti e credenze che fanno riferimento ad un testo scritto, assunto come fonte primaria, se non addirittura unica, di diritto, costume, etica e religione.
L'Islam dei primordi, in fase di espansione, anche cruenta, promise protezione ai popoli foranei la cui religione fosse derivata da un testo scritto: il Libro, appunto. 
#161
Citazione di: InVerno il 30 Ottobre 2024, 13:59:01 PMTeoricamente cristianesimo ed ebraismo non sono "religioni del libro", poi gli zucconi abbondano da tutte le parti, ma solo l'Islam mette così tanta enfasi sulla perfezione e non equivocabilità del libro,

[...]

 E' un miracolo che tante persone siano sopravvissute così a lungo su questo granello di sabbia nello spazio, credendo letteralmente vero che un uomo sia volato sulla luna con un cammello alato e l'abbia tagliata in due. E' veramente incredibile, che davanti ad una creduloneria tale, le stesse persone riescano a trovare la bocca dove mettere il cibo, e non abbiano creduto a qualcuno che gli ha raccontato che anticamente si mangiava dalle orecchie..

Perché sostieni che cristianesimo ed ebraismo non sono "religioni del libro"? Poi che significa "teoricamente"? Entrambe attingono la propria presunta autorità proprio da un Libro. In ogni caso, non c'è fanatico più fanatico di un ebreo ortodosso e più idiota di un cristiano "dell'America  profonda".

In tema di strampalate credenze, ebraismo e cristianesimo non scherzano: cfr il rapimento di Elia, l'ascesa in cielo della madonna e, soprattutto, la morte e resurrezione di un dio. Tutto assai verosimile.
#162
Citazione di: Eutidemo il 25 Ottobre 2024, 17:21:02 PM
Tra i tanti immigrati che giungono, mescolati gli uni agli altri, con uno stesso natante, è essenziale conoscere il Paese di Provenienza di ciascuno di essi, in quanto l' art. 10 comma 2 della nostra Costituzione sancisce che: _"Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge."_.
Gli altri NO|
***
Per cui:
- chi proviene clandestinamente da un Paese la cui Costituzione è "compatibile" con la nostra,  confronto che si può fare anche su Internet, non ha nessun diritto di restare in Italia, e, quindi, deve essere rispedito nel Paese di Provenienza (per mettersi in lista sui "flussi migratori di carattere economico e lavorativo");
- chi, invece, proviene (sia pure clandestinamente) da un Paese la cui Costituzione è "incompatibile" con la nostra Costituzione, confronto che pure si può fare anche su Internet, ha il "diritto inalienabile" di restare in Italia, e, quindi, non può essere rispedito nel Paese di Provenienza, neanche in base ad un decreto legge (che è una fonte subordinata all'art.10 della nostra Costituzione).
***
Però i "media" ritengano impossibile, o, comunque, molto difficile, identificare la provenienza di un immigrato che sia privo di documenti; il che costituisce una colossale BALLA. ;D
Ed infatti:
1)
I nostri "servizi di intelligence" sono perfettamente in grado, in 10/15 minuti al massimo, di identificare persino da quale villaggio proviene il soggetto da identificare, nonchè il suo dialetto locale (anche se non vi posso dire come).
2)
Molto più semplicemente, visto che nella maggior parte dei casi gli immigrati clandestini sono dotati di "cellulari", basta farseli consegnare per capire, sia pure con un certo margine di incertezza, la loro provenienza
Ed infatti basta accenderli per vedere la lingua usata dall'apparecchio.
Inoltre, usando un traduttore, si può andare su Impostazioni > Informazioni sul telefono > Informazioni software; andando, poi,  sulla voce " :D si vede subito da quale Paese proviene il telefono.
3)
Infine, si può telefonare all'ambasciata del Paese da cui il soggetto da identificare sostiene di provenire, e metterlo in comunicazione con il centralinista; se non si capiscono, vuol dire che il soggetto in questione sta mentendo!
4)
Infine, rammento un mio personale strategemma di circa 40 anni fa, il quale, sia pure in circostanze diverse dalle attuali, mi ha in alcuni casi consentito di capire subito chi mentiva riguardo alla sua provenienza nazionale.
Mi appendevo al collo un "badge" dove c'era scritto "Interpreter in language....", e poi, con fare cordiale, chiedevo al soggetto: "«Δέδυκε μὲν ἀ σελάννα καὶ Πληΐαδες  μέσαι δὲ νύκτες, παρὰ δ' ἔρχετ' ὤρα?"
Se il soggetto, in faticoso inglese:
- diceva di non capire cosa cavolo io stessi dicendo, allora, molto probabilmente, era sincero;
- altrimenti, in genere, in faticoso inglese, ammetteva di aver mentito.
***
E ci sono molti alti sistemi, soprattutto oggi, per capire benissimo la nazionalità di un immigrato; o, quantomeno, se mente al riguardo.
Per cui  è una colossale balla che sia difficile capirlo, ameno per chi ha un Q.I. inferore a 100!
***
Ma la madre degli imbecilli, o di chi dà  loro retta per ragioni  propagandistica, è sempre incita!
***

Ovviamente il tuo intervento è solo una provocazione!
#163
Era sempre serena, mai una nuvola pareva adombrare il suo animo. Eppure sapevo bene che non poteva essere così. Nel suo cuore c'era una ferita aperta, mai del tutto rimarginata. Un dolore enorme che solo un amore più grande di quello che si prova per una figlia persa prematuramente poteva placare e consolare. Quante lacrime aveva versato.

La incontrai per caso. Erano anni che ci eravamo persi: colpa dei miei impegni e del mio egoismo. Sempre bella, con un sorriso dolce che illuminava il viso e lo sguardo che induceva quiete. La voce, da eterna ragazza, era naturalmente sensuale. Dopo i primi convenevoli, le domandai di lei, della sua vita privata... solite cose. Le chiesi se si era mai sposata e, facendo perno sulla nostra antica confidenza, le chiesi se fosse innamorata.

"Sì!", mi rispose, osservandomi sorridendo: "perdutamente innamorata". Stupidamente fraintesi: "era ora! Finalmente! A quando le nozze, sempre che non ci siano già state?", "non è possibile che noi si possa convolare a nozze, perlomeno quelle che normalmente s'intendono come tali, ma in un certo qual modo, siamo intimamente sposati da sempre". Non capivo, restai confuso. Lei se ne accorse e, accompagnando le parole con un piccolo ed incantevole gesto, specificò, ancora più sibillina: "Sono innamorata di un uomo morto.", " mi stai prendendo in giro, spero", "un uomo che ha sofferto tanto per tutti noi, fino a morire per noi... in croce.", "Capisco, credi alle favole!", "Sì! Una splendida favola, incredibile e, poiché folle, assurdamente vera".

Come sempre riusciva a coinvolgermi in discussioni appassionate. La sua intelligenza, che faceva il paio con la sua bellezza, aveva sempre agito su di me come un magnete che mi attirava dentro un vortice di senso e significato che mai avevo provato in altre situazioni. Era proprio bello parlare con lei.

"Sei una donna intelligente. Non riesco a capire come puoi credere che sulla croce  Gesù  possa aver sofferto nella carne. È stato davvero troppo facile per Lui affrontare la croce: una divinità non può soffrire le nostre pene, e neppure il dolore può intaccarne l'anima."

Con un ammiccamento m'invitò a sedermi con lei sulla panchina più vicina. Il sole splendeva e la primavera faceva già sentire il suo tepore. Accettai di buon grado: sapevo che mi avrebbe preso per mano ed accompagnato a far visita alla sua anima, ciò che di lei ho sempre amato: "Io credo che Dio si sia incarnato, sia diventato a tutti gli effetti uomo. Non può non aver sofferto le nostre pene. Credo le abbia conosciute tutte: la sofferenza fisica per le trafitture dei chiodi e quella nel costato; credo pure che abbia sofferto fino allo spasmo più acuto del cuore l'abbandono da parte del Padre suo. Ha conosciuto tutto, anche l'assurdo dramma dell'abbandono del Figlio. Perché Gesù è colui che è stato abbandonato dal Padre ed è anche chi ha abbandonato il Figlio. In quegli attimi ha conosciuto il dolore di una madre che per salvare il proprio figlio lo consegna nelle mani di mercanti di uomini privi di scrupoli, e, quando lo fa, nello stringere per l'ultima volta la sua piccola mano, sa già che forse non lo rivedrà mai più. Ha anche vissuto l'atroce sofferenza di quel piccolo che, senza colpe, per trovar salvezza e dar corpo ad una speranza, è abbandonato dalla madre alle vili cure di uomini privi di scrupoli. Nella flagellazione ha patito il tormento della carne di tanti giovani che hanno creduto nella giustizia, torturati da vili aguzzini. Nell'ignominia della croce, ha sperimentato su di sé l'offesa di uomini che sbeffeggiano e ingiuriano altri uomini solo a causa di una diversa pigmentazione della pelle, perché noi siamo più attratti dalla superficie delle cose che dalle profondità del cuore. Gesù ha sofferto tutte le nostre pene, quelle dell'umanità."

Restai stupito. Non volevo offenderla, cercai le parole più delicate che potessi trovare per replicare a quell'enfasi un po' stucchevole: "Sai come la penso su questa storia. Storia di uomini scritta da uomini per gli uomini. Credo anch'io che Gesù, se mai è esistito il Gesù dei Vangeli, abbia sofferto nella carne come qualsiasi altro uomo. Tale era, nient'altro. Il resto credo siano sovrastrutture erette per devozione da chi credeva in Lui."

"So bene che sei ateo. Ma pur essendolo, io so che dentro di te divampa un'antica inquietudine mai appagata, che ti rende curioso e ti porta a cercare qualcosa che neppure tu ben sai distinguere. Credo che tu razionalizzi troppo. Non sono così ingenua da credere che tutto ciò che ci propina la Chiesa sia oro colato. Fra l'altro, in quegli enormi spazi ricolmi di ori e marmi preziosi, il Logos di Dio risuona come un'eco distorta. Ma il mio Gesù non abita le Chiese. Vive dentro di me.", "Certo, non potrebbe essere altrimenti, ne sei innamorata, e, come qualsiasi altro amore, non potrebbe che essere ospite del tuo cuore. Ho la sensazione, però, che tu sia innamorata di un'idea, forse dell'idea dell'amore.", "Può essere. Io credo che l'amore che un uomo può provare nei confronti di una donna, e viceversa, altro non sia che una sorta di immagine evanescente dell'amore che Dio prova per l'umanità. L'amore fra umani è un pegno, un acconto di quello che ci attende, è quanto più ci avvicina a quello che Dio prova per noi".

Era davvero incantevole sentirla parlare.

Proseguì: "Io, dentro di me, sento che il Logos, facendosi carne, ha patito sulla croce non solo come carne, ma anche come divinità. Gesù è un paradosso. Non puoi pensare di scindere la divinità dall'umanità di Gesù; è la sua stessa natura che non lo permette. Diversamente, la morte sulla croce e l'intera vita di Gesù, sarebbero solo una finzione, una bugia – forse pietosa – raccontata all'uomo, poiché la divinità non avrebbe partecipato al dolore e non sarebbe stata quindi partecipe delle afflizioni dell'umanità. L'incarnazione, invece, impone proprio questo. Dio si è fatto uomo, nella sua interezza: carne intrisa di gioia e dolore, certezze e dubbi. E' per questo motivo che ti ripeto che è Dio stesso che soffre. Anche il dubbio insinuatosi sulla croce, i cui segni sono rinvenibili nel Getsemani, sono la cifra di un'agonia spirituale che coinvolge la divinità in prima persona, e Gesù, in quanto uomo divino, non poté sottrarsi a questa agonia, la quale trovò il suo epilogo nell'agonia della carne divina sulla croce. Ritenere che la sofferenza abbia coinvolto solo la carne, lasciando intatta la natura divina, significa sostenere un'algida alterità di Dio rispetto alle vicende umane, ciò sarebbe in aperto contrasto e negherebbe di fatto la passione amorosa che dovette convincere Dio a dare sé stesso per riscattare la creazione dal peccato, e sarebbe un'indelicatezza rispetto al mio amore, che non posso concedere".

Restai muto. Sorrise. Si era fatto tardi. Il tempo era scorso come un sospiro. Ci abbracciammo. Eravamo davvero felici di esserci ritrovati. Ci saremmo incontrati ancora.
#164
La tua replica non è commisurata al mio messaggio, giacché essa si basa su una riduzione psicologica:
 
Volendo ci si può anche astrarre dall'indagine psicologica (fraintendi, io alludo ad una psicologia delle masse, non ad un'analisi coinvolgente in modo esclusivo l'individuo, da qui il tuo equivocare).
Potremo 'limitarci', se vuoi, ad approcciare il tema rivolgendoci alla letteratura (Dostoevskij, Leopardi ti può aiutare, soprattutto se letto da Severino), oppure alla sociologia, ma anche l'esegesi di testi a carattere religioso tanto raccontano del fraintendimento di fondo che informa il tuo vagolare nell'erto cammino della comprensione umana, soprattutto in un campo nel quale ho la sensazione che ad accompagnare ogni tuo passo sia il dogmatismo ideologico, e non il buon senso o l'avvertita intelligenza.
Ma anche una più attenta lettura di quel che provi maldestramente a confutare – invero un tantino in modo spocchioso, ma non ce ne faremo un cruccio – ti potrebbe aiutare a comprendere che io sostengo che la precarietà, l'insicurezza e la sofferenza sono la cifra e il segno della vita dell'uomo, dacché fece la prima comparsa sulla terra (in grassetto così richiama la tua attenzione ed aiuta la comprensione). Non è dunque vero ed ammissibile attribuirmi un concetto che io mai ho espresso nei termini da te riportati: "non per sostenere che la precarietà umana non è veramente tale, come fai tu".
L'uomo è scaraventato fin dalla nascita e fin dai primordi in un ambiente ostile che ha dovuto addomesticare e piegare ai suoi bisogni. Non ha mai percepito l'ambiente naturale come un Eden, bensì come un teatro di scontro e guerra, conflitto che deflagra in tutta la sua sofferenza nell'intimo di ciascuno di noi. Nessuno è preservato dalla propria Notte oscura dell'anima. Il Polemos greco è la traduzione in versi tragici proprio di questa cruenta battaglia in cui il Male contende il cuore degli uomini.
"Mio Dio... perché?" È anche il titolo di una raccolta di brevi quanto profonde riflessioni dell'Abbè Pierre, il fondatore di Emmaus. È opportuno leggere con attenzione ed animo scevro da pregiudizi... si tratta di un cattolico morto non troppo tempo fa, alla veneranda età di 93 anni, quasi tutti dedicati ad inseguire un sogno... il suo sogno, concreto quanto astratto, vero e reale, quanto onirico e chimerico: combattere il Male (lui lo scriveva con l'iniziale maiuscola) e la povertà.
"Ho appreso di recente che sulla terra sarebbero vissuti circa ottanta miliardi di esseri umani. Hanno avuto un'esistenza dolorosa, hanno penato, sofferto... e per che cosa? Sì, Dio mio, perché?"
Si può subito notare che non esprime solo una domanda, afferma che hanno patito, che hanno sofferto; egli è certo che abbiano penato. Poi si rivolge al Padre definendolo 'mio'. L'Abbè Pierre era un innamorato del Padre e lo definisce 'mio'. Mio quanto può essere 'mio' per chiunque del Padre sia innamorato. Resta inteso che ci si può innamorare anche di un'illusione. A Lui si rivolge, a Lui domanda... credo non fosse insensato rivolgere a Lui, al Padre 'suo', la domanda... si chiede perché, per quale motivo abbiano sofferto. È così peregrino e stupido farlo?
Prosegue:
"Mio Dio, fino a quando durerà questa tragedia? Nei catechismi di tutte le religioni si dice che la vita ha un significato. Ma quanti uomini e donne, su decine di miliardi, hanno potuto scoprire tale significato? Quanti hanno potuto prendere coscienza di una vita spirituale, di una speranza? Quanti altri al contrario hanno vissuto come animali, nella paura, schiacciati dagli imperativi della sopravvivenza, nella precarietà, nel dolore della malattia? Quanti hanno avuto la fortuna di meditare sul significato dell'esistenza?".
L'Olocausto stesso, i genocidi, le tragedie umane attestano lo stato di precarietà in cui siamo immersi. Dove vedi ottimismo se non all'interno e nell'ambito dei tuoi fraintendimenti?
Questa precarietà è fortemente incisa a chiare lettere anche nel Libro più bello del mondo. Dio ha revocato il dono già una volta e più volte è intervenuto perché pentitosi della sua opera. Le tradizioni dei popoli arcaici attestano, a fortiori, questo stato di precarietà: l'intero paradigma del capro espiatorio ed il connesso meccanismo di vittimizzazione sono testimonianze preclare della percezione della precarietà della condizione umana.
Ed è proprio questo senso di insufficienza e di instabilità che inclinano l'uomo verso una trascendenza che offra riparo dall'abnorme che ci circonda. Non è una necessità (di una necessità non potresti farne a meno... invece), ma una propensione che è pretesa proprio dalla coscienza dell'autosufficienza (anche qui mostri di non aver capito ciò che ho scritto). Il richiamo della Trascendenza è niente di più che un appiglio cui l'uomo si aggrappa in assenza di certezze. Ma è un invocare che ancora una volta non disegna un orizzonte solido che garantista dal caos e dal Nulla.
Affermare che l'uomo si salva o si danna da sé non può indurti ad affermare che sosterrei l'autosufficienza dell'uomo. No! Non è così. L'uomo, dopo aver decretato la morte di Dio, dopo che la Shoa lo ha definitivamente inquisito e condannato si è ritrovato solo con sé stesso, a dover fare i conti con sé stesso e le sue determinazioni. Condannato a vivere ed a costruire sé stesso confidando in sé stesso. Deve assumere in sé l'improbo compito di riappropriarsi della sua libertà – per troppi secoli consegnata alle e nelle amorevoli mani di istituzioni (in special modo monoteiste) che hanno preteso e pretendono, ancora oggi, di attingere la propria autorità affondando mani e gomiti lordi di sangue entro una sacralità utile solo come alibi per gestire uno sporco potere di subornazione delle masse. La fatica di vivere è proprio l'immenso lavoro di ricostruire sé stessi come umanità (da qui la forza e l'importanza della relatio) cacciando i grandi inquisitori ancor oggi presenti ed urlanti. Oltre e dopo Dio c'è l'uomo... l'uomo solo che dispiega sé stesso e costruisce il senso della propria esistenza (ancorché fruibile e fittizio, almeno quanto quello che si fonda sulla fede di un Dio otiosus o absconditus) a prescindere dall'inganno della trascendenza cui l'animo umano spontaneamente tende, Siamo condannati a costruirci giorno per giorno, questo è l'impegno che attende ciascuno di noi. Solo così l'essenza dell'uomo si sostanzia, solo così l'agire e le opere assumono il significato che nutre di senso l'esistenza... seppur effimero (il senso).
 
Pensare anche a Dio non significa essere infantili.
 Questa tua puntualizzazione, in assenza di accusa (almeno da parte mia – mai mi sognerei di sostenere o pensare un'idiozia simile) denuncia una excusatio non petita.

 
 
la fede è in un modo o nell'altro necessaria alla vita
Parrebbe che le scienze siano propense a sostenere proprio quel che ti affanni ad affermare tu, con grande enfasi ed un eccesso di spocchia. Ma ciò racconta solo della carenza innata dell'animale uomo e della sua tensione verso un approdo che consenta sicurezza e certezze. La fede in Dio offre la stessa stabilità che può conseguirsi in una fede priva di trascendenza (a te lascio immaginare quali e quante fedi che non attingono alla trascendenza possano esserci). Quel che il tuo ideologismo dogmatico non ti consente di vedere, o anche solo valutare come possibilità, è che l'utilizzo di un dio alla stregua di un farmaco (questo in soldoni proponi e, per certi versi, prometti) lo desacralizza, lo priva del ctonio, del luciferino, dell'ineffabile che impregna l'area del sacro entro cui neppure l'orma di un piede può essere impressa, è, in poche parole, un'offesa al dio.
#165
L'animale uomo agisce ed è agito in funzione di due moventi, istinto o emozione (che è assai più del semplice istinto) e ratio. Questi due moventi (tali sono, perché entrambi concorrono, spesso in disputa fra loro, a determinare l'agire umano) convivono all'interno della camera magmatica che offre loro ostello, in un equilibrio instabile e assai precario. Giacché siamo ANCHE e soprattutto animali di relatio, l'impegno che profondiamo quotidianamente, che altro non è che il vivere d'ogni giorno, è proprio cercare di mantenerli in equilibrio entro un range di compatibilità col mondo circostante.
La precarietà è praticamente la norma per l'essere umano, non un accidente, come mi pare tu voglia raccontarci. Fra l'altro, non capisco per quale motivo se l'istinto (continuerei a definirla sfera emotiva/sentimentale) dovesse essere soggiogato (utilizzi il verbo prevalere) dalla razionalità 'bisogna lasciarlo agire'. Perché mai e a qual fine... per recuperare un equilibrio 'rotto'? Direi che è assurdo. Né la psicologia né l'antropologia(?) – forse alludi alla psicologia sociale, che appunto dell'interazione fra individuo e sistemi antropici complessi si occupa – sosterrebbero una cosa simile.


Filosoficamente (e non solo) si può dire:
 che la sfera irrazionale precede e motiva quella razionale - così avviene la e  nascita dell'uomo, nell'irrazionalità, ma così è anche la genesi del pensiero, di ogni pensiero ogni giorno!;

Il fatto che la sfera irrazionale preceda e motivi (non sempre) quella razionale attesta e testimonia semplicemente circa la nostra primigenia animalità. Da questa quasi tautologia non puoi dedurne o inferire che l'innegabile naturale tensione (non una necessità) dell'animale uomo verso la trascendenza sia necessitata dall'esigenza di "trovare la possibilità di un autentico e favorevole agire umano nel mondo". Questa è una forzatura indebita ove il necessitante è necessitato in maniera ideologica.
In poche parole: il paralogismo testé evidenziato espone l'ideologismo a base e fondamento dell'intera tua requisitoria. Poco dopo, infatti, scrivi in maniera spericolatamente assertiva che "la dottrina teologica nota..." la necessità di un'inclusione che solo una radicata ideologia (non fede) può notare, poiché indimostrata ed indimostrabile. Dio non è necessario per dare senso e direzione giusta alla nostra vita. Troppe biografie smentiscono categoricamente questa assurda pretesa ideologica. L'agire umano si "salva (e si danna) dal non senso" da sé, senza alcun bisogno di ricorrere ad entità soprannaturali, che nella tua algida esposizione appaiono (appare) come un tappabuchi voluto e preteso non da un sommovimento emozionale, ma da una ratio indagatrice che, seppur negandolo, tende ad escludere o tacitare il caos in cui e da cui siamo generati. Quel che tu pensi come 'impossibilità di vivere' (in chiusura del tuo intervento) che chiama Dio e la fede a garantirci dal Nulla entro cui saremmo destinati a sprofondare, è sempre e solo frutto del paralogismo che lo genera e che lo tiene in piedi.