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Messaggi - maral

#151
Tematiche Filosofiche / Re:La domanda ontologica
26 Giugno 2017, 22:03:40 PM

Citazione...
Tautologia e contraddizione non sono immagini della realtà. Esse non rappresentano alcuna possibile situazione. Infatti, quella ammette ogni possibile situazione; questa, nessuna.
...
Se allora né la verità assoluta (sempre vera) né la falsità assoluta, pur nel loro valore simbolico, possono dare alcun senso alla realtà, non resta che la probabilità il cui senso è determinato dal contesto in cui si conosce, contesto che comprende certamente il linguaggio da cui si trova espressa, che permette di rappresentarla e quindi di misurarla. Ma il linguaggio, come ben sappiamo, è una forma variante e contingente, che varia con quanto dovrebbe andare a valutare.
Non resta allora che la fiducia condivisa che capiti qualche volta, in un momento di grazia, di dirci l'un l'altro qualcosa di sensato. :)
#152
Non so se la crisi della filosofia sia effettiva o non siamo invece in presenza di una sua rinascita e di un recupero di interesse (le conferenze di filosofia sono pur sempre molto frequentate, soprattutto se il filosofo è famoso: personaggi come Severino, Sini, Cacciari, Galimberti attraggono anche molti giovani). D'altra parte il 900, secolo che ha visto il tramonto della filosofia, ha prodotto anche un'esplosione filosofica di enorme valore, sia pure con aspetti fortemente contrastanti (basti citare Heidegger, l'esistenzialismo, la fenomenologia husseliana, il neo idealismo, il pragmatismo, lo strutturalismo, il decostruttivismo, Bergson e Whitehead, il neo marxismo e molto altro ancora).
Forse quello che è morto è intendere la filosofia nel suo intento originario, ossia come ricerca di una verità fondamentale, buona per tutti. Questo compito "metafisico" è stato ormai assunto dalla scienza e soprattutto dalla tecnoscienza (in tal senso si potrebbe dire che la vecchia filosofia è culminata con la scienza, ha compiuto così il suo cammino), ma se la verità epistemica (dire come stanno le cose) non è più di appannaggio filosofico, la domanda di verità resta più forte che mai. Certamente però c'è oggi anche un discredito sociale che accompagna il fare filosofia, visto come una perdita di tempo per oziosi che si dilettano a cavillare con ragionamenti capziosi su banalità o, ben che vada, come una sorta di passatempo del tutto ininfluente. Come si suol dire, occorrono tecnici e scienziati, che effettivamente servono a fare qualcosa di utile, mentre la filosofia non serve a nulla (e infatti, come dice Severino, la filosofia non è una serva, almeno lei).
Per quanto mi riguarda la mia formazione è tecnico scientifica, ma la mia vocazione è sempre stata filosofica e ne vado orgoglioso. Sento l'estrema importanza della filosofia proprio nel suo non dare nulla per scontato, nel vedere l'estrema problematicità di ciò che si accetta come presupposto e quindi nel rimetterlo sempre in discussione per evitare di cadere in forme di superstizione estremamente deleterie (che spesso accompagnano lo stesso pensiero scientifico in voga: la superstizione dell'oggettività ad esempio). Quindi è indubbio che la filosofia non serve a fare e produrre cose, ma resta indispensabile nella ricerca di un senso a questo fare e produrre e dunque nel rimetterlo sempre in discussione. Che poi, alla fine il senso del nostro fare e produrre è il senso della nostra stessa esistenza, davanti alla quale si manifesta sempre l'immagine della sua finitudine, di quella mortalità che sempre ci accompagna. E' da questa consapevolezza che nasce il pensiero critico del filosofo.
Amo la filosofia è fondamentalmente una capacità di critica radicale anche e in primo luogo verso le nostre stesse idee e convinzioni e per questo la ritengo assolutamente preziosa.

PS Aggiungo, dopo aver letto alcune considerazioni sul decadimento della filosofia, che non è poi che nemmeno nella Grecia dei tempi d'oro il filosofo fosse così popolare e famoso. Quanti frequentavano la scuola di Platone e conoscevano le sue teorie rispetto alla popolazione ateniese che invece accorreva in massa a quella forma di rito che era il teatro? Probabilmente qualche scarsa decina di giovani aristocratici nullafacenti che, a eccezione di pochissimi tra loro, non capivano nulla di quanto Platone andasse dicendo. I filosofi poi venivano satireggiati ferocemente nelle commedie (basti pensare ad Aristofane) proprio per la loro inconcludenza. Socrate probabilmente venne più conosciuto, andava in giro per le strade a infastidire la gente con le sue domande importune e non per nulla alla fine fu condannato a morte con l'accusa di empietà. Aristotele rischiò di fare la stessa fine, anche lui dava fastidio ai potenti, ma, più furbo di Socrate, scappò in Macedonia a fare il precettore ad Alessandro e, considerando quale fosse all'epoca la considerazione culturale che gli Ateniesi avevano per i Macedoni, la dice lunga.
#153
Citazione di: Garbino il 26 Giugno 2017, 09:53:44 AM
X Maral

Ti ringrazio per questa segnalazione dell' ultimo incontro seminariale di Sini e fondamentalmente posso essere anche d' accordo, sorvolando sull' aspetto ironico che mi ha creato immediatamente l' uso dei termini: fede, speranza, carità. Ma le cose, puntualizzando che non si sta parlando di religione ma di ciò che attiene alla logica, stanno in questo modo. E' necessaria una grande fede nel numero, e dire grande è ancora poco; speranza di condivisione, anche se non sempre necessaria perché può essere imposta dal più forte; e anche carità, come necessità di reciproca comprensione. Tanto che intuitivamente mi sovviene il pensiero che una cultura tanto è più forte quanto più sono forti questi capisaldi, soprattutto il primo, immancabile, e il terzo.
E proprio sul numero Sini si è soffermato sottolineandone l'estrema rilevanza che assume nel dialogo platonico. Ma il numero non è quello che oggi si intende, ma esprime qui l'elemento fondamentale del ritmo, ossia della "musiké". E' originariamente la frequenza che si coglie nel ritmo, ossia il rapporto tra la fase e il periodo di un ritorno che ripetendosi non si ripresenta mai identico. Dunque numero è in primo luogo ritmo e musica e aver fede (fiducia) nel numero significa aver fede di poter compiere il proprio cammino, la propria purificazione che conduce insieme ai compagni di viaggio all'incontro con se stessi (al "Monte Ida" dove sono diretti i tre protagonisti del dialogo platonico, ove si venera la nascita di Zeus, che rappresenta la legge stessa).
La razionalità è dunque matematica (máthema) e la matematica è la musica con cui si fa festa in cui si evocano gli dei a venire a danzare insieme, la razionalità è quindi la danza e il poter cantare insieme (anche nel contrappunto che oppone i nostri modi di vedere le cose).
Ma il fondamento della razionalità resta comunque nell'irrazionale (quel selvaggio grido dionisiaco che precede il canto e lo richiede, perché è Dioniso che prepara il ritorno di Apollo) di una esistenza che necessita di nuovo un accordo, affinché ogni naufragio mostri il nuovo orizzonte.
Il numero in cui occorre aver fede è allora la misura del tempo del ritorno.
#154
Tematiche Filosofiche / Re:La domanda ontologica
25 Giugno 2017, 18:11:02 PM
Citazione
Citazione di: sgiombo il 25 Giugno 2017, 11:14:38 AM
Ho due motivi di dissenso (che espongo senza la pretesa di convincere nessuno ma per indurre chi la pensa diversamente da me a rifletterci su, come reciprocamente cerco di fare da parte mia; anche perché non si tratta di un problema matematico risolvibile con operazioni algebriche dal risultato certo e inequivoco, ma di cercare di interpretare e comprendere al meglio questioni non quantificabili).

Il primo é che secondo me la tendenza all' acquisizione e alla pratica della razionalità e al superamento di credenze "istintive", immediatamente e semplicisticamente e poco criticamente suggerite dalle esperienze vissute e sancite e in varia misura "sacralizzate" dalla tradizione é una tendenza umana universale, ovviamente non incontrastata da altre tendenze, che a seconda delle diverse circostanze ambientali opera più o meno efficacemente e precocemente nel tempo storico presso tutti i gruppi umani, le aggregazioni sociali, le civiltà o culture.

Non so se si tratta di una tendenza umana universale o non piuttosto di una possibilità con i suoi pregi e difetti che può o meno realizzarsi nelle culture umane e che si è realizzata per la prima (e forse unica) volta in Grecia. Questo non significa che il pensiero mitico non possa essere rielaborato razionalmente e assumere forme particolarmente elevate di significato, ma che il punto (l'irrazionale) da cui si parte è diverso. Il pensiero occidentale (ossia quello che nasce in Grecia, ancor prima di Platone, già con Parmenide, Eraclito, se non addirittura con Anassimandro e Talete), ha come scopo la verità epistemica a partire dalla sua autofondatezza che si palesa nel discorso liberamente praticabile da chiunque nella comunità e non dalla rivelazione esoterica del Dio che ripone la sua validità nel tramandarsi della tradizione. Ovviamente le due cose, soprattutto all'inizio possono sicuramente coesistere, lo stesso Platone riconosce il ruolo fondamentale della evocazione della presenza divina per la fondazione e il mantenimento della comunità secondo giustezza, ma via via il discorso si rende sempre più libero dalle sue ascendenze mitiche per farsi pubblico e sempre più essoterico, quindi chiaramente condivisibile. Con il cristianesimo e la crisi del mondo classico si assiste a un ritorno della dimensione mitica dall'Oriente, sia pure in forma diversa da quella originale, ossia in una forma fondamentalmente teleologica che non apparteneva al pensiero greco e che costituisce la base su cui si impernierà la visione escatologica del destino dell'uomo (visione presente solo nel pensiero occidentale, laddove per il greco non vi era alcuna idea di progresso) e sulla quale si impernia la stessa concezione scientifica del mondo e la convinzione di un progresso dei saperi e dell'umanità. Tutto questo appartiene alla storia dell'Occidente, al modo di pensare dell'Occidente che è oggi di nuovo entrato in crisi e Nietzsche ed Heidegger, richiamati da Paul, sono elementi di questa crisi del pensiero occidentale. Il prodotto finale del pensiero dell'Occidente, il culmine della sua metafisica, resta il pensiero tecnico scientifico, di fatto dominante nel mondo intero, ma che non consente più di pensare la verità come episteme se pure consente di pensare.

CitazioneIl secondo é che ritengo astratto e concreto nella conoscenza umana (così come razionalità e sentimenti nel nostro comportamento) non elementi contraddittori e reciprocamente incompatibili, escludentisi l' un l' altro, bensì complementari e reciprocamente integrabili (e "integrandi"; anche se spesso non senza difficoltà).
E lo stesso credo circa i rapporti fra ciò che é razionale e ciò che é sentimentale, e fra ciò che é misurabile - calcolabile ("la materia") e ciò che non é misurabile ma al massimo vagamente "ponderabile" (lo "spirito", o meglio, a mio parere, il pensiero e l' "interiorità", anche non razionale).
Direi che come tutti gli elementi che si presentano in contraddizione, proprio nella loro contraddizione possono trovare una complementarietà che permette di superare la contraddizione. Il punto è vedere e soprattutto praticare questa complementarietà.

Per quanto riguarda il discorso sulla scrittura è molto interessante, perché proprio in Occidente e di nuovo in Grecia, la scrittura diventò il mezzo per riprodurre il racconto orale, ossia diventò fondamentalmente scrittura del fonema ove il grafema si riduce a segno grafico del fonema, perdendo tutta la propria potenza di evocazione simbolica grafica (ancora presente ad esempio nel geroglifico e nell'ideogramma) e quindi ogni aspetto sacrale.
#155
Tematiche Filosofiche / Re:La domanda ontologica
24 Giugno 2017, 22:50:08 PM
Credo si possa parlare di pensiero occidentale come di quel pensiero che abbandona le immagini originarie del mito tentando di trovare nel proprio formalismo logico la propria consistenza di fondo e questo formalismo non può fare appello che al principio di non contraddizione (laddove il pensiero mitico non se ne cura minimamente). Il pensiero occidentale, attraverso le sue categorizzazioni, realizza quindi al massimo grado la potenza dell'astratto e al contempo la sua stessa contraddizione, giacché la potenza dell'astrazione si trova continuamente a dover affrontare quel concreto che nell'istante continuamente ci accade in termini non razionalmente riducibili, non semplicemente calcolabili.
#156
Citazionela nostra credenza nelle cose ( la nostra-cose in corsivo) è la premessa della credenza della logica
Interessante, ritrovo questa affermazione nell'ultimo incontro seminariale di Sini, nel quale, concludendo il suo commento all'ultimo dialogo platonico ("Le leggi"), afferma che il fondamento della logica è illogico e lo riconduce ai tre principi non logici della logica indicati da Peirce: fede, speranza e carità. Fede, ossia fiducia che ciò che si dice abbia corrispondenza reale pur sapendo che non può essere adesione al reale, speranza in una condivisione, carità: ossia offerta di reciproca comprensione.
#157
Tematiche Filosofiche / Re:La domanda ontologica
22 Giugno 2017, 19:51:26 PM
Severino è abbastanza chiaro in materia. E' solo il pensiero greco che giunge a concepire il nulla 'assolutamente nulla) come esistente e lo fa attraverso la concezione dell'Essere parmenideo, posto in evidenza totalmente astratta. Da qui nasce il modo di pensare dell'Occidente, in ragione del quale l'Essere e dunque gli Enti (e non il Nulla) risultano problematici ed è appunto da questa problematicità che scaturisce la domanda sul perché degli Enti. La domanda in questione è dunque l'evento fondamentale che determina la differenza che rende unico il pensiero dell'Occidente per il quale gli Enti   sorgono e tramontano nel Nulla assoluto che ne costituisce la matrice originaria e terminale con tutte le conseguenze che da questo derivano. In tal senso la questione posta è pertanto un evento storico della massima portata che segna l'inizio del pensiero filosofico come tentativo di dare ragione dell'esistenza degli enti.
#158
Citazione di: green demetr il 08 Giugno 2017, 15:55:58 PM
E qui iniziano i guai, perchè quel "altro" che non è il mio altro, è il "GRANDE ALTRO".
E per inciso NON esiste.
Non so se esista o meno, ma l'altro del mio altro non è necessario concepirlo come GRANDE, semplicemente non mi appare direttamente (appare attraverso ciò che per me sono gli altri che mi appaiono). Certo, il "terzo uomo" esprime, come presenza nascosta una trascendenza molteplice, ma non necessariamente grande. Come caso particolare dell'altro del mio altro ci sono anch'io in terza persona, soggetto che mi ritorna in oggetto  chiamandomi con il suo scarto a una identificazione che sempre mi rimette in gioco.

CitazioneNoi non abbiamo affatto bisogno dell'altro dell'altro, in quanto l'altro dell'altro DEVE essere necessariamente il cerchio.
Ma il cerchio non è mai uno solo, ci sono tanti cerchi non riducibili agli altri con cui sono in rapporto diretto, è questo che rende la faccenda enormemente più complessa. Anche se Dio è morto, il mio cerchio prospettico non gode della visione centrale di tutto il panorama (non è stato assunto al posto di Dio), nemmeno in termini sociali. In fondo è proprio per la perifericità della nostra posizione (e di ogni posizione) che serve una politica che si faccia carico di una responsabilità che va sempre oltre quella che coinvolge gli abitanti interagenti direttamente  nel cerchio di cui fanno parte.
Come può regolarsi questa politica? Non è semplice per gli abitanti del cerchio. Non è una faccenda semplicemente razionalizzabile, questo è il punto. Soprattutto se siamo consapevoli della nostra inevitabile e doverosa perifericità.

Citazionela filosofia è la capacita di giudizio, è al massimo qualcosa che ognuno può evocare.
E' un fantasma. (ok futuro 3d da aprire....)
Ok, tenendo però sempre presente da quale periferia è espresso il giudizio.

CitazioneSemplicemente i filosofi sono gli unici che possono fare comunità consapevolmente.
Bastassero i filosofi! Poi ci sono anche (anzi, soprattutto) i non filosofi e, ancor peggio, i falsi filosofi.

CitazioneLe prassi in sè non sono paranoiche, in quanto sono mero lavoro.

La paranoia è il discorso sulle pratiche.
Ma il discorso sulle pratiche condiziona le pratiche da cui è condizionato (il discorso stesso è pratica). Il punto è che non si può più tornare a lavorare per compartimenti stagni: da una parte la pratica e dall'altra il discorso paranoico o meno sulla pratica. E' attraverso ciò che pratichiamo che si creano i significati del linguaggio praticato. Non si può decidere di cambiare linguaggio come se i nostri linguaggi dipendessero solo dalla volontà ravvedibile di chi li parla.
Ogni linguaggio è imitazione che non solo non può non mentire, ma non può nemmeno decidere intorno a ciò che mente.
Occorre forse tentare di mantenere una sincronia nel perenne sfasamento tra pratiche e discorsi. E' una sorta di continuo riaggiustamento che non abolisce le gerarchie, ma accetta di rimetterle sempre in discussione, mentre rimette se stesso sempre in discussione. Un lavoro terribilmente faticoso e per il quale è facile esaurirsi.

Mi fermo qui e vado anch'io in vacanza per un po'. a dopo le vacanze Green!  :)


#159
Ciao Paul riprendo quanto hai scritto in precedenza per meglio chiarire alcuni dei punti su cui mi ero soffermato
Citazione di: paul11 il 08 Giugno 2017, 00:59:05 AM
non confonderei il pensiero greco con quello cristiano, hanno ascendenti e percorsi un poco diversi anche se con intrecci anche importanti.
Non c'è dubbio che il pensiero cristiano nasca da un "innesto non greco" sul pensiero greco introducendo così elementi di grande novità (non fosse altro che la visione teleologica progressiva, del tutto estranea al pensiero greco, divenuta poi la linea fondamentale del pensiero occidentale, ateo e tecnico scientifico compresi), ma pur tuttavia mi sembra innegabile che quando il cristianesimo ha inteso assumere un significato filosofico è ai due massimi filosofi greci che ha fatto riferimento: Platone e Aristotele che restano comunque i padri del nostro modo di pensare oltre che di tutte le nostre onto-teologie. Ed è solo relativamente da poco che la cultura occidentale  ha potuto in parte ammettere che possano esistere modi di pensare diversi dal suo e storie diverse dalla sua. 
Cos'è l'Occidente? Per me è chiaro che l'Occidente è l'Europa, che culturalmente è nata in Grecia, ma da qui ha coinvolto diversi popoli giunti in questa propaggine estrema dell'enorme continente asiatico e pure africano. La borghesia non è nata a Roma, d'accordo , ma anche ammettendo che sia nata dalla cultura protestante calvinista (non tutti sono d'accordo in merito, c'è chi preferisce riferirsi alle esperienze mercantili dei comuni italiani), la cultura protestante e calvinista è comunque fondamentalmente Occidentale e il suo metodo di pensare e progettare è questo. Lo stesso vale per la filosofia che si trasferisce in Francia, in Germania, in Inghilterra con l'empirismo e persino in America fino a diventare pragmatismo e analitica. Tutto questo è Occidente, il cui punto di partenza, l' "arché", sta nel pensiero greco con successivo innesto cristiano; tutto questo è una enorme nota a margine di Platone e Aristotele.
E' senz'altro importantissimo vedere come in questa linea evolutiva si siano create differenze notevoli e contrapposizioni, pur tuttavia non si può non vedere il motivo di fondo che regge tutto e consiste soprattutto nel discorso argomentativo verbale con le sue figure logiche e le sue immagini retoriche. Platone e Aristotele dicevo, sono i padri (ma ci sono pure i nonni greci) di questo discorso con tutte le sue pretese epistemico oggettive, ma certamente non si possono però scordare i grandi sofisti contro cui si scagliava Platone, i quali alla fine hanno prevalso. La democrazia è concezione di Protagora e l'affermazione democratica in Occidente va a onore di quel grande sofista, Platone non era certo un democratico e di sicuro nemmeno Aristotele. Inglesi e tedeschi hanno sempre avuto il pensiero greco come termine di riferimento: Heidegger passò vent'anni su Aristotele prima di passare a Nietzsche.   
Per quanto riguarda la tecnica quello che avevo scritto è che costituisce l'essenza umana. Umana, non del greco o del cristiano, ma di ogni uomo in quanto uomo. Quando il primo ominide prese in mano un bastone per farsi largo nella boscaglia e invece di gettarlo dopo il bisogno lo conservò per impieghi successivi simili, fece qualcosa che nessun altro animale aveva mai fatto, qualcosa di tecnico che solo l'uomo sa fare. E lo stesso dicasi dell'uomo che imparò a scheggiare la pietra e per centinaia di migliaia di anni non fece altro, lo stesso dicasi per chi, più recentemente, imparò a pitturare le pareti più nascoste di grotte santuari, di chi, anziché abbandonare i cadaveri, cominciò a preparare tumuli e riti, a conservare e adorare il fuoco. Tutto questo è tecnica, tutto questo è uomo, perché uomo e tecnica sono inseparabili, perché l'uomo ha bisogno di protesi per vivere e queste protesi sono i suoi strumenti, i suoi abiti, le cose che diventano parte di lui. Il suo stesso corpo (e vale solo per l'uomo) è per l'uomo strumento (e quindi con annesso problema tecnico di uso).
Il problema tecnico insorse con la nascita dell'agricoltura e l'acquisizione della stanzialità, poi, in Occidente (e da qui nel mondo intero, con il distacco dalla terra matrice produttiva), con lo sviluppo industriale. E' qui che la tecnica diventa moderna tecnologia e che lo strumento tecnico trasforma l'uomo in "risorsa umana", ossia l'uomo diventa strumento dei suoi strumenti, assai più funzionali di lui a uno scopo che non è più lui, ma un'astrazione pura e dunque alienazione pura. E questo che accadde in Occidente segnò inevitabilmente l'inizio del tramonto del modo di pensare occidentale, ma non venne da qualcosa di estraneo al modo di pensare occidentale, da qualcosa di radicalmente estraneo al greco e al cristiano. Il mondo tecnologico è diverso rispetto a quello agricolo precedente la cultura industriale, quanto quello agricolo lo era stato rispetto al mondo nomade dei cacciatori e ancor prima dei raccoglitori, ma non è fondamentalmente estraneo ai motivi del cristianesimo ad esempio, né alla modalità greca di come pensare. Non è una questione di materialismo, tutt'altro, è al contrario una forma di pensiero astratto-oggettivante che solo l'Occidente (e dentro l'Occidente ci sta tutta l'Europa con i suoi migranti, conquistatori, coloni e missionari che si sono sparsi nel mondo andando a comandare "a casa d'altri") ha sviluppato massimamente a partire dal mondo greco, fermo restando che la tecnica non è invenzione greca (e Severino non l'ha mai detto), ma affinché la tecnica instaurasse questa dimensione tecnologica esorbitante occorreva tutta la storia che cominciò per noi in Grecia ed è arrivata a Marx, a Nietzsche e poi... e poi basta, perché questa storia ha ormai finito la sua storia. Forse occorre un nuovo innesto, perché dopo Nietzsche non si può più fare filosofia come nell'età d'oro dei filosofi, non ha senso, un altro Hegel è impossibile e Severino (che oggi resta quello che più gli va vicino) è una assai singolare eccezione, forse l'ultima.


#160
Mi sembra ovvio che ogni linguaggio di controllo istituisca una gerarchia proprio in quanto esercita il controllo su ogni altra frase da cui ovviamente non può essere controllato. E' la regola della negazione della gerarchia a fare necessariamente eccezione alla regola (costituendosi dunque essa stessa come "metafisica cattiva" qualora si negasse come principio gerarchico, poiché direbbe di sé il falso).
Ciò che istituisce la legge (Zeus) è sempre fuori legge (e solo per questo può istituirle).
#161
Paul, io non mi considero giudice di nulla, semplicemente credo che si possa constatare già da diverso tempo la fine di quel pensiero metafisico greco cristiano che aveva posto in se stesso l'unico episteme possibile e vedeva nella propria storia etica sociale e politica l'unica forma di civiltà del pianeta da estendere doverosamente a tutti i popoli del mondo intero. Questa forma di pensiero, che è stata grandissima, è defunta e non è defunta perché da qualche altra parte del mondo sia sorta un'altra forma di pensiero a contrastarla, ma è defunta per causa propria. Questo significa quel "noi l'abbiamo uccisa" e mi si perdoni se ho parafrasato la formula nicciana dell'annuncio della morte di Dio, non è stato per creare effetti speciali, ma perché è proprio così: noi europei, occidentali abbiamo ucciso quell'episteme di cui fummo autori, come Greci prima e come cristiani poi. Dirò di più, anche la scienza, come forma di pensiero prettamente occidentale, sta tramontando, soppiantata inesorabilmente dalla tecnica. Non esiste più di fatto un pensiero scientifico che non sia un pensiero tecnico, ma non di una tecnica che rappresenta l'essenza dell'uomo, ma di una tecnica che, a partire dall'era industriale è divenuta da essenza alienazione dell'uomo (e in primo luogo proprio l'economia anthonyi, che è la forma tecnica dominante, in cui va a cercare riferimento e giustificazione ogni tecnica e ogni politica residuale).
E anche questa è opera nostra, è il lascito dell'Occidente al mondo che lo abbraccia entusiasta, perché questa tecnica, fondamentalmente nichilistica nel suo totale autoriferimento, è la forma più alta di potenza che l'umanità abbia mai conosciuto e quindi ha una forza di seduzione irresistibile e chi pensa di poter resistere in realtà ne viene assorbito, oppure finisce con l'essere spazzato via. Senza che questo significhi che si debba rinunciare a resistere, anzi, perché un conto è lo sguardo obiettivo, un altro è il sentimento con cui in questa obiettività ci si sente posti. Un conto è il filosofo che vede l'ineluttabilità della catastrofe e un conto l'uomo che la vive patendola e dunque ribellandosi, oltre e prima di ogni filosofare. E la "filosofia che si sporca le mani" è per me soprattutto la filosofia che sa riconoscere la irriducibile singolarità di ogni essere umano nel suo modo di sentire e sentirsi, una filosofia che patisce con ogni singolo soggetto senza assoggettarlo ai suoi schemi strutturanti.

Tu mi chiedi chi è colpevole di terrorismo. Chiunque usi l'arma del terrore e l'arma del terrore è stata quella più sviluppata nel secolo ventesimo proprio in Occidente e dall'Occidente esportata con successo in tutto il mondo. E' una diretta conseguenza dello sviluppo tecnico nichilista del nostro modo di pensare.
E' terroristico il nostro principale armamentario bellico che va a colpire in primo luogo le popolazioni civili inermi (fin dai bombardamenti delle aviazioni nella seconda guerra mondiale: quelli su Londra da parte dei tedeschi e poi sulle città tedesche e dell'Asse da parte degli alleati), è terroristico il modo di fare le guerre da allora in avanti, è arma del terrore per eccellenza la bomba atomica ed è terrorista chiuque la tenga nei suoi arsenali, ma è terroristico anche il ricatto economico finanziario con cui si minaccia la sopravvivenza di intere popolazioni mentre si gioca alle scommesse trasferendo masse enormi di denaro virtuale, è terroristica la gestione del debito e dei prestiti da parte degli organismi internazionali, è terroristica la politica delle multinazionali nei paesi più poveri del pianeta con cui li si continua a depredare di ogni risorsa a mezzo di corruzione e violenze. Tutto questo è terrorismo, giusto o sbagliato che lo si trovi ad applicarlo, come è terroristico lo zainetto pieno di esplosivo e chiodi lasciato nel bidone della spazzatura, il demente esaltato da Allah che, dopo essere cresciuto tra espedienti, alcol e droghe nelle periferie delle capitali occidentali, si mette a sparare su una folla inerme a un concerto rock e crepa sentendosi l'euforico angelo sterminatore piovuto dal Cielo per il martirio. Anche lui è il frutto di un nichilismo maturato proprio qui che ha preso marchi piazzati dalla propaganda religiosa di sapor medio orientale, ma sotto c'è il risultato finale della nostra millenaria e gloriosa ricerca metafisica finita nel calcolo meticoloso di bilanci comunque sempre in perdita.

Non è la filosofia moderna o contemporanea in contrapposizione alla tanto più sana filosofia antica o ai valori cristiani del buon tempo andato ad aver prodotto questo. Si è semplicemente preso atto di un tramonto in cui le tenebre sono sempre più fitte e non si capisce come ci si possa porre in questa situazione. La situazione è questa e il filosofo deve poterlo dire, senza illudere. Poi magari nuove illusioni matureranno, rinascerà un senso, forse dalla storia di prassi comuni che ci restituiscano il senso di una comunità umana, come dice Sini, forse invece dal percorrere la strada nichilistica fino in fondo perché si mostri tutta l'assurda follia in cui si pone fede, come dice Severino, forse da un nuovo linguaggio o da un Dio che ci possa salvare come conclude Heidegger senza poterci più credere. Ma tornare indietro resta impossibile.
#162
No, non penso che l'eterno ritorno sia da intendersi come un'ipotesi scientifica, ci troviamo su un piano diverso da quello esplorabile dal linguaggio scientifico. L'eterno ritorno è una provocazione, non una provocazione arbitraria, ma resa necessaria dalla volontà di potenza che Nietzsche sente la necessità di porre in modo metafisico, assoluto.
Penso che la chiave per capire la provocazione stia proprio nel passo de "La gaia scienza" che inizia con le parole "Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse ...". Non c'è l'enunciazione di una teoria cosmologica qui, ma un pensiero furtivo che, come un demone notturno, si fa strada nella mente solitaria di Nietzsche e che da essa arriva a provocarci: c'è altra strada per la volontà di potenza di rendersi assoluta se non questa? Si può reggere la dimensione metafisica del tutto autoreferenziale della volontà di potenza / divenire? Non è forse proprio questo il quesito provocatorio che consente di riconoscere l'oltreuomo e lo indica finalmente in modo chiaro? E quale oltreuomo appare dalla risposta positiva a quel quesito? Il pastore liberato dal serpente che ora, reso fanciullo, ride beato, certo, ma quella beatitudine suprema è euforica perché terribilmente tragica, oltre la stessa tragedia, è adesione a un completo radicale non senso, è proprio il non senso che fa ridere e ci libera, ma ci assorbe totalmente in un puro meccanismo, pura metafisica della tecnica (Heidegger aveva inteso bene allora!).

Proprio ieri ho letto queste parole di Calasso ("Il cacciatore celeste"): "la filosofia occidentale, a partire da Descartes, si è concepita come protesi, apparato da sovrapporre alla propria mente per mettere ordine nel mondo ... questo non vale per Nietzsche. Aprire una qualsiasi sua pagina obbliga a una reazione in chi legge, anche una pura scossa. Non c'è una protesi che si sovrappone alla mente del lettore". L'eterno ritorno è la scossa massima tra le tante che Nietzsche ci ha dato, l'altra, che segue e consegue, è la sua stessa follia terminale, l'ultima provocazione.

Poi c'è il discorso sull'arte, la verità e la menzogna. Si è detto che l'eterno ritorno è una doppia menzogna (e forse la menzogna raddoppiandosi si neutralizza), che la menzogna ci consola, che l'arte ci consola, quindi aderiamo all'arte per trovarci consolati dal non senso. Ma come sarà mai possibile? Qui allora ha ragione Severino che preferisce Leopardi a Nietzsche, il Leopardi de "La ginestra", che ormai ha scorto l'insensatezza radicale di ogni consolazione, compresa quella artistica e poetica, quella illusione di "sovrumani silenzi" e "vaghe stelle dell'Orsa" che comunque risuonano consolando il poeta nel suo solitario canto.

La menzogna non è nella vita, la menzogna è nella cultura, nella mimesi culturale, nella simulazione, imitazione, possessione che sono gli strumenti che l'uomo da sempre usa per poter vivere il proprio sfasamento nel mondo e inseguire così la verità dandole la caccia. Imitazione dell'animale, imitazione del Dio, possessione dell'animale e da parte dell'animale, possessione e possesso del Dio. Questa è l'arte da cui nasce la conoscenza: fare come se, pensare come se, credere come se. E questa è la matrice del pensiero astratto, quello che ci permette di conquistare il mondo con la nostra scienza e tecnica, perché solo l'uomo sa pensare una cosa per l'altra (come se fosse un'altra), scambia addirittura un segno grafico o fonetico per quello che indica, rendendo trascurabili le differenze reali, finché funziona è un continuo atto di violenza sulla realtà per trattenerla e appropriarsene, ma che poi continuamente ci si rivolge contro, perché nessun trascurato è mai stato davvero abbastanza trascurabile e ogni "come se" è solo "come se".
Questa è la menzogna, tutto il nostro "astrattamente pensare" è menzogna e inseguimento e per questo è volontà di potenza di cui, nella nostra originaria impotenza, non possiamo fare a meno, perché non abbiamo la perfezione dell'animale, necessitiamo di un'arte che è sempre di mimesi, di imitazione di quello che non siamo da poter dipingere sulla parete oscura di una caverna come in fondo all'anima o da danzare insieme al ritmo dei tamburi, fuori nella notte che sopraggiunge con gli spiriti dei morti che tornano per esserci compagni di danza, offrendoci inganni per sopravvivere. Vale per il pagano, quanto per il cristiano, quanto per il miscredente, per il musico e per lo scienziato che pensa di non fare musica, ma solo scienza dura, formule matematiche (come se la musica non fosse proprio la stessa cosa: saper contare).
Eppure nell'eterno ritorno, sarà che è una doppia menzogna (una per andare, l'altra per tornare), qualcosa di enormemente diverso risuona, è un alleggerimento tale quella risata che tutto fa svanire in una presenza assoluta che si trasforma tornando sempre, quindi contraddicendosi due volte per dire in ogni momento la verità.
Ogni momento è uguale, come per Severino ogni ente è uguale, ogni momento e ogni ente sono perfetti ed eterni, giacché sono. Qui davvero non ci sono più gerarchie.
#163
Citazione di: paul11 il 06 Giugno 2017, 17:48:00 PM
Ma questo è il politico che costruisce le sue basi culturali su fondamenti storici universali. oggi non c'è più questo fare politica, oggi non c'è più quel fare filosofia. Perchè sono mutate le condizioni, le strutture e le sovrastrutture storiche delle prassi e i filosofi pragmatici guardano alla finestra a massimo scuotendo la testa: nulla di più. I filosofi attuali ritengono obsoleta la metafisica tradizionale, come mi sembra anche tu.
va bene. Datemi l'alternativa che sappia dare una chiave di lettura universale, che sappia dare senso alle migrazioni, alle sovranità nazionali e monetarie, alle guerre in medio oriente, ai job act sul lavoro alle spiritualità individualistiche, alle frammentazioni sociali?
Le ha prodotte chi se "Dio è morto", se non c'è metafisica? Il potere culturale  e delle pratiche oggi è in mano ai senza -dio, ai pragmatici, ai cinici, agli scettici.

Oggi il filosofo ha molto meno quello status culturale di autorevolezza di un tempo per consigliare le prassi.
Perchè la tecnica, il capitalismo ha ruolificato e dato stipendi e salari, "vendendo" come merce di scambio anche il pensiero.
Il saggio consigliere del re oggi è il consulente del CEO della Goldamn Sachs che partecipa invitato al Bilderberg
Oggi tutto ha un prezzo.
E questo è il terrorismo che tanto ci affanna.
La metafisica è morta, perché è morto quell'Occidente che l'aveva pensata, illudendosi. E' morta perché aveva già la sua morte in sé fin dall'inizio. Non si può rimettere un cadavere sul trono sperando che ci salvi. E' morta prima in Occidente dove era nata e noi stessi l'abbiamo uccisa e indietro non si torna.
Occorre ricominciare da quello che siamo per poter essere quello che siamo.
#164
Citazione di: anthonyi il 05 Giugno 2017, 06:27:37 AM
Angelo, ho difficoltà a schematizzare il tuo ragionamento. L'idea che noi siamo parte del male che è nel mondo crea meccanismi di autogiustificazione che non aiutano a superare il male. Ciascuno di noi porta con se le proprie fragilità, ma queste nulla hanno a che fare con cose come il terroriemo islamista

Probabilmente è per la stessa ragione che la chiesa ha inventato il peccato originale. Io però sono dell'idea che il senso di colpa alteri l'interpretazione razionale dei problemi, interpretazione che a volte può essere utile per rispondere a questi in maniera razionale. Per me il caso emblematico è il caso dell'immigrazione, abbiamo dei sistemi culturali talmente ingabbiati nel senso di colpa che non riescono a pianificare una risposta adeguata per cui ci ritroviamo a importare, a caro prezzo, i problemi dell'Africa, e a finanziarne la criminalità e probabilmente le organizzazioni terroristiche.
Non è il senso di colpa, ma proprio il tentativo di dare una risposta razionale ai problemi che dovrebbe portarci verso il riconoscimento di un percorso storico che ci vede attori di quello stesso terrore che vorremmo inutilmente esorcizzare.
Il discorso dello starsene tranquilli e buoni a casa propria non può più avere nessun senso oggi, in questo mondo globalizzato sotto il segno dello sfruttamento economico più crudele e ingiusto. Noi piangiamo e celebriamo i nostri morti, come se fossero i soli morti, le sole vittime del terrore, ma i loro morti? I morti ben più numerosi causati dallo sfruttamento che il nostro benessere esige e dalle nostre bombe che fanno crescere il PIL chi li piange? Chi li celebra?
A noi va benissimo il terrore se è opera nostra a casa loro, siamo i primi a finanziarlo, da secoli e oggi ancora di più. Cosa significa il sovvenzionamento in armi da parte di Trump all'Arabia Saudita contro lo Yemen devastato da bombardamenti continui? Cosa hanno significato l'invasione prima dell'Iraq, poi dell'Afghanistan, poi la disintegrazione libica e ora la messa sotto accusa dell'Iran scita da parte degli USA, quando tutte le recenti azioni terroristiche più recenti in Occidente e non solo sono state di marca sunnita? A che serve chiuderci in casa per il paura dei migranti, quando il terrore è proprio in casa nostra che nasce? Quando basta un demente che salga su un camion o faccia bum con un petardo in mezzo alla folla dimostrando tutta la nostra sconfitta? A che servono per metterci in pace con noi stessi le nostre pretese di superiorità civile, scientifica, tecnica e culturale quando le periferie delle nostre città sembrano costruite apposta per alimentare odio, alienazione, sfruttamento e violenza?
C'è come una cappa soffocante di ottusità continuamente alimentate le une contro le altre per garantire una gestione sempre più perversa e iniqua del potere. Ed è questo che si dovrebbe insieme cominciare a capire anziché corrersi a barricarsi in preda alla paura, pensando di salvarsi dietro a un muro (e chi saranno i prigionieri del muro?).
Occorre coraggio e fede, fede nei nostri morti, fede nei loro morti e il coraggio di cominciare a capirsi gli uni con gli altri, per quello che siamo, affinché non ci siano altre colpe a urlare vendetta bestemmiando Allah, bestemmiando l'uomo in nome del profitto.   
#165
Citazione di: green demetr il 04 Giugno 2017, 16:16:24 PM

Caro vecchio povero Preve, già lo compiango pur non avendo ben presente la sua intera architettura.

Ecco due visioni dialettiche opposte, quella di negri che riguarda la dissolvenza dell'impero, e quella più classica di resistenza all'impero di Preve.

E' interessante perchè Preve distingue tra lui che è allievo di Hegel e Marx, e Negri che è allievo di focault-deleuze, ossia del nietzche post moderno.

La mixerei con quella di de Benoist, che mi pare la più sensata...

Lui che è allievo di Heidegger e Nietzche non post moderno.
Mi sento sempre a disagio a sentire Preve, soprattutto se intervistato da Fusaro, non capisco dove intenda andare a parare. Prima attacca Negri perché troppo globalista, poi Benoist per il motivo opposto. Mi sembra la caricatura di un egocentrismo filosofico stratosferico. La mia è solo una sensazione beninteso e sarà pure errata e ingiusta, ma resta il fatto che questa impressione non mi consente di prendere in considerazione Preve. Anche se Negri è ancor peggio. Questi post marxisti (pseudo sinistra della post sinistra) li trovo così insopportabili!

CitazioneO meglio per te è individuo prassi (diciamo che ti sei evoluto seguendo sini)
Direi che l'individuo è il prodotto singolare di prassi collettive, una differenziazione minima, ma proprio per questo non può essere semplicemente riassorbito nelle prassi collettive, dunque le perturba con la sua minima presenza stabilita in rapporto a un altro che mi determina negandomi. E' da questo rapporto che sorge il problema morale che diventa etico nel momento in cui tra me e l'altro, compare un altro ancora, l'altro del mio altro che non sono io. Solo a questo punto il problema morale diventa etico, ossia sociale. Bisogna essere almeno in tre per entrare in società: io, l'altro, l'altro del mio altro (e tra gli altri del mio altro ci sono anch'io, uno dei tanti oggetti-soggetti).
Il problema che il filosofo a questo punto dovrebbe cominciare a porsi è in quale posizione viene a collocarsi con le sue pratiche (che ovviamente sono pratiche, ossia metodi, di pensiero ereditati da una tradizione immensa). La filosofia può ancora avere una funzione educativa verso la comunità, o serve solo a intrattenerci? E verso chi può e deve esercitare questa funzione educativa? Con quali strumenti può risultare ancora credibile in un mondo dominato dal pensiero scientifico che ha ovviamente intenti ben diversi da quello filosofico? E quindi si misura in modo ben diverso?
Certo, è accattivante l'idea del diritto della filosofia al giudizio qualitativo sul "generale discorsivo di una comunità", ma in che modo può rendere oggi credibile questo diritto agli occhi della comunità stessa, fuori dal suo ambito sempre più ristretto e in disfacimento, nonostante la grandezza seducente e mirabile del tramonto? O certi filosofi pensano di potersi prendere questo diritto punto e basta? Erano domande già problematiche ai tempi di Platone, il fondatore insuperato della filosofia politica (ammesso che la filosofia sia mai uscita dalla questione della polis, della comunità umana), figuriamoci oggi.
Perché a questo punto le prassi le sentiamo paranoiche? qual è la responsabilità proprio della filosofia in questo? Della sua pretesa educatrice fallita fino a rendere "impossibile pensare"? Ma pensare, ovvero pensare in un certo modo? In quel modo che ci illude di essere  padroni di pensieri e giudizi tanto limpidi e trasparenti?
Di sicuro il problema morale e soprattutto etico (quello del menage a troi) sta nel linguaggio, almeno il verduraio di cui parla Havel il senso del linguaggio (il senso tradito di quel cartello che metteva sul suo banchetto) ancora lo aveva, sentiva ancora la verità in tutta evidenza e sentire la verità era il suo reale potere. Ci vorrebbe una filosofia che fosse ancora capace di farcela sentire questa verità che conferisce potere ai senza potere, di mostrarla, senza predicarla però. Ci vorrebbe più che altro La capacità di un gesto filosofico, più che di una teoresi. Chissà, forse una conquista del gesto potrebbe ancora riscattare la filosofia dal suo fallimento epocale, un gesto che sappia solo indicare la postura per la verità che può reggere una comunità di individui diversi nella loro uguaglianza; riuscire a convivere per vivere meglio, malgrado tutto quello che ci somministrano i nuovi verdurai, quelli che hanno potere.