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Messaggi - davintro

#151
Tematiche Filosofiche / Re:La mano e la moneta
23 Dicembre 2019, 00:18:02 AM
Citazione di: Phil il 22 Dicembre 2019, 22:22:00 PM
Citazione di: davintro il 22 Dicembre 2019, 20:38:04 PMIl carattere intenzionale che attiene per essenza a ogni giudizio, per il quale ogni giudizio, affermativo o negativo che sia, è sempre la presentazione di una visione mirante a rappresentare il reale in modo oggettivo, fa sì che la differenza tra forma affermativa e negativa, resta un'accidentalità linguistica formale che può trapassare da un modo all'altro senza alterare il contenuto significato intenzionalmente posto
Per me non è da confondere il referente dell'affermazione di esistenza con le qualità (o "accidenti") del referente affermato, soprattutto se una qualità apparente consiste in realtà in un (o più) altro referente: - se dico «c'è una stanza», affermo l'esistenza di una stanza e magari poi la dimostro ricorrendo alla definizione di «stanza» e mostrando la sua corrispondenza con l'ente di cui si parla; - se affermo «c'è una stanza rossa», affermo l'esistenza di un referente con una determinata qualità, è quindi anche possibile che esista il referente (stanza) ma non la qualità, o la qualità (il rosso) ma non nel referente affermato (ad esempio se sono in presenza di una macchina rossa, non di una stanza) - se invece affermo «c'è una stanza in cui non ci sono sedie (ovvero in cui sono assenti sedie)» ci sono due referenti, due sostantivi (da «sostanza» intesa alla medievale), ovvero due presunte esistenze, distinte e separate, di cui si parla, la stanza e le sedie, e le dimostrazioni delle due affermazioni sono (onto)logicamente indipendenti: posso dimostrare l'esistenza di sedie, ma eventualmente non localizzate in una stanza (magari in un camion) o l'esistenza di una stanza ma senza sedie (se non se ne riscontra la presenza). La suddetta non è dunque una affermazione di esistenza, ma una affermazione di due esistenze o, ugualmente, due affermazioni di esistenza ipoteticamente correlate. Che esista almeno "una realtà (la nostra) in cui sono assenti unicorni" è empiricamente falsificato: esistiamo io e te (se anche fossimo due chatbot, saremmo comunque reali), o almeno uno dei due, quindi una realtà c'è, Cartesio docet. In tale realtà sono assenti gli unicorni? Non direi: possiamo pensarli, disegnarli, descriverli, etc. rendendoli una presenza. Ritenere che gli unicorni siano reali oltre il loro essere disegnati, nominati, etc. non riguarda più la realtà di cui abbiamo (di)mostrato l'esistenza con la nostra conversazione (anche fosse un soliloquio onirico). La "nostra" realtà empirica è dimostrata dal "cogito" (o dallo "scrivo", nel nostro caso) così come il suo contenere unicorni, di cui stiamo ragionevolmente scrivendo. Tuttavia, se si ritiene che gli unicorni abbiano un'esistenza che va oltre (meta-...) quella sperimentabile e verificabile in discorsi, disegni, etc., ciò riguarda chiaramente un'altra realtà che esula da quella sperimentata e verificata dal nostro scrivere (con tutte le eventuali esitazioni del caso). Che esista un'altra realtà in cui gli unicorni sono esseri viventi, indipendenti dal discorso che ne parla, resta quindi da dimostrare. Se poi definiamo gli unicorni in modo che risultino indimostrabili (impercepibili, infalsificabili, etc.) allora l'affermazione della loro esistenza non potrà percorrere la strada della dimostrazione epistemologica. La differenza fra predicare l'esistenza e la non-esistenza è ontologica, prima che epistemologica; pur trattandosi formalmente di due affermazioni, la differenza è rilevante: nel primo caso ci si riferisce a qualcosa di esistente e presente, nel secondo invece ci si riferisce ad un'assenza determinata, ad un concetto senza referente empirico o "sostanziale" (sempre per dirla alla medievale). Facendo dell'ontologia spiccia e limitata esemplificativamente alla percezione: posso avere (parafrasando Cartesio) «una percezione chiara e distinta» di ciò che è, ma non di ciò che non è; questo differenzia radicalmente l'affermazione di esistenza (e una sua possibile dimostrazione) da quella di non esistenza. Infatti se parlassimo di "percezione dell'assenza di qualcosa" sarebbe un giocoso sofisma (che non hai commesso), come dire che guardando una stanza vuota ho una percezione delle persone che non ci sono, dei clowns che non ci sono, degli elefanti che non ci sono, etc. tutti enti che, al di là del sofisma, non percepisco affatto, perché la percezione (tanto sensoriale quanto intenzionale) in quanto tale, si rivolge alla presenza determinata non all'assenza indeterminata (l'assenza determinata del percepire che "qualcosa c'era ma ora non c'è più" richiederebbe addentrarsi sul tema della memoria, tangente ma non essenziale a quello della dimostrazione intersoggettiva di esistenza). Ha semmai senso affermare che percepisco il "vuoto" della stanza, non tutti gli infiniti enti possibili che potrebbero riempirla ma non ci sono (salvo riuscir a dimostrare che riesco a percepire l'infinito in un istante; anche in questo caso, è chi nega la percezione dell'infinito in un istante che deve dimostrarlo tanto quanto chi l'afferma? Comunque qui ce la caviamo facilmente facendo appello alla definizione stessa di "infinito" che mal si presta ad essere percepito esaustivamente in un batter d'occhio; salvo scenari estetici oppure accontentarsi del suo simbolo, confondendo così, quasi "dolosamente", segno e referente).

senza dubbio affermazione e negazione differiscono in quando indicano cose opposte dal punto di vista ontologico, l'affermazione indica la presenza di un ente, la negazione la sua essenza. Resta il fatto che ogni negazione implica comunque sempre un'affermazione, un'affermazione nella quale giudico come oggettivamente reale ciò che indica la visione entro cui cogliere l'assenza di ciò che è negato. Non potrei giudicare "in questa stanza non ci sono sedie", senza che la negazione dell'esistenza delle sedie non sia accompagnata dal giudizio (non importa se a livello psichico non lo ponga come tema su cui focalizzare l'attenzione, resta comunque operante sullo sfondo della coscienza, in quanto legittima il giudizio di negazione rivolto alle sedie a cui invece sto rivolgendo il pensiero) in cui affermo la realtà della stanza, nella rappresentazione mentale in cui la percepisco. E se questa affermazione, in quanto tale, soggiace all'onere della prova, a questo obbligo epistemologico soggiace necessariamente anche la negazione della presenza delle sedie. Caduta la realtà della percezione della stanza senza sedie, caduta anche la negazione di queste ultime, dato che ammettere l'illusorietà della percezione della stanza aprirebbe la strada alla possibilità di una visione alternativa di una stanza in cui invece le sedie sarebbero presenti
#152
Tematiche Filosofiche / Re:La mano e la moneta
22 Dicembre 2019, 20:38:04 PM
Citazione di: Ipazia il 22 Dicembre 2019, 18:14:37 PMMi pare un tantino tirata per i capelli una proposizione del tipo: "esiste una realtà in cui l'unicorno è assente". Poco epistemo-logica.

Perché tirata per i capelli? Una proposizione di questo tipo mantiene intatto lo stesso identico significato della sua versione negativa "Non esiste l'unicorno". Cambia la sintassi, non la semantica, non il contenuto di verità che nella tesi viene intenzionalmente posto come oggettivo, e che, al di là della struttura grammaticale-linguistica, le cui regole sono sempre una contingenza storica, è l'unico elemento che una dimostrazione razionale ha interesse a porre come suo oggetto di applicazione.  Si può certamente dire, ma uscendo dall'ambito di cui si sta qui trattando, dell'onus probandi, che, in assenza di motivazioni razionali riguardo l'esistenza dell'unicorno, la logica suggerisce di restare nella sospensione del giudizio circa tale esistenza, ma nel momento in cui si fa un passo in avanti e si passa dalla sospensione del giudizio, alla tesi della non esistenza dell'unicorno, posta come assoluto (cioè considerando tutta la realtà nel suo complesso, oltre il limite di ciò che finora si è potuto esperire) della, si compie inevitabilmente un'affermazione che riguarda una certa visione in positivo del reale, e che dunque richiede di passare per l'onere della prova allo stesso modo della tesi contraria. Il carattere intenzionale che attiene per essenza a ogni giudizio, per il quale ogni giudizio, affermativo o negativo che sia, è sempre la presentazione di una visione mirante a rappresentare il reale in modo oggettivo, fa sì che la differenza tra forma affermativa e negativa, resta un'accidentalità linguistica formale che può trapassare da un modo all'altro senza alterare il contenuto significato intenzionalmente posto
#153
Tematiche Filosofiche / Re:La mano e la moneta
22 Dicembre 2019, 16:44:47 PM
mi sembra che il tema proposto ricalchi quello classico dell' "onere della prova", e il principio per il quale sta a chi afferma qualcosa dimostrare la verità della propria tesi, senza pretendere che l'impossibilità di una smentita legittimi tale verità. Principio logicamente ineccepibile (salvo i casi in cui l'impossibilità della smentita consista non nell'impossibilità di trovare fatti empirici falsificanti un'affermazione, ma nella sua autocontraddittorietà: se una tesi non-A che smentisce A si rivela internamente incoerente, verrà necessariamente dimostrata la verità di A, tertium non datur), che però si rivela irrilevante e sterile nel contesto di una discussione in cui una delle due parti presenta una tesi che l'altra parte intende contestare. Infatti, da un punto di vista logico, ogni contestazione, cioè negazione di una tesi è a sua volta, sempre un'affermazione, l'affermazione della verità di uno stato di cose alternativo a quello presentato nella tesi che si intende contestare, che in quanto tale è soggetta alla responsabilità dialettica di provare la sua verità nella stessa misura in cui è soggetta l'affermazione a cui ci si oppone. Quindi, ad esempio, uno dei più consueti cavalli di battaglia dialettici dell'ateismo (non l'unico, lo chiarisco perché non vorrei che qualche ateo pensasse che voglia sminuire le possibilità del suo apparato argomentativo), quello di considerare l'affermazione sull'esistenza di Dio come necessitante di onus probandi a differenza della negazione di tale esistenza, che come "negazione" sarebbe libera da questa responsabilità, andrebbe del tutto invalidato. Infatti la negazione atea "Non c'è alcun Dio", può essere tranquillamente riformulata, senza che in nulla si alteri il suo significato in un'affermazione a tutti gli effetti "Esiste una realtà in cui Dio è assente", che andrebbe provata allo stesso modo della tesi opposta. Se nel merito del contenuto ontologico si parla della constatazione di un'assenza, a livello di forma logica, cioè l'ambito a cui il principio dell'onere della prova è riferito, si tratta di un'affermazione che "positivamente" propone una tesi sulla realtà e che dunque è soggetta agli stessi vincoli epistemici della tesi opposta. Quindi, tornando all'esempio del messaggio di apertura, quello che logicamente legittima il pubblico a tirare pomodori contro l'illusionista non è il fatto che quest'ultimo abbia mancato ad una sorta di "dovere" di prova dei suoi poteri, che SOLO A LUI, in quanto proponente un'affermazione, sarebbe richiesto, mentre il pubblico può starsene tranquillamente "con le mani in mano", per così dire, a limitarsi a negare l'affermazione, senza tenere a mente le ragioni del suo scetticismo, ma perché il pubblico stesso può già giovarsi di una larga tradizione di oneri della prova assolti, cioè di verifiche scientifiche empiriche che mostrano, almeno a livello probabilistico e non di certezza assoluta, l'impossibilità per la mente umana di creare oggetti dal nulla. Impossibilità che è un'affermazione che esige di essere provata nella stessa misura della tesi opposta, senza pretendere di porsi aprioristicamente su un piano di privilegio o rendita dialettica, entro cui doverla dare per scontata
#154
Tematiche Filosofiche / Il merito. Esiste davvero?
13 Dicembre 2019, 17:11:28 PM
Siamo soliti contrapporre in modo apparentemente netto ciò che otteniamo o che si potrebbe ottenere tramite "merito", cioè tramite impegno, le nostre scelte liberamente attuate, rispetto a ciò che si otterrebbe per mera fortuna, di fronte a cui non ci sembra di avere alcun merito, in quanto l'ottenerlo non appare conseguenza di un nostro agire, ma un possesso che preesiste ad esso (la famiglia in cui si nasce, l'aspetto fisico entro i limiti in cui non è oggetto di una cura nel corso della vita, il talento innato...). Quello che vorrei discutere è... quanto è davvero sensata questa distinzione? Se analizziamo razionalmente si nota come la distinzione appaia sfumare. Le nostre azioni, il nostro impegno cioè l'ambito in cui comunemente collochiamo ciò che si otterrebbe per merito, non è mai un apriori con niente alle spalle, ma sempre la conseguenza a sua volta di un carattere, di una personalità, costituita da un sistema di valori soggettivo da cui far derivare le motivazioni che ci energizzano e ci spingono a  impegnarci e a raggiungere gli obiettivi che ci paiono "meritati" e non "fortunosi". Ora, i casi sono due: o questa personalità, questa sensibilità ai valori, queste motivazioni sono originariamente costitutive dell'identità soggettiva, cioè innate, e allora non potremmo considerare tutto ciò che da loro consegue come più "meritato" rispetto al fatto di avere gli occhi azzurri invece che verdi o il biondo naturare dei capelli, oppure in tutto ciò non vi è nulla di innato, ma solo prodotto delle influenze ambientali esteriori, e allora direi, a maggior ragione, non ha alcun senso parlare di "merito"  di cui andar fieri, dato che la causa responsabile del nostro agire e dei nostri eventuali successi non starebbe nella nostra identità interiore, ma in qualcosa di esterno a noi. Appare inoltre evidente come una terza soluzione, intermedia, per cui ogni aspetto della personalità non è mai né puramente innato né puramente derivato dall'ambiente, ma come un misto di questi due fattori, al di là della sua credibilità, non sposti in alcun modo i termini della questione, in quanto, questo miscuglio sarebbe pur sempre composto dalle stesse fonti "interno/innato" e "esterno/ambientale" che rimandano ai primi due casi già trattati in precedenza,  anche se non sarebbero più nello loro singolarità sufficienti a spiegare il dinamismo vitale.

La mia convinzione personale, sulla base di questo accenno di analisi, è che il "merito", inteso  nel senso che gli attribuisce la maggior parte delle persone, cioè qualcosa di separato rispetto alla fortuna, non esiste. Non ha alcun senso andar fieri di ottenere delle cose "per merito e non per fortuna", in quanto i successi che riflettono davvero il nostro talento, la nostra identità non fuoriescono dall'ambito della fortuna, in quanto riflettono sempre una condizione innata, che proprio perché "innata" è davvero rivelatrice di noi, ciò che ciascuno di noi è prima di subire le influenze ambientali, la sua essenza per così dire (chiarisco che in questa discussione non mi sto focalizzando sul tema se esista effettivamente qualcosa di innato o no, ma sto considerando l'ipotesi innatista a livello ipotetico in rapporto al concetto di merito). Quello che contesto non è tanto l'esistenza del "merito" in generale, ma solo l'esistenza nell'accezione che lo distingue e contrappone alla fortuna. Ciò che può essere considerato come uno specchio rivelatore del nostro valore non è il merito astratto dalla fortuna, ma ciò che è interiore/innato contrapposto a ciò che è conseguenza di un'esteriorità, al di là del fatto che ciò che noi siamo innatamente non sia "meritato" nell'accezione comune del termine, nell'accezione che si riferisce alla sua possibilità di esistenza che sto qui contestando. Ma allora, viene spontaneo chiedersi, perché tante persone sono così affezionate a intendere il merito di cui poter andare orgogliosi contrapposto alla fortuna? La mia personale opinione è che ciò sia dovuto a una sorta di residuo attaccamento all'etica del risentimento. Cioè a quella percezione autoconsolatoria per cui le persone che hanno dovuto fare sacrifici per raggiungere un obiettivo avvertono l'esigenza di sentirsi moralmente ripagati dei sacrifici fatti, percependo i loro risultati come moralmente superiori, perché "meritati", nei confronti degli stessi obiettivi raggiunti da persone che avrebbero avuto la fortuna di raggiungerli più facilmente. Inorgoglirsi del merito contrapposto alla fortuna nasce dall'invidia verso le persone che avendo avuto meno bisogno di fare sacrifici, vengono in questo modo svalutate, perché solo "fortunate", non tenendo conto che la tenacia nell'affrontare i sacrifici riflette a sua volta una personalità innata che si è stati fortunati ad avere. Quindi, direi, se motivo di orgoglio deve esserci nei sacrifici fatti non sta nel senso che i sacrifici avrebbero colmato un'assenza pregressa di fortuna, ma che essi hanno offerto l'occasione di rivelare delle doti come la determinazione, che però proprio in quanto possiamo andarne fieri, siamo stati FORTUNATI a trovare innatamente in noi stessi, come parte integrante dell'identità personale
#155
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la "vita"?
09 Dicembre 2019, 23:51:47 PM
Ipazia scrive:
"@davintro

Io stessa ho allargato il discorso del concetto di vita umana distinto dalla sopravvivenza. In tale distinzione si apre lo spazio ontologico della filosofia (etica a partire dalla etologia umana e dalla Bildung, "natura umana" edificante e costituente, che l'accompagna). Ma la vita, in quanto fenomeno evolutivo naturale, è esclusivamente ontologia scientifica in cui la filosofia, ribadisco, non può aggiungere nulla.

Nel tuo commento si riduce la sensorialità umana a mera sensorialità fisiologica, trascurando il sesto senso (mente, autocoscienza) che dalla modalità percettiva sensoriale umana è inseparabile. Senso di confine, convengo, tra scienza e filosofia. Da qui a oltre, però. Non da qui a prima. Prima c'è solo il passaggio cruciale dalla materia inorganica al snc, lo sviluppo della cui funzionalità ha permesso il prodursi di un vivente autocosciente. Fin qua è solo la scienza in grado di dire cose fondate. Non semplicemente narrate."



Proprio questo "sesto senso" è l'organo tramite cui accedere al sapere metafisico, in quanto consiste nell'intuizione intellettuale correlata all'ambito degli immateriali, tra cui le forme, appunto, le essenze, e questo la rende irriducibile ai 5 sensi "canonici", corporei, e dunque adeguate solo all'esperienza degli oggetti fisici nella loro accezione di materialità, tramite cui entrano in contatto con i campi percettivi corporei. E il sapere di queste essenze costituisce l'implicita premessa filosofica che rende possibile ogni scienza. Il biologo che studia le determinazioni empiriche in cui la vita si esistenzia non potrebbe procedere in alcuna direzione, se non partendo dall'intuzione dell'essenza della "vita" e delle relazioni logiche apriori che connettono i concetti inerenti con questa "regione ontologica". L'intuizione dell'essenza della vita, sulla base della quale della vita possiamo formulare una generale definizione, è ciò che consente di delimitare il campo di applicazione delle ricerche e della validità della particolare metodologia di ricerca. Questa intuizione dei significati generali e l'analisi delle relazioni logiche che li collegano, riguardando ciò che è universale, dunque oltre ciò che può essere appreso empiricamente e sensibile, fuoriesce dal materiale di esperienza delle scienze naturali. Il biologo che differenzia la materia organica dal sistema nervoso centrale può farlo perché parte dall'intuizione dell'essenza della vita, di ciò che la definisce universalmente come tale, e in base a cui può rendersi conto della differenza tra materia inorganica e materia, appunto, dotata di vita. Questo residuo trascendentale è il fondamento che rende possibile l'applicazione dei concetti nel suo discorso, come in tutti i discorsi di ogni scienza. Via il fondamento via tutto l'edificio teorico. L'empiria non sostituisce la filosofia, al contrario fa leva sui fondamenti di quest'ultima (anche quando non se ne rende conto) per aggiungerci le sue scoperte
#156
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la "vita"?
09 Dicembre 2019, 16:59:16 PM
Citazione di: Ipazia il 07 Dicembre 2019, 15:13:25 PMForse, in base alla premessa, era meglio postare la discussione nelle tematiche scientifiche: unico ambito da cui è sensato attendersi risposte non ariafrittologiche sul passaggio dalla materia inorganica a quella organica e da questa a organismi autoriproducibili. Non vedo proprio cosa la filosofia possa dire su una questione ontologica ormai completamente al di fuori del suo ambito epistemico giurisdizionale.

non esiste alcuna questione su cui la filosofia debba rinunciare a elaborare le sue visioni, per il semplice motivo che la filosofia e la metafisica non sono di per sé tesi, opinioni, che possono nel tempo superarsi in favore di tesi e opinioni che si mostrerebbero più valide. La filosofia è una prospettiva, un piano di questioni specifiche, e per questo non può mai divenire inattuale. Inattuale diventa una risposta che viene smentita da fatti successivi, riconosciuta falsa, insufficientemente esplicativa, ma non ha senso che si consideri inattuale un complesso di questioni miranti a investigare lati del reale, diversi da quelli oggetto di ricerca delle altre scienze. Delle risposte possono essere sbagliate, superate, mai delle domande. Domandare è sempre lecito, al massimo si può dire che l'ambito verso cui orienta la ricerca PERSONALMENTE non interessa, ma si tratta di una preferenza del tutto soggettiva, che non si può generalizzare sostenendo che tale ambito non abbia ragion di essere tematizzato, per tutti e in assoluto. Si può legittimamente scegliere di non interessarsi e occuparsi di filosofia e metafisica, ma mai affermare che sono prospettive inattuali, in quanto ciò per cui a ragion veduta si potrebbe sostenere ciò sarebbe l'assumere lo stesso punto di vista di questi saperi, per criticarli dal loro interno, finendo così per continuare a fare della filosofia e della metafisica.

E la questione specifica del topic in questione, la vita, è un altro segno dell'irriducibilità delle questioni atte a essere affrontate dalla filosofia, rispetto a quelle di cui si occupano tutte le altre scienze. La filosofia indaga ogni fenomeno nei suoi princìpi fondamentali, universali, oltre la contingenza spaziotemporale, la sua essenza, cercando di rispondere alle questioni inerenti tale ambito, e quindi la sua autonomia epitemologica rispetto alle scienze che indagano i caratteri contingenti ed empirici dello stesso fenomeno riguarda la prospettiva formale, la "forma mentis". Se si parla del fenomeni "vita", l'autonomia del filosofia non è più solo formale, ma anche contenutistica, l'essenza non riguarda solo la forma prospettica tramite cui si indaga il fenomeno, ma è il contenuto stesso del fenomeno in questione. Infatti la filosofia può cogliere il tratto distintivo dell'essere vivente rispetto all'essere non vivente, definendo appunto "vita" come condizione per cui ente è dinamico sulla base di un principio interno, cioè costitutivo della sua identità, l'essenza, che lo spinge in un movimento finalistico, in cui la meta è già predelineata fin dall'inizio. Questa definizione è squisitamente filosofica, in quanto ogni sapere empirico coglie il reale nel "qui e ora", dovrebbe cogliere una fase del processo vitale nella sua singolarità isolata, mentre l'inserimento della singola fase temporale nell'unità globale del processo, implica l'individuzione dell'essenza come trade union, come lo sfondo orientativo che scandisce le varie fasi. Ma i sensi non mostrano questa unità, ma solo di volta in volta le immagini riflettenti la realtà attuale, e non possono cogliere l'unità dinamica, per coglierla è necessario assumere la realtà attuale come provvisoria all'interno di un processo riferito a un ente che rimane lo stesso in ogni fase del divenire, e che quindi può essere riconosciuto solo trascendendo i molteplici "qui e ora" a cui i sensi si fermano, per riferirli alla durata di una sostanza che resta stabile, e che, trascendendo le molteplici fasi, è coglibile in un'ottica intellegibile e metafisica, cioè filosofica. Quindi il biologo che studia la vita nelle sue molteplici manifestazioni temporali, può farlo nella misura in cui non è soltanto un empirico, ma anche persona che si serve di categorie filosofiche, anche se lasciate implicite nei suoi meccanismi di pensiero, tramite cui "bambino", "adulto", "anziano" sono riconosciute come fasi della vita, perché in ogni momento sono percepite come fasi parziali e provvisorie di un'essenza sempre operante "dietro le quinte", ma che trascende il variare delle singole fasi oggetto dei sensi, e dunque attiene all'ambito sovrasensibile, tipicamente filosofico
#157
Tematiche Filosofiche / Re:Così è se vi pare!
02 Dicembre 2019, 20:07:30 PM
Noumeno è uno dei concetti la cui esistenza dovrebbe essere del tutto evidente riconoscibile sulla base della sua definizione, "Cosa in sè", ente a cui poter riferire il potere causale di produrre effetti come i fenomeni. La realtà è tale proprio in quanto, sotto svariate modalità, agisce performativamente sul mondo circostante. I fenomeni che percepiamo non potrebbero esistere autonomamente, in quanto per definizione, fenomeno implica un soggetto a cui manifestarsi, dunque non potrebbero essere "sostanze", enti esistenti sulla base di un certo margine di autonomia, ma eventi accidentali che accadono solo se riferiti a un soggetto che li riceve, che sia, al contrario loro, concretamente esistente. La possibilità che sia l'Io stesso a produrre fenomeni non cancella l'evidenza dell'esistenza di una "cosa in sè" oggettiva, pensarlo vorrebbe dire, errore molto comune nel linguaggio ordinario, confondere "oggettività" con "esteriorità". Confondendo i due concetti, si potrebbe dire che dal fatto che sia il soggetto a produrre da solo i fenomeni, senza alcun mondo esterno impattante sui nostri campi percettivi, che il noumeno, cioè una sostanza oggettivamente esistente al di là del soggetto pensante, non può esistere. Ma se, più precisamente, li distinguiamo, allora possiamo ammettere, anche nel caso in questione, che l'assenza di una causalità esteriore producente i fenomeni non implica l'assenza di una causalità oggettiva, basterà collocare quest'ultima nell'interiorità psichica dell'Io che riceve i fenomeni. Per evitare fraintendimenti sarà però opportuno anche distinguere "Io" e "Sé": l'Io inteso come soggetto degli atti coscienti recepisce nell'esperienza dei fenomeni un'irriducibile carattere di passività, (non sono mai "Io" a decidere di percepire un certo oggetto, un certo colore) allora non è in tale livello che si riconosce l'ulteriorità della cosa in sè nei confronti del soggetto, in quanto la passività attesta l'origine extraegologica del proprio contenuto di esperienza, che non potrebbe essere prodotto arbitrariamente e volontariamente dall'Io, ma da questo acquisito da un'ulteriorità rispetto ad esso. Questa ulteriorità potrebbe invece collocarsi nel Sé, inteso come unità dei livelli psichici del soggetto, costituita da livelli profondi non raggiungibili dalla luce cosciente dell'Io, e da dove può operare la causa producente i fenomeni. In questo modo la cosa in sè preserverebbe la sua oggettività, in quanto posta pur sempre "di fronte" rispetto all'Io, cioè il soggetto in senso stretto, perché da esso distinto. La relazione soggetto-oggetto, distinta da quella interiore-esteriore, preserva l'oggettività della Cosa in sè, reale causa dei fenomeni, perché non più necessariamente associata all'esteriorità, ma identificabile con una causa che opererebbe dall'interno della persona, persona di cui l'Io cosciente, che riceve i fenomeni senza autonomamente crearli da sé, costituirebbe solo una dimensione parziale.
#158
Tematiche Filosofiche / Re:Così è se vi pare!
30 Novembre 2019, 17:42:23 PM
concordo con l'idea secondo cui una posizione relativista, che relativizza il valore oggettivo di ogni verità sulla base delle diverse prospettive, cada nell'errore di confondere il complesso rappresentativo delle immagini soggettive della realtà, variabile da individuo a individuo, con la realtà oggettiva così com'è, indipendentemente dal fatto che i nostri soggettivi punti di vista siano più o meno corrispondenti ad essa. Anche ipotizzando una condizione di coincidenza fra la molteplicità dei punti di vista soggettivi e realtà oggettiva, per il quale si dovrebbero ammettere come veri tanti diversi modelli di realtà quante sono le menti degli individui che li interpretano, questa distinzione tra pensiero soggettivo e realtà oggettiva resterebbe in piedi. Resterebbe in piedi, in quanto la distinzione non è costituita, non necessariamente, dall'effettivo contenuto della visione, dall'eventuale corrispondenza tra essa e la realtà fattuale, ma dai criteri formali che ne determinano il contenuto. Se anche ammettessimo tante realtà quanti sono i nostri punti di vista, la distinzione tra immagine e realtà non verrebbe annullata perché la ragion d'essere fondamentale della seconda continuerebbe a non essere vincolata con l'identificarsi con la prima. Questa identificazione resta contingente e non necessaria al determinarsi della realtà oggettiva (e dunque della verità, tomisticamente intesa come corrispondenza del discorso alla realtà). Che ogni tipo di realtà coincida con i punti di vista in cui le menti soggettive le intendono, non ne è fattore ontologico che ne determina l'esistenza, sulla base della possibilità per ogni pensiero di errare e immaginare idee di reali non esistenti. Se la corrispondenza pensiero-realtà fosse fondata sulla base del pensiero soggettivo, allora la possibilità per il pensiero di errare sarebbe totalmente inconcepibile, in quanto ogni pensiero avrebbe come immanenti a se stesso i criteri di giudizio con cui conoscere la verità, senza potersene mai e in alcun modo distogliere. La possibilità dell'errore mostra invece come il principio di realtà e verità può essere utilizzato dal pensiero, ma accidentalmente, proprio perché fondato in ciò che è altro, ulteriore rispetto al pensiero, cioè sulla realtà in se stessa, indipendentemente da come venga pensata, il pensiero ne coglie la verità non perché la produce, al contrario perché capace di adeguarsi e riceverla passivamente, e questa passività implica come il darsi fattuale delle cose, preesista, logicamente, non necessariamente in modo cronologico, al pensiero, che lo riceve come qualcosa di già presente.
#159
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
27 Novembre 2019, 19:12:39 PM
Citazione di: Phil il 27 Novembre 2019, 17:07:30 PM
Citazione di: davintro il 27 Novembre 2019, 00:01:34 AMA rigor di termini, i sensi non sbagliano né correggono mai, per la semplice ragione che non giudicano, cioè non pongono il contenuto che recepiscono come uno stato di cose oggettivo di fronte alla quale tale presa di posizione può essere errata o meno. Anche nel caso in cui tutto ciò che i sensi recepiscono corrispondesse pienamente alla realtà oggettiva, ciò non porterebbe a porre la sensibilità come parametro sufficiente a legittimare razionalmente il valore di verità di una conoscenza fondata su di essi
Credo dipenda molto dal tipo di oggetto che ci apprestiamo a conoscere: se è un oggetto sensibile, le percezioni (ovviamente elaborate da un cervello pensante) sono talvolta sufficienti (per conoscere e studiare una finestra, ad esempio); se parliamo di oggetti da conoscere del tipo di concetti, idee, etc., la questione è decisamente più complessa e sovrasensibile, perché tale conoscenza scopre il fianco alle problematiche della comunicabilità, interpretazione, verificabilità, etc. spesso in senso extra-empirico e ricade nella conseguente ambiguità logica (di cui sotto).
Citazione di: davintro il 27 Novembre 2019, 00:01:34 AMSe ci attenessimo rigorosamente all'esperienza da cui l'induzione trae le generalizzazioni dovremmo limitarci a giudicare che "i cigni FINORA osservati sono bianchi", mentre la legge scientifico/zoologica "tutti i cigni sono bianchi" presuppone l'utilizzo della categoria "tutti", comprendente anche tutti i cigni finora mai osservati", e dunque un elemento non empirico, ma presente alla nostra mente in modo originario (se il termine "innato" infastidisce).
Si può "lavorare" bene, sia in scienza che in filosofia, ponderando adeguatamente quel «finora» o un «fino a prova contraria»; non vedo alcuna necessità, né logica né pragmatica, di universalizzare (vecchio vizio dei filosofi): agisco e penso basandomi sulla casistica (e sulle sue previsioni annesse), senza precludermi la possibilità di gestire un'eccezione alla regola generale. «Finora tutti i cigni osservati sono bianchi» e se mi imbatto in un cigno nero, non deduco che non possa essere un cigno perché è nero, né lo classifico come (brutto) anatroccolo; piuttosto aggiorno la casistica e modifico la norma generale in «finora la gran parte dei cigni osservati sono bianchi». Se invece mi fidavo della legge universale «tutti i cigni sono bianchi», la confutazione empirico-induttiva di tale assioma comporta crisi nella struttura di pensiero che vi si fondava (praticamente, fuor di metafora, quello che è successo alla metafisica classica, alla logica aristotelica, alla geometria euclidea, etc. nel famigerato novecento). Secondo me, in tutta la scienza onestamente sperimentale c'è quello sbiadito «finora» prima della generalizzazione che segue.
Citazione di: davintro il 27 Novembre 2019, 00:01:34 AML'induzione (ma forse sarebbe meglio dire l'esperienza) può smentire una deduzione nelle sue premesse, ma entro i limiti in cui le premesse presumono di poggiare, a loro volta, sull'esperienza. Tutto ciò che fischia è una locomotiva-Socrate fischia-Socrate è una locomotiva è un esempio di deduzione la cui premessa è facilmente smentibile dall'esperienza, ma questi sillogismi sono solo per Aristotele esempi applicativi di deduzione, la loro falsificabilità empirica non tocca l'essenza del metodo, che consiste nella necessità consequenziale dei passaggi logici che connettono le premesse alle conclusioni: l'esperienza può smentire le premesse su cui le deduzioni poggiano, ma mai i principi logici che strutturano formalmente il ragionamento, e la deduzione filosofica fa leva su questi ultimi, non sul contenuto empirico delle premesse, e in questo senso non è vero sia infalsificabile, e dunque non scientifica.
La deduzione in sé non è falsificabile o meno, scientifica o meno: come ricordavo a donquixote, la logica formale (usiamo il singolare semplificando) consente ragionamenti validi, ma non necessariamente veri: il tallone d'Achille della logica è la "compilazione" dei suoi elementi, dei suoi assiomi, delle sue proposizioni, etc.. La conseguenza filosofica (e non) è che la validità logica non comporta affatto attendibilità veritativa: circoli viziosi, falsità, fallacie semantiche, etc. possono essere costituite da ragionamenti perfettamente validi dal punto di vista logico. Per questo la logica deduttiva non serve a conoscere attendibimente se non è verificata "dal basso", dall'empiria, e ciò che non può essere verificato, o almeno potenzialmente falsificato, non è da considerare attendibile solo perché è logicamente coerente (come dimostrano le varie "prove logiche" dell'esistenza di un dio, dai medioevali a Godel: è un semplice concetto infalsificabile, non ha senso scomodare petitio principii o duellare sofisticamente partendo da assiomi e paradigmi differenti).
Citazione di: davintro il 27 Novembre 2019, 00:01:34 AMInfatti proprio perchè gli assiomi logici costituiscono regole comuni a ogni pensiero, in via ipotetica ogni pensiero può provare a smentirne il valore di verità, che poi di fatto ciò sia impossibile (se provassi a contestare il principio di non contraddizione finirei per contraddirmi e dunque per autoinvalidare la critica) non attesta l'infalsficabilità e la non-scientificità del valore di verità delle regole, ma anzi ne conferma necessariamente e costantemente la sua validità, regge alla prova della falsificazione, solo la regge ad un livello superiore rispetto a quello delle verifiche empiriche delle scienze naturali, perché in ogni caso il tentativo di smentirle può in ogni momento essere provato e constatato come fallimentare
Il principio di non contraddizione non fa eccezione al suddetto problema della "compilazione"; non sono esperto di logiche paraconsistenti (che tuttavia esistono e violano in modo controllato il principio di non contraddizione), quindi faccio un esempio banale: due rette parallele prolungate all'infinito, si toccano o non si toccano? Ognuna delle due risposte ha un suo sistema di riferimento non auto-contraddittorio; eppure, ci chiederebbe un "monista", qual'è allora la verità? All'interno della validità della logica aristotelica (limitandoci quindi a quella più basilare, lasciando fuori quelle modali, le suddette paraconsistenti, il tema della temporalità, etc.) non abbiamo alcuna garanzia di conoscenza veridica, ma solo di formulazione logicamente valida (che, come ricordato, non esclude circoli viziosi, falsità, etc.). L'induzione ci dà i dati, gli elementi, le evidenze (per quanto fallibili e interpretabili) per ancorare, fino a prova contraria, la validità alla verità, pagando però il prezzo di perdere l'agognata universalità e/o assolutezza che faciliterebbero l'assiomatizzazione della conoscenza. P.s. Non intendo certo sconsigliare l'uso della deduzione o sminuire il ruolo fondamentale della logica formale, ma considerarne gli "angoli ciechi" è comunque interessante; su astrazione/innatismo deduttivo, metafisica, etc. discutemmo già abbastanza approfonditamente qui, per cui evito di innescare ripetizioni.

pur ritenendo di poter mantenere, nonostante questi appunti, nel complesso le mie convinzioni espresse in precedenza, preferisco per ora fermarmi qui riguardo la trattazione di questi temi, perché penso che ci sia il rischio di allontanarsi eccessivamente dal tema di partenza della discussione. Ovviamente con l'auspicio di poter riprendere le argomentazioni in altri contesti
#160
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
27 Novembre 2019, 00:01:34 AM
Phil scrive

"Ciò sarebbe vero se partissimo dall'assunto che «tutti i sensi si sbagliano sempre»; per fortuna, non è così drammatica la situazione e sono spesso i sensi a correggere gli stessi sensi; solito esempio banale: il bastone immerso nell'acqua sembra spezzato allo sguardo, ma il tatto mi dice che non lo è (se lo tocco quando è immerso); poi la ragione mi conferma che non può spezzarsi e ricomporsi perfettamente a seconda che lo si immerga o meno; deduzione o induzione? Quella conferma dipende dall'"essenza" del legno che costituisce il bastone o dal non aver mai riscontrato un legno che si comporti in quel modo (spezzandosi e ricomponendosi)?
Da considerare che la generalizzazione e l'astrazione (che consentono di parlare di un "tutto" estensionalmente ipotetico) non sono affatto estranee ai metodi induttivi, nè alle scienze induttive; altrimenti non avremmo gran parte della scienza attuale e, soprattuto, della ricerca scientifica (inoltre, vado a memoria, anche l'intenzionalità è induttiva: la noesi del noema costruisce l'oggetto, con i suoi "adombramenti", non lo deduce; ai tempi di Husserl le neuroscienze avevano comunque un po' meno da dire rispetto a quelle attuali).
Osserverei en passant che un'induzione può falsificare mille deduzioni, ma non viceversa; per questo l'epistemologia deve riflettere su ciò che è falsificabile e ciò che non lo è (la filosofia metafisico-deduttiva può invece non porsi tale problema, nel bene e nel male)."



Provo a rispondere per punti...
A rigor di termini, i sensi non sbagliano né correggono mai, per la semplice ragione che non giudicano, cioè non pongono il contenuto che recepiscono come uno stato di cose oggettivo di fronte alla quale tale presa di posizione può essere errata o meno. Anche nel caso in cui tutto ciò che i sensi recepiscono corrispondesse pienamente alla realtà oggettiva, ciò non porterebbe a porre la sensibilità come parametro sufficiente a legittimare razionalmente il valore di verità di una conoscenza fondata su di essi, perché il punto che provavo a esporre nel contesto della discussione con myfriend non è lo stabilire se i fenomeni sensibili siano o meno effettivamente coincidenti con la realtà, ma l' incapacità da parte della sensibilità di poter riflettere su se stessa (in virtù della sua immediatezza) e riconoscere la loro stessa funzionalità. Anche nel caso ci fosse piena coincidenza tra sensibilità e realtà, non sarebbe la sensibilità (e dunque una forma di sapere che trae da essa i contenuti) a poter garantire epistemologicamente tale condizione, ma un punto di vista che, interrogando i limiti del sensibile, deve per forza trascenderlo, cioè un sapere sovrasensibile, che è quello filosofico. Tutto questo varrebbe a maggior ragione nella prospettiva di myfriend, incentrata su un dualismo tra immagine sensibile del mondo, virtuale, e quella effettiva prodotta in noi dal nostro cervello: mi sembra logico che se i sensi fossero incapaci di trascendere il virtuale, il riconoscimento di una realtà oltre il "velo di maya" del virtuale, non potrebbe essere prodotto da un sapere come le scienze naturali che traggono dai sensi stessi il loro contenuto, ma dalla metafisica, che cogliendo l'intelligibile, si pone come il punto di vista entro cui l'insufficienza dei sensi è riconoscibile. Se le scienze induttive generalizzanti possono utilizzare la categoria del tutto, la possono utilizzare, ma non in quanto "induttive", ma in quanto, come provavo ad argomentare nel messaggio precedente, "filosofo", "fisico", "deduttivo", "induttivo" sono perlopiù degli idealtipi, che poi convivono nel concreto modo di pensare di ciascuno, e dunque la filosofia è una forma mentis che si annida, anche se non esplicitamente tematizzata, nella metodologia delle scienze sperimentali, offrendo le sue categorie specifiche come appunto quella di "totalità". Se ci attenessimo rigorosamente all'esperienza da cui l'induzione trae le generalizzazioni dovremmo limitarci a giudicare che "i cigni FINORA osservati sono bianchi", mentre la legge scientifico/zoologica "tutti i cigni sono bianchi" presuppone l'utilizzo della categoria "tutti", comprendente anche tutti i cigni finora mai osservati", e dunque un elemento non empirico, ma presente alla nostra mente in modo originario (se il termine "innato" infastidisce). Non è l'induzione che produce questa categoria, essa la utilizza come qualcosa già presente preesisente ad ogni esperienza. Quindi, se le scienze induttive utilizzano l'idea di totalità, la utilizzano non per loro "merito", ma in virtù della loro dipendenza da una prospettiva filosofica trascendentale, che resta sempre presupposto implicito e fondativo. L'intenzionalità fenomenologica (sempre se l'abbia ben inteso, mi capita sempre di imbattermi sempre in interpretazioni molto varie al riguardo) non è induttiva, ma "intuitiva", non ricava i noemi come generalizzazione di aspetti universali da una serie di determinazioni individuali della cosa a cui il noema è riferita, ma coglie un nucleo unitario come una sorta di X costante invariante, come sfondo comune di ogni nostro atto soggettivo noetico, indagante, ciascuno da diversi punti di vista, la cosa.  L'appresione del noema si da dunque necessariamente come contenuto fin dal primo istante dell'esperienza vissuta, come sua condizione strutturale, e non come una successiva conseguenza di una progressiva astrazione. Questo fa sì che il noema non vada visto tanto come una astrazione concettuale, ma come qualità vivente, concreta della nostra esperienza cosciente. L'induzione (ma forse sarebbe meglio dire l'esperienza) può smentire una deduzione nelle sue premesse, ma entro i limiti in cui le premesse presumono di poggiare, a loro volta, sull'esperienza. Tutto ciò che fischia è una locomotiva-Socrate fischia-Socrate è una locomotiva è un esempio di deduzione la cui premessa è facilmente smentibile dall'esperienza, ma questi sillogismi sono solo per Aristotele esempi applicativi di deduzione, la loro falsificabilità empirica non tocca l'essenza del metodo, che consiste nella necessità consequenziale dei passaggi logici che connettono le premesse alle conclusioni: l'esperienza può smentire le premesse su cui le deduzioni poggiano, ma mai i principi logici che strutturano formalmente il ragionamento, e la deduzione filosofica fa leva su questi ultimi, non sul contenuto empirico delle premesse, e in questo senso non è vero sia infalsificabile, e dunque non scientifica. Infatti proprio perchè gli assiomi logici costituiscono regole comuni a ogni pensiero, in via ipotetica ogni pensiero può provare a smentirne il valore di verità, che poi di fatto ciò sia impossibile (se provassi a contestare il principio di non contraddizione finirei per contraddirmi e dunque per autoinvalidare la critica) non attesta l'infalsficabilità e la non-scientificità del valore di verità delle regole, ma anzi ne conferma necessariamente e costantemente la sua validità, regge alla prova della falsificazione, solo la regge ad un livello superiore rispetto a quello delle verifiche empiriche delle scienze naturali, perché in ogni caso il tentativo di smentirle può in ogni momento essere provato e constatato come fallimentare
#161
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
25 Novembre 2019, 19:18:05 PM
il dolore è una sensazione soggettiva, per dirla alla Rosmini, una "modificazione del sentimento fondamentale corporeo", qualcosa che accade nel mio soggettivo vissuto, ma non consiste in una realtà extracoscienziale, in questo senso concordo con il considerarlo come realtà "virtuale", nell'accezione di virtuale che ora penso di aver inteso come venga qua utilizzata. La sensibilità, intesa di per sé, slegata dalle altre modalità di apprensione del mondo a cui è sempre mescolata nel concreto degli atti di esperienza tramite cui interagiamo col mondo, manca di intenzionalità, cioè non mira a rappresentare uno stato di cose oggettivo, quindi è incapace al fondare una conoscenza del reale al di là del virtuale. Una conoscenza di questo tipo potrebbe solo fondarsi sulla logica, sulla capacità del pensiero di analizzare le implicazioni coerenti tra le idee considerate nella loro essenza, in ciò a partire da cui le definiamo, per collocarle in un sistema di verità in cui essere razionalmente riconosciute come necessarie, dunque valenti oggettivamente, al di là della soggettività senziente. Questo è un punto di vista filosofico, cioè non fondato sui sensi, ma sulla logica deduttiva a priori, ed è l'unico punto di vista nel quale è possibile rendersi conto dei limiti della conoscenza sensibile riguardo alla rappresentazione del reale, in quanto, per rendersi conto di tali limiti occorre necessariamente adottare un punto di vista altro rispetto a quello a cui i limiti sono riferiti. Per questo il problema dell'uscita dal solipsismo, di una possibile conoscenza di un mondo oggettivo oltre la nostra esperienza soggettiva è sempre stato un classico tema gnoseologico e filosofico, dalla gnoseologia platonica, a quella aristotelica, allo scetticismo, ad Agostino, Cartesio, l'empirismo, il criticismo kantiano, la fenomenologia. Non inganni il fatto che la filosofia parta dal "videogame", dalla coscienza, nell'accezione fenomenologica questo non vuol dire restare chiusi nel videogame, al contrario, si tratta di un passaggio metodologico fondamentale in cui si analizzano le varie forme con cui la coscienza si relaziona al mondo, e si valutano i limiti entro cui ciascuna di queste forme appare legittimata a fondare discorsi sensati, evitando sovrapposizioni. Cioè un atteggiamento critico in cui si parte dalla soggettività per verificarne la validità di modi in cui intenzionalmente si riferisce a un mondo oggettivo posto oltre essa. Al contrario, sono proprio quei saperi fondati sulla sensibilità, come quelli naturalistici, che sono impossibilitati a risolvere il problema di una realtà oggettiva posta al di là della soggettività, proprio perché i sensi, a differenza del pensiero, non hanno intenzionalità, cioè non mirano ad alcun riferimento extrasoggettivo, ed è impossibile che una conoscenza fondata per via sensibile possa riconoscere i limiti della rappresentazione sensibile, altrimenti dovrebbe autoinvalidarsi misconoscendo la sua base fondativa. E non inganni nemmeno il fatto che fisici o altri scienziati naturalistici abbiano operato riflessioni di questo genere: la filosofia non va intesa come un gruppo di filosofi manualisticamente etichettati come tali, ma come forma mentis presente e operante, in modo più o meno esplicito e riflesso, in ogni persona dotata di raziocinio, a prescindere dal mestiere che svolge o dal campo di studi a cui si dedica. Quindi quando un fisico afferma che "tutto è energia" non sta pensando da fisico, ma da filosofo, perché sta affermando qualcosa che non può essere verificato per via sensibile, dato che il concetto di totalità trascende ogni finitezza delle cose che la sensibilità registra in noi, anche se poi applicherà questa intuizione filosofica (anche se non riconosciuta come tale) all'interno del suo specifico ambito di ricerca fisico. Questo perché la filosofia fonda i criteri primi e universali che tutte le altre scienze implicitamente devono applicare e inserire nelle loro metodologie, per quanto vengano per così dire "lasciati sullo sfondo", senza una tematizzazione ad hoc.

Intendendo "spiritualismo" come posizione di una realtà spirituale trascendente quella fisica, questa "stramba corrente" è in realtà l'unica entro la quale la possibilità di filosofare resta sensata, in quanto si attribuisce ad esso uno specifico ambito di indagine, distinto da quelli per i quali le scienze naturali appaiono sufficienti a esplicare le questioni. Una volta riconosciuto ciò, si può discutere se intendere questa trascendenza come trascendenza sostanziale, come nella metafisica teista oppure più come una forma logica globale applicata a un contenuto che però coincide immanentisticamente con quello del mondo materiale e storico, come nelle forme dell'idealismo moderno, ma in ogni caso resterà sempre un livello di realtà da indagare con una metodologia filosofica propria, non induttiva e sperimentale, ma deduttiva e dialettica, dato che nessuna induzione potrà mai giungere alla visione della totalità
#162
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
25 Novembre 2019, 00:56:45 AM
Citazione di: myfriend il 24 Novembre 2019, 17:53:53 PM@davintro Questa non è filosofia. Il fatto che la realtà che noi percepiamo e definiamo "reale" (dove percepiamo cose distinte e separate nello spazio-tempo e dove le cose "nascono" e "muoiono") sia di fatto un videogame (realtà virtuale) creato dal nostro cervello che esiste tutto e solo nella nostra testa è un dato di fatto...è una verità oggettiva. Una verità scientifica. Come è anche verità oggettiva il fatto che la realtà REALE è al di là di ciò che il nostro cervello percepisce. E questa realtà REALE segue logiche ben diverse da quelle che noi "vediamo" e "sperimentiamo" all'interno del videogame costruito dal nostro cervello e che il nostro cervello ci fa percepire come reale e che abbiamo davanti agli occhi tutto il giorno...e in cui "viviamo". Questi sono dati di fatto oggettivi....non sono "idee filosofiche". E' la situazione oggettiva nella quale ci troviamo. Tu come ti poni di fronte a questa evidenza oggettiva? Di fronte a questo dualismo? Questa è la questione. Tutto il resto è "aria fritta".

Premetto che mi lascia sempre perplesso che in uno spazio che dovrebbe essere dedicato alla filosofia si leggano argomenti che si presentano esplicitamente come "non filosofici" (e non è solo il caso di myfriend, noto sempre con amarezza un andazzo generale nel quale in un contesto filosofico come questo prevalgono con sempre maggiore insistenza argomenti tratti dalle scienze naturali, fondate su metodi sperimentali-induttivi, del tutto diversi da quelli rigorosamente filosofici, deduttivi, dialettici, speculativi, come a legittimare sempre di più il, a mio avviso pernicioso e scorretto, principio epistemologico scientista e positivista, che nega alla filosofia un autonomo spazio d'indagine ontologico, con relativa autonoma metodologia, all'interno del quale poter essere autosufficiente, non tenendo conto dell'irriducibile distinzione tra il piano di questioni di cui si occupa la filosofia, rispetto agli altri, attinenti alle scienze empiriche)

Che il nostro cervello sia la causa del nostro illuderci riguardo la realtà del mondo sensibile (quella all'interno della quale percepiamo la molteplicità degli oggetti, la loro finitezza), che invece sarebbe solo un mondo virtuale, è una posizione che può essere legittimata solo sulla base di uno studio della realtà del cervello, che essendo composta di materia, dovrebbe a sua volta essere uno studio fondato a sua volta sull'esperienza sensibile. Il problema epistemologico che sorge in modo evidente è: se i sensi ci ingannano nello spacciare un mondo virtuale come quello reale, come potrebbero essere adeguati all'autentica comprensione della realtà del cervello e della sua azione sui nostri campi percettivi? Il fatto che le neuroscienze possano utilizzare tecnologie sempre più raffinate non rimuove il problema. Queste tecnologie possono offrire un grande supporto alle nostre percezioni, ma mai sostituirle, sono funzionali all'ampliamento quantitativo del loro campo di osservazioni, ma non possono trasformarne la natura qualitativa, rendendola da falsificatoria a veritativa nella rappresentazione del reale. Anche perché questi supporti tecnologici, essendo prodotti a partire da una visione del mondo scientifica (progresso scientifico e tecnologico si implicano circolarmente) che dovrebbe essere falsa, dovrebbero a loro volta risultare inefficienti nel migliorare la validità di un punto di vista dal quale essi stessi nascono. Quindi resta la questione di individuare la tipologia di sapere entro la quale ci eleveremmo alla consapevolezza dell'inaffidabilità della percezione ordinaria dei fenomeni, oltre che rispondere alla questione, che prima sollevavo, di come una realtà virtuale, non esistente e dunque incapace di produrre effetti causali, riuscirebbe a produrre in noi l'inganno, la formazione  di una visione (molteplicità e finitezza) caratterizzata da attributi opposti, rispetto a l'unica realtà vera, eterna e universale. Il dualismo che traspare da questa impostazione è evidente, ma è di natura epistemologica, dunque filosofica, e qui mi riallaccio alla premessa di questo messaggio. La risoluzione del problema non può che chiamare in causa una soluzione filosofica/metafisica, una volta riconosciuto che il nostro apparato percettivo-concettuale, che ci porta a illuderci sulla realtà di ciò che rappresenta resta lo stesso apparato tramite cui le scienze naturali si occupano del cervello, cioè di quella realtà a cui si attribuisce il ruolo di responsabile dell'illusione, svelando quest'ultima come tale
#163
Tematiche Filosofiche / Re:Dei pregiudizi dei filosofi
24 Novembre 2019, 17:20:21 PM
Citazione di: viator il 24 Novembre 2019, 17:05:15 PMSalve. Secondo me solo i filosofi sciocchi intraprendono il loro cammino nelle speranza di imbattersi nella verità. E' la stessa cosa che avviarsi fisicamente verso una destinazione che qualcuno o molti dicono che esista ma della quale nessuno sa descrivere il cammino per raggiungerla. Solo un imbecille può partire sulla base di tali informazioni. Molto meglio - materialmente e filosoficamente - muoversi nella consapevolezza di voler solo andare a zonzo, trascurando inoltre pure sia i consigli di chi si trova lungo la nostra strada sia i cartelli indicatori "verità a km......". Saluti.

quest'affermazione riguardo l'impossibilità per la filosofia di giungere a delle verità ( parlare di una verità coniugata al singolare presenterebbe delle ambiguità, e forse meriterebbe chiarimenti riguardo cosa si vorrebbe intendere in tale coniugazione) è vera o no? Se è vera dovrebbe ricadere nella categoria di "filosofia sciocca", se è falsa la sua validità si annulla da sé. Insomma, sarò "sciocco" ma non vedo proprio come un'impostazione scettica o relativista possa sostenersi di fronte a questo impasse logico. Ed è proprio la logica il "cammino" di cui si parla, il metodo filosofico come razionalità che non da nulla dogmaticamente per scontato e percorre la strada di ciò che consequenzialmente deducibile da delle evidenze originarie e indubitabili come i princìpi della logica classica. Che sono proprio i princìpi tramite cui il discorso relativista/scettico viene confutato come autocontraddittorio, nel suo da un lato negare ogni possibilità di conoscenza della verità e dall'altro affermare come "vere" le sue affermazioni scettiche o relativiste
#164
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
24 Novembre 2019, 16:11:56 PM
Citazione di: myfriend il 24 Novembre 2019, 11:20:37 AMCiò che noi vediamo, percepiamo, sentiamo, odoriamo, tocchiamo...cioè quella che noi definiamo "realtà" e che abbiamo davanti agli occhi e nella quale ci muoviamo è, a tutti gli effetti, una costruzione del nostro cervello di cui siamo totalmente inconsapevoli. E' il nostro cervello che ci fa percepire la realtà come fatta da una collezione di oggetti distinti e separati che si muovono nello spazio-tempo....che "nascono", "vivono" e poi "muoiono". Noi pensiamo che questa "realtà" sia reale...ma è solo una "realtà virtuale" costruita dal nostro cervello in cui noi siamo inseriti...come se fosse un videogame. Il nostro cervello elabora segnali bio-elettrici che provengono dai nostri sensi e dal nostro sistema nervoso periferico. E costruisce nella nostra mente ciò che noi chiamiamo "realtà". In questo videogame costruito dal nostro cervello le cose "nascono", "crescono" e "muoiono". Tutti i nostri pensieri, le nostre motivazioni, le nostre azioni nascono all'interno di questo videogame che esiste tutto e solo nella nostra testa. Noi pensiamo di agire "consapevolmente"....ma in realtà stiamo agendo all'interno di una realtà virtuale costruita dal nostro cervello e che esiste solo e tutta nella nostra testa e, di questo fatto, siamo totalmente inconsapevoli. Al di là della realtà virtuale costruita dal nostro cervello...all'interno della quale esiste il nostro IO, i nostri pensieri, le nostre filosofie, le nostre fedi, la nostra gioia, la nostra sofferenza, le nostre paure, i nostri desideri e tutto il resto....esiste la realtà REALE che segue logiche del tutto diverse e della quale noi non siamo consapevoli perchè il nostro cervello non la capta e non la percepisce. Quindi....noi non siamo consapevoli del fatto che la realtà che percepiamo con i nostri sensi è solo una "realtà virtuale" - un videogame - costruito dal nostro cervello e che esiste solo e tutta nella nostra testa...e pensiamo che tutto ciò che viviamo in questo videogame sia reale. E, inoltre, non siamo consapevoli nemmeno del fatto che, al di là di questa "realtà virtuale" creata dal nostro cervello, esiste una realtà REALE che segue logiche del tutto diverse che il nostro cervello non percepisce e non può percepire, ma che è, a tutti gli effetti, la vera e unica realtà esistente. Comprendere questo dualismo è il primo passo verso la consapevolezza. Poichè ci consente di porci due domande: 1- che cos'è la realtà virtuale (in cui esiste la "morte") creata dal nostro cervello e quali sono le dinamiche che la regolano? Come vivo io dentro questa realtà virtuale? 2- che cos'è la realtà REALE che esiste al di là del nostro cervello e quali sono le dinamiche che la regolano? Si può vivere in questa realtà REALE se si trova al di là di ciò che il nostro cervello riesce a percepire? Questa è la vera e unica questione: comprendere e diventare consapevoli del dualismo della "caverna di Platone". Tutto il resto è "aria fritta".

così come la presenza alla nostra mente di idee riferite a un significato metafisico come "eternità", "perfezione", "infinito", irriducibili al poter essere spiegate tramite una sintesi fantastica di elementi semplici tratti dai sensi (in quanto, per definizione, "eternità", o "infinito" non sono una somma finita di parti, ma una totalità che trascende ogni composizione di parti che l'uomo può storicamente produrre) rimanda all'effettiva esperienza di realtà conformi a tali idee, come condizione del loro manifestarsi in noi, dall'altro lato l'esperienza della realtà sensibile, costituita da oggetti molteplici, limitati, finiti e, nel caso degli esseri viventi, destinati alla morte, rimanda all'esistenza di una realtà che produce in noi tale esperienza e che sia aderente al contenuto di questa. Cioè, se da un lato l'idea di esseri spirituali necessitano di essere ricondotte a delle realtà adeguate al loro senso, stante il salto qualitativo che differenzia il senso di ciò che si intende con "materiale" rispetto a "spirituale", che impedirebbe all'esperienza del primo di produrre in noi le proprietà che attribuiamo all'idea del secondo, dall'altro questa irriducibilità vale anche all'inverso: se la realtà materiale, molteplice, finita, contingente non esistesse, non potremmo nemmeno averne un'esperienza sensibile, la stessa pretesa "illusione"  circa la sua esistenza non potrebbe darsi. Che senso ha pensare ad una reale totalità spirituale che ci ingannerebbe inducendoci a pensare all'esistenza di una realtà distinta e opposta ad essa? Da dove ricaveremmo gli attributi di questa, in assenza di alcuna reale oggettività in cui sarebbero presenti che produrrebbe in noi "l'inganno"? La mia opinione è che non ha senso negare la finitezza riconducendo la convinzione della sua realtà ad una mancata consapevolezza, perché proprio in tale mancanza consiste la finitezza! La finitezza è proprio ciò che ci rende suscettibili di inganno. Se (e sarei d'accordo) il livello massimo di consapevolezza coincide con la piena esperienza dell'Universale (inteso non  come conoscenza generica, ma la visione di ogni particolarità, "sub specie universalis" all'interno di una prospettiva universale in cui si colgono le Cause prime del loro sorgere e dei collegamenti che li legano tra loro) allora direi che quanto più ci si allontana da tale livello (e dunque si cade nella possibilità dell'inganno) tanto più ciò è dovuto all'azione di una realtà opposta a quella dell'universale spirituale correlata a quel livello massimo, che ci distoglie da questo, ma per esercitare tale azione questa realtà, materiale, deve pur esistere (anche se condivido l'idea della non esistenza della materia allo stato puro, ma vedo la materia come componente di ogni realtà creata, sempre però "accompagnata" dalla forma immateriale). Così come la realtà del molteplice è razionalmente riconoscibile nel momento in cui chi afferma di aver svelato l'inganno, distinguendosi dal resto delle persone ancora rimaste nella caverna platonica, prigioniere dell'inganno, si distingue implicitamente dagli altri e dunque implicitamente riconosce una molteplicità comprendente la sua coscienza come coscienza distinta rispetto a quella degli altri, perché giunta a un livello spirituale superiore, e dunque non l'unica esistente. Se la molteplicità fosse un inganno sarebbe un inganno anche la pretesa di chiunque pensi di aver raggiunto uno stadio di consapevolezza superiore agli altri dall'alto del quale considerare gli altri come "ingannati". Insomma, a me pare che sia un monismo materialista, che vede l'ambito del transeunte, della mortalità come unica realtà intrascendibile, relegando a illusione ogni trascendenza spirituale, che un monismo spiritualista, che all'opposto vede la finitezza e la molteplicità materiale come del tutto illusoria, e vede come unica realtà una totalità spirituale indifferenziata cadano nello stesso errore, al tempo opposto e speculare, di non poter render ragione di una realtà adeguata a produrre in noi l'idea di ciò che dovrebbe essere illusorio, e che non si capisce da dove possa esser nata in noi, in assenza di una realtà conforme al suo senso
#165
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
18 Novembre 2019, 01:18:36 AM
per Ipazia

la mente umana non è riducibile a un pc, associando il corretto funzionamento di un software prodotto da fattori meccanici alla coscienza, da fattori meccanici, per il semplice motivo che il pc altro non è che una funzione prodotta dall'uomo che si limita a eseguire un programma dall'uomo imposto. Lo spirito non è una "funzione" pratica, ma condizione di libertà entro la quale il soggetto pone autonomamente delle finalità, a cui ciò che è pratico, funzionale viene ricondotto e subordinato. I limiti di questa condizione coincidono con quelli della libertà. Mentre l'energia del pc esiste come solo come funzione e dunque possiamo ricondurre la sua origine a una causalità meccanica prodotta esternamente da chi ha interesse che l'energia funzioni, in assenza della quale essa si esaurisce, la coscienza umana, entro i limiti in cui è libera dal determinismo naturale, cioè attribuisce valore a oggetti a prescindere dall'assolvimento di funzioni pratiche (pensiamo all'arte come espressione di pura bellezza, alla contemplazione del tutto disinteressata di una teoria filosofica/scientifica che ispira meraviglia e ammirazione per il suo rigore ed esaustività) muove da un principio interno ad essa, corrispondente alla sensibilità valoriale, che si alimenta a partire dall'esperienza dei valori a cui tale sensibilità è correlata. Un pc è creato da chi ha interesse che funzioni, chi avrebbe interesse a che la mia coscienza tragga godimento dalla visione di un quadro, dall'ascolto della musica, dalla lettura di un libro?

L'anestesia non "neutralizza" lo spirito, solo ne inibisce provvisoriamente la manifestazione degli effetti a livello esteriore e di autocoscienza superficiale del soggetto in questione. Se davvero si desse neutralizzazione, allora la riattivazione delle funzioni coscienti al termine degli effetti dell'anestetico andrebbe considerata una sorta di magia o creazione divina, far ricomparire qualcosa dal nulla. In realtà la riattivazione è data dallo sblocco dell'inibizione chimica che libera il pieno dispiegarsi degli ordinari effetti della coscienza, la cui energia spirituale era anche sotto anestesia pur sempre presente, solo, incapace di avvalersi di un supporto materiale alterato, e quindi repressa negli strati più latenti e profondi della psiche. Che questa limitazione dello spirito la renda "ben poca cosa" o "ben tanta cosa" è una questione che si presta a risposte tutte legittime, ma chiamanti in causa giudizi di valore unicamente soggettivi e personali che nulla incidono sul problema puramente teoretico. Dal mio punto di vista, anche con limitazioni del genere, la ricchezza delle potenzialità dello spirito nell'uomo resta gran cosa, ma è una posizione che lascia il tempo che trova.


Per Viator

forse non è del tutto esatto dire che ammetterei due diverse tipologie di energia, una spirituale, l'altra materiale, più precisamente noto una distinzione di diverse tipologie di FONTI di energia, quella che si può acquisire dall'ispirazione verso idee immateriali che hanno valore per la nostra coscienza, e quella alimentata materialmente come quella che si acquisisce con il cibo o il riposo. Però direi anch'io che esiste un'unica energia psichica, alimentata però da fonti diverse, in quanto possiamo notare come nel quotidiano l'energia ricavata da una fonte può essere utilizzata per il lavoro di una componente che si alimenta da un'altra fonte e viceversa. Al termine di uno sforzo fisico si ha difficoltà a concentrarsi anche verso attività intellettuali, come la lettura di un libro, anche lo spirito risente di una forte privazione dell'energia materiale, oppure l'entusiasmo per aver ricevuto una bella notizia produce un aumento di energie proveniente da fonte spirituale, cioè il valore esaltato dall'evento di cui veniamo informati, che sentiamo il bisogno di sfogare ballando, saltando, correndo, il valore affettivo (spirito) che attribuisco a un persona che vado a trovare alimenta l'energia che impiego per camminare in direzione del luogo dove è, applicata a uno sforzo fisico. Pensare in senso stretto a due diverse forme, e non solo fonti, di energia, rischierebbe di far ricadere nel separatismo delle sostanze cartesiano (intendendo l'energia come ciò tramite cui le proprietà di una cosa si uniscono in una sostanza autosufficiente per esistere), posizione che non condivido, come già ribadito a Jacopus.