Citazione di: Phil il 22 Dicembre 2019, 22:22:00 PMCitazione di: davintro il 22 Dicembre 2019, 20:38:04 PMIl carattere intenzionale che attiene per essenza a ogni giudizio, per il quale ogni giudizio, affermativo o negativo che sia, è sempre la presentazione di una visione mirante a rappresentare il reale in modo oggettivo, fa sì che la differenza tra forma affermativa e negativa, resta un'accidentalità linguistica formale che può trapassare da un modo all'altro senza alterare il contenuto significato intenzionalmente postoPer me non è da confondere il referente dell'affermazione di esistenza con le qualità (o "accidenti") del referente affermato, soprattutto se una qualità apparente consiste in realtà in un (o più) altro referente: - se dico «c'è una stanza», affermo l'esistenza di una stanza e magari poi la dimostro ricorrendo alla definizione di «stanza» e mostrando la sua corrispondenza con l'ente di cui si parla; - se affermo «c'è una stanza rossa», affermo l'esistenza di un referente con una determinata qualità, è quindi anche possibile che esista il referente (stanza) ma non la qualità, o la qualità (il rosso) ma non nel referente affermato (ad esempio se sono in presenza di una macchina rossa, non di una stanza) - se invece affermo «c'è una stanza in cui non ci sono sedie (ovvero in cui sono assenti sedie)» ci sono due referenti, due sostantivi (da «sostanza» intesa alla medievale), ovvero due presunte esistenze, distinte e separate, di cui si parla, la stanza e le sedie, e le dimostrazioni delle due affermazioni sono (onto)logicamente indipendenti: posso dimostrare l'esistenza di sedie, ma eventualmente non localizzate in una stanza (magari in un camion) o l'esistenza di una stanza ma senza sedie (se non se ne riscontra la presenza). La suddetta non è dunque una affermazione di esistenza, ma una affermazione di due esistenze o, ugualmente, due affermazioni di esistenza ipoteticamente correlate. Che esista almeno "una realtà (la nostra) in cui sono assenti unicorni" è empiricamente falsificato: esistiamo io e te (se anche fossimo due chatbot, saremmo comunque reali), o almeno uno dei due, quindi una realtà c'è, Cartesio docet. In tale realtà sono assenti gli unicorni? Non direi: possiamo pensarli, disegnarli, descriverli, etc. rendendoli una presenza. Ritenere che gli unicorni siano reali oltre il loro essere disegnati, nominati, etc. non riguarda più la realtà di cui abbiamo (di)mostrato l'esistenza con la nostra conversazione (anche fosse un soliloquio onirico). La "nostra" realtà empirica è dimostrata dal "cogito" (o dallo "scrivo", nel nostro caso) così come il suo contenere unicorni, di cui stiamo ragionevolmente scrivendo. Tuttavia, se si ritiene che gli unicorni abbiano un'esistenza che va oltre (meta-...) quella sperimentabile e verificabile in discorsi, disegni, etc., ciò riguarda chiaramente un'altra realtà che esula da quella sperimentata e verificata dal nostro scrivere (con tutte le eventuali esitazioni del caso). Che esista un'altra realtà in cui gli unicorni sono esseri viventi, indipendenti dal discorso che ne parla, resta quindi da dimostrare. Se poi definiamo gli unicorni in modo che risultino indimostrabili (impercepibili, infalsificabili, etc.) allora l'affermazione della loro esistenza non potrà percorrere la strada della dimostrazione epistemologica. La differenza fra predicare l'esistenza e la non-esistenza è ontologica, prima che epistemologica; pur trattandosi formalmente di due affermazioni, la differenza è rilevante: nel primo caso ci si riferisce a qualcosa di esistente e presente, nel secondo invece ci si riferisce ad un'assenza determinata, ad un concetto senza referente empirico o "sostanziale" (sempre per dirla alla medievale). Facendo dell'ontologia spiccia e limitata esemplificativamente alla percezione: posso avere (parafrasando Cartesio) «una percezione chiara e distinta» di ciò che è, ma non di ciò che non è; questo differenzia radicalmente l'affermazione di esistenza (e una sua possibile dimostrazione) da quella di non esistenza. Infatti se parlassimo di "percezione dell'assenza di qualcosa" sarebbe un giocoso sofisma (che non hai commesso), come dire che guardando una stanza vuota ho una percezione delle persone che non ci sono, dei clowns che non ci sono, degli elefanti che non ci sono, etc. tutti enti che, al di là del sofisma, non percepisco affatto, perché la percezione (tanto sensoriale quanto intenzionale) in quanto tale, si rivolge alla presenza determinata non all'assenza indeterminata (l'assenza determinata del percepire che "qualcosa c'era ma ora non c'è più" richiederebbe addentrarsi sul tema della memoria, tangente ma non essenziale a quello della dimostrazione intersoggettiva di esistenza). Ha semmai senso affermare che percepisco il "vuoto" della stanza, non tutti gli infiniti enti possibili che potrebbero riempirla ma non ci sono (salvo riuscir a dimostrare che riesco a percepire l'infinito in un istante; anche in questo caso, è chi nega la percezione dell'infinito in un istante che deve dimostrarlo tanto quanto chi l'afferma? Comunque qui ce la caviamo facilmente facendo appello alla definizione stessa di "infinito" che mal si presta ad essere percepito esaustivamente in un batter d'occhio; salvo scenari estetici oppure accontentarsi del suo simbolo, confondendo così, quasi "dolosamente", segno e referente).
senza dubbio affermazione e negazione differiscono in quando indicano cose opposte dal punto di vista ontologico, l'affermazione indica la presenza di un ente, la negazione la sua essenza. Resta il fatto che ogni negazione implica comunque sempre un'affermazione, un'affermazione nella quale giudico come oggettivamente reale ciò che indica la visione entro cui cogliere l'assenza di ciò che è negato. Non potrei giudicare "in questa stanza non ci sono sedie", senza che la negazione dell'esistenza delle sedie non sia accompagnata dal giudizio (non importa se a livello psichico non lo ponga come tema su cui focalizzare l'attenzione, resta comunque operante sullo sfondo della coscienza, in quanto legittima il giudizio di negazione rivolto alle sedie a cui invece sto rivolgendo il pensiero) in cui affermo la realtà della stanza, nella rappresentazione mentale in cui la percepisco. E se questa affermazione, in quanto tale, soggiace all'onere della prova, a questo obbligo epistemologico soggiace necessariamente anche la negazione della presenza delle sedie. Caduta la realtà della percezione della stanza senza sedie, caduta anche la negazione di queste ultime, dato che ammettere l'illusorietà della percezione della stanza aprirebbe la strada alla possibilità di una visione alternativa di una stanza in cui invece le sedie sarebbero presenti