Menu principale
Menu

Mostra messaggi

Questa sezione ti permette di visualizzare tutti i messaggi inviati da questo utente. Nota: puoi vedere solo i messaggi inviati nelle aree dove hai l'accesso.

Mostra messaggi Menu

Messaggi - Phil

#1561
Tematiche Filosofiche / Re:Buddhismo
19 Dicembre 2018, 12:11:57 PM
Citazione di: Sariputra il 18 Dicembre 2018, 21:28:44 PM
La mente non s' impone di provare compassione  ( per seguire un precetto buddhista...), è la sua natura  il provarlo quando è libera dalle radici nocive presenti in essa. Si parla infatti, in questo caso, di una mente praticante che "segue la legge della propria specie" [...]
con la pratica, diventa spontaneo. La presenza mentale è fondamentale. Non esiste seria pratica buddhista che possa fare a meno della coltivazione costante di essa. Non si può comprendere il Buddhismo leggendo solo i discorsi  o i commentari filosofici. Questi vengono SEMPRE dopo la pratica. [...]
"Raggiungere intenzionalmente l'assenza di intenzioni, ecco la giusta via". Questa affermazione è anche un famoso detto in Pali: Sasankharena asankharikam pattabbam, ossia "La spontaneità può essere ottenuta tramite uno sforzo intenzionale premeditato". La spontaneità della pennellata dell'artista arriva sempre dopo, molto dopo, l'intenzione di imparare a dipingere... :)
L'aporia a cui accennavo, quella fra l'aspetto sociale e quello individuale del buddismo, è proprio il contrasto fra l'esigenza (e l'urgenza) di un'etica pre-illuminazione e lo svanire dell'etica nell'illuminazione (lasciando posto ad una benevola spontaneità "impersonale"). Se la pratica è fondamentale per raggiungere la consapevolezza adeguata (che ci renda compassionevoli), è anche vero che tale pratica sarà guidata da precetti e concetti (come tutti quelli che hai giustamente citato: sila, 4 stati mentali salutari, etc.) che rendono l'etica buddista un'altra etica «all'occidentale» (@Ipazia, ovviamente generalizzo per continenti), con regole e norme da seguire perché orientate al bene (che in questo caso è l'illuminazione che interiorizza tali norme al punto di renderle "istintive").
Se la via per l'illuminazione è lastricata di buone intenzioni, di regole e concetti canonizzati, di fatto è questa l'etica che viene generalmente praticata (fra una sesshin e l'altra), e non accade per spontaneità, ma per applicazione e studio di un culto (che è il mio preferito, a scanso di equivoci :) ).
Se mi metto d'impegno ad imparare a dipingere, «dopo, molto dopo» (quasi tardi?) nella peggiore delle ipotesi, smetterò per insoddisfazione dei risultati o per eventi avversi; nella migliore delle ipotesi, acquisirò una pennellata spontanea... perché tale pennellata era da sempre "in me" (buona natura innata) o perché l'ho "costruita" io ("educazione" alla benevolenza)?
D'altronde, se invece mi metto d'impegno e d'intenzione a dare attente martellate al marmo, non potrò diventare pittore, semmai diverrò "spontaneo" scultore...
Secondo me, l'intenzione e l'applicazione plasmano più di quanto rivelino (pur partendo da una base minimamente compatibile).

P.s.
Prendendo per le corna il toro, anzi il bue (quello della parabola): i praticanti dell'etica buddista, la praticano in quanto etica indotta da cultura, lettura, etc. (il che non è un peccato) o in quanto spontaneo risultato dell'illuminazione?
Quando mi riferivo all'aporia del «proporsi in chiave etica ai popoli della terra» mi riferivo a questo; per pochi (quasi nessuno?) e non per tutti  :) 

P.p.s.
Sul non-attaccamento come indifferenza alla mondanità e alla socialità (e al prossimo, anche se suona male  ;) ), forse sono eloquenti le scelte di alcuni maestri (illuminati?) di ritrarsi in solitudine, prendendo rifugio nella solitudine dei boschi più che nello sangha. Sempre che non si tratti di leggende, non sono molto informato in merito.



Citazione di: Ipazia il 19 Dicembre 2018, 10:01:16 AM
Mi pare che la posizione buddista descritta da Sari sia più realistica di quella evangelica che, anche in occidente, appartiene più alla teoria che alla prassi.
Se parliamo di etica, l'aggettivo «realistico» mi pare in netto fuorigioco; se parliamo di quale dei due approcci sia più facilmente comprensibile e coerentemente praticabile dalle masse, l'evangelismo è in esiguo vantaggio (più semplice, leggermente meno incompatibile con inevitabili "inciuci" economico-politici della vita laica); se poi devo dirti a quale mi sento personalmente ed esistenzialmente più vicino, propendo per il personaggio che ha in croce solo le gambe sul grembo e dal sorriso enigmatico e insondabile tipo Gioconda  :)
#1562
Tematiche Filosofiche / Re:Buddhismo
17 Dicembre 2018, 16:12:51 PM
Citazione di: Sariputra il 17 Dicembre 2018, 11:40:29 AM
Il Buddhismo parla di "intenzione", riferendosi ad una volontà che deve spingere l'uomo a porsi in un rapporto di solidarietà, di benevolenza con tutti e con il tutto. [...] presenza di due motivi inerenti al Dhamma buddhista stesso: la negatività del desiderio, che porta inevitabilmente all'attaccamento, e la negazione dell'individualità. [...] Perché dunque, non riconoscendo la sostanziale individualità degli esseri, l'etica buddhista insiste così tanto nello sforzo per coltivare benevolenza e compassione? [...] La benevolenza del buddhista non distingue, non predilige, non s'inchina di qua più che di là: é indifferente e neutrale. Essa é sostanzialmente compassione e pietà per chi, ancora travolto dall'ignoranza, si dibatte tra le onde del `Samsara'.
Qui forse c'è l'aporia a cui il buddismo si espone, se vuole proporsi in chiave etica ai popoli della terra: «indifferenza» e «neutralità« non sono facilmente compatibili con «compassione» e «pietà». Se anche la compassione-pietà per il prossimo non è imposta da un precetto, ma sboccia spontaneamente dalla «retta visione», nel momento in cui la pratico intenzionalmente, significa che il prossimo non mi è indifferente (mi rivolgo a lui) e io non gli sono neutrale (so che potrei/vorrei modificarlo).
Pur abbandonando l'identificazione di «io» e «prossimo», il mio rivolgermi a "lui" in un certo modo (benevolo, o qualunque esso sia), dimostra non-indifferenza e non-neutralità (verso quella parte del tutto che chiamo «lui»). Se anche non premedito alcuna finalità, né nel prossimo («come fine e non come mezzo» diceva qualcuno) né nell'azione compassionevole che gli dedico, la mia bene-volenza non può che essere dettata dalla discriminazione bene/male: se fosse relazione gratuita e disinteressata, indifferente e neutrale, allora non distingueremmo (eppur lo facciamo) fra benevolenza e malevolenza, al punto che la non-compassione e non-pietà rientrerebbero nella visione del non-attaccamento e non-discriminazione. Queste due farebbero dunque legittimamente parte di quella «intenzione», che tratteggi, non a caso, come «volontà che deve spingere l'uomo a porsi in un rapporto di solidarietà, di benevolenza con tutti e con il tutto» (corsivo mio) ed ecco il dovere morale inteso all'occidentale...
Certo, nel buddismo tale bene-volenza coincide con la volontà "illuminata", che non può non volere ciò che una discriminazione (pre-illuminazione) definirebbe come «bene»; tuttavia, proprio tale volere compassionevole, in quanto tale, non è di fatto né indifferente né neutro.

Estinguere la propria sofferenza (dovuta all'attaccamento), non comporta estinguere anche l'attaccamento alla sofferenza altrui? A questo punto, illuminati e consapevoli della "ruota del karma", perché la sofferenza altrui non ci potrebbe anche lasciare indifferenti e neutrali? Il voto di salvare tutti gli essere senzienti è una missione tutt'altro che indiscriminante e impersonale...
Se estinguiamo anche questo ulteriore attaccamento (alla sofferenza altrui), il mondo ci sarà indifferente e noi saremo indifferenziati dal mondo; l'etica sarà allora solo un "gioco di società" fra esseri senzienti e differenzianti; gioco che ci lascerà... indifferenti  :)
#1563
Tematiche Filosofiche / Re:Cos'è la verità
16 Dicembre 2018, 22:04:45 PM
Citazione di: Ipazia il 10 Dicembre 2018, 08:37:18 AM
L'ho "ascoltata" anch'io, ieri mattina da Vito Mancuso, teologo errante, su Radio Tre. Malignamente ho pensato: che la teologia si affidi alla bellezza per sparare le sue ultime cartucce porta bene. [...] Rimane solo Dostoevskij: dio salvato dalla bellezza. Che a questo punto diventa verità.
Non so come lo intenda quel teologo, ma il rapporto fra teologia e bellezza mi sembra l'essenza delle origini dei culti: se intendiamo la bellezza come sublime (esperienza del limite, a suo modo), il passaggio al mistico (anelito a superare il limite) è un passo breve e quasi conseguenziale. Se le religioni sono nate per dare un senso (secondo la "semiopatia" tipica dell'uomo) allo stupore verso il mondo e le dinamiche umane, siamo adesso alla chiusura del cerchio: dopo aver cercato di trapiantarsi nella ragione (ma, dal medioevo in poi, quel terreno è sempre meno ospitale), la religione torna al sentimento extra-razionale per ritrovare un suolo adatto alle sue radici, e qui ha certamente migliori possibilità di germogliare.
Tuttavia per rinverdire nuovamente (e in modo nuovo) forse bisogna attendere che la pioggia del tempo lavi via un po' di quel diserbante di prescrizioni e dogmi, che nondimeno è servito a proteggere la pianta; a concimarla ci pensano già le creature che si cibano dei suoi provvidenziali frutti (senza offesa ovviamente; forse quest'ultima immagine, seppur innocua, non è proprio bucolica  ;D ).
#1564
Attualità / Re:sul diritto d'autore
16 Dicembre 2018, 18:26:58 PM
Tema complesso e dai mille aspetti, quindi abbozzo un brainstorming:

- Sulla questione dell'autorialità, Derrida, in tempi in cui le potenzialità endemiche della tecnologia erano ancora embrionali rispetto ad ora, parlava di «disseminazione», riferendosi sia ad aspetti di mutazione semantica, sia a vicissitudini postali di "invio" (oggi diremo di condivisione). Riattualizzare quella chiave di lettura potrebbe essere un'introduzione teoretica alla dialettica autore/opera.

- Il legame fra autore ed opera, per ciò che viene prodotto oggi, ha rovesciato la classica problematica dell'"esposizione" del neofita, per cui era difficile conquistare una vetrina: ora la vetrina è aperta a tutti (internet), il problema è quello di farsi identificare come autore meritevole. Prima era difficile far sapere ciò che si faceva, esporlo; ora che quasi tutti espongono, la difficoltà è emergere, non come autore ma come autorevole (artista); e spesso è inizialmente una questione di numeri: visualizzazioni, followers, etc. iniziano a contare più delle copie vendute o mostre organizzate (e sono inoltre monetizzabili secondo i principi del marketing on line).

- Se oggi è più facile creare contenuti mediatici (canzoni, film, testi o altro), è anche molto facile copiare e condividere contro la volontà del creatore; l'impatto di questa valanga di opere, informazioni e distorsioni, è un'onda d'urto sociale non sempre facile da gestire. Qui mi viene in mente un titolo: «L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica» (W. Benjamin)

- La tecnologia invita spesso ad un'appropriazione anche attiva, una condivisione creativa, tramite le modifica e personalizzazione di ciò che viene condiviso (siamo nell'epoca della parodia, della citazione, della rivisitazione, del sincretismo, etc.). Ad esempio, youtube ha integrato da anni, nel profilo dell'utente, un editor per modificare i video da caricare. Dall'altro lato, nonostante alcuni blocchi e cancellazioni attuate per motivi di copyright, è evidente che youtube non è in grado di (o non vuole?) controllare e filtrare il flusso di video caricati quotidianamente (come se 10 poliziotti dovessero controllare 1000 ingressi a un museo), con il risultato che quello che si trova nei negozi di dischi o al cinema, si trova spesso gratis anche su youtube (e che esistano programmi per scaricare e convertire i file di youtube, per non parlare di emule e torrent, è conseguenza socialmente inevitabile, considerando che fra "guardie" e "ladri" non c'è spesso nemmeno un gap tecnologico, oltre che numerico, nettamente a vantaggio dei primi).

- Armonizzare il diritto degli autori al guadagno (detto schiettamente), quello dell'opera di restare chiusa nella sua identità originaria e incontaminata (ma chissà se un giorno avremo solo "arte open source"?) e il diritto del pubblico a fruire dell'opera (sebbene oggi fruire non sia più solo contemplare e collezionare, ma anche manipolare e far circolare), richiede una griglia di priorità "di diritto" che inevitabilmente tutelerà più qualcuno a discapito di qualcun'altro. Non credo si possa avere l'autore ricco e famoso, l'opera immacolata e condivisa, il fruitore con portafoglio pieno e libero di diventare a sua volta "autore di seconda mano", chiudendo il cerchio (o è una spirale?).
#1565
Citazione di: Ipazia il 15 Dicembre 2018, 12:06:39 PM
Non intendo incartarmi sulla felicità che si manifesta come ciliegina psicologica su una torta assai più consistente di contenuti
Capisco; eppure se aspettiamo di avere tutta la torta per gustarci la ciliegina... rischiamo di morire di fame (e far ammuffire la ciliegina); forse se (ci) incartiamo (sul)la ciliegina, magari eviteremo di "non vederci più dalla fame" (messaggio non promozionale!  ;D ) .
Chiaramente, lo dico sempre partendo dalla liceità del «de gustibus» individuale.

Citazione di: Ipazia il 15 Dicembre 2018, 12:06:39 PM
la libertà. La quale, anche nella felicità più illusoria, decreta la sua debordante facoltà di trascendere ogni limite  :D Il che, per dei supposti automi, è semplicemente fantastico  ;D
Concordo sul «fantastico» (in tutti i sensi ;) ): è infatti la fantasia a distinguerci dagli automi meccanici che stiamo creando in laboratorio.
#1566
Citazione di: Ipazia il 15 Dicembre 2018, 08:13:54 AM
Che la felicità sia un parametro fragile per definire la libertà lo riconosco, ma pure che c'entri molto con la definizione datane da viator, è altrettanto indubitabile.
Ciò che mi lascia perplesso di quella definizione (oltre al sontuoso slittamento dal piano emotivo a quello esistenziale) è l'«ogni»: se devo aspettare di soddisfare ogni desiderio e ogni bisogno per ritenermi felice (se non ho frainteso), significa che getto la felicità nell'abisso dell'utopia: si creano costantemente nuovi desideri e i bisogni si rinnovano quotidianamente, dunque più ci si attacca ad essi e più ci si distacca dalla felicità? Le riflessioni del buddismo in merito risultano illuminanti.

Secondo me, la felicità che non è un'emozione provata, ma un predeterminato traguardo personale da raggiungere, è piuttosto una metafora della felicità. Trovo quindi utile la triplice distinzione di sgiombo che pur rispetta le connessioni fra piano emotivo, personale e sociale (felicità/realizzazione/giustizia).

Citazione di: Ipazia il 15 Dicembre 2018, 08:13:54 AM
andare in qualche fatiscente deposito di carne umana da lavoro nero per capire che non occorrono voli metafisici per inquadrare il problema del liberatore, libertà e connessa "felicità".
Forse le virgolette redimono la questione e forse allora mi concederai che
Citazione di: Phil il 12 Dicembre 2018, 22:01:55 PM
se lo schiavo ne è comunque contento, il disagio è tutto nella condizione di chi lo giudica nella «peggior condizione»
e sottolineo il "se" di partenza  :)
#1567
Mi ero già sbilanciato in merito, per quanto forse in modo un po' implicito:
Citazione di: Phil il 13 Dicembre 2018, 17:04:50 PM
La felicità è semplicemente un'emozione primaria, se viene provata da qualcuno (senza voler scendere nella verifica fisiologica), non credo bisogni farne una questione di geopolitica, di eroismo, di valori, di realizzazione personale.
Per scoprire le «emozioni primarie» a cui mi riferisco, basta wikipedia  ;)
Non direi quindi che è solo «avvenuta evasione od eliminazione di ogni bisogno e desiderio» (cit.), piuttosto appunto un'emozione che può essere legata a tale realizzazione di un desiderio o bisogno (ma neanche sempre: se trovo 10 euro per terra sono felice, ma non perché desiderassi trovarli o ne avessi bisogno).
#1568
Citazione di: Ipazia il 14 Dicembre 2018, 17:05:48 PM
Miracolo metafisico, da autentico mondo delle idee, riuscire ad estrapolare la felicità individuale dalle condizioni socioevolutive. Prescindendo da queste ultime.
Non sono così impudente da far appello alla tua esperienza personale di felicità (lo ammetto, è per "cavalleria sessista" ;) ), ma chiedo in generale: se qualcuno mi dice di essere «felice» (non «realizzato» o altro), prima di credergli, davvero dovrei indagare attentamente la sua condizione socioevolutiva?
Un bimbo che gioca dicendosi felice, non è davvero felice ma solo prigioniero nella "grotta della spensieratezza"?

Il «miracolo metafisico da autentico mondo delle idee» (cit.) è essere felici per la propria condizione (come insegnano alcuni monaci, aborigeni e perpetue anziane) oppure vincolare la felicità a mitici traguardi metafisici ideali che trascendono la propria condizione?
Non discuto il valore di alcuni ambiziosi percorsi personali, né voglio sottovalutare la rilevanza umana degli aspetti socioevolutivi, tuttavia parlare di «felicità» è altro tema (almeno secondo me).

Citazione di: Ipazia il 14 Dicembre 2018, 17:05:48 PM
Gli aborigeni si sono dati all'alcool appena hanno incontrato un mondo diverso dai loro dei.
Suppongo che il "filantropo" che li ha tirati fuori dalla loro grotta sia fiero e felice di tal risultato... e magari affermerà orgoglioso che "la verità rende liberi" («liberi di» sbronzarsi: in vino veritas  ;D ).


@Sariputra
Si, spesso i patiti di "abbronzatura" cercano compagni, magari che gli facciano ombra per non ustionarsi... e anche gli speleologi, d'altronde, si sentono più sicuri in compagnia; in fondo, siamo animali sociali  :)
#1569
Citazione di: Ipazia il 14 Dicembre 2018, 07:57:54 AM
Chi è dentro e chi è fuori lo dice la storia umana, la storia dell'evoluzione umana.
Forse mi sono perso nei cunicoli della mia caverna, ma si parlava di grotte in rapporto alla felicità individuale, non al successo evolutivo e/o social-culturale (rispetto al quale, chiaramente, la questione della grotta cambia di "profondità").

Se guardo l'aborigeno, il monaco zen o la vecchietta in prima fila a messa, mi viene il sospetto che possano essere felici nella loro grotta almeno tanto quanto lo sono io nella mia (seppur arredata diversamente) e, nel mio piccolo, non mi sento in dovere (verbo sempre affilato, ancor più se dotato di impugnatura etica, molti l'hanno usato per affettare il prossimo) di tirarli fuori per spiegargli che possono trasferirsi altrove, in quella che credo sia la superficie, ma è magari solo la mia grotta-attico.
«Ogni uccello ha il suo tipo di nido», come concorderebbero sia l'"ornitologo multiculturale" che il nativo americano.
#1570
Citazione di: Ipazia il 13 Dicembre 2018, 20:44:40 PM
Tu non devi dire nulla a nessuno; devi solo portarlo fuori dalla grotta.
Tuttavia prima bisognerebbe essere certi di aver ben capito chi è dentro e chi è fuori...
L'"alibi del salvatore" (potenziato dalla promessa di libertà) è uno dei più usati nel plagio delle menti altrui (e non solo nelle sette).

Citazione di: Ipazia il 13 Dicembre 2018, 20:44:40 PM
Nulla vieta il masochismo.
Lungi da me l'imporre divieti; infatti, dicevo
Citazione di: Phil il 13 Dicembre 2018, 17:04:50 PM
de gustibus  :)
#1571
Citazione di: Lou il 13 Dicembre 2018, 16:18:03 PM
trattare il libero arbitrio alla stregua di uno stato di cose, un evento, un fatto, a cui competono criteri di verificazione e falsificazione
Credo che il libero arbitrio venga solitamente supposto come «stato di cose» (libertà da) o «fatto» (libertà di) o condizione reale (appesa a stagionare sopra le aporie a cui accennavo in precedenza). Per metterlo al riparo dal campo minato della logica e della verifica semantica (se non empirica), possiamo definirlo come trascendente; tuttavia poi si porrebbe il classico problema di come tale trascendenza condizioni (causalisticamente o "liberamente"?) la nostra volontà, la nostra materia, etc.
Quel «libero» prima di «arbitrio», mi sembra in fin dei conti comportare solo una spuria (non pertinente) complicazione "controfattuale" (ma resta pur sempre solo la mia opinione).
#1572
Faccio felicemente un salto nella parentesi della felicità (solo tangente di sfuggita al tema principale del libero arbitrio).
La felicità è semplicemente un'emozione primaria, se viene provata da qualcuno (senza voler scendere nella verifica fisiologica), non credo bisogni farne una questione di geopolitica, di eroismo, di valori, di realizzazione personale.
Per come la vedo, non trovo molto senso nel dire a chi è felice "Non sei veramente felice, fidati di me! La vera Felicità (maiuscola d'obbligo) è quella della Libertà, quella della Virtù, etc.".
Se ne facciamo una questione poetico-metafisica, è normale poi concludere che la felicità è irraggiungibile o rara o solo frutto di strenue fatiche.
Ironico che talvolta proprio chi critica e/o addita il nichilismo e il relativismo, sia poi così masochista da scagliare la felicità lontano da se stesso, relegandola nell'orizzonte lontano e aulico dell'epico valoriale o in quello arduo e periglioso delle vette quasi "superomistiche".
Forse gioverebbe un po', anche in questo caso, valutare la differenza fra l'"assolutismo" proposto dalle narrazioni che ci hanno svezzato e l'umile contingenza contestuale in cui muoviamo i nostri passi; rischieremmo quasi di poterci scoprire, a volte, davvero felici...
Tuttavia, de gustibus  :)
#1573
Varie / Re:Varie
12 Dicembre 2018, 22:55:20 PM
Sulla pagina e la carta da gioco: intendo che inserite nel mazzo o nel libro, scompaiono dalla vista, al punto che se sparissero davvero, nessuno se ne accorgerebbe (per questo dobbiamo contare le carte e numerare le pagine :) ).
#1574
Citazione di: Lou il 12 Dicembre 2018, 18:16:46 PM
dire "questo concetto non ha senso", dove questo suo non aver senso ricadrà in qualche modo su eventuali affermazioni o negazioni in merito al libero arbitrio. [...] rilevo una insensatezza e lì mi fermo, come se questa insensatezza non decostruisse in qualche modo la sostenibilità del libero arbitrio.
Esatto, la decostruisce, non semplicemente la nega. La ricaduta è infatti che non si è più sul piano del si/no, ma più "a monte" su quello di sensato/insensato.
Sfoderando uno dei miei soliti esempi banalizzanti: «oggi è il 7 dicembre» e «oggi è il 35 dicembre» non sono, a parer mio, due frasi ugualmente false, poiché la seconda è anche insensata; se poi, parlando ancora di date, dicessi «oggi è giallo», direi qualcosa di solo insensato (sempre licenze poetiche a parte) perché mancano persino i criteri per una eventuale verificazione/falsificazione.

Citazione di: Lou il 12 Dicembre 2018, 18:16:46 PM
Sulla domanda da schivare:
Libero da condizionamenti, libero di autodeterminarsi.
(Parlando di libero arbitrio) definirlo «libero da condizionamenti» non è in fondo un mero truismo (si passa da «libero» alla perifrasi di «libero»)?
«Libero di autodeterminarsi» significa che potrebbe anche non essere libero di autodeterminarsi e/o che il suo autodeterminarsi non ha costrizioni? Per autodeterminarsi non deve forse essere dipendente (non libero) da ciò che lo predetermina? Di nuovo, si autodetermina libero di/da cosa?


Citazione di: sgiombo il 12 Dicembre 2018, 19:41:32 PM
Non c'é peggior condizione di quella dello schiavo contento delle sue catene (non mi ricordo chi l' ha detto; forse Gramsci???)
Secondo me, sta peggio lo schiavo consapevole delle sue catene e incapace di togliersele (se lo schiavo ne è comunque contento, il disago è tutto nella condizione di chi lo giudica nella «peggior condizione»).
#1575
Citazione di: Lou il 11 Dicembre 2018, 20:29:06 PM
negare pertinenza tra libertà e arbitrio si risolve nel negare il libero arbitrio.
Come dicevo: negare pertinenza fra temperatura e martellata, significa negare che la martellata sia "calda" (gradazione di temperatura come «libero» è gradazione massima di libertà)?
Detto in modo meno confuso: negare il libero arbitrio ha senso solo se ha senso il concetto di "libero arbitrio", altrimenti non c'è negazione, ma non-senso (inteso come inintelligibilità di un apparente senso sintattico).
Provo con un altro esempio: se dico "pianoforte razzista" e tu sostieni che il razzismo e il pianoforte non sono pertinenti, non mi stai dicendo «il pianoforte non è razzista» (frase che suonerebbe piuttosto insensata, salvo essere metafora), non stai negando il razzismo del pianoforte, ma mi stai dicendo altro, che precede logicamente l'affermare o il negare il razzismo del pianoforte (ovvero stai sostenendo che non ha senso relazionare quei due elementi).
Stabilire la condizione di possibilità del senso di un concetto (o di un'affermazione), non significa affermare o negare tale concetto (tale distinzione non è una mia cavillosa invenzione: evito di citare i soliti neopositivisti logici viennesi).

Citazione di: Lou il 11 Dicembre 2018, 20:29:06 PM
Se non sussiste pertinenza alcuna, mi dici che significa "libero arbitrio"?
Suggerivo che potesse anche essere, al netto dell'innegabile successo storico della sua tematizzazione strumentale, un «qui pro quo semantico», un falso problema o un problema malposto (soprattutto se non si specifica: libero da/di cosa? Domanda fatta per essere schivata  ;) ).