per Jacopus
come scritto prima, sostituire una causalità spirituale con una prodotta dal sistema nervoso centrale nel rendere ragione di fenomeni psichici come il ricaricamento energetico è un argomento che va benissimo se si parla di contestare un dualismo radicale cartesiano che intende lo spirito come una sorta di sostanza del tutto indipendente da quella estesa corporea, capace di esercitare un potere causale del tutto sufficiente a produrre i fenomeni in questione. Di fronte a ciò, avrebbe buon gioco il progresso delle scienze naturali nel togliere allo "spirito" così inteso un tale potere, una volta riconosciuta la corrispondenza tra reazioni organiche e eventi psichici, attribuendolo al cervello. Ma, confermo, questo dualismo non è la mia posizione. La mia posizione poggia sul principio aristotelico che la materia esiste sempre e solo come materia formata, e mai come materia pura, mera spazialità indeterminata. Quindi per ammettere l'influenza di fonti spirituali nel formarsi dei fenomeni psichici, non c'è, volendo restare nell'ambito dell'immanenza antropologica, alcun bisogno di immaginare sostanze spirituali separate dal sistema nervoso centrale, anche restando nell'immanenza di quest'ultimo, è sufficiente riconoscere come il cervello, come ogni ente materiale, ha una componente materiale che lo rende esteso spazialmente, ma per esistere e funzionare come ente capace di sorreggere l'attività psichica e cosciente che contraddistingue l'essere umano, necessita di una componente formale, che appunto, come dici, lo con-FORMA, che lo vivifichi dall'interno e lo determini la sua materia come materia capace di operare in un modo specifico. L'esempio del cervello cadaverico serviva proprio come conferma empirica di ciò: se riconosciamo l'esistenza di una materia cerebrale priva di vita come quella di un cadavere, allora se ne dovrebbe dedurre che il principio vitale non sta nel cervello in quanto materia, altrimenti ogni materia in quanto tale sarebbe capace di produrre vita. Non sarebbe illogico pensare che il principio differenziante (senza bisogno di sostanzializzarlo!) tra due enti diversi (corpo vivo e cadavere) sia riconducibile a ciò che i due enti hanno in comune, cioè una egual materia, anziché a qualcosa che in uno dei due è presente e nell'altro no? Sarebbe come dire che la differenza che passa tra una pallina bianca e una pallina nera sia data dal loro essere palline, piuttosto che da due diverse colorature. Si tratta di evidente principio di correlazione tra causa (formale in questo caso) ed effetto
la riconduzione della credenza in un'influenza spirituale a prodotto storico di un adattamento all'ambiente è un'affermazione che andrebbe chiarita... quali sarebbero i fini verso cui l'adattamento è funzionale? Se consistessero in finalità meramente materiali, di autoconservazione biologica o di prosecuzione della specie, in questo caso direi che la fede nell'esistenza dello spirito implicherebbe l'assunzione di scopi distinti da questi ultimi e quindi a disperdere energie che sarebbero sottratte agli impegni pratici e materiali, dunque si rivelerebbe, quantomeno per la maggior parte degli aspetti, un fattore controproducente in vista dell'adattamento (l'esempio più lampante è la possibilità del suicidio, la possibilità del rigetto del fine autoconservativo, che viene subordinato alla valutazione a partire da un modello ideale, cioè spirituale di "vita degna di essere vissuta", non per forza coincidente con la vita biologica). E sarebbe assurdo ipotizzare un adattamento che produce la fede e la visione di qualcosa che si rivela disfunzionale ai fini dell'adattamento stesso. Se invece per "adattamento" si intendesse un processo finalizzato a conseguire finalità anche di natura spirituale, verrebbe da chiedersi che senso avrebbe innescare un processo di adattamento teso alla soddisfazione di istanze provenienti da una dimensione in realtà inesistente. E se anche ipotizzassimo che tale soddisfazione fosse solo un ideale autoingannatorio resterebbe insoluta la questione di come nascerebbe questa illusione, come sarebbe possibile una coscienza realmente prodotta da cause unicamente fisiche che però arriva a elaborare l'idea di qualcosa che trascende la fisicità. Ammettere ciò vorrebbe dire assurdamente svincolare completamente la causa dell'esperienza di un'idea dal senso stesso dell'idea in questione, rompendo ogni rapporto di commisurazione o analogia tra causa ed effetto. Sarebbe come se un pesce sempre vissuto sin dalla nascita nell'acqua riuscisse a riflettere (anche elaborando modelli teorici piuttosto sistematici) riguardo la vita sulla terraferma.
sul punto 2) non direi di avere particolari appunti al riguardo, per quanto riguarda il 3) mi limiterei a dire che quando si parla di "letteratura scientifica" chiamata in causa a supportare punti di vista materialisti, che ci si riferisce a metodologie fondate sull'esperienza sensibile e dunque qualitativamente inadeguate alla conoscenza di realtà spirituali ("conoscenza" da intendersi come facoltà anche di giudicare in generale al riguardo, anche, eventualmente di poter arrivare a negare l' esistenza di realtà spirituali, cioè per dire che non esiste niente di spirituale devo comunque essere in grado di intendere il senso dell'oggetto in questione su cui pronuncio il giudizio di non-esistenza, cioè di essere in possesso di un punto di vista adeguato e corrispondente ad esso). Se si afferma che tale metodologia sia l'unica a partire da cui poter pronunciare giudizi razionali, occorrerebbe ammettere che l'oggetto a cui la metodologia è adeguata, il mondo sensibile, sia l'unico possibile. Come si nota, l'affermazione della fisicità come unica realtà possibile non è la conclusione scientifica di un ragionamento, ma la premessa dogmatica che si accetta fin dall'inizio e che muove a determinare la metodologia adeguata a studiare questo mondo come l'unica sensata da applicare. L'assunzione di questa premessa dogmatica è la componente fideista che grava su ogni pretesa positivista di applicare le scienze della fisica in un contesto in cui non dovrebbero avere nulla a che fare per definizione, cioè la metafisica
come scritto prima, sostituire una causalità spirituale con una prodotta dal sistema nervoso centrale nel rendere ragione di fenomeni psichici come il ricaricamento energetico è un argomento che va benissimo se si parla di contestare un dualismo radicale cartesiano che intende lo spirito come una sorta di sostanza del tutto indipendente da quella estesa corporea, capace di esercitare un potere causale del tutto sufficiente a produrre i fenomeni in questione. Di fronte a ciò, avrebbe buon gioco il progresso delle scienze naturali nel togliere allo "spirito" così inteso un tale potere, una volta riconosciuta la corrispondenza tra reazioni organiche e eventi psichici, attribuendolo al cervello. Ma, confermo, questo dualismo non è la mia posizione. La mia posizione poggia sul principio aristotelico che la materia esiste sempre e solo come materia formata, e mai come materia pura, mera spazialità indeterminata. Quindi per ammettere l'influenza di fonti spirituali nel formarsi dei fenomeni psichici, non c'è, volendo restare nell'ambito dell'immanenza antropologica, alcun bisogno di immaginare sostanze spirituali separate dal sistema nervoso centrale, anche restando nell'immanenza di quest'ultimo, è sufficiente riconoscere come il cervello, come ogni ente materiale, ha una componente materiale che lo rende esteso spazialmente, ma per esistere e funzionare come ente capace di sorreggere l'attività psichica e cosciente che contraddistingue l'essere umano, necessita di una componente formale, che appunto, come dici, lo con-FORMA, che lo vivifichi dall'interno e lo determini la sua materia come materia capace di operare in un modo specifico. L'esempio del cervello cadaverico serviva proprio come conferma empirica di ciò: se riconosciamo l'esistenza di una materia cerebrale priva di vita come quella di un cadavere, allora se ne dovrebbe dedurre che il principio vitale non sta nel cervello in quanto materia, altrimenti ogni materia in quanto tale sarebbe capace di produrre vita. Non sarebbe illogico pensare che il principio differenziante (senza bisogno di sostanzializzarlo!) tra due enti diversi (corpo vivo e cadavere) sia riconducibile a ciò che i due enti hanno in comune, cioè una egual materia, anziché a qualcosa che in uno dei due è presente e nell'altro no? Sarebbe come dire che la differenza che passa tra una pallina bianca e una pallina nera sia data dal loro essere palline, piuttosto che da due diverse colorature. Si tratta di evidente principio di correlazione tra causa (formale in questo caso) ed effetto
la riconduzione della credenza in un'influenza spirituale a prodotto storico di un adattamento all'ambiente è un'affermazione che andrebbe chiarita... quali sarebbero i fini verso cui l'adattamento è funzionale? Se consistessero in finalità meramente materiali, di autoconservazione biologica o di prosecuzione della specie, in questo caso direi che la fede nell'esistenza dello spirito implicherebbe l'assunzione di scopi distinti da questi ultimi e quindi a disperdere energie che sarebbero sottratte agli impegni pratici e materiali, dunque si rivelerebbe, quantomeno per la maggior parte degli aspetti, un fattore controproducente in vista dell'adattamento (l'esempio più lampante è la possibilità del suicidio, la possibilità del rigetto del fine autoconservativo, che viene subordinato alla valutazione a partire da un modello ideale, cioè spirituale di "vita degna di essere vissuta", non per forza coincidente con la vita biologica). E sarebbe assurdo ipotizzare un adattamento che produce la fede e la visione di qualcosa che si rivela disfunzionale ai fini dell'adattamento stesso. Se invece per "adattamento" si intendesse un processo finalizzato a conseguire finalità anche di natura spirituale, verrebbe da chiedersi che senso avrebbe innescare un processo di adattamento teso alla soddisfazione di istanze provenienti da una dimensione in realtà inesistente. E se anche ipotizzassimo che tale soddisfazione fosse solo un ideale autoingannatorio resterebbe insoluta la questione di come nascerebbe questa illusione, come sarebbe possibile una coscienza realmente prodotta da cause unicamente fisiche che però arriva a elaborare l'idea di qualcosa che trascende la fisicità. Ammettere ciò vorrebbe dire assurdamente svincolare completamente la causa dell'esperienza di un'idea dal senso stesso dell'idea in questione, rompendo ogni rapporto di commisurazione o analogia tra causa ed effetto. Sarebbe come se un pesce sempre vissuto sin dalla nascita nell'acqua riuscisse a riflettere (anche elaborando modelli teorici piuttosto sistematici) riguardo la vita sulla terraferma.
sul punto 2) non direi di avere particolari appunti al riguardo, per quanto riguarda il 3) mi limiterei a dire che quando si parla di "letteratura scientifica" chiamata in causa a supportare punti di vista materialisti, che ci si riferisce a metodologie fondate sull'esperienza sensibile e dunque qualitativamente inadeguate alla conoscenza di realtà spirituali ("conoscenza" da intendersi come facoltà anche di giudicare in generale al riguardo, anche, eventualmente di poter arrivare a negare l' esistenza di realtà spirituali, cioè per dire che non esiste niente di spirituale devo comunque essere in grado di intendere il senso dell'oggetto in questione su cui pronuncio il giudizio di non-esistenza, cioè di essere in possesso di un punto di vista adeguato e corrispondente ad esso). Se si afferma che tale metodologia sia l'unica a partire da cui poter pronunciare giudizi razionali, occorrerebbe ammettere che l'oggetto a cui la metodologia è adeguata, il mondo sensibile, sia l'unico possibile. Come si nota, l'affermazione della fisicità come unica realtà possibile non è la conclusione scientifica di un ragionamento, ma la premessa dogmatica che si accetta fin dall'inizio e che muove a determinare la metodologia adeguata a studiare questo mondo come l'unica sensata da applicare. L'assunzione di questa premessa dogmatica è la componente fideista che grava su ogni pretesa positivista di applicare le scienze della fisica in un contesto in cui non dovrebbero avere nulla a che fare per definizione, cioè la metafisica