Menu principale
Menu

Mostra messaggi

Questa sezione ti permette di visualizzare tutti i messaggi inviati da questo utente. Nota: puoi vedere solo i messaggi inviati nelle aree dove hai l'accesso.

Mostra messaggi Menu

Messaggi - davintro

#166
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
18 Novembre 2019, 00:06:57 AM
per Jacopus

come scritto prima, sostituire una causalità spirituale con una prodotta dal sistema nervoso centrale nel rendere ragione di fenomeni psichici come il ricaricamento energetico è un argomento che va benissimo se si parla di contestare un dualismo radicale cartesiano che intende lo spirito come una sorta di sostanza del tutto indipendente da quella estesa corporea, capace di esercitare un potere causale del tutto sufficiente a produrre i fenomeni in questione. Di fronte a ciò, avrebbe buon gioco il progresso delle scienze naturali nel togliere allo "spirito" così inteso un tale potere, una volta riconosciuta la corrispondenza tra reazioni organiche e eventi psichici, attribuendolo al cervello. Ma, confermo, questo dualismo non è la mia posizione. La mia posizione poggia sul principio aristotelico che la materia esiste sempre e solo come materia formata, e mai come materia pura, mera spazialità indeterminata. Quindi per ammettere l'influenza di fonti spirituali nel formarsi dei fenomeni psichici, non c'è, volendo restare nell'ambito dell'immanenza antropologica, alcun bisogno di immaginare sostanze spirituali separate dal sistema nervoso centrale, anche restando nell'immanenza di quest'ultimo, è sufficiente riconoscere come il cervello, come ogni ente materiale, ha una componente materiale che lo rende esteso spazialmente, ma per esistere e funzionare come ente capace di sorreggere l'attività psichica e cosciente che contraddistingue l'essere umano, necessita di una componente formale, che appunto, come dici, lo con-FORMA, che lo vivifichi dall'interno e lo determini la sua materia come materia capace di operare in un modo specifico. L'esempio del cervello cadaverico serviva proprio come conferma empirica di ciò: se riconosciamo l'esistenza di una materia cerebrale priva di vita come quella di un cadavere, allora se ne dovrebbe dedurre che il principio vitale non sta nel cervello in quanto materia, altrimenti ogni materia in quanto tale sarebbe capace di produrre vita. Non sarebbe illogico pensare che il principio differenziante (senza bisogno di sostanzializzarlo!) tra due enti diversi (corpo vivo e cadavere) sia riconducibile a ciò che i due enti hanno in comune, cioè una egual materia, anziché a qualcosa che in uno dei due è presente e nell'altro no? Sarebbe come dire che la differenza che passa tra una pallina bianca e una pallina nera sia data dal loro essere palline, piuttosto che da due diverse colorature. Si tratta di evidente principio di correlazione tra causa (formale in questo caso) ed effetto


 la riconduzione della credenza in un'influenza spirituale a prodotto storico di un adattamento all'ambiente è un'affermazione che andrebbe chiarita... quali sarebbero i fini verso cui l'adattamento è funzionale? Se consistessero in finalità meramente materiali, di autoconservazione biologica o di prosecuzione della specie, in questo caso direi che la fede nell'esistenza dello spirito implicherebbe l'assunzione di scopi distinti da questi ultimi e quindi a disperdere energie che sarebbero sottratte agli impegni pratici e materiali, dunque si rivelerebbe, quantomeno per la maggior parte degli aspetti, un fattore controproducente in vista dell'adattamento (l'esempio più lampante è la possibilità del suicidio, la possibilità del rigetto del fine autoconservativo, che viene subordinato alla valutazione a partire da un modello ideale, cioè spirituale di "vita degna di essere vissuta", non per forza coincidente con la vita biologica). E sarebbe assurdo ipotizzare un adattamento che produce la fede e la visione di qualcosa che si rivela disfunzionale ai fini dell'adattamento stesso. Se invece per "adattamento" si intendesse un processo finalizzato a conseguire finalità anche di natura spirituale, verrebbe da chiedersi che senso avrebbe innescare un processo di adattamento teso alla soddisfazione di istanze provenienti da una dimensione in realtà inesistente. E se anche ipotizzassimo che tale soddisfazione fosse solo un ideale autoingannatorio resterebbe insoluta la questione di come nascerebbe questa illusione, come sarebbe possibile una coscienza realmente prodotta da cause unicamente fisiche che però arriva a elaborare l'idea di qualcosa che trascende la fisicità. Ammettere ciò vorrebbe dire assurdamente svincolare completamente la causa dell'esperienza di un'idea dal senso stesso dell'idea in questione, rompendo ogni rapporto di commisurazione o analogia tra causa ed effetto. Sarebbe come se un pesce sempre vissuto sin dalla nascita nell'acqua riuscisse a riflettere (anche elaborando modelli teorici piuttosto sistematici) riguardo la vita sulla terraferma.

sul punto 2) non direi di avere particolari appunti al riguardo, per quanto riguarda il 3) mi limiterei a dire che quando si parla di "letteratura scientifica" chiamata in causa a supportare punti di vista materialisti, che ci si riferisce a metodologie fondate sull'esperienza sensibile e dunque qualitativamente inadeguate alla conoscenza di realtà spirituali ("conoscenza" da intendersi come facoltà anche di giudicare in generale al riguardo, anche, eventualmente di poter arrivare a negare l' esistenza di realtà spirituali, cioè per dire che non esiste niente di spirituale devo comunque essere in grado di intendere il senso dell'oggetto in questione su cui pronuncio il giudizio di non-esistenza, cioè di essere in possesso di un punto di vista adeguato e corrispondente ad esso). Se si afferma che tale metodologia sia l'unica a partire da cui poter pronunciare giudizi razionali, occorrerebbe ammettere che l'oggetto a cui la metodologia è adeguata, il mondo sensibile, sia l'unico possibile. Come si nota, l'affermazione della fisicità come unica realtà possibile non è la conclusione scientifica di un ragionamento, ma la premessa dogmatica che si accetta fin dall'inizio e che muove a determinare la metodologia adeguata a studiare questo mondo come l'unica sensata da applicare. L'assunzione di questa premessa dogmatica è la componente fideista che grava su ogni pretesa positivista di applicare le scienze della fisica  in un contesto in cui non dovrebbero avere nulla a che fare per definizione, cioè la metafisica
#167
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
15 Novembre 2019, 23:21:41 PM
è un errore dedurre dall'individuazione di reazioni fisiche/neurologiche concomitanti all'azione sulla nostra psiche di fattori spirituali che tali reazioni siano le cause esplicative dell'azione stessa, e non delle conseguenze concomitanti di qualcosa agente a livello più profondo e non esteriormente rilevabile. Lo dice la parola stessa, "reazione", cioè non la causa prima, ma l'effetto di qualcosa che viene prima, se non a livello cronologico, comunque logico. Le reazioni chimiche che si producono concomitanti all'afflusso di nuove energie nella risposta allo stimolo a cui attribuiamo soggettivamente importanza, non potrebbero essere la causa esplicativa dell'evento, in quanto il riconoscimento del valore verso cui è stimolato, si rivolge a enti ideali, dal senso intelligibile, di cui non abbiamo apprensione corporea. L'entusiasmo che posso provare leggendo un libro che cita valori in cui credo consiste in un afflusso energetico alimentato da fonti di cui non potrei avere alcuna esperienza fisica, cioè registrabile per via sensibile. Non vedo, non ascolto, non tocco l'amore, la libertà, la giustizia, l'amicizia, eppure ho un'intuizione di questi valori, e stimoli riferiti a tali idee suscitano una produzione di nuove energie, a testimonianza di una componente spirituale della nostra mente, che pur non avendo la facoltà di svincolare la coscienza dalla necessità di un supporto materiale, esprime una vitalità non ricavata da fonti materiali. Quindi direi che le reazioni organiche concomitanti al fenomeno del "ricarimento energetico" è un argomento valido in contrapposizione a un radicale dualismo cartesiano che vede fenomeni mentali e corporei in assenza di alcuna implicazione logica che li colleghi, e che non è la mia posizione, ma non riguardo un'impostazione aristotelica che vede anima e corpo come forma e materia, e dove la componente formale e immateriale segue proprie leggi distinte da quelle riferite all'aspetto di mera estensione spaziale, anche se da sola non basta a fondare una sostanza. Già il fatto che si parli  di "reazioni organiche" implica il trovarci in un contesto dove la realtà non si riduce a estensione materica, ma materia pervasa e organizzata da un principio formale/immateriale che la specifica attribuendole una funzionalità, appunto, organica definita come vita, funzionalità che la pura materia non potrebbe darsi (il cervello inteso come pura massa materica resta presente nel cadavere, a riprova che la vita non scaturisce direttamente da tale massa, ma da un'interiorità che la informa, che configura unitariamente le singole parti senza ridursi a una di essa o a una mera somma). Per quanto riguarda l'esempio dell'anestesia, direi che, essendo una condizione provvisoria al cui termine la coscienza riprende a produrre i suoi effetti, non si smentisce una relazione in cui la materia è strumento dello spirito: perché lo strumento funzioni deve operare in una certa efficienza, che l'anestesia sospende, impedendo allo spirito di esprimersi, ma tutto ciò non nega l'idea per cui la coscienza ricaverebbe la propria energia psichica anche da fonti immateriali. Il fatto che la condizione in cui il supporto materiale versa impedisca l'attualizzarsi delle funzioni in cui tale energia si esprime non toglie che le fonti che alimentano quest'energia non siano date dal supporto in questione, a meno di non confondere il fatto che un certo fattore (l'efficienza materiale) sia necessario per il darsi di un certo evento (l'attività cosciente), con quello per cui il fattore necessario diventi anche sufficiente. Il riduzionismo materialista nasce da questa confusione.
#168
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
14 Novembre 2019, 23:31:22 PM
Citazione di: Phil il 14 Novembre 2019, 16:36:51 PMLa morte è un tema così ricco di storia e di narrazioni che forse si fa fatica a semplificarlo, tuttavia ho l'impressione che sia oggi uno dei temi classici più "sopravvalutati": la mia autocoscienza, autopercezione, autoconsapevolezza, autoetc., ha avuto un suo innesco biologico (dalla fecondazione alla nascita, etc.) a cui seguirà un disinnesco altrettanto bio-logico (differenti possono esserne le cause), che lascerà la materia del mio corpo priva di quell'attività (neurologica, vascolare, etc.) chiamata «vita». Fin qui ho pochi dubbi. Pensare che a seguito dell'innesco biologico debba crearsi una (auto)coscienza eterna (attributo per sua definizione inverificabile) che continui la sua attività prescindendo dal corpo che l'ha ospitata (ipotesi infalsificabile nell'al di qua) mi sembra epistemologicamente piuttosto infondato, al netto di tutte le tradizioni culturali e dei topos letterari. Quali prove, che non siano narrazioni degli antichi (ricchi di fantasia ma poveri di nozioni), depone a favore di tale generazione di un'attività immateriale eterna partendo da un innesco biologico? Quando la fiamma di una candela si spegne (tanto per usare un esempio originale), dove va? Oppure non va da nessuna parte, ma cambia semplicemente il suo stato fisico, non essendo più fiamma bensì fumo (non più uomo-vivo bensì cadavere)? L'uomo non è una candela, certo, ma intanto, fino a prova contraria, nonostante l'abbondanza di teorie infalsificabili (che non forniscono prove in merito), la vedo piuttosto semplice.

Nemmeno a me convince l'idea di un'anima totalmente affrancata dal corpo, proprio da un punto di vista logico-speculativo. Un'anima, una forma spirituale del tutto autosufficiente rispetto al rapporto con una base materiale, assurgerebbe a una condizione divina, quella dello Spirito assoluto, incompatibile con la sua condizione ontologica umana, finita e contingente. Ma l'impossibilità di vita umana del tutto slegata dalla materia non implica necessariamente la negazione di una vita eterna oltre la morte. Se il corpo va inteso come materia formata adeguata a supportare determinate funzioni vitali che nel loro complesso costituiscono la forma, l'essenza della vita, allora sarebbe ammettere possibile diverse tipologie di corporeità in corrispondenza di diverse forme definenti i vari modelli di "vita". Due ragazzi vanno a correre (supponendo abbiano grossomodo la stessa disposizione alla resistenza fisica, per evitare di complicare il senso dell'esempio). Il primo decide di fermarsi dopo 10 minuti, il secondo prosegue per mezzora. Quest'ultimo appena concluso l'esercizio incontra una persona che gli parla di un argomento che gli sta fortemente a cuore. Subito le sue energie si ricaricano immediatamente sospinte dallo stimolo mentale verso l'argomento di discussione, al punto che si sente persino più fresco ed energico del primo ragazzo, pur avendo appena concluso un esercizio fisico tre volte più prolungato. Ciò, nell'ottica di un'antropologia totalmente fisicalista e meccanicista sarebbe inconcepibile. In un'ottica di questo genere, ogni evento psichico, come l'aumento o perdita di forza vitale dovrebbe essere riconducibile a una causalità fisica del tutto prevedibile esteriormente, articolata nella polarità sforzo/dispersione energetica vs riposo/recupero. Invece l'esempio mostra l'influsso di una componente soggettiva, spirituale, motivazionale, il nostro sistema di valori, che, accanto alle cause fisiche, interviene sulla psiche rinvigorendone l'energia nel caso dei sentimenti positivi o esaurendola nel caso dei sentimenti negativi (direi, il caso della depressione). Penso che anche il più radicale riduzionista cultore delle neuroscienze non potrebbe immaginare una previsione scientifica così esatta delle reazioni psicologiche di fronte a stimoli di natura valoriale. Questa sfera motivazionale-spirituale, irriducibile alla causalità fisica, costituisce una fonte di autoricarimento delle energie psichiche, e se a ciò aggiungiamo il principio per cui l'abituale esercizio di una facoltà determina il formarsi di una disposizione stabile (come a livello fisico notiamo come dopo anni di allenamento un atleta raggiunga un livello di coordinazione o potenza che consente di utilizzare il corpo per raggiungere livelli di efficienza irraggiungibili per gli altri), allora troverei del tutto ragionevole ammettere che una persona abituata nel corso della vita a trarre forza soprattutto da valori spirituali (etica, conoscenza, politica, certe forme artistiche) piuttosto che sul possesso dei beni materiali, possa sviluppare una disposizione psichica ad alimentare la propria energia a partire da fonti distinte da quelle da cui attinge il corpo, e dunque a preservare, entro i limiti in cui sviluppa tale indipendenza, un certo livello di energia.  Se tutto questo discorso lo calibriamo col principio ricordato in precedenza, di negare per l'anima condizione divina di una condizione puramente spirituale, allora la soluzione più ragionevole appare essere che il livello di energia psichica spiritualmente alimentata (nulla di new age, mistico, cialtronesco, basti l'esempio di prima dell'entusiasmo per i valori personali che contrastano l'azione della causalità fisica nel caso dell'atleta, un fenomeno potenzialmente ricorrente e che tutti possono naturalmente constatare), necessiti sempre di un corpo, di un supporto materiale, ma di un tipo qualitativamente distinto e irriducibile dai corpi di cui abbiamo esperienza, corpi maggiormente adeguati a supportare materialmente delle forme vivente che hanno raggiunto, dopo il distacco dai corpi della vita precedente, un livello spirituale più elevato e profondo. Una tipologia di corpi impossibili da descrivere sulle basate delle attuali categorie intellettive tarate per il nostro attuale livello, ma che si potrebbero avvicinare all'idea di una "materia angelica", complesso di potenzialità di enti, il cui atto, la componente formale che configura la materia e la specifica ordinandola in distinte funzioni, non è puro come quello divino, ma occupa un livello ontologico superiore rispetto agli atti umani
#169
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
14 Novembre 2019, 01:16:03 AM
Citazione di: davintro il 13 Novembre 2019, 21:28:17 PMl'argomentazione atea per cui la fede sarebbe solo un tentativo di sfuggire al pensiero angosciante del Nulla dopo la morte a mio avviso ha il torto di capovolgere i termini della questione, considerando la formazione delle idee metafisiche su cui la fede fa leva come effetto di una causa consistente nel bisogno umano di autoingannarsi per evitare l'angoscia della finitezza. Causa ed effetto andrebbero invertiti, sulla base dell'evidenza che ogni timore nei confronti del possibile darsi di un qualsivoglia evento, come appunto il Nulla dopo la morte, è sempre l'altra faccia della medaglia della speranza del suo contrario, cioè la vita eterna. Paura e speranza non si danno mai l'una separata dall'altra, si correlano costantemente, senza alcuna anteriorità né logica né cronologica di una sull'altra (il correlato negativo dell'assenza della speranza non è la paura, può essere la tristezza, la malinconia, la rassegnazione, l'indifferenza, sentimenti ben diversi dalla paura). Se a ciò aggiungiamo un'altra evidenza, cioè che la speranza della vita eterna da sempre correlata al timore della sua mancanza implichi l'intuizione dell'idea di Eternità, allora dovremmo riconoscere come assurdo l'argomento ateo per cui tale idea si formerebbe come conseguenza successiva della paura del Nulla dopo la morte. Infatti sin dal primo istante in cui ci si pone il problema del dopo la morte e si comincerebbe a provare timore nei confronti della possibilità del Nulla, l'intuizione dell'idea di Vita Eterna, della cui esistenza abbiamo speranza sarebbe già presente nella nostra morte. Non si avrebbe alcun timore del Nulla dopo la morte se ad ogni istante questo timore non fosse associato al pensiero di un'esistenza eterna, e dunque questo pensiero non può essere il prodotto originato del timore, espressione di un'attività psicologica umana che si dà nel tempo. Se così fosse, dovremmo ammettere un tempo in cui la paura del Nulla era presente in assenza della speranza del "non-Nulla", e dunque dell'idea di tale vita eterna, cosa illogica, sulla base del significato della paura. Questa originarietà dell'idea della vita eterna restituisce legittimità alla posizione metafisica e trascendentista: recuperando l'assunto cartesiano, dovremmo ammettere che la formazione di ogni idea implichi l'esperienza da parte del pensiero che la pensa di un ente che sia in qualche modo commisurato al senso dell'idea in questione. E se la finitezza è la condizione ontologica di ogni ente mondano, l'idea di un'esistenza eterna implica un rapporto spirituale tra la mente umana e una realtà sovramondana come Dio, unica ad essere adeguata a produrre in noi la presenza di tale idea, perché la rispecchia nel suo Essere. Il che non vuol dire che ogni rappresentazione storica di Dio delle varie religioni possa adempiere alla risoluzione di tale questione teoretica, cioè l'origine della presenza in noi di questa idea, ma che quantomeno un'idea generica di Dio come Causa sovratemporale che anche un deista potrebbe accettare, può assolvere a tale funzione esplicativa

errata corrige, nel passo "sarebbe già presente alla nostra morte", in realtà intendevo scrivere: "sarebbe già presente alla nostra mente". Spero il refuso non abbia compromesso l'intelligibilità in generale del messaggio. Chiedo scusa.
#170
Tematiche Filosofiche / Re:La morte
13 Novembre 2019, 21:28:17 PM
l'argomentazione atea per cui la fede sarebbe solo un tentativo di sfuggire al pensiero angosciante del Nulla dopo la morte a mio avviso ha il torto di capovolgere i termini della questione, considerando la formazione delle idee metafisiche su cui la fede fa leva come effetto di una causa consistente nel bisogno umano di autoingannarsi per evitare l'angoscia della finitezza. Causa ed effetto andrebbero invertiti, sulla base dell'evidenza che ogni timore nei confronti del possibile darsi di un qualsivoglia evento, come appunto il Nulla dopo la morte, è sempre l'altra faccia della medaglia della speranza del suo contrario, cioè la vita eterna. Paura e speranza non si danno mai l'una separata dall'altra, si correlano costantemente, senza alcuna anteriorità né logica né cronologica di una sull'altra (il correlato negativo dell'assenza della speranza non è la paura, può essere la tristezza, la malinconia, la rassegnazione, l'indifferenza, sentimenti ben diversi dalla paura). Se a ciò aggiungiamo un'altra evidenza, cioè che la speranza della vita eterna da sempre correlata al timore della sua mancanza implichi l'intuizione dell'idea di Eternità, allora dovremmo riconoscere come assurdo l'argomento ateo per cui tale idea si formerebbe come conseguenza successiva della paura del Nulla dopo la morte. Infatti sin dal primo istante in cui ci si pone il problema del dopo la morte e si comincerebbe a provare timore nei confronti della possibilità del Nulla, l'intuizione dell'idea di Vita Eternità, della cui esistenza abbiamo speranza sarebbe già presente nella nostra morte. Non si avrebbe alcun timore del Nulla dopo la morte se ad ogni istante questo timore non sia associato al pensiero di un'esistenza eterna, e dunque questo pensiero non può essere il prodotto originato del timore, espressione di un'attività psicologica umana che si dà nel tempo. Se così fosse, dovremmo ammettere un tempo in cui la paura del Nulla era presente in assenza della speranza del "non-Nulla", e dunque dell'idea di tale vita eterna, cosa illogica, sulla base del significato della paura. Questa originarietà dell'idea della vita eterna restituisce legittimità alla posizione metafisica e trascendentista: recuperando l'assunto cartesiano, dovremmo ammettere che la formazione di ogni idea implichi l'esperienza da parte del pensiero che la pensa di un ente che sia in qualche modo commisurato al senso dell'idea in questione. E se la finitezza è la condizione ontologica di ogni ente mondano, l'idea di un'esistenza eterna implica un rapporto spirituale tra la mente umana e una realtà sovramondana come Dio, unica ad essere adeguata a produrre in noi la presenza di tale idea, perché la rispecchia nel suo Essere. Il che non vuol dire che ogni rappresentazione storica di Dio delle varie religioni possa adempiere alla risoluzione di tale questione teoretica, cioè l'origine della presenza in noi di questa idea, ma che quantomeno un'idea generica di Dio come Causa sovratemporale che anche un deista potrebbe accettare, può assolvere a tale funzione esplicativa
#171
Tematiche Filosofiche / Re:Filosofia politica
08 Novembre 2019, 18:21:15 PM
Al di là della distinzione tra giustizia commutativa e distributiva, vorrei evidenziare come in entrambi i modelli emerga il valore, assunto a criterio normativo, del merito. L'idea che la politica dovrebbe attivarsi perché il possesso dei beni da parte dei cittadini segua logiche di "merito" (in fondo anche il principio dell'associare retribuzione e quantità di lavoro, segue un principio meritocratico, se ti impegni allora vuol dire che "meriti" una ricompensa). Ma, come già colto da Anthony, la definizione del "merito" porta con sé una certo carattere di soggettività e arbitrarietà, e dunque uno stato che intervenga sulla base del principio del merito finirebbe col sovrapporre un'ideale etico di valore ("merito" implica sempre un giudizio di valore, quella persona merita il possesso di un bene, perché il suo agire è riconosciuto come "virtuoso", utilizzando un modello di virtù posto come oggettivamente l'unico possibile), elaborato dai governanti, che viene imposto socialmente, discriminando modelli etici alternativi e alternative corrispondenti definizioni di merito. In questo senso andrebbe fatta una fondamentale distinzione tra i campi entro cui seguire un principio genericamente meritocratico avrebbe o meno legittimità nel contesto di uno stato di diritto, che non voglia porsi come totalitario. Tale principio resta legittimo a livello puramente strumentale, utilitaristico: è necessario che l'efficienza dei servizi che lo stato offre ai suoi individui sia garantita dalla selezione dei più meritevoli, o meglio, competenti, ai posti di responsabilità, in questo contesto la meritocrazia è funzionale a che lo stato svolga nel migliore dei modi possibili la funzione per cui storicamente sorge, cioè garantire servizi che in una condizione di anarchia non sarebbero garantiti, prima di tutto la sicurezza personale. La meritocrazia perde legittimità nel momento in cui, oltre al limitarsi a essere criterio selettivo dei ruoli lavorativi, diviene anche criterio di distribuzione di beni o diritti. In quest'ottica, lo stato non si limiterebbe più ad essere una semplice funzione al servizio degli individui, dalla cui volontà dipende il suo esistere, ma si pone come autorità etica, che come un genitore o un Dio biblico interviene per distribuire premi e punizioni, in nome di un'ideale di merito e giustizia, che inevitabilmente coinciderà con quello dei governanti. Ecco perché personalmente sono molto critico verso certe frange di "liberali" che identificano così strettamente meritocrazia e liberalismo: oltre i limiti del carattere strumentale del termine, meritocrazia implica l'idea di uno stato etico giustizialista che pretende di sapere più dei singoli individui cosa è meritevole e cosa no, cosa sarebbe giusto e cosa no, cosa virtuoso e cosa no, interferendo nella loro libertà di agire sulla base della loro soggettiva idea di merito e giustizia (riservandosi di intervenire, solo nel caso la libertà di qualcuno danneggiasse in termini oggettivamente riconoscibili quella altrui). Considerando, però come un concetto di giustizia, molto difficilmente, molto astrattamente, potrebbe privarsi di un determinato contenuto come una certa definizione di "merito" in senso valoriale e non solo utilitaristico, appare come il valore fondamentale di uno stato di diritto non totalitario, non dovrebbe essere tanto la "giustizia", ma la "libertà".

Al contrario, per quanto riguarda, cito dal post di apertura, "tutti devono avere un minimo vitale che gli consenta di avere una casa, non necessariamente di proprietà, e i beni e servizi necessari al sostentamento.", direi che questo è una norma fortemente legittimabile a livello teorico nel contesto del modello di stato di diritto, cioè un modello che si limiti a concepire lo stato come funzione e servizio nei confronti dei cittadini, e non come loro arbitro morale. Anche qua, coerentemente con l'erronea identificazione tra meritocrazia genericamente intesa e liberalismo, ci troviamo costantemente di fronte a un altro equivoco, cioè l'idea che lo stato liberale non dovrebbe offrire alcuna assistenza minima economica a persone non in grado di ripagare la società tramite il lavoro, considerando "immorali"misure come redditi di cittadinanza o simili. In realtà una concezione di questo genere, che vincola la dignità dell'uomo al lavoro,  cioè al porsi come strumento, ruota dell'ingranaggio sociale, è ciò che vi sarebbe di più opposto alla mentalità liberale, in quanto tale concezione considererebbe la società non come mezzo subordinato al benessere degli individui, ma come autonomo soggetto di valore, la cui erogazione dei servizi è vincolata a un do ut des (servizi in cambio di lavoro), che presuppone l'associare qualcosa di astratto come la "società" allo stesso livello di valore dell'insieme concreto, in carne e ossa, dei singoli individui, in uno scambio alla pari tra pari, come se un livello minimo di benessere degli individui non fosse un diritto naturale incondizionato, ma condizionato all'adeguatezza delle richieste lavorative di una determinata società, pronta a esaltare come "meritevole" il self made man che partendo da zero si arricchisce tramite il lavoro, e ad abbandonare al destino che meriterebbero "parassiti oziosi", uomini di cultura, che dedicano la vita a produrre opere di grande spessore spirituale, ma impossibilitati a conseguire successo economico in una società troppo interiormente povera per riconoscere il loro valore. Cioè un determinato modello antropologico-morale di "merito" di stampo economicista, calvinista che si impone su quello umanistico e giusnaturalistico dell' "otium letterario, che pretende di essere l'unico oggettivamente valido perché dominante in un certo contesto sociale, collettivo, a scapito degli individui che non rientrano in tale modello.Cosa ci sarebbe di davvero liberale e individualistico in tale impostazione?
#172
Tematiche Filosofiche / Re:Nietzsche
27 Ottobre 2019, 17:08:15 PM
non sono d'accordo sul fatto che l'ateismo debba essere esonerato dal portare prove a sostegno delle proprie pretese di verità. Il fatto che si presenti come "negazione" è solo una possibile forma sintattica, che può tranquillamente essere riformulata come affermazione, senza che il contenuto cambi. Negare l'esistenza di Dio, implica necessariamente affermare "positivamente" una visione del mondo in cui Dio non c'è, e in quanto affermazione che voglia essere legittimata come valida filosofica, e non solo come opinione del tutto arbitraria, necessita di argomentazioni a sostegno. Cioè ogni ateismo filosofico che si rispetti dovrebbe essere in grado di mostrare quali passaggi logici sarebbero forzati negli argomenti che i pensatori teisti hanno portato a sostegno dell'ipotesi dell'esistenza di Dio. Prove che, a meno che non si voglia cadere in delle superficiali banalizzazioni, argomenterebbero l'idea di una Causa prima entro i limiti in cui appare come la spiegazione più razionale per rendere ragione del reale, senza alcuna necessità di convalidare ogni rappresentazione storica delle religioni fondata su interpretazioni letterali dei testi sacri. Non c'è davvero alcuna ragione per cui l'essere convinto della validità della prova ontologica, o di quelle tomiste, cartesiane o rosminiane debba vincolarmi a credere alla reale esistenza di Adamo, Eva, il serpente, i miracoli evangelici, la morte e la risurrezione di Cristo.  Se poi la polemica nicciana non fosse rivolta a contestare il particolare modo di impiegare la logica delle metafisiche teiste, ma a contestare più in generale ogni possibilità per la ragione di dedurre un complesso coerente (se il termine "sistema" infastidisce) di verità, allora come detto nel topic sulla metafisica, molto più coerente sarebbe stato negare la propria stessa rilevanza filosofica, e ripiegare su una visione del mondo espresse in forme meramente estetiche e sentimentali, dedicarsi alla poesia, alla musica, alla narrativa. Se si vuole essere riconosciuti all'interno di una comunità filosofica di spiriti dia-LOGANTI, si accettano i principi universali e autoevidenti della logica formale, come strumenti di convalida delle proprie opinioni nei confronti di eventuali obiezioni. La mia, fallibilissima impressione, è che la grande fortuna di Nietzsche sia derivata proprio dal suo stile aforistico, antisistematico, e fortemente metaforico/allusivo, uno stile che cattura l'interesse degli esegeti proprio per la sua ambiguità, che apre a tante interpretazioni diverse e contrastanti, alimentando un dibattito, che non c'è, o c'è in misura molto minore per pensatori alla Husserl o alla Tommaso d'Aquino, che utilizzando un linguaggio molto più tecnico, rigoroso e semanticamente preciso, offrono una minore gamma di chiavi di lettura su cui dibattere. E questo è un punto che personalmente ho sempre recepito come una grande ingiustizia. Lo sforzo di essere chiari, di argomentare con rigore e precisione le posizioni, invece di essere premiato, viene sanzionato con l'indifferenza a scapito di chi usa artifici letterari e stilistici per apparire più misterioso, evocatico, affascinante. Sul "Dio e morto" nicciano si aprono interminabili discussioni, sull'infinito impegno di un Tommaso d'Aquino, in ogni articolo della Summa Teologica, a render conto delle posizioni opposte alle sue argomentando puntigliosamente le proprie contestazioni, c'è il totale disinteresse. Personalmente, preferisco di gran lunga sentirmi ispirato dai Socrate, Platone, Anselmo, Cartesio, Rosmini, Husserl, da chi vede la filosofia come luogo di prove, dimostrazioni, confutazioni da poter discutere, più che su aforismi da diari del liceo
#173
Citazione di: Ipazia il 23 Ottobre 2019, 07:31:42 AM@davintro Non mi pare che sia meno contraddittoria la postulazione di un Dio incausato, tradotto a dimensione umana da guru di ogni specie, l'un contro l'altro armati. Perfino il più fine teo-logo della storia, il doppiamente scomunicato Benedetto Spinoza, dovette gettare la spugna col suo fatidico Deus sive Natura. E non poteva che essere quello l'approdo "a priori" della metafisica, in ciò che viene viene prima di lei, la fisica. La quale non esenta da assist etici qualora si consideri la costellazione di bisogni che rende la vita possibile, e di desideri che la rendono gradevole. O quantomeno saggiamente sopportabile, realizzando "a posteriori" quell'attitudine alla vita che si delinea nel trascendentalismo kantiano. Il cui errore metafisico non sta nella sua inesistenza e insussistenza ma nella necessaria correzione "a posteriori" rispetto alla causa prima incausata Natura. Gli "a priori" kantiani sono le condizioni materiali che rendono possibile lo sviluppo degli aspetti trascendentali della natura umana la cui metafisica non può che risolversi "a posteriori" nella presa d'atto dei requisiti fondativi della vita e nella necessità di dare loro soddisfazione. Tradotto in termini teisti si tratta di alcuni precetti delle tavole mosaiche e di quelle che vengono definite dalla dottrina cattolica "opere di misericordia". A partire da tali cause è possibile fondare una metafisica "a posteriori" perfettamente coerente in cui i collegamenti tra teismo e ateismo si trovano sul terreno comune della precettistica umanistica fondata sulle evidenze naturali, prendendo atto che i fondamenti metafisici assoluti d'antan possono essere oggetto solo di fede, ma non di conoscenza oggettiva il cui unico fondamento autodimostrantesi rimane la Natura.


non vedo alcuna autocontraddizione nell'idea di una Causa prima incausata, piuttosto la vedo nel suo rifiuto, nel pensare di rispondere alla questione dell'origine della realtà fermandosi a cause incapaci di fondare loro stesse e necessitanti di riferirsi a cause pregresse, pregresse in senso logico, in un regresso all'infinito che sarebbe solo l'ammissione di un'incapacità di dare una risposta, cioè arrivare a una conclusione. Ed un conto è ammettere i nostri limiti conoscitivi riguardo la soluzione di un problema, un altro presentare come risposta un'affermazione direttamente derivante da tali limiti. Evitare di definire come "Dio", questa necessaria Causa prima, definendola piuttosto come "Natura" o termini il cui significato è comunemente riferito a enti dell'immanenza mondana, è del tutto legittimo, ma in questo caso dovremmo riconoscere come la distinzione tra un ateo e un panteista alla Spinoza resti prettamente terminologica, senza riguardare un contenuto teorico pressoché identico. Più in generale, perché qualsiasi posizione tesa a rigettare il modello di Dio di una certa tradizione teologica mostri la sua efficacia esplicativa, si troverà costretta ad attribuire al suo modello di Causa prima quelle proprietà che consentivano al Dio che si vuole sostituire la capacità di render ragione di quegli aspetti della realtà, dal punto di vista dei credenti in Esso. E ciò implica che ogni modello a-teista, per dimostrare di esser adeguato a rispondere alle stesse questioni a cui i credenti presumono di poter rispondere attraverso il Dio del teismo, finirà fatalmente per assomigliare in gran parte a quest'ultimo, assorbendone le facoltà che ne garantiscono la potenza esplicativa fino al punto da renderlo un'ipotesi non necessaria. Ma allora mi chiedo, sarebbe così assurdo continuare a questo punto a definire anche la Causa prima atea "Dio", sulla base della somiglianza con il modello teista che si vuol sostituire? Ecco perché, un po' per provocazione, ma molto per un certo fondo di verità, mi piace pensare e dire che gli atei non esistono, ma che sono in realtà credenti in qualcosa che non intendono definire "Dio". Per quanto riguarda la "dimensione umana", direi che si potrebbe individuare un livello entro cui l'attribuzione a Dio di facoltà umane, riflette quel complesso di condizioni che determinano l'uomo come soggetto libero, creativo, attivo e attuale, che lo pongono in un'ottica di relativa trascendenza rispetto alla passività materiale del mondo che lo circondano, condizioni costituenti la sua dimensione di spiritualità (fermo restando che tale margine di libertà è sempre limitato, che ogni ente mondano, compreso l'uomo, non è mai pieno spirito o piena materia, ma sintesi delle due componenti, che l'uomo ha una componente di spirito, dunque di libertà e attualità superiore a quello della pietra, ma non è puro spirito, Atto puro, come la pietra non è pura materia, ma materia formata, solo per il fatto che, esistendo, produce un certo potere causale sull'ambiente con cui è fisicamente in contatto). Per un principio di proporzionalità, appare ragionevole che le facoltà che consentono all'uomo questo, seppur parziale, margine di liberà nei confronti del mondo circostante, siano le stesse che, qui però presenti al massimo grado, consentono a Dio un margine di trascendenza assoluto della sua libertà nei confronti di tutta la creazione, compresa l'uomo stesso, come in una gerarchia di Matrioske, dove Dio, la matrioska più grande, comprende tutte le altre, l'uomo è una matrioska più piccola, ma a sua volta più grande delle altre, fino ad arrivare dentro la più piccola matrioska, al vuoto, puro Nulla, mera materia indeterminata, potenza senza alcuna attualizzazione, potenzialità astratta. E in contrasto con tutto ciò, si dovrebbe distinguere il complesso di proiezioni antropomorfiche su Dio del tutto arbitrarie e senza ragione, che esprimono solo un'esigenza psicologica della volontà soggettiva del credente di ritagliarsi un modello teologico su misura dei loro desideri e pregiudizi, e in questo livello, da non cristiano, mi troverei a dovere inserire anche la proiezione di un Dio che si fa corpo, muore e risorge. Il compito di una sana metafisica razionale dovrebbe essere quello di operare un setaccio, discernendo i due livelli, quello di un'umanizzazione di Dio entro i limiti entro cui è in coerenza necessaria con la classica definizione del Dio filosofico della Causa Prima, la cui esistenza è riconoscibile razionalmente, e quello che fuoriesce dai limiti, e diviene antropomorfizzazione sentimentale ed arbitraria, accettabile solo per un fideismo, a cui la filosofia come speculazione razionale non dovrebbe vincolarsi


per Green demetr

la radice greca di "fenomeno" richiama il significato di "apparizione", e l'apparizione (a meno di non stare in un'ottica come quella fenomenologico husserliana, in cui apparenza e certezza indubitabile coincidono, in quanto le apparenze di cui si occupa sono il residuo essenzialistico e trascendentale dei vissuti coscienti, evidenziati dall'epoche, ma non mi pare che sia quella la strada che Kant percorre) è sempre il regno della possibilità dell'errore e dell'inganno. Quindi se tutto ciò che possiamo conoscere sono  fenomeni, cioè apparenze soggettive, allora non potremmo in alcun modo occuparci delle "cose stesse", tematizzandole in una critica gnoseologica, perché non conoscendole, non potremmo intenderne il significato, nemmeno nell'ottica "negativa" del dichiararle inconoscibili (per dire che qualcosa è inconoscibile, dovrei comunque quantomeno intenderne il significato, cioè conoscerlo). Se invece in Kant i fenomeni manifestassero la presenza delle cose stesse, allora si dovrebbe smentire la premessa del "possiamo conoscere solo fenomeni". Affermare che i fenomeni manifestano le cose stesse vorrebbe dire riconoscere una relazione tra i due ambiti, il fenomenico, l'apparire soggettivo, e il reale oggettivo. Ma, come è evidente, per conoscere una relazione occorre conoscere (quantomeno a livello formale e minimale, il significato dei termini relazionati) i termini collegati, sia fenomeni che noumeni. Se Kant fosse radicalmente coerente con la premessa del fenomenico come invalicabile limite della nostra conoscenza, non potrebbe in alcun modo accorgersi che i fenomeni rimandano il loro darsi a una realtà oggettiva extrafenomenica, non dovrebbe nemmeno poter citare nei suoi testi "le cose stesse", di più, non potrebbe operare alcuna critica, alcuna affermazione, la cui pretesa di verità è sempre pretesa (pensiero come intenzionalità) di corrispondenza del discorso alla realtà oggettiva, cioè alla "cosa in sé". Ogni ponte che connetta il fenomenico al noumenico è rotto, perché all'orizzonte oltre al fenomenico non si vede nulla. Tolta la conoscibilità di quest'ultima, tolta ogni possibilità di affermare alcunché, di pensare, nell'autoaffondarsi di ogni scetticismo di sorta che citavo prima. L'unica prospettiva che resta è quella del puro estetismo, espressione delle pure sensazioni su se stessi e sul mondo, in modo rapsodico e caotico, sacrificando ogni struttura di pensiiero giudicante, cioè di critica
#174
il punto fondamentale su cui, al netto della diversità dei vari filoni, ogni metafisica classica poggia è la convinzione della possibilità di una conoscenza razionale dei princìpi di verità assoluti, oltre il tempo e lo spazio, appunto oltre l'ambito della fisica. Opportunamente, si cita la critica kantiana e il suo attacco contro tale convinzione. Pur preoccupandomi di sembrare ripetitivo dato che degli appunti a Kant se ne è già parlato in altre discussioni, trovo opportuno ribadire che trovo infondata la svalutazione kantiana della conoscenza razionale metafisica, sulla base dell'assunto che non conosceremmo altro che fenomeni. La riduzione del sapere al sapere dei fenomeni, cioè di apparenze soggettive distinte dalle cose in sé, ha, al di là delle intenzioni di partenza, come inevitabile esito lo scetticismo, e ogni scetticismo cade nell'aporia e nell'autocontraddizione di affermare le proprie tesi sulla negazione della conoscenza di verità oggettive, e al contempo necessariamente dover riconoscere la verità di tale affermazione. Non si scampa dalla struttura intenzionale del pensiero, dalla presa di posizione di ogni giudizio come rispecchiante una verità oggettiva, a prescindere che lo sia di fatto. Anche se mi sbagliassi, ciò non toglierebbe il fatto che nel momento in cui penso qualcosa pongo ciò che penso come verità oggettiva, e negando la possibilità di conoscenza di tale oggettività dovrei smettere di pensare, e anche di dubitare. Ponendo le cose in sé come inconoscibili Kant deve coerentemente negare la presunzione di verità della sua stessa filosofia, e se anche i vari nichilismi di stampo antimetafisico (intendendo metafisico nell'accezione della metafisica classica) successivi come quelli di Nietzsche, Heidegger, o ogni pensierodebolismo di sorta, pensa di trarre legittimazione dalla critica kantiana, allora chiedo a chi di questi movimenti ne sa molto più di me, come potrebbero resistere all'autocontraddizione di cui sopra? Negare la conoscibilità di criteri di verità logici universali e apriori, senza ritrovarsi incapaci a legittimare scientificamente le loro tesi, sulla base di postulati che non debbano rimandare all'infinito per cercare quei punti fermi autoevidenti che non abbiano più bisogno di rimandare oltre se stessi per giustificarsi. La necessità di far coincidere filosofia e metafisica va rivendicato, dunque non solo, da un lato, contro ogni materialismo, che negando l'esistenza di una realtà sovrasensibile, renderebbe insensata la filosofia privandola di un suo oggetto peculiare di ricerca, distinto dalle scienze naturali, ma anche, dall'altro, da ogni forma di irrazionalismo, scetticismo, o relativismo teoretico che negando la possibilità di conoscenza dei principi primi, dei criteri universali di verità, privano la razionalità del loro appoggio. Se nel primo caso la filosofia sacrificherebbe la sua ragion d'essere nei confronti delle scienze naturali, in quest'ultimo la sacrificherebbe nei confronti delle manifestazioni estetiche, artistiche, in cui non si cerca di argomentare l'oggettività delle tesi, ma solo esprimere uno stato d'animo, una sensibilità del tutto soggettiva, senza pretendere di legittimare il proprio vissuto come universale. Un relativista, un irrazionalista, uno scettico sarebbe molto più coerente, se si estraniasse dal dibattito filosofico, dove occorre dimostrare/argomentare le verità delle proprie opinioni, e si dedicasse, senza alcun intento dispregiativo, all'arte, alla poesia, alla musica, dove nessuno pretende si portino argomenti a sostegno del proprio sentire soggettivo, ma ci si limita a godere della  bellezza delle creazioni che da tale sentire sono ispirate
#175
Franco scrive: 

"è per me di particolare rilievo il modo in cui formuli il concetto di metafisica. Concetto che è quello classico ( = aristotelico - scolastico), tanto classico da ripresentarsi - come ho già richiamato - tanto in alcune delle maggiori figure speculative d'oltralpe come quella di Martin Heidegger, quanto, almeno, nelle figure piu rappresentative della neo - scolastica italiana. Ed è una formulazione concettuale il cui cardine è costituito dalla coppia sensibile - sovrasensibile. Sì che, mi domando e ti domando: è quella di sensibilità ( = esser - sensibile) una nozione essenziale a quella di indagine metafisica? E se si, in che senso? Interrogativo tanto più rilevante quanto più si consideri che, per fare solo un esempio ancorché assai illustre, l'intera impostazione problematica con la quale Heidegger rilegge la kantiana "Critica della ragion pura", si fonda sull'assunzione della distinzione di ente sensibile ed ente sovra - sensibile"


direi che la sensibilità un fattore essenziale dell'indagine metafisica, stando attenti a ben distinguere il piano del discorso in cui collocare questa necessità: non essenziale nel senso che l'oggetto della metafisica non possa considerarsi reale senza dipendere dalla realtà fisica, oggetto dell'esperienza sensibile, ma dal punto di vista critico-dialettico, cioè occorre per il metafisico prendere in considerazione la sensibilità, ma per mostrarne l'insufficienza a render ragione di se stessa, e degli stessi saperi scientifici che intendono far leva su di essi  a render ragione del complesso del reale. Per legittimare razionalmente il trascendimento della sfera materiale/sensibile, occorre mostrare come seguendo coerentemente l'impostazione materialista, che a tale sfera riduce il reale, si cadrebbe in contraddizioni (come quella che ho provato esporre nel mio ultimo messaggio in questa discussione) e nel lasciare inspiegati dati di fatto, la cui verità è evidente (come la presenza nella nostra coscienza facoltà irriducibili alla sensibilità, come il pensiero giudicante, astraente, perfino la memoria) e insolute le questioni collegate a questi dati. Solo in questo modo il trascendimento del sensibile diventa qualcosa di più che un pio desiderio fideistico, per quanto rispettabile, indimostrabile nelle sue pretese di validità razionale
#176
per Franco, a cui do il benvenuto nel forum

Sono d'accordo, nelle mie intenzioni questo topic nasce proprio per argomentare l'impossibilità per la filosofia di rigettare la razionalità metafisica senza contraddire il suo stesso significato e ragion d'essere. Quando contesto l'idea di una filosofia che presume di negarsi come metafisica, non la contesto nel senso di voler prendere sul serio tale pretesa (altrimenti sarei io a cadere in contraddizione, dato che contestando una filosofia non metafisica, ne ammetterei al contempo la possibilità), la contesto nel senso che è un'autoinganno, è a tutti gli effetti una metafisica, solo non consapevole di esserlo. Infatti, da un lato rifiuta l'idea dell'esistenza di una sfera sovrasensibile, ma per far ciò deve necessariamente, a livello metodologico, trascendere  i limiti dell'esperienza sensibile, l'unica che da un punto di vista materialista dovrebbe essere titolata a fornire materiale alla scienza, e questo trascendimento è a tutti gli effetti un trascendimento metafisico. Quindi la filosofia che rigetta la metafisica si pone come materialismo che però, autocontraddicendosi, si pone come altra metafisica perché fa un'affermazione, "non c'è nulla oltre ciò che i sensi corporei esperiscono", che pero gli stessi sensi non possono legittimare razionalmente perché incapaci a sperimentare l'inesistenza di ogni cosa oltre il proprio campo d'osservazione, dato che si limitano a cogliere solo fenomeni relativi a uno spazio-tempo particolare, e non possono far discorsi sulla totalità dell'alto dei quali escludere in assoluto delle possibilità di esistenza. In sintesi direi: o del sovrasensibile non ci si occupa, restiamo neutri, e allora non c'è alcun bisogno di fare filosofia, basta dedicarsi alle scienze naturali, oppure ce ne occupiamo, e anche quando lo facciamo in forma polemica si deve sempre entrare nello stesso punto di vista applicato a quel livello di realtà per poterne parlare, in parole povere fare della metafisica.


Green demetr scrive: 

"La metafisica è la storia delle rappresentazioni umane. Storia bagnata nel sangue certo, ma anche storia di lotta per sottrarsi alle forme teologiche di mondo, e di cui il transumanesimo sarà con ogni probabilità l'erede."



Questo passo, in un certo senso, mi "rincuora", nel senso che mi fa pensare che l'affermazione circa il fatto che io non abbia capito cosa voglia dire metafisica, non sia un giudizio di incompetenza interpretativa dei concetti filosofici o ignoranza, preso in assoluto (non che abbia la presunzione, in generale, di essere certo di non avere questi problemi...), ma nasca da molto differenti paradigmi teorici che fanno da premessa ai nostri discorsi, dissensi del tutto legittimi e fisiologici. Dal mio punto di vista la metafisica non può assolutamente porsi come "storia", perchè proprio in quanto ulteriorità rispetto al fisico, al materiale, cioè al regno del contingente, del mutevole, riguarda una sfera del reale sovratemporale, l'insieme dei princìpi eterni che stanno dietro al divenire delle cose registrato dai sensi, dal fisico, divenire che non viene negato (tranne che nell'eleatismo, direi), ma ricondotto a una sfera ulteriore, irriducibile ad esso. La metafisica non è una storia, ma c'è senza una dubbio una storia della metafisica, così così una storia della fisica, della psicologia e di ogni tipo di sapere. Ma un conto è una storia, da intendersi come successione temporale dei vari tentativi di ricerca della verità riguardo il proprio campo, un altro il campo in sè, la realtà oggettiva, che attende di essere scoperta, ma non muta sulla base del mutare delle opinioni e delle mode di egemonia intellettuale, al contrario impone a tale mutare la norma della verità, adeguazione del discorso soggettivo alla realtà
#177
Attualità / Re:Crocefisso il classe?
18 Ottobre 2019, 13:43:10 PM
Citazione di: Jacopus il 18 Ottobre 2019, 12:53:44 PME perché mai mi dovrei interessare alla pena di morte o alla chiusura dei manicomi o ai sussidi ai figli, visto che: non commetto reati, sono equilibrato, ho figli grandi? Anthony, sei la dimostrazione che il detentore della fede può essere di un forte egoismo senza neppure riuscire a vederlo.

si potrebbe rispondere, volendo metterlo su questo piano del discorso, parlando dell'egoismo dei cristianofobi, che sulla base del loro soggettivo sentimento di disprezzo o ostilità, vorrebbero impedire ai credenti di voler rappresentati nello spazio pubblico i segni della testimonianza, non solo di una fede personale, ma anche di un sistema di valori ispirato a quella fede. Impedimento che certamente non si può considerare in generale per essi foriero di minor disagio di quello degli atei alla vista di un crocifisso. Quindi, considerato che l'idea che l'ateismo sia di per sé una posizione oggettivamente più razionale e rispettosa degli altri rispetto a una fideistica, posizione che non può trovare fondamenti validi sia dal punto di vista teoretico-scientifico, che da quello storico-fattuale, vedi le persecuzioni antireligiose nei paesi del Patto di Varsavia ispirato agli ateismi di stato, di solo qualche decennio fa, e non di secoli come nel caso dell'Inquisizione, il problema resta quello di trovare una mediazione fra sensibilità diverse, che raggiunga un massimo possibile di soddisfazione comune, cosa certo non facile. La domanda che andrebbe posta, in base a cui decidere, dovrebbe essere, quale sarebbe il sacrificio maggiore richiesto nelle due opzioni di ammettere la possibilità del crocifisso (possibilità, non obbligo!) o di vietarlo? Quello dell'ateo/cristianofobo (non che le due definizioni coincidano sempre, peraltro...) di fare un lieve movimento di collo o di pupilla per scansare la vista di un simbolo tanto offensivo, occupante uno spazio così ridotto, oppure il sacrificio richiesto al credente di trovarsi ad abitare in uno spazio pubblico in cui è impedito nel veder rappresentati ed espressi i simboli della loro interiorità, e dei loro valori? Impedimento che  oggi, si limiterebbe a una banale rimozione di un simbolo che certamente non può mettere seriamente in crisi la libertà religiosa, ma che un domani, in base alle stesse premesse (negazione della manifestazione pubblica di tutto ciò che ha a che fare con una religione) potrebbe allargarsi alla rimozione delle cappelle votive nelle strade, al suono delle campane, alla celebrazione delle festività natalizie, alla cancellazione nei programmi scolastici dell'arte e della filosofia ispirata al cristianesimo, cose che se oggi apparirebbe anche alla stragrande maggioranza di chi è favorevole a rimuovere il crocifisso provvedimenti esagerati e assurdi, potrebbero a poco a poco rivelarsi sempre più coerenti e ragionevoli con le premesse di principio, che è già stato legittimato dal di per sé innocuo precedente del crocifisso
#178
Attualità / Re:Crocefisso il classe?
14 Ottobre 2019, 23:24:57 PM
mi pare evidente come, nel momento in cui si afferma la necessità del divieto di affissione di un simbolo religioso, sulla base di una determinata interpretazione del rapporto tra la religione in questione e una società laica e democratica, si operi una discriminazione verso ogni interpretazione in senso opposta, e dunque si contravvenga al principio, appunto laico, di uguali diritti, doveri e considerazione sociale, a prescindere dalle convinzioni religiose, e anche non religiose di ciascuno. La lettura atea e anticristiana del crocifisso, che poi riflette quella ben più generale e significativa su tutta l'eredità religiosa, è messa su di un piedistallo politico e giuridico, superiore rispetto a quelle alternative. L'idea di una lineare coerenza tra cristianesimo originario e intolleranze teocratiche viene posta come aprioristicamente più valida rispetto all'idea di cristiani e anche non cristiani come me, di una deviazione operata dalla chiesa storica rispetto all'essenza teologica cristiana, idea che invece è suffragata dal concetto di "trascendenza", dal fatto che un nessun potere politico mondano, compresa la stessa chiesa storica non potrebbe atteggiarsi a rappresentante di un Dio trascendente e sovrastorico, il cui Regno "non è di questo mondo", e dunque deve essere orientato a fini secolari distinti da quelli della preparazione spirituale alla Salvezza oltremondana (sul tema mi permetto di consigliare il saggio del mio professore di filosofia morale ai tempi dell'Università, "Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson" di Massimo Borghesi, in cui mette esaustivamente in luce come la dualità agostiniana "Città terrena/Città celeste, riferimento teologico del cristianesimo primitivo, si opponga a ogni deviazione teocratica e si ponga come laicità antelitteram). La laicità dovrebbe essere spazio libero di confronto tra queste due opposte letture, e non egemonia di una che si impone sull'altra e si pone come criterio per stabilire cosa dovrebbe essere esposto in uno spazio pubblico. La laicità non è impedire ai credenti di veder riconosciuti simboli della loro fede in uno spazio pubblico, che è anche il loro, ma quello di non pretendere alcun privilegio giuridico che ponga le loro esigenze come più importanti di quelle degli altri cittadini. Sarebbe contrario alla laicità l'obbligo di affissione del crocifisso, e l'imporlo come unico possibile simbolo religioso, ma non la sua innocua presenza, che certo non impedisce a chi prova tanto disprezzo per il simbolo a girare lo sguardo dall'altra parte, considerando quanto grandi possono essere le pareti di un'aula
#179
Attualità / Re:Crocefisso il classe?
11 Ottobre 2019, 20:57:36 PM
quando parlavo di crocifisso che tace non intendevo nel senso di oggetto che non emana alcun significato, ma nel senso che non impone alcuna religione di stato, a partire da cui discriminare i non credenti in essa. Che non rivendica alcuna pretesa forzata di dominio, ma che si limita a testimoniare una certa visione del mondo e valori, con i quali ciascuno è libero di relazionarsi in modo autonomo, accettandoli, respingendoli, accettandoli in parte... Non escludo, è del tutto evidente sia così, che ci sia un gruppo di persone, anche ampio, che possa attribuire a questo simboli significati molto diversi e opposti rispetto a quelli che prima ho provato io ad attribuirgli. Ma a questo punto, mi chiedo, perché non considerare questa ambiguità ermeneutica, questa ricca varietà di chiavi di lettura, proprio come fattore di riconoscimento del valore culturale dell'oggetto e soprattutto della sua utilità paideutica. Se il fine della scuola laica è quello di formare il senso critico tramite libero confronto di posizioni diverse, allora sono proprio i simboli ambigui, come il crocifisso, che provocano reazioni diverse sia in senso negativo che positivo  quelle che stimolano il dibattito e dunque contribuiscono a formare razionalmente le coscienze. Questa discussione è la conferma di ciò: stiamo dibattendo a partire dalla presenza del crocifisso, e questa presenza è stata l'occasione delle nostre riflessioni che tengono viva la mente. E se proiettiamo la stessa dinamica di un forum su una classe scolastica, allora sarebbe bellissimo vedere due studenti che interpretano in modi opposti il crocifisso, uno che, come me, lo vede come simbolo di una laicità antelitteram che difendeva l'idea di uno spirito sovratemporale, ucciso dalla teocrazia pagana del Cesare/Dio, e chi lo vede come espressione di un potere ecclesiastico persecutorio che pretende di parlare a nome dell'uomo raffigurato nel crocifisso. Un simbolo in meno è sempre un'occasione di confronto e riflessioni come queste.
#180
Attualità / Re:Crocefisso il classe?
11 Ottobre 2019, 16:35:21 PM
certamente, la preservazione del riconoscimento dell'importanza culturale del cristianesimo non necessita di un crocifisso appeso alla parete, sarebbe assurdo pensarlo. Ma la mia preoccupazione, forse non sono stato efficace nel chiarirlo, non la riguarda la presenza del crocefisso in sé nelle aule, ma nelle motivazioni che vengono portate per la rimozione. Cioè l'esclusione di richiami religiosi nel pubblico come manifestazione di un potere impositivo e discriminatorio, quello della chiesa, nei confronti dei non credenti. Al di là del fatto che anche un luterano o un valdese venera e riconosce la valenza spirituale del crocifisso non meno di un cattolico, e che dunque non si può schiacciare tutto il cristianesimo e il suo apparato simbolico sulla chiesa cattolica, sul potere vaticano, con tutte le eventuali polemiche anticlericali che ne conseguono, il punto è che la percezione del crocifisso come espressione di un potere che vuole "occupare un territorio" è solo negli occhi di chi guarda, non nell'oggetto in sé. Parafrasando, la Ginzburg, non credente, il crocifisso non impone nulla, tace. Raffigura l'immagine di un uomo che, a prescindere dal credere che fosse o meno uomo-Dio, non ha mai ucciso nessuno, non ha mai perseguitato né minacciato alcuno perché non lo credeva figlio di Dio, non ha fondato alcun potere, alcuna inquisizione. Stando alla tradizione evangelica ha respinto la tentazione satanica di ricevere il potere mondiale terreno che gli avrebbe offerto tutti gli strumenti per imporre a ogni uomo di seguirlo (vedi il rimprovero che riceve dal Grande Inquisitore dostoevskiano), ha sempre parlato di un Regno che "non è di questo mondo", anticipando di secoli lo sviluppo del principio laico della separazione del potere temporale da quello spirituale. Il crocifisso simboleggia l'antipotere, l'uomo ucciso dal potere, quello sì, davvero teocratico nel quale Cesare pretende di essere venerato come Dio (aspetto su cui le varie mitizzazioni dell'antichità pagana di stampo illuminista, contrapposta ai "secoli bui" medioevali, hanno sempre sorvolato). Non c'è nulla di violento nel crocifisso, perché l'uomo che raffigura non è soggetto di violenza, ma vittima, e celebrando lui, si ricorda ogni vittima dell'intolleranza da parte del potere, comprese anche le vittime di una chiesa teocratica che ha deviato dagli insegnamenti della sua presunta primaria guida. Se, nonostante tutto ciò, il crocefisso continua a essere percepito come segno di invadenza di un potere, mi verrebbe da dire, a questo punto, a maggior ragione, sarebbero da cancellare tracce che ben più di un crocifisso testimoniano una sistematica volontà di potenza confessionale come l'arte e o la filosofia.  Non è forse l'arte cristiana sempre manifestazione dei valori di un dominio culturale e politico, così come i sistemi patristici e scolastici espressione di un'egemonia accademica dell'epoca? La soglia di sicurezza che dovrebbe bloccare il passaggio dalla rimozione dei crocifissi a quella di Giotto e S.Agostino dai programmi scolastici, fondata sull'idea che il crocifisso non abbia alcun valore culturale al di là della fede personale, a differenza di un affresco o di un'opera filosofica/teologica, poggia sulla pretesa di possedere criteri stabili e oggettivi di definizione di "bene culturale", pretesa che anche solo il fatto che a proposito del crocifisso ci siano dibattito e divergenze, mostra la sua labilità e arbitrarietà