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Messaggi - Phil

#1771
Citazione di: 0xdeadbeef il 28 Marzo 2018, 20:41:53 PM
Su Hegel sì, l'off topic è dietro l'angolo; ma è anche vero che una riflessione su Hegel (e, naturalmente, su
tutto l'Idealismo) si impone laddove da certi, diciamo, punti di vista non è possibile pensare l'"altro", cioè
pensare uno degli elementi fondamentali su cui poi costruire la "comunità" (che, secondo quanto vado esponendo su
questo post, è la sola alternativa al contrattualismo dilagante).
L'altro è pensabile in molti modi (tu stesso citavi Levinas, se non erro, che lo pensa ben differentemente da Hegel); possiamo pensarlo in modo esistenziale, in modo religioso, in base all'Isee, in base alla cultura... poi scommetto distingueremo fra l'altro-x e l'altro-y (dove "x" e "y" possono essere, a piacimento: amico/nemico, ricco/povero, buono/cattivo, familiare/ignoto, etc.). Ho il sospetto che gli altri siano sempre (almeno) due  ;)

Citazione di: 0xdeadbeef il 28 Marzo 2018, 20:41:53 PM
Uno stato siffatto (cioè minimo), salvaguarda i facoltosi privilegiati in quanto, nel contratto, la parte
contraente forte ha necessariamente la meglio su quella debole.
(Tauto)logicamente non potrebbe essere il contrario... per parlare di uno stato che non privilegia i forti, dovremmo avere quindi uno stato che elimina la differenza fra forti e deboli, abolendo radicalmente l'asimmetria della contrattazione? Scenario interessante, ma bisognerebbe allora rifondare l'economia e il mercato del lavoro praticamente da zero; operazione difficile da fare "in corsa", senza resettare tutto il meccanismo...

Citazione di: paul11 il 29 Marzo 2018, 09:54:12 AM
Faccio un esempio per eccezione.Le associazioni mafiose che costituiscono società economiche con prestanome hanno avuto necessità di una legge STRAORDINARIA affinchè i beni dei mafiosi potessero essere confiscati dallo Stato.Chiediti allora in via ordinaria cosa accade e per i beni mafiosi cosa accadeva.
Non ho capito: citi l'esempio di una legge straordinaria contro la mafia per dimostrare che lo stato tende ad ammiccare ai potenti? Un'azione correttiva del genere, almeno a livello formale-legislativo, non dimostra il contrario?
Mi sembra continuino a mancare esempi concreti per la tesi della "salvaguardia statale dei privilegiati"...

Citazione di: paul11 il 29 Marzo 2018, 09:54:12 AM
Si è spacciato con un terrmine ambiguo"libertà", il liberarsi dalle condizioni in cui il dominio umano era culturalmente immesso, fra quello universale e quello naturale. L'uomo si è illuso con l'ontologia dell'io che giustamente Oxdeadbeaf ha posto, che l'appropriazione della propria volontà di potenza finalmente liberata dalle catene relazionali in cui i domini culturali superiori lo costringevano, potesse possedere la conoscenza, non per migliorare se stesso, l'appropriazione come conquista di territori, come appropriazione dei segreti della natura, il tutto come volontà di potenza, che solo una cultura surrogata poteva spacciare come libertà.La cultura della libertà negativa(liberarsi da...) per quella positiva(liberasi per...) ha solo creato disfunzioni sociali, disgregando la comunità e creando nuove sopraffazioni.

Quindi, lo sfruttamento economico è già LEGITTIMATO E LEGALIZZATO nel nostro sistema e ordinamento giuridico.
Nessuno, nemmeno lo Stato può impedire ad una Società di capitali la sua volontà di eliminare una sua PROPRIETA'  da un luogo di lavoro per spostarla e crearne un'altra agli antipodi del mondo: nessuno e ribadisco, nemmeno lo Stato.
Le pantomime dei sindacati e dei partiti  politici, sono sceneggiate .
Non mi pare che quel "quindi"(giuridico) abbia un forte legame logico con l'interessante excursus storico-filosofico che lo precede (libertà, ontologia dell'io, volontà di potenza, etc.), oppure non l'ho capito... se intendi che l'economia permessa dalle leggi del nostro sistema si basa sullo sfruttamento-impiego di risorse (umane e non), mi risulta difficile pensare ad una forma di economia (statale e non) che funzioni diversamente...

Citazione di: paul11 il 29 Marzo 2018, 09:54:12 AM
Quindi la Sovranità del popolo che costruisce una polis, una cives, uno Stato non può superare la volontà di un ente di diritto privato quale una multinazionale o comunque una società di capitali.

questo è chiaro?
Mi sembra di capire, ma forse sbaglio, che auspichi un'economia fortemente statalizzata, un "protezionismo interventista" che tenga le multinazionali fuori e le nostre aziende dentro i nostri confini... sarebbe davvero un passo avanti per la tutela dei deboli o per i lavoratori in generale? Si può davvero percorrere questa strada, oggi?
#1772
Citazione di: paul11 il 27 Marzo 2018, 18:26:10 PM
Questo PRIVILEGIO sussiste ancora.
Credo di aver capito il tuo discorso, ma la questione che ponevo è quella della "salvaguardia statale dei privilegiati" (da te evocata): intestare un panfilo alla nonna che vive in baita, più che una tutela garantita dallo stato (che ne penserebbe un controllo del fisco?) è un escamotage da "fatta la legge, trovato l'inganno", un espediente imputabile al singolo, non certo l'applicazione di un servizio di sostegno statale alla ricchezza...
Quando parlavo di "bilanciamento" da parte del welfare intendevo, ad esempio, che in caso di fallimento, il lavoratore può sperare sul contributo di disoccupazione e altre agevolazioni, l'imprenditore può invece sperare che non gli pignorino la nonna  ;D

Con ciò non voglio fare l'apologia dell'imprenditore, tuttavia da quanto leggo sembra che il suo privilegio sia più una questione di astuzia gestionale (ai limiti dell'illegalità) e di eventuali favoritismi amicali (anche questi non certo auspicati dalla legislazione), piuttosto che di statale supporto ai ricchi a discapito dei poveri.
Come accennavo, distinguerei infatti i privilegi statali (quali?) concessi ai ricchi, dalle furbate, dall'evasione e dalle mafie; tutti elementi che possono fare certo parte del sistema, sebbene, almeno legislativamente, siano avversate dallo stato (il che non consentirebbe di parlare di "privilegi statali", almeno fino a prova contraria...).

Citazione di: paul11 il 27 Marzo 2018, 18:26:10 PM
L'uomo nasce animale e ha delle facoltà intuitive e intellettive, delle predisposizioni.Ma non nasce "imparato", deve fare esperienza e conoscere per essere e fare  cultura.
Da quì l'ambiguità umana. la cultura è un abito che può assecondare qualunque istinto animale umano.
Si può creare una cultura di comodo a propria misura e autogiustificazione.
E questo grazie al dispositivo culturale.
Secondo me, si può creare un'ideologia, non una cultura; il dispositivo che (auto)giustifica un determinato approccio alla politica o all'economia, non è culturale, semmai ideologico.
La cultura richiede un'identità interdisciplinare, un forte consolidamento storico e una accettazione popolare, che l'ideologia non può conoscere, essendo essa per sua natura settoriale, generazionale e inevitabilmente in contrasto con le altre ideologie con cui coabita nel medesimo territorio.
Fatta questa sostituzione linguistica (cultura/ideologia), concordo con il resto del discorso.
#1773
Visto che si parla di intelligenza artificiale, mi sembra piuttosto a tema questa notizia della prima vittima della strada causata da un'auto senza umano alla guida:
http://www.ninjamarketing.it/2018/03/27/arizona-uber-tempe-driverless-car/
Iniziamo dunque il conto delle vittime "civili"? Direi di no; come Sgiombo, penso che la tecnologia da sempre provochi vittime senza che ne abbia una sua imputabilità, semmai è degli uomini che la utilizzano (se anche programmassimo un automa antropomorfo per uccidere qualcuno, non credo avrebbe senso parlare di sua volontà, colpa, etc.).
#1774
Citazione di: green demetr il 26 Marzo 2018, 22:18:35 PM
citazioni di Phil
"Chiedo: questa salvaguardia statale del privilegiato (per incompetenza mia, non mi viene in mente molto in merito, ma mi fido  :) ) non viene bilanciata un po' dai differenti livelli di tassazione, dal "rischio di impresa" e dal welfare?"


Caro Phil mi sorprendi...ma in quale mondo vivi?  (vale a dire: ma quando mai?)
Incapace di pensare politicamente e digiuno di politica, mi rimetto alla clemenza della corte  :)
Il fatto è che sento spesso parlare di tale "salvaguardia statale" dei facoltosi privilegiati, ma altrettanto spesso non viene poi esplicato in che modo il sistema, di diritto e/o di fatto, tuteli i privilegiati; esempi concreti e pertinenti, intendo... se parliamo di mafie, evasione fiscale etc, mi si conceda che non sono elementi legislativamente fondanti lo stato, quindi il discorso "tutela statale" del forte a scapito del debole, va fuori-fuoco. Sicuramente c'è dell'altro, ma lo ignoro...

P.s.
A la Marzullo: il ricco è tale perché è privilegiato oppure è privilegiato perchè è ricco?

P.p.s.
Interessanti le questioni su Hegel, la religione e il postmoderno, anche se l'off topic è dietro l'angolo  ;)
#1775
La ricchezza economica considerata nemica della ricchezza spirituale è un tema ricorrente in molte religioni e filosofie di vita; eppure l'ideale di povertà economica voluta, la scelta di attenersi e limitarsi al minimo necessario, pare funzionare sono in alcuni "microcosmi selettivi" (monasteri e simili), mentre, su larga scala sociale, la cultura dominante è quella dell'accantonamento del surplus (per chi ce l'ha) perché "in fondo, non si sa mai  ;) " (difficile biasimare la formica che non fa la cicala... e ancor più difficile aspettarsi che doni parte della sua provvista ad un altro insetto, formica o cicala che sia...).

Questa "fame di ricchezza", secondo me, ha funzionato anche come propulsore storico della ricerca e dell'innovazione (tecnologica e non solo) che ha portato la conoscenza ad essere dov'è oggi (almeno dall'umanesimo in poi, la ricerca è stata un'investimento a scopo di lucro, oltre che di conoscenza...).
Inoltre, come già osservato da baylham e viator, la ricchezza ormai ha oggi un ruolo di (irreversibile?) strutturazione sociale che (piaccia o meno) è l'ordito su cui si annodano le trame della (macro)economia (quindi della geopolitica, etc.), oltre alle aspirazioni di tutti coloro che giocano lotterie e affini (compreremmo un gratta-e-vinci se sapessimo di poter non guadagnare denaro, ma scoprire perle di saggezza e consigli spirituali? Tutta qui la differenza fra ludopatia e filosofia...).

Che poi la felicità e/o la soddisfazione della propria vita e/o la "virtù spirituale" non siano direttamente proporzionali al valore del proprio conto in banca, credo sia un'esperienza di riflessione che ognuno di noi, nel suo piccolo, ha fatto più d'una volta...
#1776
Citazione di: anthonyi il 21 Marzo 2018, 09:04:52 AM
Per dire, tu che proponi un cambiamento delle "forme di produzione della ricchezza" potresti provare a precisare nel concreto cosa intendi.
In realtà, nel concreto, questo cambiamento viene continuamente attuato da quelli che la teoria economica definisce imprenditori. Non a caso Hayek afferma che la differenza tra sistema liberale rispetto a quello socialista sta nel fatto che all'interno di un sistema liberale sarebbe possibile organizzare il socialismo ma non è vero il contrario.
Concordo, l'aspetto propositivo penso sia un nodo che ogni critica radicale all'economia vigente fa fatica a sciogliere... salvo trincerarsi in utopie e distopie. Agire sulle dinamiche in corso, piuttosto che ipotizzarne altre sostitutive, di rimpiazzo, sarebbe forse una via più percorribile, se non fosse che gli attori di quel cambiamento (dagli imprenditori in su) hanno solitamente un pragmatismo impermeabile e refrattario ad ideologie filantropiche (perché sono fortuitamente egoisti cattivi o perché così è, in genere, la natura umana in quelle situazioni di forza?).

Citazione di: anthonyi il 23 Marzo 2018, 08:00:32 AM
A me viene da pensare che chi ha una rigorosa certezza tra l'ordine etico di dette preferenze, e magari afferma che la preferenza del lavoratore è l'unica che conta eticamente, in realtà si sta ponendo nella posizione di un filosofo etico che afferma l'assolutezza del suo pensiero etico e lo vuole imporre alla società.
Questa è secondo me la pietra angolare di ogni visione politica della società: pensare politicamente comporta gerarchizzare il valore (etico, non economico) dei differenti elementi della società, secondo un ordine che si ritiene auspicabile diventi quello vigente, poiché giusto (è giusto votare per Tizio, sbagliato per Caio; è giusto si faccia così, sbagliato si faccia cosà, etc. e tale giustizia di rado è autenticamente "secondo me", viene invece solitamente presupposta come oggettiva, anche se si ammette che non tutti possono capirla... di solito, chi non ha la nostra stessa visione politica, o è un corrotto oppure solo un po' tonto  ;D ).

Citazione di: paul11 il 23 Marzo 2018, 09:56:36 AM
Io ho il diritto di muovere guerra contro chi e quanti ritengo che sia opportuno.
Questa è la regola della natura e delle organizzazioni umane senza etica e morale.
Anche l'etica e la morale implicano il muovere guerra a quanti ritengo opportuno, ovvero agli immorali... ovviamente non è sempre una guerra di proiettili e bombe, ma si tende (e si spera, non neghiamolo) che i fautori della posizione avversaria spariscano (non diciamo "periscano"), in quanto "sbagliati", "disfunzionali" e "sconvenienti". Se l'etica divide in buoni e cattivi, è quasi un "dovere morale" per i buoni muovere guerra (almeno culturale) ai cattivi... senza ovviamente tollerare che loro possano fare altrettanto  ;)
Per la serie: "uccidere è sbagliato... certo, se morissero tutti coloro che secondo me non meritano di vivere, staremmo meglio"  ;D
Questa avversione, pur impacchettata da civile ostilità e democratico ostracismo, è la rivisitazione sociologica dell'istinto di sopraffazione del "nemico-rivale" (che non è più solo chi ci contende il cibo o la femmina del branco...).

Citazione di: paul11 il 23 Marzo 2018, 09:56:36 AM
E quì si ricasca nella contraddizione, perchè la chiamata in causa dello Stato implica il principio costituente della comunità, società, nazione  o Stato che sia. E che  piaccia o no in quest assunzione sono declinati  i valori di libertà, giustizia e uguaglianza.
Valori molto ambigui e strumentalizzabili dal potere centrale: libertà, ma non dalle imposizioni dello Stato; giustizia, ma sempre e solo per come la intende lo Stato; uguaglianza; salvo le discriminazioni previste dallo Stato...  nulla di assoluto e ontologico, tutta una questione di convenzioni, compromessi e contingenze storiche.

Citazione di: paul11 il 23 Marzo 2018, 09:56:36 AM
(quando invece in uno scambio economico a sommatoria zero, se qualcuno ne esce più felice qualcuno d'altro necessariamente  è un pò più infelice).
Se la sommatoria economica è zero, ciò non vale anche per la "sommatoria della felicità" (se proprio vogliamo quantificare la felicità): esempio banale, se mi dai 10 euro per lavarti l'auto, alla fine siamo felici entrambi: io felice del guadagno, tu felice dell'auto pulita... e se tu non avessi un'auto da farmi lavare né i 10 euro da darmi, io non sarei affatto contento di avere 10 euro in meno... e se tutti avessimo un'auto e 10 euro in eccesso da spendere, forse sentiremo persino la mancanza di qualcuno a cui dare quei 10 euro per risparmiarci la sudata  ;)  Il che costituirebbe "domanda", innescando una possibile opportunità di "mercato", etc.
(Scritto da uno che per lavare l'auto si affida al meteo e a madre natura  ;D  )

Citazione di: paul11 il 23 Marzo 2018, 09:56:36 AM
E se siamo più felici noi del primo mondo è perchè qualcuno sta pagando il prezzo della nostra felicità  nel quarto mondo.
Secondo me la felicità è sempre contestuale (ad ogni "mondo" e, ancora più capillarmente, ad ogni individuo) e non c'è sempre qualcuno che la paga, ma non voglio deviare il topic sul tema della felicità.

Citazione di: paul11 il 23 Marzo 2018, 09:56:36 AM
Quindi al netto di etiche e morali, tutto diventa rapporto di forza e in cui lo Stato salvaguarda(anche con la violenza armata) prima i privilegiato e poi cerca di dare briciole al debole per tenerlo buono.
Chiedo: questa salvaguardia statale del privilegiato (per incompetenza mia, non mi viene in mente molto in merito, ma mi fido  :) ) non viene bilanciata un po' dai differenti livelli di tassazione, dal "rischio di impresa" e dal welfare?

Citazione di: paul11 il 23 Marzo 2018, 09:56:36 AM
perchè qualunque organizzazione umana se è pensata per gli umani (senza un concetto di nomos ,di ordine, di universale,di un"qualcosa che sta prima dell'uomo e "sopra" l'uomo) non ha un ordine intrinseco, ma solo equilibri di potere e di forze
In fondo, tali equilibri di potere e forze, per quanto dinamici, non sono comunque una forma di ordine intrinseco?
Pensiamo proprio al mercato: pur senza "qualcosa che sta prima dell'uomo e sopra l'uomo" funziona in modo ordinato; l'interpretazione e l'attribuzione di senso degli eventi del mercato è invece una questione di valori (che fondano le rispettive ideologie) che stanno prima e sopra l'uomo.

Citazione di: paul11 il 24 Marzo 2018, 14:41:53 PM
Se quella persona felice ritene  che sia GIUSTO"(questo è il criterio soggettivato del termine GIUSTIZIA che è mutato in duemila anni di storia) perchè giustifica la sua condizione sociale di privilegiato come attinente alla sua qualità e capacità umana per cui è altrettanto  GIUSTO  che altri siano poveri in quanto meno capaci o magari per destino come alcune religioni hanno posto) deve sapere che se non lo fonda quel criterio su una giustizia ontologica, che esiste al di sopra del genere umano e quindi deve avere carattere universale, la sua è opinione quanto la mia.
E se tutto è opinione significa che tutto si risolve nella forza e nel potere e la coesistenza è solo negoziale, mediata della politica che non supera il conflitto, ma semplicemente ogni giorno è mediato da un equilibrio instabile, in quanto poggia sul nulla.

Così il quartomondista ha ragione a muovere guerra al primo mondo, come il povero con il ricco.
Perchè non esiste nessuna ragiona fondata sul governo umano(essendo tutto posto sull'ambiguità dell uomo che può essere saggio o stolto, misericordioso o cinico). la pace è solo un equilibrio temporale instabile,in attesa che mutino i punti di forza che rivoluzionano la storia.
Questa mi sembra una chiave di lettura pertinente alla nostra società: lasciare fra parentesi la giustizia "di natura" o "metaumana" per impostare un'analisi immanente di come funzionano le dinamiche globali, prendendo atto della "ambiguità dell'uomo che può essere saggio o stolto, misericordioso o cinico" e in cui "la pace è solo un equilibrio temporale instabile...".
La "giustizia ontologica" ha sicuramente un nobile retaggio, ma per conoscerla dobbiamo forse solo aspettare di andare nell'aldilà (poiché anche nel "maccanicismo" del karma, "giusto" e "sbagliato" si sgretolano, diventando polvere d'ignoranza).


P.s.
Ricordo, a scanso di equivoci, che le mie considerazioni sono basate sulla curiosità (e sulla pressoché totale ignoranza dei temi politici trattati  ;D ) e non vogliono essere una polemica contro il pensiero di sinistra  :)
#1777
Il "mai" perentorio della domanda sembra voler dissuadere dal ragionare su scala temporale (usando i "non ancora", "per adesso", etc.").
Il "conoscere" a cui si riferisce l'interrogativo è invece tipicamente umano, e rimanda all'identificazione dell'oggetto della conoscenza, identificazione in cui il soggetto crea e scopre allo stesso tempo (in una sorta di "ventriloquismo" della ricerca, che parla attraverso l'oggetto più che dell'oggetto): il solito problema dell'identità (o meglio, se non erro, del "principio di arbitrarietà mereologica" di cui parla il "collega" Sgiombo). Per conoscere qualcosa devo infatti identificarlo, e ponendo la sua identità (arbitrariamente e concettualmente) lo "invento" nel conoscerlo (le dita con cui sto scrivendo non esistono "autonomamente", sono un'arbitraria identificazione astratta di una parte del mio corpo; una volta inventato il concetto di "dito" posso identificare/conoscere il pollice, l'anulare, etc. prima non esistevano concettualmente, quindi materialmente erano indistinti, senza identità).

La parola più pericolosa della domanda è "qualcosa", che spalanca un campo infinito di possibili ambiguità e sofismi: 
- per definizione, non potrò mai conoscere l'inconoscibile (e non chiedetemi cosa intendo per "inconoscibile", perché per dirvelo dovrei conoscerlo almeno un po', e allora non sarebbe davvero l'inconoscibile  ;)  )
- plausibilmente, per chi crede in un post mortem, non si potrà mai conoscere da vivi cosa c'è (se c'è) dopo la morte (ha senso, per costoro, parlare di conoscenza da parte di "qualcuno" anche dopo la morte del suo corpo fisico? Suppongo per alcuni, si, per altri, no...)
- probabilmente non conoscerò mai cosa significa "vivere da mosca", perché se anche venissi proiettato dentro un corpo da mosca, ma ragionando ancora da umano, non ne avrei l'esperienza "moscosa" che ne ha una mosca autentica... e se ne avessi invece l'esperienza autentica da mosca, allora non avrei la consapevolezza cognitiva del dire "ah, ecco allora come si vive da mosca!" (perché per essere una mosca autentica, dovrei perdere la mia memoria da uomo dello stato pre-mosca... inoltre, non sono affatto sicuro che una mosca faccia pensieri esistenziali... e forse questa è un'altra cosa che non sapremo mai con certezza  ;D ).
- non sapremo mai cosa succederà dopo la definitiva estinzione della razza umana, perché, se anche viaggiassimo nel tempo, nel momento in cui arrivassimo nel futuro post-estinzione, la nostra stessa presenza non renderebbe più la razza umana "definitivamente estinta", essendone noi (indegni) rappresentanti...
- inoltre, come già osservato da iano, verificare qualcosa di durata infinita (il "mai" assoluto) è impossibile, perché tale verifica andrebbe fatta in un tempo ulteriore al "mai" (il che è concettualmente impraticabile, essendo il "mai" della domanda inteso come eterno...).
#1778
Tematiche Spirituali / Re:Karma e reincarnazione
17 Marzo 2018, 16:57:27 PM
Citazione di: Apeiron il 17 Marzo 2018, 15:36:36 PM
Ergo, il problema non è "prendere una posizione" quanto l'attaccamento alle posizioni. [...] Se parto dall'idea che questa mia ricerca non mi porterà mai a nulla [...] che non potrò stabilire niente allora parto con un assioma. Così come è un assioma pensare che nessuno nella storia sia riuscito ad uscire dalla gabbia, almeno in parte. Assiomi che non condivido anche se posso rispettare. Motivo per cui il mio scetticismo in realtà è una ricerca.

Ovviamente è solo la mia opinione. Altri potranno non essere d'accordo.
Personalmente, concordo con questo approccio in stile "epistemologia buddista"  ;)

Citazione di: Angelo Cannata il 17 Marzo 2018, 16:20:40 PM
Ciò avviene perché la filosofia, quanto a radicalità delle questioni, non ammette di essere seconda a nessuno. Appena si scopre una questione che risulta essere più radicale di un'altra, la filosofia se ne assume immediatamente l'incarico, direi perfino il monopolio, perché questo è il compito della filosofia: andare in continuazione al massimo di radicalità.
Qui invece concordo solo se rimpiazziamo "filosofia" con "metafisica": parlare di radicalità filosofica nel XXI secolo, è una gaffe da inguaribili nostalgici (e so che non lo sei...).  :) 
#1779
Citazione di: paul11 il 12 Marzo 2018, 01:22:59 AM
Citazione di: Phil il 08 Marzo 2018, 21:37:03 PM

Bisognerebbe forse fare una "fenomenologia della debolezza", distinguendo accuratamente il piano politico da quello economico, non perché i due non siano intrecciati (indubbiamente!), ma perché talvolta l'economia opprime ma il welfare decomprime[...]
La "fenomenologia della debolezza" è il tema centrale per chi pensa di ritenersi di "sinistra" storica sociale.
La "fenomenologia della debolezza" è infatti un tematica "di metodo" che proponevo al "fondatore" del topic che, se non ho frainteso, aveva identificato la tutela del debole come uno dei capisaldi dell'attitudine di sinistra:
Citazione di: 0xdeadbeef il 06 Marzo 2018, 16:24:29 PM
credo che la difesa delle categorie deboli (che per me è scopo primario) possa attuarsi
solo ed esclusivamente all'interno di uno "stato", cioè di una istituzione che, almeno potenzialmente, impone al "forte"
di rispettare i diritti del debole.
Poiché, se è vero che
Citazione di: 0xdeadbeef il 11 Marzo 2018, 17:00:36 PM
una spesa è sempre una spesa e, facendo "girare l'economia", determina un aumento
della domanda interna, quindi del PIL, e dunque indirettamente provoca un abbassamento del debito pubblico).
è anche vero che se si sceglie di stare "a sinistra" (come anche da altre "parti") è essenzialmente una questione di valori e di ideologie (come ben ricordavi, @paul11), altrimenti i numeri dell'economia, in sé, non hanno un intrinseco "senso politico": diventano "buoni o cattivi" solo dopo che un paradigma di valori mi consente di leggerli come "giusti o sbagliati" sul piano ideale, ovvero rispetto a ciò che ritengo "buono o cattivo" (la "difesa del debole", chiunque esso sia, non è una universale necessità oggettivamente economica; dipende dalla chiave di lettura "filosofica" della realtà, prima ancora che dell'economia...).

Quindi, per capire adeguatamente la prospettiva di Oxdeadbeef (che, ripeto, non coincide con il mio essere a digiuno di politica né con la carenza di un "giusto e sbagliato" personali da voler augurare al mondo) bisogna, secondo me, definire (con una fenomenologia o altri metodi) cosa significa oggi essere "deboli", per poter poi coerentemente rispettare quell'assioma che vede nella loro difesa una necessità primaria (ideologica ed economica).
La "debolezza" mi pare una categoria fondante del pensiero di sinistra che, suppongo, possa anche essere aggiornata; altre, come "proletario", forse vanno sostituite con categorie ideologiche più denotanti la contemporaneità.

Un incipit di una "fenomenologia della debolezza" (e che ne rispetti la problematicità) potrebbe essere proprio:
Citazione di: paul11 il 12 Marzo 2018, 01:22:59 AM
Oggi è davvero difficile stabilire la fenomenologia del debole essendo deflagrato il nucleo famigliare(è multitireddito, sono conviventi, hanno anziani malati a carico, chi cura i figli?.Oggi due coniugi operai con contratto a tempo indeterminato e con un figlio sono "borghesi" più di un funzionario con moglie e due figli a carico e magari anziani con problemi a cui necessita una badante.
Oggi c'è da una parte una debolezza che è "percepita", sono coloro che reclamano da sempre e lo possono fare per diritti sindacali (sono il colletti blu poi diventata aristocrazia operaia)sindacali, c'è una "reale" che troppo speso essendo individuale e non sindacalizzata non ha peso contrattuale e continuamente ricattabile.

#1780
Citazione di: 0xdeadbeef il 11 Marzo 2018, 17:00:36 PM
Naturalmente non si fa distinzione fra spesa "frivola" e spesa "necessaria"; ma va anche detto che tale distinzione
non ha alcuna rilevanza economica (una spesa è sempre una spesa e, facendo "girare l'economia", determina un aumento
della domanda interna, quindi del PIL
Effettivamente, la distinzione fra spesa per necessità primaria e spesa per frivolezze, era una mia curiosità sociologico-antropologica (per fare un confronto con le abitudini economiche del passato), ma capisco che a livello di macroeconomia generale sia un capriccio analitico...

P.s.
Grazie per il link!
#1781
Citazione di: 0xdeadbeef il 11 Marzo 2018, 09:57:13 AM
Più in generale, intere generazioni non godono e non godranno mai di un reddito che gli permetta di fare qualche
"spesuccia" (oltre che vivono e vivranno una condizione di paura e instabilità che li dissuade e li dissuaderà
dallo spendere anche pochi euro).
Non sto con ciò parlando di "giustizia sociale" o altro argomento di ordine morale: qui siamo in presenza di milioni
di persone che non fanno e non faranno mai "girare l'economia", come si suol dire.
Non prendermi per nostalgico dei "sani valori di una volta", ma ho il dubbio che, in generale, la classe medio-bassa di oggi faccia girare di più l'economia e accantoni meno risparmi rispetto al vecchio "proletariato" che, a parità di basso stipendio, in proporzione forse accantonava di più e spendeva meno... da considerare che oggi, in alcuni casi, sarebbe ancora più saggio accantonare, visto che i lavori, oltre a pagare poco, durano anche meno che in passato (dipende ovviamente dalle necessità a breve termine, dal contesto famigliare e da altri fattori).

Certo, la generazione dei nostri genitori si sentiva culturalmente forse meno spinta a spendere e a ostentare un certo "status sociale minimo" (oggi vengono percepiti quasi come un "dovere morale": la vacanza "altrove", le spese tecnologiche, le attività extra-scolastiche per i figli, vizietti vari, etc.) e al contempo la loro generazione sapeva che i risparmi avrebbero fruttato almeno un po' (mentre oggi banche e poste danno interessi che sembrano quasi non giustificare lo spirito di rinuncia e l'abnegazione nel risparmiare).

Questa è solo la mia "sensazione"... per cui ecco il domandone da mille punti: ci sono dati che trattano questo rapporto fra risparmio/spesa-frivola (ovvero non per bisogni primari) per la famiglia media negli ultimi decenni?
#1782
Citazione di: 0xdeadbeef il 10 Marzo 2018, 20:07:50 PM
come fai a dire che queste forme contrattuali "anomale" giovano anche al lavoratore?
Intendevo che, talvolta, si tratta del giovamento del "danno minore" (non certo di un giovamento "assoluto"), ovvero credo "giovino" al lavoratore, o meglio, ad alcuni di loro, perché a volte se le aziende non potessero ricorrere a tali contratti, ad esempio, assumerebbero 2 persone (a tempo determinato) al posto di 3 (con contratto anomalo ridotto) e quel terzo lavoratore sarebbe a lungo disoccupato (considerando che non siamo in tempi in cui il lavoro si trova rapidamente) ritrovandosi in una condizione di "debolezza critica" (rispetto alla quale un contratto anomalo è di sicuro giovamento).

Da un lato, è indubitabile che:
Citazione di: 0xdeadbeef il 10 Marzo 2018, 20:07:50 PM
queste forme contrattuali sono diventate la regola: perchè? Forse perchè il lavoratore precario è più
ricattabile? Forse perchè la paura che non gli venga rinnovato il contratto lo spinge a "sputare sangue"?
Io credo queste cose probabili...
oltre al fatto che (azzardo, e forse sbaglio) i contratti anomali fanno risparmiare alle imprese (tasse e affini) e costano invece al lavoratore una riduzione di contributi versati (ripeto, magari sbaglio...).

Dall'altro lato tuttavia, l'impresa, pur risparmiando in versamenti vari, investe tempo e risorse per formare ed inserire continuamente lavoratori che dureranno poco (quindi non è sempre un buon investimento...).
Tale mobilità è inoltre la linfa di cui si nutrono le agenzie interinali (e i loro lavoratori), le varie agenzie formative (e tutti coloro che gli ruotano intorno) e sospinge le iniziative di "start up", innovative o meno (alimentate anche dal timore di non trovare lavoro stabile da dipendenti).

Intendiamoci, cercando di vedere il bicchiere mezzo pieno non voglio certo tessere gli elogi della "instabilità" (non posso proprio farlo, per esperienza personale  ;) ), ma nemmeno vedrei nella precarietà una condizione di seria "debolezza", almeno non grave quanto la disoccupazione  ;D  soprattutto in un periodo storico in cui
Citazione di: 0xdeadbeef il 10 Marzo 2018, 20:07:50 PM
la fase propositiva è di grandissima problematicità.
Siamo tutti immersi in una economia globale, con interscambi così fitti che qualsiasi idea di un ritorno "autarchico"
al potere politico deve fare i conti (e che conti...) con una realtà che ad essa si oppone irriducibilmente.
#1783
Citazione di: 0xdeadbeef il 09 Marzo 2018, 15:32:48 PM
Al mercato interessa solo ed esclusivamente che il "diritto sociale" non vada ad intaccare i principi su cui si regge
la sua impalcatura ideologica (spacciata spudoratamente per scienza economica).
Al mercato interessa che ogni cosa sia soggetta ad esso stesso. Per cui non può esistere un contratto nazionale unico
(tanto per restare al nostro esempio) stabilito da due parti contraenti "ufficiali" (ad es. Confindustria e il Sindacato)
che rappresentano la pluralità delle parti contraenti; ma tale pluralità deve poter esplicarsi "privatamente", cioè senza
nessuna rappresentanza "collettiva".
Questo perchè il Mercato è, in ultima analisi, l'antitesi di qualsivoglia "entità collettiva" (e l'entità collettiva è,
come vado dicendo lungo tutto questo post, l'unico rimedio al suo strapotere).
La questione, se ho ben inteso, è allora come rovesciare (o disinnescare?) il rapporto di forze fra "mercato" (forza d'impatto in crescita) e "politica" (sempre più debole, in quanto dipendente dal mercato).
Una "entità collettiva" nazionale, servendosi di leggi protezionistiche (anti-globalizzazione) e di un economia fortemente statalizzata-interventista, non rischierebbe, nel panorama attuale, la chiusura in un anacronistico isolamento?
Intendi che sarebbero comunque più i vantaggi sociali di tale chiusura che gli svantaggi?

Sull'interessate tema della "debolezza", credo sia necessario mettere bene a fuoco cosa essa significhi concretamente (fermo restando che ogni "quantificazione", anche quella della debolezza, è relativa al suo contesto storico-culturale, come ben osservato qui: http://www.indiscreto.org/perche-vincono-populisti/).
Se il precario è debole nei confronti di chi gli dà lavoro (multinazionale o imprenditore che sia), come possiamo renderlo meno debole? Se ci sono già sindacati, sostegni al reddito, etc. la sua "debolezza" è: di fatto, nell'avere poco capitale da usare e, di diritto, nel non poter scegliere quale contratto avere?
Eppure, è meglio avere oggi un contratto di secondo livello o abolirli per aspettare un domani (lontano?) un contratto più lungo, più stabile più redditizio?. Non sempre, ad oggi, dove è possibile ricorrere al primo si potrebbe utilizzare indifferentemente il secondo... nella debolezza del contratto di lavoro "anomalo" c'è la forza di un espediente che non giova solo al datore di lavoro, ma anche al lavoratore che, in alternativa, avrebbe probabilmente ancora meno "forza economica".

Davvero è possibile reimpostare, riducendoli drasticamente, i rapporti di forza, di dipendenza, di asimmetria, mantenendo al contempo un'economia (e una politica) funzionante oltre che "accudente"?
Se l'"identità collettiva" coincidesse con il potere centrale dello stato (che bandirebbe coercitivamente rapporti di forza troppo sbilanciati) proprio ciò rappresenterebbe un rapporto di forza oppressivo che, forse, considerando lo scenario odierno mondiale (tutt'altro che facilmente reversibile), appiattirebbe (indebolendola) la crescita economica (e anche culturale) dello stato.
Qui tuona la domanda pragmatica di green demetr:
Citazione di: green demetr il 09 Marzo 2018, 02:54:18 AM
E comunque il problema intellettuale rimane, cosa fare?

Sull'aspetto ideologico, a monte della prassi, concordo con la considerazione di paul11:
Citazione di: paul11 il 10 Marzo 2018, 09:57:53 AM
E' ideologica ribadisco e quindi determinata da rapporti di forza, quale configurazione economica si vogliono perseguire.
Bisogna quindi scindere, ma sapendo che sono intimamente connesse ,la macroeconomia dalla microeconomia, lo Stato o dall'impresa economica, ed è infatti quì è stata ed è la battaglia, dove la sinistra sociale vuole più Stato e il liberismo di destra più impresa.
Il welfare ha accontentato entrambi perchè se il committente degli appalti è lo Stato, chi ci guadagna sono le imprese.


P.s.
@Oxdeadbeef, abbiamo tutti le nostre giornatacce... e la tua era a malapena intuibile  ;)
#1784
Citazione di: 0xdeadbeef il 08 Marzo 2018, 20:27:41 PM
Che poi questa "tecnica mercatistica" non favorisca la parte contraente forte su quella debole è una affermazione che
mi lascia sbigottito (probabilmente devo inforcare un buon paio di occhiali quando vado a leggere certi dati sulla
povertà che avanza, visto che allora ci vedo male...).
A scanso di equivoci, chiarisco che con:
Citazione di: Phil il 07 Marzo 2018, 22:27:57 PM
Una "comunità plurale" o "globalizzata" [...] non è necessariamente in difficoltà nella difesa del debole sul suo territorio, dove vigono comunque leggi statali. Se tali leggi tutelano e aiutano il debole (sussidi, risorse varie, assistenza, etc.) la dimensione globalizzata della comunità e del mercato a cui partecipa, non intralcia affatto tale funzione di sostegno sociale.
[...]
Sicuramente c'è un legame fra leggi di mercato [...] e leggi politiche, ma non sono sicuro che i diritti dei deboli siano politicamente, legislativamente, "travolti"(cit.) di diritto da quelli strettamente economici (almeno dalle nostre parti).
non intendevo affatto che la povertà non stia avanzando (non conosco i dati, mi fido senza esitazione di te :) ), quanto piuttosto che sul piano politico, oggi la debolezza economica non è anche necessariamente una debolezza di diritti, una mancanza di difesa del debole (l'aspetto che hai individuato come perno fondamentale del discorso).
Chiedo: lo stato sociale di oggi è meno "accudente" di quello dei rampanti anni ottanta, soprattutto al netto della differenza di andamento economico ("boom vs crisi")?

Bisognerebbe forse fare una "fenomenologia della debolezza", distinguendo accuratamente il piano politico da quello economico, non perché i due non siano intrecciati (indubbiamente!), ma perché talvolta l'economia opprime ma il welfare decomprime, o almeno ci prova (fino a un secolo fa, il debole era oppresso in entrambi i settori, economia e diritti-sussidi, ora la debolezza economica va ripensata nel contesto democratico vigente). In questo senso scrivevo che il paradigma di sinistra "classico" va rivisitato nel cuore delle sue categorie, figlie di un'epoca differente (e, sempre a scanso di equivoci, non dico fosse un'epoca migliore o peggiore: nessuna teleologia storicistico-metafisica  ;) ).
#1785
@Lou
Il senso del mio intervento va a nozze con la tua prospettiva. Per me, la globalizzazione complica e diversifica più di quanto unifichi o disperda. Con un esempio banale direi che la globalizzazione è come avere nella mia città ristoranti indiani, cinesi e kebabbari che magari mandano parte dei soldi guadagnati in patria. Ciò non comporta che la cucina italiana sparisca o che in tutto il mondo si mangi allo stesso modo; nasce invece la possibilità (non la necessità) di meticciare la cucina italiana, creando nuovi menù.
Per quanto riguarda il flusso economico che non rimane in Italia e viaggia verso paesi esteri, è da valutare anche il percorso inverso, ovvero che i ristoranti italiani all'estero possono inviare qui parte del loro ricavo. Certamente i temi economici della globalizzazione sono molteplici e delicati, non voglio banalizzare troppo.

@Oxdeadbeef
Tornando in topic (non volevo deviare il discorso sulla globalizzazione decontestualizzandola dal tema che avevi proposto), se per globalizzazione intendiamo
Citazione di: 0xdeadbeef il 07 Marzo 2018, 20:05:27 PM
la globalizzazione è il processo per cui il "mercato" tende sempre più a diventare potere politico.
mi viene in mente, per quel poco che so, che la politica è andata sempre a braccetto con il "mercato": oltre alla supremazia militare, il potere politico si (auto)legittima anche economicamente.
Le azioni di un popolo per ottenere risorse da sfruttare economicamente, scandiscono la storia politica dell'uomo, basti pensare alle rotte pioneristiche degli esploratori (Marco Polo, Colombo e compagnia... e non intendo solo "compagnia delle Indie"), ai colonialismi-imperialismi vari (fino all'"esportazione della democrazia"), hanno sempre viaggiato sulle due "ali" dell'economia e della politica.
La globalizzazione è forse solo una questione di unità di misura (il globo), ma se definita come "politica mercatocratica" mi pare sia da sempre un movente cardine delle dinamiche inter-culturali (ovvero fra culture, popoli, stati e nazioni).

Citazione di: 0xdeadbeef il 07 Marzo 2018, 20:05:27 PM
Se nella democrazia (tanto per restare al nostro caso), i rapporti di forza sono stabiliti "ab-solutum" (cioè vi sono
leggi valide per tutti), nel mercato i rapporti di forza sono necessariamente subordinati al "contratto" fra privati
individui, per cui la parte contraente "forte" (ad es. una multinazionale) predomina su quella "debole" (un precario).
Questo vuol semplicemente dire che nella globalizzazione i diritti dei deboli vengono necessariamente subordinati alla
"compassione" (o, come quasi sempre, alla prepotenza) della parte contraente forte.
Una "comunità plurale" o "globalizzata", con differenti legami culturali radicati fuori dal suolo della patria, non è necessariamente in difficoltà nella difesa del debole sul suo territorio, dove vigono comunque leggi statali. Se tali leggi tutelano e aiutano il debole (sussidi, risorse varie, assistenza, etc.) la dimensione globalizzata della comunità e del mercato a cui partecipa, non intralcia affatto tale funzione di sostegno sociale.
Il che non significa certo che il precario possa vantare un ruolo di concorrenza alle multinazionali: il singolo soccombe sempre, anche il singolo più "forte" (economicamente e politicamente) è tale in virtù di accordi (più o meno formalizzati), relazioni delicate e vincolanti. Il mito dell'individualismo vincente (made in usa) si schianta proprio contro la ragnatela di relazioni di potere del mercato globale: il singolo è "di facciata", ha ruolo mediatico per una folla che ama la figura del leader, ma il singolo che splende in copertina riceve la luce da cento altri singoli, magari meno appariscenti, ma che fondano il potere di cui quel singolo è solo il "logo umano", il simbolo di marketing che trascende tutta la piramide che lo eleva. Attualmente "individuo di successo" è una contraddizione in termini, proprio per la complessità della struttura sociale, politica ed economica (nel microcosmo delle città-stato della Grecia era certo più facile che il singolo si guadagnasse il successo "individualmente").

Sicuramente c'è un legame fra leggi di mercato (basate sul dinamismo ben spiegato da paul11) e leggi politiche, ma non sono sicuro che i diritti dei deboli siano politicamente, legislativamente, "travolti"(cit.) di diritto da quelli strettamente economici (almeno dalle nostre parti). Certamente, di fatto, nessuno ama recitare il ruolo del debole e non è una consolazione avere qualche legge di tutela; eppure dare per scontate quelle leggi sarebbe, secondo me, una leggerezza esistenziale... (forse sono solo troppo ottimista).


@Socrate78
Anch'io non sono di sinistra (né di destra, né altro), ma trovo sia un interessante "esercizio ermeneutico" cercare di affrontare la questione della "inattualità della sinistra" posta da Oxdeadbeef, cercando di guardarla dall'interno (nei limiti del possibile), ovvero fermandosi un passo prima dall'impantanarsi nella questione "veritativa" dei giudizi di valore (è giusto/sbagliato, è vero/falso, è bene/male, etc.).