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Messaggi - Visechi

#181
Tematiche Filosofiche / Re: L'inferno!
30 Settembre 2024, 21:42:50 PM
Dio non mentì. A seguito della disubbidienza, l'uomo conobbe non solo il Male, fece pure esperienza della morte. Neppure nel secondo caso ed a maggior ragione Dio mentì. L'uomo per quanto concerne la capacità di discernere è proprio come un Dio che, appunto, di entrambe le contrapposte potenze è intriso. 


Forse è addirittura possibile desumere quale possa essere il momento preciso in cui il Testo Sacro registra la separazione di Dio dal Male. In esso è infatti rilevabile una labile traccia dell'apparire primigenio del suo apparire sulla terra. 
È noto l'episodio della caduta degli angeli. La Genesi non lo racconta; è marginalmente trattato in altre sezioni dell'Antico Testamento (Isaia 14,12-15). 
Questo primo Libro parla però dell'esistenza del Tentatore che in foggia di serpente induce Adamo ed Eva alla trasgressione, dannandoli insieme all'intero Creato. 
Abbiamo due evidenze: 
l'esistere del Male ante-origine mundi, cioè prima che Dio compisse la sua opera; l'esistere del Tentatore - il Satan non è altro che un'ipostasi di Dio, o, come minimo, una Sua componente costitutiva – anch'esso precedente alla Creazione. Il loro esistere è in entrambi i casi da porre prima della locuzione <<In principio...>>, che è l'incipit dell'intera Bibbia. 
La tradizione racconta che Satana e la schiera degli angeli caduti avevano già patito e subito la condanna di Dio. La maledizione che li ha colpiti, che precedette la Creazione, sappiamo essere irredimibile e definitiva: semper et pro semper, senza che sia necessario un ulteriore pronunciamento che la rinnovi. È stata pronunciata in origine ab aeternum. 
Ma nel libro della Genesi, al Capitolo III, è narrato un episodio che, alla luce di quanto appena detto, appare subito alquanto singolare e di per sé significativo. 
A seguito della disubbidienza, Dio maledisse la Creazione scacciando l'uomo dall'Eden. La narrazione di questo episodio è quanto mai significativa, rappresentando, infatti, la cifra della particolare disposizione di Dio nei confronti della discendenza di Adamo ed Eva. Dio provvide ad entrambi le vesti necessarie per coprirsi, affinché non provassero vergogna per causa della propria 
nudità. Evidenza – la vergogna - dell'insorgere di una coscienza autonoma. Il gesto del Creatore è segno dell'attenzione rivolta alla creatura, ritenuta pur sempre <<cosa molto buona>>, e ciò malgrado la ribellione. La singolarità di quest'episodio è rilevabile nel fatto che Dio maledisse anche il serpente, cioè Satana, il Tentatore, il principe della schiera degli angeli ribelli, e, qui sta la singolarità, già maledetti prima che la Creazione fosse anche solo iniziata. 
È possibile che Dio avvertisse la necessità di rinnovare una maledizione che la tradizione biblica ritiene fosse irrevocabile ed irredimibile? O, evenienza assai più verosimile, il III capitolo della Genesi ci racconta in chiave allegorica il momento preciso in cui Dio compì l'atto deliberativo di definire e marcare il territorio di competenza del Male, fornendo di contenuto e di concreta apparenza ad un qualcosa – una forza – che era costitutiva del suo essere, ipostatizzandola nella figura e persona dell'angelo decaduto: il demonio? Egli punì l'uomo scacciandolo dall'Eden e maledisse la terra e quel qualcosa che era parte della sua Numinosa divinità. La Creazione è un atto compiuto solo se si tiene conto anche di questo particolare evento. Dio confinò sulla terra il Male, costitutivo del suo essere, identificandolo e facendolo coincidere con il demonio – rendendolo in forma e persona di diavolo -. Cioè, in definitiva, dal Male si divise (diaballo - colui che separa), se ne separò (facendo sì che divenisse immanente alla Creazione). Delimitò il confine che separa il Bene – cioè il suo volere, le sue prescrizioni (<<Di tutti gli alberi del giardino tu puoi mangiare; ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu te ne ciberai, dovrai certamente morire>>) -, dal Male. Il Bene in questo racconto coincide con l'abbandono mansueto alla volontà di Dio - <<sia fatta la tua, non la mia volontà>>; anche il figlio dell'uomo si abbandona alla volontà del Padre -; il Male è il progressivo o improvviso discostarsi, il suo separarsi, dividersi (diaballo) da questa volontà, per precipitare dentro le spire del peccato e del demonio. 
#182
Attualità / Re: Libano
30 Settembre 2024, 19:25:34 PM
Citazione di: anthonyi il 30 Settembre 2024, 18:16:31 PMNo non sono danni collaterali, sono il risultato dei comportamenti criminali di Hamas, perchè se si tratta di popolazione civile è dovere di Hamas tenerla lontano dal fronte di guerra, se invece sono fiancheggiatori dei guerriglieri sono caduti di guerra.
Mi fa piacere tu riconosca che Israele ha diritto a difendersi, e infatti si sta difendendo, o meglio cerca di distruggere quell'organizzazione che negli ultimi vent'anni ha dominato Gaza. Se tu sei a conoscenza di un modo chirurgico per far fuori questa organizzazione, che si nasconde, e si fa anche coprire, dalla popolazione di Gaza, puoi farlo presente.
43mila morti non sono tanti per una guerra nelle condizioni di concentrazione di Gaza. Consideriamo che la metà sono guerriglieri, l'altra meta, circa 22mila, sono l'1 per cento della popolazione. Pensi ci siano molte guerre con percentuali piu basse di morti nella popolazione civile dei territori dove si è combattuto? Secondo me non ce ne sono.
Impensabile! Rinuncio a partecipare ad una putrida paciosa certificazione statistica di civili morti ammazzati. Cazzo! Lo capisci che ci sono dei bambini e tu mi vieni a scrivere l'1% della popolazione. Ma riesci a leggere senza un sano moto di vergogna queste bestialità che vomitano i tuoi polpastrelli? 
Rinuncio, certe menti non meritano risposta.
Adieu! 
(Cazzo le percentuali proprio non me le aspettavo... abbi pietà di te che il Dio in cui mi è parso tu creda, stanne certo, non ne avrà).
#183
Attualità / Re: Libano
30 Settembre 2024, 17:24:24 PM
Citazione di: anthonyi il 30 Settembre 2024, 16:51:39 PMMagari affermazioni così categoriche dovresti argomentarle meglio.
Israele é uno stato di diritto, e non é terrorista.
A dire che Israele é terrorista sono i terroristi o coloro che li fiancheggiano.
Sicuramente Israele sta compiendo grosse forzature politiche, che lo stanno isolando. Ma non é escluso che con questi atti forti riesca a mettere significativamente in crisi tutti i criminali che per anni gli sono stati attorno.
Forzature politiche? Ecco, questo è farneticare. 43.000 morti ammazzati di cui gran parte donne e bambini me li definisci forzature politiche e terroristi o collaterali al terrorismo. Chiamali danni collaterali e il delirio sarà completo. 
Israele, il cui diritto a difendersi nessuna persona sensata può mettere in discussione, in quelle lande sta seminando odio e rancore, senza poter venire a capo di alcunché. Noi, paciosi commentatori da salotto, osserviamo e solleviamo le bandiere del nostro tifare insensato, mentre basterebbe prestare orecchio e fede a chi in quei posti ci va per spirito di servizio umanitario. Fattela raccontare da chi in quei posti rischia la propria vita per prestar soccorso ed aiuto. Ed ora, per carità cristiana, evitami l'ebete domanda: "allora Hamas?"
#184
Attualità / Re: Libano
30 Settembre 2024, 15:08:22 PM
Citazione di: anthonyi il 30 Settembre 2024, 14:45:37 PMIl terrorista non è definito dal numero di persone colpite, ma dal fatto che colpisca persone ignare e pacifiche, e questo Israele non lo fa mai. Chi viene colpito da Israele ha ragione di aspettarsi di essere colpito come effetto di ciò che ha fatto lui, o qualcuno vicino a lui.
Questa è la realtà, al di la del fatto che tu ci creda o meno.
Questo è un autentico delirio!
#185
Tematiche Filosofiche / Re: L'inferno!
29 Settembre 2024, 23:07:50 PM
La Bibbia utilizza il linguaggio mitico, per cui è ridondante di allegorie, metafore, simboli. Pur tuttavia, benché non si possa sorvolare su questa evidenza che apre l'uscio a molteplici interpretazioni (per esempio la tua, alquanto singolare, molto cattolica e sessuofobica), non ci si può discostare eccessivamente dal dettato letterale, diversamente si cadrebbe nel delirio di Biglino e dei suoi adepti. 
La Bibbia parla con esattezza e precisione della presenza di due alberi, quello della Vita, che rappresenta l'allegoria dell'eternità, e quello della conoscenza del Bene e del Male, la cui metafora è assai più articolata e complessa, volendo riferirsi, presumibilmente, all'emergere di una coscienza autonoma e all'insorgere dell'autonoma determinazione della creatura, non più dipendente nelle sue scelte dalle imposizioni divine. Si ha conoscenza di un qualcosa che già, ab origine, permea il creato. L'imperativo divino è perentorio, non equivocabile. Cibarsi di quei frutti apre ad una visione discriminatoria della realtà e del creato tutto: un creato perfettibile in cui bene e male sono intrecciati in un groviglio indistricabile che rappresenta l'humus seminale della libertà della creatura. Il male è reso necessario proprio dalla necessità pretesa dalla libertà, che in sua assenza non potrebbe aver sviluppo e dimora. Dal Male Dio non poteva prescindere perché è parte della sua Natura.

Abbiamo due evidenze: 
l'esistere del Male ante-origine mundi, cioè prima che Dio compisse la sua opera; l'esistere del Tentatore – il Male – anch'esso precedente alla Creazione. Il loro esistere è in entrambi i casi da porre prima della locuzione <<In principio...>>, che è l'incipit dell'intera Bibbia. La tradizione racconta che Satana e la schiera degli angeli caduti avevano già patito e subito la condanna di Dio. La maledizione che li ha colpiti, che precedette la Creazione, sappiamo essere irredimibile e definitiva: semper et pro semper, senza che sia necessario un ulteriore pronunciamento che la rinnovi. È stata pronunciata in origine ab aeternum. Ma nel libro della Genesi, al Capitolo III, è narrato un episodio che, alla luce di quanto appena detto, appare subito alquanto singolare e di per sé significativo. 
A seguito della disubbidienza, Dio maledisse la Creazione scacciando l'uomo dall'Eden. La narrazione di questo episodio è quanto mai significativa, rappresentando, infatti, la cifra della particolare disposizione di Dio nei confronti della discendenza di Adamo ed Eva. Dio provvide ad entrambi le vesti necessarie per coprirsi, affinché non provassero vergogna per causa della propria nudità. Evidenza – la vergogna - dell'insorgere di una coscienza autonoma. Il gesto del Creatore è segno dell'attenzione rivolta alla creatura, ritenuta pur sempre <<cosa molto buona>>, e ciò malgrado la ribellione. La singolarità di quest'episodio è rilevabile nel fatto che Dio maledisse anche il serpente, cioè Satana, il Tentatore, il principe della schiera degli angeli ribelli, e, qui sta la singolarità, già maledetti prima che la Creazione fosse anche solo iniziata. 
È possibile che Dio avvertisse la necessità di rinnovare una maledizione che la tradizione biblica ritiene fosse irrevocabile ed irredimibile? O, evenienza assai più verosimile, il III capitolo della Genesi ci racconta in chiave allegorica il momento preciso in cui Dio compì l'atto deliberativo di definire e marcare il territorio di competenza del Male, fornendo di contenuto e di concreta apparenza ad un qualcosa – una forza – che era costitutiva del suo essere, ipostatizzandola nella figura e persona dell'angelo decaduto: il demonio? Egli punì l'uomo scacciandolo dall'Eden e maledisse la terra e quel qualcosa che era parte della sua Numinosa divinità. La Creazione è un atto compiuto solo se si tiene conto anche di questo particolare evento. Dio confinò sulla terra il Male, costitutivo del suo essere, identificandolo e facendolo coincidere con il demonio – rendendolo in forma e persona di diavolo -. Cioè, in definitiva, dal Male si divise (diaballo - colui che separa), se ne separò (facendo sì che divenisse immanente alla Creazione). Delimitò il confine che separa il Bene – cioè il suo volere, le sue prescrizioni (<<Di tutti gli alberi del giardino tu puoi mangiare; ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu te ne ciberai, dovrai certamente morire>>) -, dal Male. Il Bene in questo racconto coincide con l'abbandono mansueto alla volontà di Dio - <<sia fatta la tua, non la mia volontà>>; anche il figlio dell'uomo si abbandona alla volontà del Padre -; il Male è il progressivo o improvviso discostarsi, il suo separarsi, dividersi (diaballo) da questa volontà, per precipitare dentro le spire del peccato e del demonio. 
#186
Tematiche Filosofiche / Re: Esiste la verità?
28 Settembre 2024, 21:37:01 PM
"A narrare il mutare delle forme in corpi nuovi, mi spinge l'estro. O dei, se vostre sono queste metamorfosi, ispirate il mio disegno..."

"Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Gli dice Pilato: «Che cos'è la verità?». E detto questo uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui nessuna colpa."

La letteratura classica e la Bibbia, fonte di infinite riflessioni.

Si tratta di due brani che, per certi versi, si pongono più o meno sullo stesso piano narrativo. Il primo è tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, che tratta del mutar di forme della realtà, la quale, esposta al divenire, è sempre diversa da sé stessa. Essendo esposta all'incuria del tempo, che ne modifica forma e sostanza, si offre ai nostri sensi come un mutante che non si concede facilmente alla nostra capacità di comprensione. La realtà è più di quanto riusciamo a percepire.

Il secondo, celeberrimo, è il dialogo fra Gesù e Pilato, narrato nel 4 Vangelo, quello di Giovanni, al Capitolo 18,38, e verte intorno alla Verità.
In definitiva Pilato considerò Gesù un esaltato. I due concetti di verità non coincidevano. Presumibile che ciascuno facesse riferimento ad una propria verità, cui conformare la propria esistenza. Gesù a quella disvelata, sempre presente che abbisogna solo di essere liberata dal velo di maya (per dirla all'orientale). Cioè una verità ultima, non storica né culturale, non esposta al vento del divenire, che trova il proprio fondamento in sé stessa. Aletheia, è il termine greco che identifica questo tipo di verità. Cioè, appunto, disvelamento. Gesù, infatti, si presenta come la Rivelazione. Termine alquanto ambiguo o polisemantico, perché se da una parte può essere assunto nella sua accezione di "Manifestazione di fatti riservati o comunque nascosti, difficilmente attingibili e disponibili", dall'altra può anche benissimo essere interpretato come riposizione del velo per celare al mondo fatti già manifesti. Pilato, viceversa, alludeva alla veritas latina. Di ben altra natura e che s'intride di ben diverso significato. Una verità che si costruisce nel tempo storico, esposta com'è al divenire della storia e plasmata dal mutare della cultura del tempo ed è certificata dall'autorità, nel suo caso quella romana. Sempre diversa e, quindi, mai perfettamente vera. Un perenne mutar di forme, come cantato dal poeta Ovidio.
Due mondi non colloquianti, dunque. Un diverso metro per misurare il medesimo oggetto. Ovvio che i due protagonisti dell'episodio non potevano avere alcuna possibilità di entrare in contatto e comprendersi. Tant'è vero che Pilato, rivolgendosi ai giudei, pronunciò una sentenza lapidaria di assoluzione.

Quale caratteristiche dovrebbe avere un'entità o un dato reale per poter essere definito 'vero'? Credo che la prima caratteristica, essenziale e non eludibile, sia di poter reperire il proprio fondamento in sé stesso, ovvero non aver alcuna necessità, per dimostrarsi come autenticamente vero, di attingere dall'esterno alcuna ulteriore informazione che ne attesti la consistenza e sussistenza. Per quanto attiene alle entità fisiche, le qualità costitutive, quali colore, calore, consistenza, forma etc..., sono quelle e non altre: una pietra avrà quel suo calore, colore e consistenza, una sua determinata forma e non un'altra. Il dato fisico è percepibile attraverso i sensi e misurabile con l'ausilio di strumentazione adeguata. Sarà dunque vero in ogni tempo e latitudine e per ciascun osservatore esterno, e non soggetto ad alcuna diversa interpretazione.

Ma questo convenire umano, perché tale è, sulle caratteristiche fisiche dell'oggetto è poi sufficiente a stabilire una volta per tutte e per sempre la sua veridicità?

Fino a non troppi anni fa era vero e comunemente ritenuto tale che la luce, quanto di più comune e di più presente alle nostre esperienze sensoriali, avesse esclusivamente carattere ondulatorio. I nostri sensi e la strumentazione convergevano nell'attestare questa verità, questo dato di fatto incontrovertibile... pareva allora. La predisposizione di nuovi dispositivi atti ad effettuare sempre più sofisticate misurazioni ed indagini ha mostrato che il dato vero era in effetti parzialmente vero, quindi falso. La verità è o non è, come una donna incinta non può mai essere parzialmente incinta: lo è o non lo è. Così funziona per la verità. La luce mostra caratteristiche ondulatorie e corpuscolari allo stesso tempo. Ma questo si è scoperto dopo, abbastanza di recente. Fu una scoperta che stupì non poco l'intero mondo accademico di allora.

Che significa questo? Che la verità, per il caso di specie, è transeunte, si è modificata in dipendenza di accidenti che intervengono nel tempo. Quindi, quella verità, è anch'essa soggetta al divenire. Oggi abbiamo un dato scientificamente attestato, ma nulla toglie che un domani potremmo averne un altro totalmente diverso. Fra l'altro, la falsificabilità è proprio una delle caratteristiche della scienza (Popper docet... se non erro). Chi può affermare con certezza indefettibile che quella della natura corpuscolare/ondulatoria sia la verità ultima riguardo alla luce. Ovvero che sia la verità oggettiva?

Questo è solo un esempio fra i tanti altri possibili. Capisco pure che ai fini della nostra permanenza in vita, la verità della composizione della luce poco rileva. Ma se spostiamo l'attenzione dal dato fenomenico inerente alle entità fisiche ad altri aspetti della realtà cogente, tipo la personalità, la coscienza, il funzionamento del cervello, ci troveremmo di fronte a non poche altre complicazioni che ben impattano sull'esistenza di ciascuno di noi.

Non voglio dilungarmi oltre, ma solo un dato: ciò che non ricade oggi e mai ricadrà entro la sfera di percezione di un essere vivente che abbia la coscienza di prendere atto del fenomeno, è evento vero, reale, accaduto oppure no? Chi è idoneo a riempire di verità il dato reale, se non l'uomo, cioè noi stessi. E se così è, e così è! La verità non è mai oggettiva, essendo anch'essa un evento che si manifesta esclusivamente in funzione della relazione che s'instaura con chi ha coscienza per veritare l'evento stesso. Ciò che non penetra le nostre capacità sensoriali, se non produce effetti che possano essere misurati, di fatto non accade, quindi non è vero... eppure è accaduto. La misura è la cifra stessa del reale.

La verità, qualora ne esistesse una oggettiva, della cosa in sé, non essendo esperibile e fruibile dall'uomo, è come non data. All'uomo ed alle nostre esperienze è offerta la sola possibilità di confrontarci ed esperire solo il verosimile.

Ma la verità esiste? Sì, credo che esista un dato certo della realtà, ma son pure convinto che l'uomo non possa conoscerla interamente.
La verità è un tutt'uno, non può essere concepita per sue frazioni (come una donna incinta non può mai essere parzialmente incinta), per cui non potendola conoscere interamente, in definitiva, non la conosce affatto (una donna parzialmente incinta non è incinta), dovendosi accontentare, appunto, di sue frazioni che l'approssimano al vero. Il verosimile, considerando di questo il livello più elevato possibile di verosimiglianza, è in effetti il punto in cui l'uomo maggiormente si approssima alla verità, senza però coglierla interamente. Io dico che questa è anche una gran fortuna, poiché conoscere tutto equivale alla stasi, perché oltre non ci sarebbe più nulla da indagare e sapere. L'uomo è un esploratore, spinto com'è dal suo inesauribile desiderio di varcare la soglia del già noto, di scrutare oltre la siepe e il monte Tabor – un po' come l'Infinito di Leopardi -. E' il mito di Ulisse che si rifrange, perpetuandosi, in ciascuno di noi (chi più chi meno). E' la nostra libertà, in definitiva.
#187
Racconti Inediti / BRUJA - STREGA
28 Settembre 2024, 19:53:56 PM
Cadere in campo brujo, qui in Sardegna, equivale a dire 'mettere il piede in fallo', e il fallo in cui si cade non è certo una mancanza o un errore tale a cui si possa con semplicità porre rimedio. Il campo brujo è l'area del sacro, nel senso antropologico del termine. Cioè un'area ove la divinità esplica le sue terrifiche forze. É l'area del Numinoso... Mistero che seduce e spaura, al tempo stesso.
Ma brujas, qui da noi, sono anche chiamate le 'streghe'. Area della maledizione e della maldicenza, perché non esiste maledizione che non sia anche accompagnata dal pigolio importuno del popolo e delle genti.

La maldicenza è un venticello che, leggero, s'insinua beffardo in ogni dove. 

Bruja, lei era per le chiacchiere di paese, e bruja, dunque, ella dovette essere per il mondo intero.
Bella come un'aurora imbrunita dal sole. Neri gli occhi, profondo lo sguardo, lunghi i capelli. Elegante come una gazzella. Il cielo, a vederla passare, in estasi, cantava: "...come sei bella!/Gli occhi tuoi sono colombe,/dietro il tuo velo.
Le tue chiome sono un gregge di capre,/che scendono dalle pendici del Gàlaad.
I tuoi denti come un gregge di pecore tosate,/che risalgono dal bagno;/tutte procedono appaiate,/e nessuna è senza compagna.
Come un nastro di porpora le tue labbra/e la tua bocca è soffusa di grazia;/come spicchio di melagrana la tua gota/attraverso il tuo velo.
Come la torre di Davide il tuo collo,/costruita a guisa di fortezza.
Mille scudi vi sono appesi,/tutte armature di prodi.
I tuoi seni sono come due cerbiatti,/gemelli di una gazzella,/che pascolano fra i gigli." (Cantico dei Cantici).
Così lei era per me. 
La incontrai, la vidi, la sfiorai una mattina che, elegante come un giunco che danza al vento, percorreva le strade del suo assolato paese di montagna. Mi rubò il respiro, e i sospiri volteggiarono da allora attorno allo svolazzo delle sue vesti.
Una malia, sussurrò la gente, che la maldicenza non ama il clamor di tromba. Alla bruja, puttana, invece il paese urlò contro, che per ingiuriare neanche la grancassa è mai sufficiente. Bruja, figlia di bruja. Femmina fra le femmine, viveva accompagnata dall'invidia tradotta in risolini di scherno. 
Il cuore, davvero, non sente ragioni, e le ragioni delle donne erano rigonfie di astio e di quell'astio il mio cuore ne trasmutava corpo e sostanza, dandogli la levità di sogni sensuali, di pensieri di corse nei campi, di festose risate e baci a perdifiato. Avevo il kaos nell'anima e le stelle, nel kaos che l'impregnavano, erano passi di danza, ditirambi dionisiaci ove l'ebbrezza intrideva ogni poro.
Erano sogni ed era realtà, nulla era vero, tutto frammisto a vapori suadenti. 

La bruja è storia ed è anche leggenda, è mito che incontri ogni dì per le strade, fra viottoli madidi dei nostri sudori, fra i muri di misere case, fra il fumo di neri camini. Ti riempie il cuore ed anche i pensieri. Ti ruba l'anima e pure la mente. Se l'incontri per caso, sfuggirle non puoi, ad ogni suo sguardo volare saprai. È carne ed etere lieve. È danza e svolazzi di gonne di seta. Nel cuore ha una spilla che conquista per sempre. È invitta, tenace, impavida sempre. I suoi filtri son d'oro che fonde sul seno. Le sue atmosfere incantate conducon lontano, fra nebbie e vapori di sogno. Puoi tenerla per mano se riesci a sottrarre un sorriso al suo cuore, o un bacio furtivo.

Vibravano forte i tamburi, il flauto emetteva magici suoni, i violini sprizzavano gioia, fra canti e balli di belle ragazze, quel dì della festa paesana, il cuore pulsava e il sangue fluiva, il vino scorreva. L'incontrai attorniata dalle vecchie matrone che additavano quella ripugnante merce avariata. Spaurita fra tanti latrati, posò lo sguardo su di me: "portami via", sognai che mi disse. Ruppi gli indugi e forzai il cerchio. La rapii agli insulti e la trascinai lontano, fra il cisto e il corbezzolo. Il suo profumo di gatta selvatica era quello del mirto e si confondeva con quello dell'aria che respiravo. Era trafelata e spaventata, nonostante ciò mi osservò con spavalderia, era cosciente dell'ascendente che esercitava su di me. Sensualissima, sorrise beffarda, come per sfida. 
La notte ci avvolgeva con le sue tenebre di seta e acciaio. Una lamina di luce lunare ci colse in un abbraccio caldo, e il bacio sciolse ogni residuo di affanno. La bruja, stupenda puledra, raccolse in sé il mio cuore e, da allora, lo serba nello scrigno dorato della sua anima selvatica.

La bruja, bellissima dea, abita i pensieri dell'uomo.
#188
Tematiche Filosofiche / Re: L'inferno!
28 Settembre 2024, 18:40:50 PM
Citazione di: green demetr il 28 Settembre 2024, 16:21:44 PML'uomo fu fatto a somiglianza di Dio, non del dolore.
Basterebbe fermarsi qui per capire che questa è una proiezioni dei problemi del suo autore, della reificazione del male.
Non esiste male, non esiste una creazione imperfetta: infatti viene detto in ouverture, e Dio vide che era cosa Giusta e Perfetta.
Basterebbe questa ulteriore idiosincrasia, per capire che non è il creato ad essere dialaniato, ma la proiezione di morte del suo miserrimo autore.
Una teologia di morte che nasconde chissà quali mostri della fantasia.







L'intera fatica di Dio, resa concreta e manifesta da e nella Creazione, è contrappuntata dall'aggettivo <<buona>>. L'intero Creato è <<cosa buona>>. Solo in seguito, con la comparsa dell'uomo, appare l'espressione <<cosa molto buona>>. Tale differenza di linguaggio, rilevabile nel I Capitolo della Genesi, offre la misura dell'atto più eccelso dell'intera opera creatrice di Dio. Solo  con la creazione dell'uomo si giunge al culmine della fatica divina. L'uomo rappresenta, infatti, il fastigio del processo creativo. Solo in tale occasione il Libro della Genesi si esprime in termini di somiglianza ed immagine del Creatore.
Somiglianza non uguaglianza, dunque. L'uomo è posto all'apice del creato, e ciò per espressa volontà di Dio, poiché fu Dio stesso che adunò tutte le creature viventi, le condusse al cospetto dell'uomo affinché questi imponesse loro un nome. Chiaro simbolo dell'estensione della signoria di quest'ultimo sull'intero creato – attribuire un nome a cose, persone o animali significava prenderne possesso -. I capitoli I e II del Libro Sacro narrano con sufficiente chiarezza questa determinazione originaria della volontà di Dio: un'opera definita <<buona>> sottoposta alla signoria di un'altra creatura considerata <<molto buona>>. In ciò è ravvisabile anche la scaturigine dell'ordinamento cosmologico che d'allora informa il creato. In ogni caso, entrambe le definizioni - <<buona>> e <<molto buona>> - lasciano ben intendere che non si tratta di creature perfette. In alcun momento Dio, il Creatore, si esprime in termini di perfezione.  Somiglianza, non uguaglianza,  mancando appunto, la Sua opera, dei crismi della perfezione, suprema qualificazione.
Somiglianza, per quanto o per quel che non è coincidenza o uguaglianza ma eccedenza o assenza (in questo caso è evidente si tratti esclusivamente di "mancanza"), è anche dissomiglianza. Ritenere che nello slabbro prodotto dal "mancare" dell'una - creatura - rispetto all'altro - Creatore - s'insinuino l'angoscia, il conflitto, il male e il dolore, induce ad inferire che la dissomiglianza sia la scaturigine del trabocco del Male, e, quindi, ne rappresenti l'esperienza che la coscienza ne fa, circostanza che, appunto, nell'uomo si traduce in una perdita di senso e significato.
<<La dissomiglianza invece secondo Pascal apre alla doppiezza metafisica della natura, che non conosce acquietamento possibile, ma, al contrario, comporta conflitto, disperazione, agonia fino alla fine del mondo.
Doppia è la natura: originaria e corrotta, integra e decaduta. L'una e l'altra convivono nell'uomo; che perciò non è né angelo né bestia, ma non è neppure mai se stesso, essendo piuttosto un impasto di entrambi – un centauro, un mostro, anzi «le plus prodigeux objet de la nature» (Givone – Storia del Nulla).
La Creazione è dunque un'opera completa e "molto buona" solo con l'apparire dell'uomo.
Successivamente Genesi c'informa che Dio, rivolgendosi all'uomo, l'ammonì: <ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti>. Egli impartì alla propria Creatura un ordine perentorio: "non devi mangiar(ne)", riferendosi all'albero della conoscenza del Bene e del Male, perché l'uomo, cibandosi dei suoi frutti, ne sarebbe morto. Il conoscere assume qui le fosche connotazioni di una forza disgregante, che separa. Il mondano attrae e separa dal divino. Dio in origine passeggiava nel giardino dell'Eden, il che lascia ben trasparire la prossimità e l'intelligenza fra Creatura e Creatore.
Ad ogni buon conto, non credo possa essere confutato il fatto che tanto l'esistenza del Bene quanto quella del Male permeassero la Creazione fin dalle origini. Cibarsi dei frutti attinti dall'albero della conoscenza significa elevare la creatura al livello di Dio, cioè sostituire le determinazioni umane all'unica vera fonte di Verità. La disobbedienza di Adamo ed Eva si traduce così in un atto che afferma l'autonomia morale dell'uomo – creatura – rispetto al Creatore, per cui è l'uomo e non più Dio a stabilire in base alle proprie determinazioni, volta per volta, ciò che è bene e ciò che è male. Da ciò deriva che non fosse più necessario soggiacere al 'consiglio divino'.
Il peccato di superbia narrato in Genesi è la cifra della lacerazione che è venuta a prodursi fra terra cielo e uomo. Genesi narra non solo il mito della Creazione, ma anche quello della profonda frattura che da allora impregna il creato. L'atto di superbia si concreta nella presunzione di poter fare a meno di Dio ogni qualvolta si pone il dilemma di scegliere, di decidere per un verso o per un altro. Accedere alla superiore conoscenza del Bene e del Male, determinando così autonomamente il grado gerarchico da attribuire a ciascun 'valore' morale, significa violare il sacro (separato) ed entrare in contatto con un qualcosa che già esisteva, che già impregnava ed intrideva la Creazione, seppur forse non ancora operante. Diversamente Dio avrebbe impartito un ordine assurdo. La Creazione è opera divina, è evidente che entrambe le forze che la impregnano siano anch'esse opera divina. La Creazione, evidentemente, era "cosa molto buona" ma non certamente "perfetta", trattenendo in sé anche "cose non buone" o "cose meno buone".
Nel prosieguo, il racconto del diluvio (ma non è l'unico caso) tradisce proprio questa imperfezione primigenia ed originaria della creazione. Il pentimento di Dio, che si traduce in un lavacro dell'intero Creato, esprime in maniera preclara quanto la fatica divina non avesse prodotto un'opera perfetta, poiché infettata dal Male.
#189
Tematiche Filosofiche / Re: L'inferno!
27 Settembre 2024, 19:59:21 PM
Il Male non è una creazione umana, o un qualcosa che si determini per effetto dell'agire dell'uomo, il quale lo rende solo manifesto, ma è presente sulla terra per precisa volontà del Creatore stesso. 
Il male e il bene si sono generati per effetto di un misterioso ed inesplorabile complesso di eventi che hanno determinato la comparsa dell'uomo sulla terra. Il richiamo del male è ben presente nel profondo di ciascuno di noi; la sua voce è ben viva, udibile e ravvisabile nel concreto in tantissime manifestazioni della cultura e della storia dell'uomo. 
Pur tuttavia, nonostante la vanità d'ogni nostro interrogare, val sempre la pena formulare il quesito del perché Dio si determinò a favore di una Creazione non perfetta. Su quest'argomento mancano elementi che possano dipanare e dissolvere i dubbi. La Bibbia non risponde, non fornisce le delucidazioni che l'uomo ha il diritto di richiedere. Però, in ogni caso, è possibile congetturare che Egli riversasse in essa la propria agonia ante origine (dissidio interiore – agon intradivino). L'atto creativo sarebbe il risultato della sua precisa volontà di riprodurre il dramma che dall'eternità dilania il Creatore: "Il dramma è Dio", così canta nella sua ultima opera spirituale Padre Turoldo. Componimento che è un interrogarsi circa il dramma della Sua infinita solitudine e che ripercorre e recupera l'atavica traccia del dolore primigenio. Esiste una scintilla di vita; quando scoccò ad essa si congiunse anche la scintilla omologa e contraria, quella del dolore, della morte e del disfacimento. Noi siamo creati ad immagine e somiglianza non della luce divina, ma del Suo tormento, della Sua agonia, della Sua pre-originaria lacerazione. Siamo perennemente sottoposti alle divergenti forze che la Natura esercita sul nostro intimo profondo; oscilliamo fra ansia e quiete, fra gioia e dolore, fra luce e tenebre. È la nostra anima ctonia che riluce di quest'essenza ineffabile, impregnata di senso e non sense. Questo riflettersi dal profondo di ciascuno di noi è reminiscenza della pre-storica lacerazione, del pre-storico dramma intra-divino. E la Creazione stessa si trascina appresso quest'ineluttabile ed irredimibile agon(ia), ad essa pre-esistente. 
Se noi siamo creati ad immagine divina, la pre-storia di Dio deve essere caratterizzata da questo conflitto interiore – supporrei che sia anche perdurante... pre-esistente e coestensivo -. Noi, frutto della Sua (volontà?) creatrice, non possiamo esimerci, perché mai esentati fin dall'Origine, dall'avvertire e percepire come un'eco agghiacciante questo baluginare dell'ineffabile luce e dell'enigmatica e terrifica Ombra del Numinoso, perché entrambe, in un groviglio inestricabile, si espandono nella Creazione. 
La Creazione stessa non è esentata da tutto ciò. Tale condizione è rilevabile nel fatto che questa si appalesa in un ansito di vita che, nel suo espandersi e contrarsi, è evocazione, annuncio e presagio di Morte, così come quest'ultima, nel perenne gioco dell'esistenza, è, a sua volta, incipit e genesi della Vita. Così pure il Male rispetto al Bene: ciascuno è testimonianza dell'alterità che lo compone, divenendone annuncio, e ciascuno dei due opposti poli è premessa e conseguenza, incipit ed epilogo del proprio omologo contrario. 
Dio trasmise alla Creazione quest'agon(ia) ante Origine, cioè quel che caratterizzava la Sua pre-storia. Ve la infuse ab Origine, ed in ciò non è rilevabile alcun "peccato d'Origine" ascrivibile alla creatura, e non emergono neppure le ragioni della maledizione e degli strali divini nei confronti della Creatura e della terra che la ospita narrata nel Libro della Genesi. Il 'peccato d'Origine' è infuso nella Creazione proprio per effetto ed in conseguenza della Creazione stessa. In ciò, nel rilevare l'originaria presenza del Male nella Creazione, mi conformo all'amara constatazione di Nietzsche: <<a quel tempo, ebbene, com'è logico, resi l'onore a Dio e feci di lui il padre del male>> (Genealogia della morale). 
La religione esorta all'abbandono di sé, all'oblio di sé, proprio perché in sé l'uomo reperisce quel vulnus decisorio che ammalia e tende alla separazione che innalza l'uomo a divinità che surroga Dio. 
Dio pose l'uomo al vertice della Creazione, come se questa fosse cosa compiuta, nonché buona, voluta solo in funzione dell'uomo. Solo dopo aver asservito il Creato all'uomo espresse il concetto di "cosa molto buona". È ipotizzabile e verosimile pensare che Dio avesse generato la migliore Creazione che potesse fare. Un Creato che rispecchiasse la sua intima Natura, che prevedesse e contenesse in sé quegli elementi che del Suo essere erano e sono costitutivi. È altrettanto verosimile e conseguente immaginare che quell'elemento disgregante dovuto alla tentazione, ancorché non operante, ma silente, attivato per via della scelta dell'uomo, sia anch'esso costitutivo del creatore e non alieno al suo essere. 
Noi avvertiamo quest'ansito divino che sussurra nelle e dalle profondità dell'animo, che conflige con la coscienza, ammonendola: coscienza che è il vero scandalo e baratro del nostro essere essenziale. Lo avvertiamo in foggia d'ansia, inquietudine, mal di vivere. L'Anima è ricettacolo di questa discrasia, e l'uomo avverte l'antinomia presente nella vita, nella creazione. 
L'avverte in una visione tragica, che dilania, che accentua viepiù la lacerazione dell'Origine. E non vi è sutura che possa redimerla. 
Chi soffre non è il corpo, è l'Anima. 
#190
Scopo del thread non è incentivare un confronto, più o meno ameno, sui meriti o demeriti della stella cadente che orienta i pensieri disconnessi di queruli oppressi, perplessi, depressi, repressi, soppressi, genuflessi e fessi che alle di lui idiozie chinan la fronte. Non mi interessano certe oziose, paciose, scontrose, livorose, leziose e pretenziose discussioni. Cercavo, invece, di enucleare, per quanto possibile, per quel che è concesso alle nostre parvule capacità, quali possano essere i gradienti, ingredienti, alimenti, elementi tutti pertinenti a ciò che noi a torto o ragione ci ostiniamo a definire, chiamare, appellare, distinguere e identificare con il semplice appellativo di Storia. Il resto è opinione, spesso anche risibile, che al momento poco mi intriga.
#191
Tematiche Filosofiche / Re: L'inferno!
26 Settembre 2024, 21:22:02 PM
Citazione di: green demetr il 25 Settembre 2024, 18:18:04 PMDio è buono come anche tu mi pare sia d'accordo.
Dio è violenza. Dio è il Male, se non fosse anche Male, non potrebbe essere Dio.
#192
Citazione di: Freedom il 26 Settembre 2024, 14:06:20 PMInnanzitutto un grandissimo bentornato!! :D

Come mai tanto tempo lontano da qua? Dove sei stato? 8) ;D

Nel merito: certo le competenze contano, sarebbe singolare, anzi grottesco che un muratore discettasse di meccanica quantistica come lo sarebbe altrettanto se un cardiochirurgo volesse dire la sua sulla costruzione di un muro. Ad ognuno il suo mestiere e le sue competenze.

Pur tuttavia, affinché il parere dell'esperto possa valere qualcosa dobbiamo prima sincerarci che sia scevro da interessi personali di qualunque natura, da eventuali patologie subentrate e delle quali non siamo a conoscenza e da qualsivoglia elemento che possa, in qualche modo, inficiare la ricerca della verità (relativa) perché di assolute non ne vedo traccia su questo pianeta.

Insomma la questione è assai complessa, il classico ginepraio.

Ancora bentornato.
Grazie per il bentornato. Ero in giro, girando come un giramondo.

Entrando nel merito. Concordo pienamente: la scienza, o meglio la 'sapienza' non è un bene acquisito per sempre che non necessiti di cure e rinforzi. 
Fra l'altro, siamo sempre esposti a corto circuiti neuro ali, come accaduto al Nobel Montagnier... quante idiozie può esprimere un cervello obnubilato.
#193
Racconti Inediti / PAESAGGI DI ANIME STANCHE
25 Settembre 2024, 20:17:11 PM
Tutto ciò di cui avevamo bisogno, che i nostri cuori bramavano, lo avevamo intorno a noi. Nulla ci serviva, niente avremmo dovuto chiedere al cielo turchino che faceva da tetto ai nostri sogni. Eppure, come chiunque altro, come fu per Eva, eravamo irrequieti. Non riuscivamo a restar dentro quel mondo denso di miracoli quotidiani.
Dolce il sapore del mare. Tiepido il calore del sole. Tenue lo spirare del vento. 
Immersi nella conca ad ovest dell'isola, avevamo addirittura un gigante addormentato, con una candela in fronte, che proteggeva i nostri amplessi quotidiani con una natura rigonfia di vita. 
Nulla si doveva temere, niente avremmo dovuto patire, ché ciò che occorreva ai corpi lo forniva gratis la Grande Madre, ciò che abbisognava alle nostre anime, quotidianamente, ce lo donavamo senza parsimonia. Era bello vivere e la Morte nei nostri cuori non trovava spazio.
Eppure, come uccelli migratori, che nessuno ben conosce il motivo per cui abbandonano i loro nidi per fuggire lontano, eravamo irrequieti e, benché gratificati dal dio della gioia, inquieti, scrutavamo con ansia quel filo oscuro che tien la misura del mare e del cielo.
Giovani, si era. E come la vita pulsa nei virgulti che forano il terreno, in noi scorreva sangue selvaggio di indomiti puledri che, sebben pasciuti e curati dentro la stalla, guardano con ardore oltre la staccionata.
Quel paradiso, fra colli, impregnato del profumo del mirto e del rosmarino, accarezzato dal canto dei grilli e delle cicale e baciato dal vento, non riusciva più a contenere la nostra esuberanza: giovani eravamo, questo il nostro delitto. I nostri amplessi diurni non chetavano le corse dello spirito ribelle che scalciava dentro di noi. E fu che quelle corse ci condussero a superare il limine fra noto ed ignoto. Noi, il mistero volevamo, e il mistero avemmo.

Una radura deserta, irta di cespi e prugni rinsecchiti, accolse il nostro sguardo. E il mordicchiar dell'ansia che ghermì i nostri cuori, non fu abbastanza per ingiungerci imperioso di rincorrere le nostre orme e ricondurre corpo e cuore al riparo, nella festosa conca.
Non più muschio per cuscino, né fronde di lecci per tetto. Niente danze della lepre o insolenze della volpe, solo cenere e sassi neri. Niente più nubi ovattate, ma nembi plumbee e un raggio che, lamina ossuta, macera pelli e cuore. 
Eppure, lo spirito non fu domo. Ci condusse oltre, tenendosi stretto per mano con l'ultima invitta dea, menzogna menzognera. Lassù, oltre la rupe che, sovrastante l'imperioso e tumultuante fiume, spiava i nostri passi e scrutava le nostre intenzioni.
Spaurita lei, ebete, con un finto sorriso di coraggio, io, proseguimmo per dar requie all'inquietudine e per dannare il cuore. Lassù, a sfiorare il cielo bigio e accarezzare il sole di fuoco. Perché?
Il cuore non sente ragioni. 
Il nostro fremente sguardo si sperse nel rimirar cupi e umbratili
Paesaggi disperati:

Acre fu il sapore di raspi di vite stretti fra i denti. Spogli oramai dei succosi rubizzi acini da cui festoso un dì spillava gioioso il nettare che inebria la mente. Raspi avvizziti che negan l'oblio, unico farmaco che potesse lenire l'ansia e l'angoscia di essere là.. 
Con scarnificate dita di morte, i rami ritorti d'alberi morti coglievano la grassa bruna terra che, mentre l'osservavi, s'immiseriva in arida sabbia. Ove non radicava frondoso l'albero, ma solo l'arbusto e lo sterpo di uno spoglio paesaggio riarso dal sole cocente, percosso da venti impetuosi, che recavano seco né vita né spore da cui gorgogliasse altra vita e speranza. 
Uno sguardo sperduto a vagare su piatte radure sempre uguali a sé stesse, che avevan oramai perso il ricordo del trillo festoso del grillo, del canto allettante della capinera. Terreno di coltura d'un verminaio di sensazioni di morte. Occhi stanchi e rugosi, sperduti a guardare lontano, oltre quel limine rosso che è cornice al patire di tutti, che oblia lo sfuggente passo danzante della lepre. Occhi per sempre dimentichi della corsa gioiosa di esseri scordati da Dio. 

Colà è il deserto che impera; il freddo che brucia le foglie dell'ultima flora ed avvizzisce le pelli di esseri sparsi per caso e ignorati per sempre. 
Uomo, sospeso un attimo solo a vagare nel nulla, nel buio del tempo, errante, senza meta e riparo, fra le desolate lande dell'Anima. Che ruba un sorriso a quei miseri sassi ove poggia i suoi piedi. Soldati di una guerra mai combattuta e persa per sempre; alfieri di sogni che son uggia divina. 
Nel Silenzio di Dio, più sali le scale, più vedi lontano quell'orlo di luce che sovrasta ogni cosa; più la corsa è affannata, più la distanza si accentua. E' tanta la strada percorsa che tanta ne rimane da compiere. Qual strano insensato tragitto privo di meta ha previsto per noi l'invitta Matrigna: fra sassi e polveri scure, intrise di sangue...
Paesaggi privi di pace si parano dinanzi ad occhi infossati e sfiniti, a piedi piagati, ad anime stanche che emettono un urlo. 
Vagare nel nulla, null'altro ci resta, nel Silenzio di Dio. Rubare fiacche parole a genti più fiacche e sfinite di noi, per udire o sognare un suono gentile che non sia un rantolo o un crampo di stomaci vuoti. Le mani protese nel vuoto a stringere aria pesante, ove è assente il Logos di Dio, ove greve è il lamento dell'uomo, che intona inutili canti d'amore e solenni preghiere mai udite da altri che non fossero uomini mesti, che, chini, camminano stanchi nel cupo obbrobrioso Silenzio di Dio, la cui unica eco è il greve tonfo dei passi che percorrono vie inscritte in un sogno... quell'inutile sogno di essere eterni, la cui vana certezza che si compia, alfine, quella vile promessa, nata una notte di sogno che danna da sempre, che estorce e giustifica pianti, lamenti, vagiti, gemiti di chi tanto ha sperato, già sterile si sfalda d'un fiato al torrido fuoco di un sole sempre più nero, tramutandosi in cupo lamento, che è la fine della nostra inutile unica vita. 

#194
Tematiche Filosofiche / Re: Utopia
21 Settembre 2024, 22:09:46 PM
IL NON LUOGO
Abitare il mondo di utopia significa abitare un non luogo. 
La sensazione che si vive è quella dello spaesamento, della perdita di radicamento, della permanenza al di fuori da sé: un'erranza solitaria, in compagnia della sola ombra, che accoglie, infondendolo nelle carni, l'impulso generativo del moto inesausto verso un non luogo, poiché non vi è meta. 
L'ombra, unica compagna, è l'addensarsi del passato che s'incanala ed incunea nel presente per aprirsi verso il futuro, condensandosi nell'individuo. 
L'etica del viaggio è gravida di dubbio, il quale opera come forza che imprime il moto ad ogni passo che si compie nel percorso che conduce verso l'altrove: una non meta; ed è anche il fondamento dell'errare, inteso nella duplice forma che può assumere: 'sbagliare', da cui, appunto, l'insorgere del dubbio, oppure può esprimere, come conseguenza, la metafora del viaggio, che mai approda ad una confortevole meta. Perché il dubbio non consente durevoli soste, solo brevi pause in foggia di celebrazione di un precario sapere, cui la ragione dà il suo momentaneo consenso.
Muoversi verso un non luogo partendo da un non luogo, dunque.
Ciò che meglio impersona l'abitatore del non luogo è senza dubbio la figura del viandante, la cui Odissea è una continua ripresa del viaggio, seppur privo di meta. La metafora del viandante è stata poeticamente illustrata da Nietzsche, in un suo celebre aforisma tratto da 'Umano, troppo umano':
Il viandante.
Chi anche solo in una certa misura è giunto alla libertà della ragione, non può poi sentirsi sulla terra nient'altro che un viandante, non un viaggiatore diretto a una meta finale: perché questa non esiste. Ben vorrà invece guardare e tener gli occhi ben aperti, per rendersi conto di come veramente procedano le cose nel mondo; perciò non potrà legare il suo cuore troppo saldamente ad alcuna cosa particolare: deve esserci in lui stesso qualcosa di errante, che trovi la sua gioia nel mutamento e nella transitorietà
#195
Racconti Inediti / DIALOGO SURREALE FRA DUE NON SO CHI
21 Settembre 2024, 21:52:40 PM
Lui: come posso aiutarti? Ho cercato di starti vicina, di essere qui, di essere sempre con te. Non ho più molte parole, ho solo me stesso da offrire per te;
Lei: la vita non è un soffice letto di petali rosa, me ne sono avveduta: il prato è sfiorito, il colle slavato, il cielo s'adombra; disegnami un fiore dai mille colori che mi doni il sorriso;
Lui: se fossi pittore t'avrei già donato un intero giardino di fiori splendenti dipinti da me, d'aiuole fiorite che spandon d'intorno soavi profumi, soltanto per te. Ma sarebbero solo fiori di carta, per un sorriso di carta, che non nascerebbe da te. Non sono un pittore, non so dipingerti un fiore di carta;
Lei: Aiutami! Tutto è sbiadito, il cielo è velato, il freddo è pungente, il buio incipiente; ti prego, fai brillare un Sole splendente per me. Accendi nel cielo una luce brillante che segni la strada;
Lui: non son fatto di Luce, non sono una Stella, non posso inondarti di raggi lucenti, non posso indicarti una strada; posso solo aiutarti a trovarla da te;
Lei: null'altro che questo? Avvicinati un po'; insegnami tu!
Lui: non sono un Maestro, ancor meno son saggio, ho poche lezioni da offrire per sciogliere i dubbi e i lacci che ti legano al suolo: non so storcere sbarre o piegare gli eventi; posso solo aiutarti, stringendoti forte, e donarti quel poco calore che ho;
Lei: componi dei versi, immergimi in sogni leggeri; avvolgimi in nubi ovattate; alleviami il peso che incontro ogni giorno;
Lui: non sono un poeta, non sono capace a creare paradisi di sogno; posso solo tenerti per mano mentre, incerta, cerchi la strada che conduce lontano;
Lei: componi una musica, una dolce armonia che mi faccia sognare, che mi persuada che vivere è un passo leggero di danza;
Lui: non so musicare, non conosco le note; non posso crearti incantevoli suoni che accompagnino danze leggere; posso solo ascoltare con te il mondo cantare, e guardare con te la Natura danzare;
Lei: componi per me arazzi dorati con dolci parole che conducan lontano, che obliino il mondo, che quietino il cuore e silenzino l'anima greve immersa nel buio;
Lui: vorrei anche farlo, ma non so esser bugiardo; non voglio donarti parole mendaci che compongano versi o racconti che scordino il peso di vivere; sarebbe un trastullo, un vacuo esercizio, uno sterile gioco di verbi e parole che inseguon se stesse. Vorrei, invece, che il sogno che potremo comporre nascesse da me, ispirato da te;
Lei: intreccia per me una danza gioiosa, alcuni mirabili passi leggiadri che rapiscan il mio sguardo ghermito dal giogo funereo del pianto, sperso oramai fra le forre dell'anima affranta;
Lui: non so proprio danzare, non posso intessere vesti dorate, non posso dipingere nell'aere aggraziate figure gioiose che allietino il cuore, che presto svaporano in scontrose folate di vento.
Vorrei, invece, che ti muovessi leggera, percorressi i sentieri, le valli ed i colli con passo sicuro, superassi gli anfratti più ostili senza sperderti in acque impetuose, conducessi la barca con lena, senza volgerti indietro a guardare le angustie di ieri, a smarrire il respiro rincorrendo i dolori e le pene che affliggono l'animo greve;
Lei: raccogli per me delle pietre preziose, che brillino al sole, che diano calore, che riempiano i giorni di Luce e colore;
Lui: potrei anche farlo, sarebbe solo un mondo di vetri scolpiti con mole e smerigli, sarebbero solo miseri e falsi pezzi di vetro, un mondo di specchi più freddi del freddo; io voglio per te un mondo più vero, con sole e calore che nascan da te;
Lei: donami almeno degli occhiali dipinti, ché possa vedere la vita con tinte più tenui, che nascondano agli occhi gli spenti colori, che ridonino pace e bellezza, che creino mondi incantati;
Lui: non posso volere per te un mondo artefatto. Gli occhiali ti spengono il volto e non ti mostreranno il bello che è in te; le lenti ti velano il viso, ti soffocano il riso, ti spengon lo sguardo; non chiedermi, dunque, di esser fasullo;
Lei: portami in cielo, in alto con te, fra nubi ovattate, più in alto dei tetti, che possa scordare qui in basso che c'è, spiega le ali e conducimi via, che i pesi, gli affanni e i gravami non possan frenarmi;
Lui: non posso volare, queste ali che vedi son fatte di cera, si sciolgono al sole, non ho, dunque, grandi mete che conducan in alto nei cieli, ho solo due gambe con cui camminare per le strade del mondo; non posso alleviarti il cammino e renderti leggera la vita;
Lei: ma allora dimmi cosa puoi fare?
Lui: sono solo un uomo che non rinuncia ad essere tale in cambio di fantasiosi sogni divini; posso stare al tuo fianco, mentre cammini con pena; posso seguire i tuoi passi, prenderti in braccio sorreggendo con te il peso di vivere, dividendo con te le pene e gli affanni, asciugarti le lacrime, custodirle all'interno di un cuore in affanno, donarti le mie, rinfrescarti le gote dopo il tanto ansimare, starti vicina anche quando sei sola, posso offrirti me stesso, per quel poco che vale, ma non chiedermi mai di essere ciò che non sono, non credermi mai una Luce divina, o un autore di sogni fantastici, posso darti la mano, regalarti un abbraccio, non t'infioro la vita, non ho petali rosa che marciscono al sole, o profumi di viole che svaniscano al vento; chiedimi, dunque, di stare con te così come sono; col mio incedere lento vorrei solo seguire i tuoi timidi passi lungo l'irto cammino, tenerti per mano e camminare al tuo fianco;
Lei: è già tanto! E' tutto quello che voglio, è quello che cerco... prendi la mano e camminiamo affiancati; raccontami storie che dican di te