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Messaggi - davintro

#181
Attualità / Re:Crocefisso il classe?
06 Ottobre 2019, 17:53:23 PM
non volevo proporre di saturare le pareti delle classi scolastiche con tutti i simboli religiosi possibili immaginabili, ma solo affermare che l'approccio più coerente con l'accezione di laicità, almeno per come la intendo, sarebbe quello di non porre alcun APRIORISTICO divieto all'esposizione di qualunque simbolo o immagine, religioso o meno, lasciando al buon senso e alla ragionevolezza comune la valutazione dell'opportunità di esporre o meno un oggetto. In questo senso la differenza tra un simbolo legato a una tradizione, nel bene e nel male, millenaria, infinitamente stratificata, e fondamentale nell'intendere la nostra storia, e uno scolapasta è evidente, ma se nonostante tutto c'è chi ha il coraggio di sfidare il ridicolo dicendo di considerare lo scolapasta come simbolo religioso, o comunque spirituale, perché no, non farebbe del male a nessuno, si prenderà lui la responsabilità di essere irriso, e del resto in una classe formata da ragazzi può essere frequente l'appendere immagini pop, senza alcuna intenzione di lanciare appelli ideologici (ricordo, se mi è concessa la battuta, che per un bel po' di tempo nel mio liceo, in una classe quasi esclusivamente femminile, fosse appesa alle pareti una foto molto sensuale di Roberto Farnesi, attore ai tempi molto amato dalla ragazzine, magari qualche maschietto poteva anche offendersi nel vedersi imposto un modello di bellezza molto diverso dal loro, scusate l'intermezzo nostalgico...). Se il modello "luna park" può apparire nel breve termine più illogico e anche esteticamente irritante rispetto alla "tabula rasa", la mia preoccupazione circa quest'ultimo riguarda il lungo termine. Riguarda cioè la creazione di un precedente, per il quale una volta accettato il principio della negazione di uno spazio pubblico a tutto ciò che a una religione si ispira, si possa un giorno passare dalla rimozione di simboli alle pareti (questione di per sé piuttosto banale, personalmente se aggiungessero o togliessero il crocifisso dalle pareti di un luogo che frequento penso difficilmente me ne accorgerei) a proseguire l'opera iconoclasta su ambiti ben più significativi, come nell'esempio portato prima, come l'arte o il pensiero cristiano dai programmi scolastici. E già oggi c'è già chi propone di censuare la Divina Commedia per dei riferimenti omofobici che potrebbero offendere. Tutto in questo nome della contingenza e mutevolezza dei parametri di definizione di "bene culturale", per cui mentre oggi neghiamo tale bene culturale al crocefisso, domani potremmo negarlo alla basilica, o al trattato filosofico scolastico. In questo senso il modello "luna park" offrirebbe il vantaggio di non creare tale precedente, e di evitare il rischio del "piano inclinato", garantendo la preservazione della rappresentanza pubblica di ogni identità nella società.

Anche il fatto che, citando Ipazia, la tabella di Mendeleev sarebbe più utile e reale del crocefisso, conferma l'arbitrarietà dei criteri di una laicità confusa con un'ideologia materialista. Che la tabella di Mendeleev sia più reale e  utile del crocefisso che un'opinione che certamente ogni materialista farebbe propria, ma non certo un credente. Quindi adottando un parametro simile nello stabilire cosa sarebbe opportuno utilizzare come immagine pubblica alle pareti, si seguirebbero criteri parziali in cui l'opinione di alcuni, i non credenti-materialisti andrebbe presa più in considerazione rispetto a quella dei credenti, dandone per scontato una presunta superiorità razionale. Ma la laicità non ha nulla a che fare con giudizi di tal genere. Laicità è pura assenza di discriminazione, uguaglianza di diritti e doveri al di là delle convinzioni religiose che si hanno. Non vuol dire prendere posizioni in favore di una visione anziché un'altra, e dunque non può pretendere di adottare parametri come "realtà" o "utilità" che valgono per una certa visione e non per un'altra. Non ha nulla a che fare con l'antireligiosità, anche un fervente credente può considerarsi a tutti gli effetti "laico", se non è un sacerdote e se riconosce l'autonomia di fini del potere politico rispetto all'istituzione spirituale (autonomia che certo un crocefisso non  ha il potere di  contestare)
#182
Attualità / Re:Crocefisso il classe?
05 Ottobre 2019, 17:21:56 PM
il problema, apparentemente banale, dell'opportunità del crocefisso in classe, chiama in causa la questione della legittimità dei criteri in base a cui distinguiamo cosa è "cultura" da cosa non lo è. Chi difende la presenza del crocifisso, presenta come argomento primario, il riconoscimento di un valore etico, dunque culturale, a cui il crocifisso richiama, i valori della dignità dell'uomo sofferente, vittima delle ingiustizie, in cui anche un non cristiano può, laicamente, sentire come propri. Chi si oppone non riconosce questo aspetto, e vede il crocefisso come mero simbolo di fede del tutto soggettiva, che una volta affisso alle pareti, infrange il principio di laicità, discriminando chi non ha questa fede. Ora, anche non volendo entrare nel merito di quale delle due posizioni sia valida, resta decisivo chiarire la questione dei parametri di discernimento di "cultura". Questi parametri hanno validità oggettiva o storica e contingente? Solo il semplice fatto della divergenza di opinioni sul crocifisso porta a pensare alla seconda opzione, cioè l'arbitrarietà della definizione di "cultura". E allora la mia personale preoccupazione è: una volta accettata la premessa di intendere laicità come negazione di ogni espressione pubblica di tutto ciò che ha a che vedere con la religione, cosa impedirebbe un giorno di misconoscere l'assenza di ogni valore culturale al di là della fede, di ogni manifestazione ispirata dalla religione, non solo il crocefisso, ma anche Giotto e l'arte cristiana, la Patristica e la Scolastica dalla filosofia, Manzoni e Dante dalla letteratura? Ogni cosa che una fede ha ispirato dovrebbe avere una dignità culturale solo per chi quella fede ce l'ha (come se un ateo non potesse riconoscere l'importanza storica di Agostino d'Ippona o dell'architettura gotica), e dunque essere rimossa dallo spazio pubblico, dai programmi scolastici. Mi pare chiaro che un'impostazione come questa è solo una distorsione del significato sano e autentico di "laicità". In questa impostazione la laicità finisce col diventare ciò che non è, materialismo, ateismo, antireligiosità, in quanto la si intende come giudizio rivolto a stabilire quale tipologia di cultura meriti di essere riconosciuta come tale, esprimente valori a cui tutta una comunità dovrebbe aderire, e quale invece (religione e spiritualità) è solo sterile irrazionalismo, che non può ispirare alcun contributo positivo ad una società, e dunque da relegare alla sfera privata. Appare evidente che una laicità di tal genere diventa ideologia, determinata visione del mondo, con uno specifico giudizio sulla religione, e un aperto schierarsi dalla parte delle posizioni antireligiose, nei fatti diventa una sorta di ateismo di stato che non rispetta l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, ma discrimina i credenti, impedendogli di avere una rappresentanza pubblica, invece concessa ai non credenti, dando per scontato che le idee di questi ultimi siano oggettivamente più valide culturalmente, e più comprensive e razionali rispetto alle idee altrui. Ma, mi chiedo, dove sta scritto che un crocifisso o l'immagine di una basilica siano più discriminanti nei confronti di chi non crede, rispetto a quanto possa esserlo lo studio del marxismo o del positivismo nei programmi scolastici di filosofia nei confronti di chi non concorda con quelle filosofie? La vera laicità, invece, non è un punto di vista, non prende posizione nei confronti del valore culturale o della verità di una religione, imponendo aprioristici confini entro cui una certa cultura ha dignità pubblica oppure va chiusa nel privato, ma dovrebbe essere solo un metodo neutro, il rispetto del principio di uguaglianza per cui ogni espressione di pensiero, religioso o non, resta libera entro i limiti in cui non pretende di essere l'unica possibile, cercando di silenziare le altre con la violenza. Quindi una laicità inclusiva, di stampo anglosassone e non giacobina-francese, che non mira alla cancellazione di alcuna identità, ma apre a tutte, senza alcuna discriminazione, ma in libero confronto. Intesa in questo  senso, la laicità non sarebbe infranta dalla semplice presenza del crocifisso alla parete, ma da un ipotetico divieto (che fortunatamente nessuno pretende) di poter accanto al crocifisso appendere simboli di diverse religioni, o, perché no, anche foto di grandi personalità laiche come l'imperatore Adriano a Gandhi, filosofi, scienziati, poeti. Una laicità che arricchisce e aggiunge, invece di impoverire e togliere
#183
Attualità / Re:Articolo 67 della Costituzione italiana
28 Settembre 2019, 15:32:53 PM
volendo entrare in un'ottica più culturale, ricercando le radici profonde del fenomeno del trasformismo, appare ancora più evidente l'inadeguatezza di un vincolo di mandato o di qualsivoglia altro provvedimento nel combattere tale piaga. il trasformismo non si combatte coi vincoli di mandato, ma, sono convinto, recuperando il legame fondativo che lega la politica all'ideologia. Con tutti i suoi difetti, la Prima Repubblica si caratterizzava per un tasso di trasformismo quasi inesistente. Proprio perché a ogni partito corrispondeva una filosofia politica, a una visione del mondo a cui i militanti aderivano nel profondo. Comunisti, democratici-cristiani, liberali, socialdemocratici ecc. Cambiare partito sarebbe stato assurdo come cambiare personalità, sistema di valori profondi... Il trasformismo è frutto della più generale e profonda malattia del pragmatismo esasperato, con la sua retorica del "buon senso", tutto schiacciato nel conformarsi al senso comune, ingenuo, emotivo, irrazionale di un elettorato di cui si deve cercare il consenso immediato per guadagnare punti nei sondaggi. Il pragmatismo, che rompe il legame teoria-prassi, assolutizzando la seconda e relegando la prima a astrazione "che alla gente non interessa", schiaccia ogni valutazione e decisione politica su singoli temi da risolvere nell'immediato, senza una prospettiva sistematica entro cui contestualizzare le risposte. Aderire a un partito non esprime più un ideale di società, di essere umano, ma solo il seguire il carisma del leader, che nei sondaggi di Ottobre risulta essere il politico più amato dai cittadini, ma che si è pronti ad abbandonare quando i sondaggi di Novembre mostrano un calo nella fiducia di due punti, perché ha sbagliato i toni di un'intervista, o di un post su Twitter. Tutto, ogni motivazione su cui fondare una scelta politica si restringe al giudizio sul breve termine, sul particolare, sul singolo punto del "contratto di governo", la singola dichiarazione del leader, e si perde di vista la visione generale delle cose, il lungo termine, il pensiero profondo, la teoria, cioè l'ideologia. Naturale che in una situazione come questa, lo stare in un partito resti solo una convenienza tattica che non riguarda davvero le convinzioni più consolidate e rappresentative della persona, convenienza sempre relativizzata e pronta a cessare, quando le condizioni a breve termine mutano
#184
Attualità / Re:Articolo 67 della Costituzione italiana
27 Settembre 2019, 18:25:23 PM
considero il vincolo di mandato un grave vulnus al principio di libera responsabilità dei parlamentari, che a questo punto diverrebbero del tutto servi delle indicazioni di partito, privandoli di autonomia. Pensare che il vincolo di mandato sia strumento di lotta contro il trasformismo e il tradimento della volontà popolare implica l'ingenuità nel pensare che a venir meno al rispetto del programma elettorale possano essere solo singoli, e non anche un partito nel suo complesso. E così si arriverebbe all'assurdo di penalizzare un singolo parlamentare che, proprio perché coerente  con tale programma, lascia un partito che invece nelle sue scelte verticiste dimostra di tradirlo. Ad esempio, portando un riferimento dell'attuale, come si potrebbe considerare un Richetti, che proprio in coerenza con l'opposizione valoriale contro i 5Stelle che ha sempre caratterizzato il modo con cui il Pd si è fin qui presentato ai suoi elettorali, decide di uscire da un partito che scegliendo l'alleanza governativa e forse persino elettorale coi 5 Stelle, ha chiaramente tradito tale assunto (al di là delle possibili giustificazioni tattiche, che ora non discuto qua), "trasformista", trasformista lui anziché il partito di provenienza?

Inoltre, trovo paradossale che proprio i 5Stelle, con il loro costante e retorico richiamo alla democrazia diretta, a Rousseau, ora votino un provvedimento che spezza il legame di responsabilità fra corpo elettorale e parlamentare, dando un enorme potere di vincolo ai partiti, introducendo un fortissimo (e a mio avviso eccessivo e arbitrario) fattore di mediazione, il potere dei partiti appunto, fra volontà popolare e rappresentanza istituzionale
#185
Circa la questione se la sensibilità sia atta a riconoscere la purezza della razionalità, tenderei a pensare di no, nel senso di intendere "purezza" come condizione in cui la razionalità di esprime nel modo più efficace possibile riguardo la conoscenza della realtà. Per riconoscere quanto gli argomenti logici che si portano a supportare una tesi siano validi abbiamo, a nostra volta, bisogno di argomenti razionali, di ragione, e non di sensibilità. Questo perché la logica ha un suo ambito applicativo peculiare in cui opera indipendentemente da altro, ha i suoi fondamenti a partire da cui discendere le proprie analisi finalizzate a verificare la corrispondenza di una tesi con la realtà oggettiva, mentre la sensibilità è riferita al mondo dei valori sentimentali, che non riguardano la realtà oggettiva, ma esigenze di cui solo soggettivamente riconosciamo l'importanza, e che nel momento in cui si vuole ragionare in termini oggettivi di conoscenza della realtà, andrebbero messi tra parentesi, per evitare il corto circuito tra realtà oggetto di conoscenza, a cui la razionalità è chiamata a conformarsi, e ideale di realtà come soggettivamente vorremmo che fosse, confondendo i due piani.  Tutto questo, considerando, se ho inteso il contesto generale della discussione, sensibilità come  emotività, affettività etica, mentre volendo comprendere nel termine, forzando un bel po' il rigore terminologico, anche una sorta di intuizione intellettuale, allora sì che la sensibilità diverrebbe il supporto fondante della validità di ogni catena argomentativa che la razionalità intreccia, in quanto come intuizione coglierebbe lo stato di massima evidenza della verità degli assiomi logici da cui ogni possibile dimostrazione procede. Ma immagino quanto questa prospettiva aprirebbe problemi teoretici interessanti, ma che temo porterebbero troppo fuori dal recinto tematico che cui penso si voglia approfondire

D'altra parte, e qua penso di considerare il punto 3, che la sensibilità non possa fondare il riconoscimento della razionalità di un discorso, non implica la sua assenza dal processo cognitivo. Indirettamente, i sentimenti legati alle nostre attribuzioni di valore alle cose del mondo ridestano in noi delle convinzioni riguardo stati di cose, che per svariati motivi, releghiamo ai livelli più inconsapevoli della psiche, o a cui ad ogni modo non prestiamo attenzione. Anche se giudizi di fatto, ai quali la razionalità mira a offrire argomenti di supporto, e giudizi di valore da cui scaturiscono i sentimenti, non sono tra loro deducibili, questi sentimenti, in quanto nascono da un raffronto tra l'idea di ciò che la realtà vorremmo sia e quella che di fatto si manifesta, dipendono comunque anche dalla conoscenza fattuale, e il loro formarsi in noi evoca delle informazioni sul piano cognitivo, che magari senza questo formarsi, non sarebbero giunte alla nostra attenzione. Uno studente prova un forte timore (sensibilità) alla vigilia di un esame, e ciò lo porta a focalizzare l'attenzione sulle oggettive difficoltà (la grande severità del professore, una preparazione particolarmente difettosa...), informazioni a tutti gli effetti fattuali, di cui egli magari è sempre stato in possesso, senza esserne pienamente conscio, senza che le abbia mai adeguatamente tematizzate. Il sentimento della paura non ha prodotto queste informazioni (che invece sono apprese dall'esperienza fattuale della situazione e dalla razionalità che vi si applica, essendo oggettive e non una costruzione della volontà), ma ha contribuito a "tirarle fuori" dal pozzo della conoscenza inconsapevole di essere posseduta, dagli strati più inconsci, per esplicitarle, portarle ad un livello di tematizzazione esplicita e del tutto conscia. Senza sensibilità, cioè, mancherebbe la molla all'Io per orientare l'attenzione su certi contenuti cognitivi, la sensibilità non legittima la validità del processo cognitivo, ma lo innesca nella sua attuazione effettiva

Per quanto riguardo la differenza sessuale, non sento di poter dir nulla, e del resto non la ritengo nemmeno una questione strettamente filosofica (per quanto estremamente interessante e rilevante generalmente parlando, senza dubbio!), in quanto non affrontabile in linea speculativa-deduttiva, ma sulla base di ricerche sperimentali (dunque non filosofiche) tese a misurare l'effettivo peso di un condizionamento culturale-sociale, contingente da un lato, e di uno innato-biologico dall'altro nel formarsi delle associazioni femminile-sensibilità vs maschile-razionalità, quanto tali associazioni riflettano la naturale realtà biologica e quanto invece vadano considerati stereotipi potenzialmente superabili. Ciò implicherebbe ricerche nel campo neuroscientifico o sociologico/antropologico che non rientrano nell'ambito specificatamente filosofico, su cui molti altri, anche in questo forum saprebbero parlare infinitamente meglio di me. Un'annotazione estremamente generica che mi sentirei di dire è come la stessa storia della filosofia abbia spesso fornito esempi di pensatrici, in cui, non so quanto indipendentemente dal loro sesso, al di là di ovvie eccezioni, si avverte una tendenza verso un'impostazione filosofica molto più vitalista ed esistenziale, una particolare attenzione al tema etico, una certa diffidenza verso grandi sistematizzazioni rigidamente teoretiche, del tutto fondabili per via logica, astratte dal coinvolgimento vitale-sentimentale, per intenderci sul modello di un razionalismo come può essere quello di un Cartesio o di un Hegel. Il che non vuol dire affatto che le donne-filosofo siano sprovviste di rigore logico, tutt'altro. Prendendo a esempi fenomenologhe come la Stein, la Walther, o la Conrad-Martius, si nota, specie nella Stein in molti lavori teoretici, un piglio analitico fortissimo, quasi "maschile" se si vuole, nella sua apparente impersonalità, eppure si nota, come le analisi restino sempre fondate su descrizioni legate ai vissuti intuitivi delle "cose stesse" che vengono tematizzate, cioè la razionalità, pur operando non lasciandosi condizionare dal sentimento nel senso di deviare dalla ricerca di risultati validi oggettivamente, prende le mosse da esso, dal  loro vissuto, per esaminarlo nella massima fedeltà in cui li si vive interiormente. E forse non a caso, la fenomenologia husserliana, col suo costante riferimento al Lebenswelt, al Mondo della Vita, sia stata una scuola ricca di presenze femminili
#186
Washington direi fosse, di fatto, obbligato a esprimere la sua azione di logoramento del nemico come guerriglia all'interno dei territori coloniali, non potendo colpire direttamente il suolo britannico, stante l'immensità dell'Oceano Atlantico frapposto. Diverso il caso della Guerra di Secessione, dove le grandi città del Nord, la capitale Washington (che per un breve momento del conflitto rischiò davvero di finire sotto assedio, ed era situata ino stato come il Maryland, pur non secessionista, schiavista e con larga parte della popolazione di simpatie confederate), Baltimora, Filadelfia, New York, erano a un passo dal fronte, al confine con gli stati ribelli, e non sarebbe stato poi così difficile per i sudisti, una volta decisa una linea d'azione offensiva, se non conquistare, quantomeno minacciare tali città, impressionando i civili presenti, di modo che fossero poi spinti alle presidenziali del 64 a votare contro Lincoln e la continuazione della guerra. Da un punto di vista elettorale, teniamo conto poi che i repubblicani, più intransigenti nella difesa dell'Unione e l'abolizione dello schiavismo, erano forti più che altro nell'estremo nord, nel New England,, lontanissimo da fronte, mentre gli stati decisivi per la vittoria elettorale, quelli in bilico tra i due partiti, erano stati con un profilo sociale/economico più simile a quelli del sud, e vicini al confine, il MidWest, la Pennsylvania, New York, cioè proprio quei territori che sarebbero stati più direttamente coinvolti da un'eventuale invasione confederata, che in questo modo, sarebbe proprio andata a toccare il "ventre molle" dell'Unione, le zone dove la popolazione sarebbe stata politicamente più facilmente convinta a togliere fiducia a Lincoln e alla guerra. Dunque non considero le idee strategiche di Lee, concretizzatesi nell'invasione della Pennsylvania, aprioristicamente sbagliate, e penso avrebbero potuto incontrare maggior successo, se fossero state meglio supportate, la sua armata rinforzata da parte del governo confederato, cioè se il Sud fosse stato davvero una Nazione unita, disposta a sacrificare territori strategicamente secondari, in nome di una strategia nazionale unitaria e coordinata. Peraltro, almeno a quel che mi è capitato di leggere, tutti queste considerazioni erano presenti nella mente di Lee, che monitorava costantemente la stampa nordista, e dunque mostrava una certa attenzione all'aspetto politico e del morale dell'opinione pubblica nemica, mostrava cioè una certa modernità di pensiero, che lo allontana dallo stereotipo del generale all'antica, napoleonico, del tutto condizionato dal feticcio di una vittoria da conseguire solo militarmente, senza considerare il contesto globale politico
#187
Citazione di: Ipazia il 04 Settembre 2019, 09:01:05 AMNapoleone affermava che Dio sta sempre dalla parte di chi ha la migliore artiglieria. Il quartetto Cetra cantava in una farsa su "via col vento": noi c'avemo le balle di cotone, loro quelle di cannone. La superiorità tecnologica è il risultato di un processo razionale che ben si sposa con la superiorità strategica in un conflitto, per cui l'esito della guerra era scontato. Ma anche il brand era dalla parte dei nordisti: un paese che si candida a faro della libertà, già pronto subliminalmente ad esportarla coi mezzi che sappiamo (la citazione del Vietnam è opportuna), non poteva permettersi la tara schiavista, già superata dall'evoluzione politico-economica, come spiega magistralmente Marlon Brando nel postribolo di un'isola caraibica in Queimada di Gillo Pontecorvo. Insomma, una guerra dal destino predestinato di cui rimane soltanto il folk.

La citazione del Vietnam era appunto per esemplificare la possibilità che la superiorità tecnologica di un paese sull'altro non si riveli fattore decisivo nella vittoria di un conflitto, nonostante tale superiorità fosse appannaggio della potenza, gli Usa, che non hanno ottenuto la vittoria. Se il morale, rispondendo anche a InVerno, non ricarica le pistole, resta però ciò che fa sì che si sia disposti a correre il rischio di finire uccisi o subire perdite anche gravi, se questo è il prezzo da pagare per una vittoria che ripaghi dei sacrifici fatti. Quindi resta fattore primario. L'errore è quello di vedere la guerra come uno scontro tra massi, in cui il più pesante schiaccia l'altro e vince. Non è così, l'uomo non è massa pietrosa, ma mente razionale che deve gestire il materiale (umano ed economico) a sua disposizione valutando i limiti entro cui le perdite restano accettabili in relazione all'obiettivo che una vittoria militare garantirebbe, in un rapporto costi-benefici. In questo senso condivido l'intuizione clausewitziana della guerra come prosecuzione con altri mezzi delle scelte politiche. Se la disparità di risorse incide dal punto di vista strettamente militare, è anche però vero che una guerra si può vincere (o anche "non perdere" e penso che al Sud per guadagnarsi l'indipendenza bastasse non perdere), anche senza vincerla dal punto di vista prettamente militare, avendo meno risorse, ma riuscendo a gestirle intelligentemente, convincendo il nemico, sebbene più dotato di te, che pur vincendo militarmente, il gioco non varrebbe la candela, al netto delle perdite necessarie per raggiungere la vittoria. In questo senso il Vietnam, fa scuola: gli Usa non hanno perso la guerra militarmente (quasi tutti gli scontri campali sono risultate vittorie tattiche Usa), l' hanno persa, perché il pesante logorio li ha col tempo convinti che i vantaggi di una piena vittoria sarebbero stati inferiori a ciò che si sarebbe perso, in termini di vite umane e di sfaldamento morale e politico della loro società, del "fronte interno". Contasse solo l'aspetto militare e la quantità di risorse da investire, gli Usa avrebbero stravinto, non è accaduto perché la componente morale e psicologica si è rivelata più importante. Perché la stessa cosa non avrebbe potuto succedere nella guerra di Secessione? Pur largamente inferiore di uomini e mezzi e quindi destinato a una sconfitta militare, restava al Sud la possibilità di un successo politico, attuando una strategia di offensiva spettacolare, che non avrebbe militarmente sconfitto il Nord, ma lo avrebbe indotto, colpendolo psicologicamente, a ripensare se davvero valesse la pena di continuare a subire perdite tali da non poter essere ripagate dai benefici di una vittoria militare, pur certa da raggiungere, alla lunga. Da qui, la mia curiosità a considerare come fattore della sconfitta un elemento non legato all'aspetto economico, ma più inerente il piano politico-spirituale, come l'assenza di un vero spirito di unità nazionale che portasse i cittadini del Sud a sentirsi parte di un'unica patria, al di là del senso di appartenenza al singolo stato di appartenenza, Virginia, Georgia ecc. Spirito nazionale, che invece è emerso nella psiche nordista, intorno al valore dell'Unione federale, (e nel corso della guerra, direi anche l'abolizionismo antischiavista), come bene da preservare contro i "rebels" traditori
#188
L'opinione comune, riflessa nei principali manuali di storia scolastici è che l'esito della Guerra di Secessione, la completa vittoria del Nord, fosse già in partenza inevitabile, e che solo la grande abilità dei generali confederati abbia potuto favorire una resistenza di ben 4 anni di conflitto. La motivazione di tale ineluttabilità viene fatta coincidere con il largo divario di risorse economiche e umane in favore di una società già industrializzata in contrapposizione alla società rurale del Sud. Ho sempre trovato questa motivazione perfettamente valida ma al contempo limitata e non esauriente. La storia insegna di conflitti dove la parte più debole in termini di risorse umane e materiali è riuscita a prevalere, pensiamo alla Guerra del Vietnam, o andando su epoche e contesti più vicini e anche più attinenti al periodo qui in questione alla guerra di Indipendenza Americana, con l'esercito coloniale ben più scarso di soldati e risorse ma vincente rispetto alla soverchiante potenza britannica. Quindi quello che mi chiedo è, davvero l'esito militare del conflitto era scontato in partenza? Davvero non ci sono stati altri fattori oltre quelli comunemente considerati a determinare la sconfitta del Sud?

La mia personale impressione è che la motivazione principale della sconfitta degli Stati Confederati coincida paradossalmente con la motivazione del suo sorgere (da qui si può parlare di destino e di ineluttabilità), l'autonomia dei singoli stati "states'rights" rispetto al potere centrale federale di Washington, come condizione di preservazione della struttura sociale latifondista e schiavista, alternativo al modello industriale protezionistico, necessitante di un forte potere centrale. Se l'istanza autonomista degli stati è stata il motore della secessione, è stata anche la condanna che ha condotto alla sconfitta militare. La necessità di non scontentare le esigenze dei singoli stati confederati, gelosi della loro autonomia, ha condizionato la strategia militare del Sud, impedendo un comando unitario delle operazioni, costringendo ad una dispersione delle forze armate a difesa dei singoli stati, senza possibilità di una concentrazione delle forze nelle zone strategicamente più rilevanti. Questa concentrazione di forze avrebbe consentito delle offensive nei territori unionisti, che anche se probabilmente fallimentari sul piano militare, avrebbero potuto portare successi dal punto di vista psicologico-politico, intimorendo l'opinione pubblica nordista, spingendola a togliere l'appoggio alla linea lincolniana di tenace perseguimento del recupero dell'Unione, favorendo un cambio di amministrazione in favore del Partito Democratico (ricordiamo che nel pieno della guerra si svolsero in territorio nordista le elezioni presidenziali, fino alla caduta di Atlanta, molto incerte, in cui Lincoln rischiò seriamente di perdere), da sempre molto più bendisposto verso gli interessi sudisti, rispetto ai repubblicani dell'epoca. La sproporzione di uomini e risorse a favore del Nord non era affatto necessariamente decisiva, in quanto il Sud non aveva bisogno di vincere la guerra militarmente, gli bastava danneggiare il Nord quel che bastava per logorarlo appunto da indurlo a chiedere una pace che sancisse la sua indipendenza, vincere sul piano psicologico, esattamente come il fatto che l'offensiva del Tet si fosse rivelata un fiasco militarmente per i Nordvietnamiti, non precluse affatto ad essi la vittoria finale, perché si rivelò vincente sul piano propagandistico e morale nei confronti dell'opinione pubblica Usa, sorpresa e intimorita da tale operazione. Un governo centrale confederato forte, avrebbe avuto la forza di permettersi di sacrificare la difesa di qualche territorio strategicamente secondario, per concentrare e coordinare le forze per una strategia offensiva ben più sistematica, ampia e continuata del tempo, che quella realizzata nei fatti, ridotta all'estemporanea invasione della Pennsylvania da parte del generale Lee, conclusasi con la battaglia di Gettysburg. Se ciò non è stato possibile, forse è perché le istanze localiste dei singoli stati secessionisti hanno impedito una centralizzazione della strategia militare che avrebbe potuto essere foriera di quei successi, se non strettamente militari, comunque politici e propagandistici, come stimolo all'opposizione pacifista al Nord (la creazione di un comando militare unificato sotto Lee fu creato troppo tardi, a guerra ormai persa, mentre l'Unione attribuì a Grant il comando unificato al momento giusto) In definitiva, la mia impressione che è la ragione di fondo della sconfitta confederata sia stata il mancato sviluppo di un  vero e proprio nazionalismo Dixie, un senso di appartenenza che andasse al di là del sentirsi, in ordine sparso, virginiani, texani, missisipiani ecc. Cosa ne pensate di queste interpretazioni? Un nazionalismo, un'autocoscienza sudista, al di là dei singoli stati è davvero esistita ai tempi del conflitto?
#189
se ho abbastanza ben inteso l'impostazione aristotelica...

La materia costituisce quella componente degli enti che li caratterizza come enti passivi, dotati di potenzialità non attuali, mentre la forma costituisce la componente attiva, in quanto la forma, che coincide con l'essenza della cosa a cui la forma è riferita, rappresenta il senso intrinseco della cosa, e dunque, nella misura in cui un ente ha una forma, esprime tale natura interna, indipendente da ciò che è altro da esso, l'ente è attivo, esprime la propria essenza peculiare. Ogni sostanza, come sinolo, unità di materia e forma, è anche unità di attività e passività. La materia (per questo aspetto mi pare che Aristotele resti nell'alveo della visione platonica) è la componente passiva perché corruttibile, divisibile, (la materia occupa uno spazio) è dunque ciò che rende l'ente potenzialmente deviante rispetto alla propria essenza originaria, data dalla forma, deviazione dovuta a una causalità esterna. Il Motore Immobile, cioè la Causa prima di ogni mutamento, senza che questa dipenda a sua volta da una causa pregressa, non può a questo punto essere che una pura forma, cioè una pura realtà immateriale. Se fosse composta di materia, non sarebbe "Prima", causa originaria, ma dovrebbe far dipendere la sua attività da una causa esterna e precedente rispetto ad essa, che agirebbe sulla sua componente materiale, potenziale. L'essere Causa Prima vuol dire attribuire a questa causa una attualità necessaria ed eterna, dunque non può esserci in essa alcuna traccia di passività e potenzialità, cioè di materia
#190
viator scrive: 

"Più precisamente ed a proposito dell'"egoismo"(naturalissimo) che genera l'amore in qualsiasi sua veste (guarda caso, sembra che l'amore contenga al suo interno il desiderio), SE L'AMORE NON AVESSE RADICE SOLO EGOISTICA, ALLORA DOVREBBE CAPITARE ANCHE DI INNAMORARCI PER PURO ALTRUISMO, CIOE' MAGARI DI CHI CI AMA MA CHE A NOI NON INTERESSA AFFATTO."


In realtà non trovo che il fatto, vero di per sé, della non coincidenza tra amore ed esigenza di reciprocità nell'essere riamati da chi si ama, sia un argomento in favore della collocazione dell'amore all'interno dell'egoismo, anzi, per un certo senso, all'opposto, ne conferma la distinzione da quest'ultimo. Amare come gratitudine dell'essere amati resterebbe nell'ambito dell'egoismo, proprio in quanto il sentimento apparirebbe in questo caso come un riconoscimento affettivo consistente in una stima dell'altro, che viene apprezzato proprio in quanto ama noi stessi. Cioè l'amore per se stessi diverrebbe il criterio fondante dell'amore per l'altro, che verrebbe riconosciuto come degno di amore, proprio perché esaudisce per primo la condizione di renderci il giusto valore, amandoci. "Ti amo, perché mi ami", cioè "ti riconosco un valore perché hai riconosciuto tu per primo/a il mio valore. Come si nota, il punto di partenza è un'autostima, un amore di se stessi, che vincola questa modalità sentimentale molto più all'egoismo di quanto lo vincolerebbe un'amore che invece viene provato indipendentemente dalla reciprocità. In quest'ultimo caso l'attribuzione di valore alla persona amata è del tutto gratuita e disinteressata,  non condizionata dal giudizio riguardo il proprio valore, che l'amore dell'altro corroborerebbe, si ama l'altro/a per ciò che è, indipendentemente da quanto il suo eventuale amore ricambiato per noi stessi possa renderci felici. Appare evidente come in quest'ultimo caso il fondamento dell'amore sia davvero posto nell'idea dell'altro e non in noi stessi, verso cui si dovrebbe pretendere reciprocità. Quindi, un carattere più esplicitamente "altruistico" in una tipologia di amore che non chiede di essere ricambiato
#191
Attualità / Re:Elezioni: l'alternativa del diavolo!
12 Agosto 2019, 17:51:04 PM
credo che le elezioni immediate siano lo scenario peggiore per Salvini. Pur con evidente certezza vincendole (ma "vittoria" nel senso di vedere di gran lunga la Lega primo partito) non è detto raggiunga la maggioranza assoluta parlamentare, anche con l'appoggio, pre o post elettorale della Meloni o di  Toti. I sondaggi che vedono il centrodestra unito al 50% a mio avviso si limitano ad assommare pesi elettorali, che non è affatto detto che si sommerebbero effettivamente nel caso di una coalizione che si presenta in aperta alternativa con i 5stelle o il centrosinistra. Molti dei consensi che hanno portato la Lega sopra il 30% provengono da un elettorato 5 stelle che si è orientato su Salvini, in quanto considerato ancor meglio dei suoi colleghi di governo, adeguato a esprimere posizioni populiste, euroscettiche, antisistema, ma che ora potrebbe abbandonarlo in quanto "traditore" del "governo del popolo", e tornato al vecchio centrodestra, ancorato ai valori del popolarismo europeo e agli interessi dell'imprenditoria settentrionale, ben lontana dalle istanze pentastellate assistenziali. Il grande successo delle europee non deve ingannare. In un'elezione del tutto proporzionale la Lega ha potuto giocare sull'ambiguità, non avendo necessità di schierarsi apertamente in una coalizione, di scegliere tra vecchio centrodestra e alleanza sistematica coi grillini, ha potuto mantenere il suo elettorato di riferimento, legato al conservatorismo moderato del centrodestra e al contempo attrarre buona parte dell'elettorato 5 stelle proponendosi come collaboratore delle loro politiche di governo. Un abile doppiogioco tenuto insieme dalla comunicatività di un Salvini che si destreggia tra proporre flat tax ben gradite al tradizionale elettorato di centrodestra e antieuropeismo, gradito all'elettorato 5 stelle. Diverso il caso delle elezioni politiche: la necessità di formare coalizioni di governo impedisce a Salvini di continuare a tenere i piedi in due staffe, lo forza a scegliere una precisa collocazione politico programmatica che inevitabilmente alienerà gran parte dell'elettorato legato all'opzione che si è costretti ad abbandonare. Scegliendo di rompere coi 5 Stelle Salvini si indirizza a rientrare nel vecchio centrodestra, e ritengo probabile che i suoi consensi finiscano per avvicinarsi di molto alle percentuali del 4 Marzo dell'anno scorso, ricreandosi più o meno lo stesso contesto politico e di alleanze. Occorre inoltre tener conto che l'attuale legge elettorale riserva una parte maggioritaria con i collegi uninominali, che possono orientare il risultato complessivo in direzione diversa rispetto alle indicazioni dei sondaggi, che rispondono a una logica puramente proporzionale (nonché rispetto al riferimento delle ultime europee). Le ultime amministrative mostrano un centrosinistra che tutto sommato nelle roccaforti del centro tiene, e al Sud i 5 Stelle, pur senza fare il pieno del 2018, restano comunque forti e potenzialmente vincenti in molti collegi, quindi la possibile mancanza di uno sfondamento salviniano al centrosud potrebbe incidere negativamente circa l'obiettivo della maggioranza assoluta.


L'ipotesi di un governo istituzionale Pd-5 Stelle sarebbe invece l'opzione migliore per il leader della Lega, la cui propaganda troverebbe ancora più spunti nel presentarsi, dall'opposizione, come paladino della volontà popolare tradita da accordi di palazzo fatti per puro interesse di potere. Senza arrivare alle esagerazioni di chi parla di Lega al 60, 70%, è chiaro che quanto più tempo la Lega è all'opposizione di un governo che apparirebbe nato proprio un funzione di tener lontano dal governo una forza politica avente la maggioranza relativa dei consensi. Si riproporrebbe la stessa situazione del 2012, con i partiti tradizionali tutti sostenenti il governo Monti, e con i 5 Stelle unica forza di opposizione a raggiungere i risultati elettorali che conosciamo. Senza contare che si tratterebbe di un governo destinato ad avere probabilmente più contrasti interni di quello gialloverde. I grillini, ben più della Lega, hanno sempre considerato il Pd, insieme a Forza Italia nemico numero 1, massima espressione dei "poteri forti", il loro cavallo di battaglia, il giustizialismo nei rapporti politica-magistratura, in antitesi dei principi garantisti, della presunzione di innocenza a cui si richiama il Pd, per non parlare dell'antitesi Euroscetticismo-Europeismo, e di un modello grillino decrescista grillino che difficilmente trova sponda nelle posizioni liberaldemocratiche o anche socialdemocratiche, caratterizzanti un centrosinistra riformista. Tutto ciò a evidente vantaggio di chi sta all'opposizione.
#192
Citazione di: Ipazia il 13 Luglio 2019, 17:01:21 PM
Citazione di: davintro il 12 Luglio 2019, 19:14:17 PM... Il mio obiettivo in questa discussione era evidenziare la funzione positiva del libero mercato, riguardo l'impedimento di monopoli per quanto riguarda la produzione di beni di consumo con tutte le possibili ripercussioni del caso, che ho provato a esporre, ...
Opportuno sarebbe analizzare anche gli aspetti negativi, prima di trarre le conclusioni finali. Il primo aspetto negativo è l'espropriazione, messa in scena magistralmente da Stainbeck in Furore: i piccoli contadini del midwest espropriati delle loro terre da infausti cicli economici e naturali, ridotti a straccioni che elemosinano un lavoro da schiavi viaggiando verso la California. Pacta sunt servanda, spiega baylham. Quelli con le banche li hanno espropriati. Ma il libero mercato non si ferma all'espropriazione, perchè quegli stessi agricoltori avevano ereditato le loro proprietà dall'annichilimento dei nativi americani a seguito dell'invasione di migranti di cui, come noi, avrebbero volentieri fatto a meno. I nativi americani non conoscevano il libero mercato. La loro produzione era mirata all'autoconsumo e avveniva in forma comunitaria: piccola agricoltura e caccia al bisonte. Per loro il libero mercato globale non è stato certo una liberazione, ma la disintegrazione. Potremmo crogiolarci nell'idea che quella storia sia passata, ma basta andare in Amazzonia, Africa e ovunque nel mondo vi siano venditori/popolazioni deboli e liberi mercatisti forti per verificare che quella storia continua a ripetersi. Esempi: la pesca industriale d'alto mare, l'acquisto/esproprio di terre d'uso comunitario per monoculture che il libero mercato esporterà nei paesi ricchi affamando gli indigeni, compravendita di bambini, organi, prestazioni sessuali e riproduttive,... Insomma la leggenda del venditore e compratore "alla pari" appartiene a quelle che Marx definì robinsonate e non si è mai presentata nella storia antica o moderna.
Citazione... e mi chiedevo in che modo un sistema alternativo, da molti spesso vagheggiato in questo forum, potrebbe ovviare a questo problema in modo più efficace. Quindi nessuna divinizzazione del libero mercato, solo, più pragmaticamente, il mio pensiero riguardo il suo essere il miglior sistema possibile in relazione a un certo aspetto della vita sociale, che non implica l'assenza delle sue imperfezioni riguardo altri settori, pur importanti
Sistemi alternativi a tutte le brutture viste sopra richiedono lo Stato, meglio se con una forte connotazione etica, tale da tutelare Abele contro Caino, sfruttati da sfruttatori. Il libero mercato lasciato alla sua autoregolazione è colonialismo, guerra, mafia, farwest. Anche monopolio/oligopolio. Ancora più grave se operante su servizi essenziali. Hobbes docet. E nel contesto capitalistico, in cui il fine è il profitto e non il benessere comunitario, il valore di scambio e non il valore d'uso, il piano inclinato etico e socioeconomico è inevitabile. .


quando sento parlare di "forte connotazione etica"  riferita allo stato, ho sempre un brivido. Perché è qualcosa che riecheggia l'idea che lo stato, in quanto tale sia depositario di valori superiori da dover imporre ai singoli individui. Dove è scritto che una classe dirigente statuale (l'elite di persone che in concreto si incarica di interpretare, sempre con un inevitabile margine di interpretazione, l'idea di "bene comune") dovrebbe avere un senso morale superiore rispetto a quello dei cittadini privati, che dovrebbero così subire l'invadenza di un potere che presume di sapere meglio di loro cosa è giusto e cosa è sbagliato, come si dovrebbe vivere? Se appunto il compito dello stato e della politica è quello di massimizzare il benessere di una comunità di cittadini, il primo dato da tenere in considerazione è la diversa personalità che contraddistingue ogni singolo cittadino, da cui discendono le diverse accezioni etiche di giustizia e di benessere. Il benessere deriva dalla coerenza di ciascuno con il proprio sistema soggettivo di valori, e dunque la linea di massima promozione di benessere non può essere che quella di lasciare il più possibile liberi i singoli di compiere scelte finalizzate a tale coerenza, preservando, da parte statale, un margine di controllo e regolamentazione atta a impedire che la libertà di ciascuno arrivi a limitare, oltre certi limiti, la libertà degli altri, a sua volta condizione del loro benessere. L'economia è ambito fondamentale, non l'unico, di tale ricerca di coerenza, nel quale le risorse vengono gestite appunto in funzione della ricerca di un livello di benessere materiale funzionale alla realizzazione dei valori personali. Ogni regolamentazione che fuoriesce da questo minimo necessario funzionale a preservare la libertà degli altri, diventa un abuso, una moralistica imposizione di un ideale di giustizia da parte dei rappresentanti dello stato nei confronti dei cittadini. Se il benessere è determinato dalla libertà di ciascuno di vivere in coerenza con i propri soggettivi valori, allora qualunque intervento statale funzionale, non a rimuovere gli ostacoli che impediscono tale coerenza, ma imporre un proprio, "pubblico" ideale di giustizia, non potrebbe che danneggiare tutte quelle persone il cui modo di vivere non si conforme a tale ideale, che in realtà non è altro che quello dei governanti di uno stato, spacciato per unico possibile per tutti gli altri. Quindi non ha senso contrapporre il "profitto" capitalista al "benessere comunitario", perché la comunità (lo stato non è propriamente una comunità, ma una società, la differenza è basilare), intesa come complesso dei cittadini, comprende lo stesso capitalista e chiunque cerchi di migliorare la propria condizione economica, ricercando così un profitto. Contrapporre le due cose implica proporre un ideale di "bene comune", che non si identifica con l'insieme degli interessi della comunità in senso reale, ma si restringe alla rappresentanza di quegli individui che agiscono conformemente all'etica dei governanti. Solo questo insieme ristretto sarebbe destinatario dei benefici che l'intervento statale in economia comporterebbe. Il "bene comune", altro non è che l'insieme delle idee soggettive di bene che contraddistinguono l'etica dei singoli individui, e di fronte a questa molteplicità di sensibilità valoriale, il compito dello stato dovrebbe esser quello di mediare, non discriminare, come fosse una sorta di Dio biblico che distribuisce premi e punizioni, sulla base di criteri di giustizia che non hanno alcuna autorità per spacciarsi oggettivamente come migliori di altri
#193
per Jacopus

il tipo di uguaglianza che un  liberalismo dovrebbe perseguire è quella formale, legale, di diritti e doveri. Il perseguire ll'uguaglianza sostanziale invece rischia di entrare in conflitto con la preservazione di un principio superiore, che è la libertà individuale, superiore in quanto se, in ogni caso, la libertà è sempre condizione di realizzazione del proprio benessere sulla base delle soggettive inclinazioni della personalità (in fondo anche il rischio che la mia libertà danneggi quella altrui, è pur sempre un'idea che non smentisce la positività assoluta del valore di libertà, in quanto riguarderebbe una critica a una particolarizzazione della libertà, quella dell'individuo danneggiante, in favore di una più ampia realizzazione del principio di libertà che però di per sé resta lo stesso, inerente la libertà di un più ampio numero di individui), l'uguaglianza è un bene solo relativamente: bene quando è uguaglianza nel senso di livellamento verso l'alto e male quando lo è verso il basso, Occorre considerare quanto politiche di perequazione finalizzate a far convergere i redditi dei cittadini verso una soglia di ricchezza media omologante divenga fattore di limitazione dello spazio di libertà per ciascun individuo di perseguire un livello di successo economico sulla base dei propri desideri materiali, differiscono da persona a persona. Ricchezza oggettiva ed effettivo benessere soggettivo non coincidono meccanicamente, una politica di redistribuzione finalizzata a livellare la ricchezza di un amante del lusso e di un Socrate che girava per le strade di Atene osservando le botteghe ed esclamando "ma guarda di quante cose non sento alcun bisogno!" non vuol dire massimizzare in modo equo il benessere sociale, in quanto il primo sentirebbe di avere meno di quello che desidera, in favore di un'aliquota di ricchezza a vantaggio del secondo, che però non sentirebbe alcun bisogno di avere. Ovviamente non dico, sarebbe un'estremizzazione stupida, che in un'economia liberale i poveri sono tutti dei Socrate che stanno bene con quello che hanno, perché se avessero sentito il bisogno di migliorare la loro condizione economica lo farebbero, in assenza di ostacoli formali posti dalla legge, mi limito a pensare che l'istanza egualitaria pur valida entro certi limiti, debba comunque restare subordinata al principio del rispetto della libertà degli individui di ricercare spontaneamente una loro soggettiva misura di realizzazione di un ideale di benessere materiale, relativa alla loro soggettiva scala di valori personale, impossibile da prevedere e stabilire quantitativamente a livello politico e collettivo


Per Viator

non necessariamente l'obiettivo di un singolo concorrente è arrivare ad annientare i rivali, ma ci si può accontentare di un certo livello di successo, non tale da determinare il totale annientamento delle possibilità altrui. A fare la differenza è sempre, come scritto sopra, la soggettiva scala di valori e il soggettivo coefficiente di materialismo che porta a cercare avidamente all'infinito ricchezze. In ogni caso, in una sana concorrenza senza privilegi legali, ogni concorrente persegue il proprio interesse, tutelandolo così dagli eventuali tentativi distruttori degli altri, in condizioni normali la risultante finale dovrebbe il mantenimento di un certo equilibrio dinamico, che magari non accontenterà tutti idealmente, ma resta comunque il sistema di distribuzione più equo tra quelli possibile, almeno a mio avviso. E comunque, proprio per non ingenuamente cadere in un eccessivo ottimismo antropologico circa le capacità spontanee degli uomini di preservare questo equilibrio concorrenziale, avevo ammesso realisticamente la necessità di leggi antitrust, dunque riconoscendo la legittimità dello spazio per la funzione regolatrice dello stato


Un po' per tutti, il mio obiettivo non era affatto una mitizzazione del libero mercato e la negazione della funzione insostituibile dello stato, in settori come salute, istruzione, beni culturali, sicurezza pubblica, settori dove penso il libero mercato del tutto sregolato mostri dei limiti. Da parte mia nessuna sorpresa che si preferisca lo sceriffo al far west, come ricordava Ipazia, che il ruolo dello stato resti per certi aspetti insostituibile,. Il mio obiettivo in questa discussione era evidenziare la funzione positiva del libero mercato, riguardo l'impedimento di monopoli per quanto riguarda la produzione di beni di consumo con tutte le possibili ripercussioni del caso, che ho provato a esporre, e mi chiedevo in che modo un sistema alternativo, da molti spesso vagheggiato in questo forum, potrebbe ovviare a questo problema in modo più efficace. Quindi nessuna divinizzazione del libero mercato, solo, più pragmaticamente, il mio pensiero riguardo il suo essere il miglior sistema possibile in relazione a un certo aspetto della vita sociale, che non implica l'assenza delle sue imperfezioni riguardo altri settori, pur importanti
#194
Citazione di: baylham il 10 Luglio 2019, 18:19:38 PMSulla discriminazione si possono fare considerazioni opposte che valgono in numerose situazioni: una caratteristica del mercato è proprio la discriminazione dei soggetti, mentre lo stato si pone l'obiettivo opposto. Mercato che non ha difficoltà a proporre, adattare e mantenere situazioni di discriminazione: sessuale, razziale, religiosa. La discriminazione basata sul reddito, la ricchezza è specifica del mercato.

lo stato, in quanto tale, non si pone autonomamente degli obiettivi, perché non è un soggetto personale dotato di una propria volontà e motivazioni etiche. Lo stato come rappresentante della volontà popolare collettiva è un'astrazione che si concretizza solo nella decisiva mediazione degli individui che assumono ruoli decisionali di responsabilità, ruoli tramite cui orientano l'agire statale verso obiettivi che nascono dalla loro, soggettiva e individuale, visione del mondo, impossibile da far coincidere con l'effettivo "interesse pubblico" in tutto e per tutto. L'essere cittadini, membri di uno stato, non ha impedito agli ebrei da parte dello stato nazista e ai curdi nello stato iraqeno di Saddam di subire i massacri e le persecuzioni che conosciamo. Se il potere di fare leggi e di farle applicare è uno strumento che consente alla classe politica di determinare un carattere verticale e gerarchico nel rapporto statuale tra essi e i cittadini, al contrario nel libero mercato prevale un carattere orizzontale: ciò che contraddistingue essenzialmente il mercato è l'interdipendenza tra compratore e venditore, e la discriminazione su base economica (insostenibilità dei prezzi per i consumatori) danneggia non solo questi ultimi ma i produttori stessi, la cui necessità di vendere può condurre alla necessità di abbassare i prezzi se serve a evitare il rischio di restare senza acquirenti e fallire, di modo che la loro sopravvivenza coincide con l'andare incontro alle esigenze della collettività. L'economia è il regno della quantità, del "più o meno", e fintanto che si resta nell'ambito del "più o meno" è sempre possibile arrivare a un compromesso, a un incontrarsi a metà strada, diversamente dall'ambito politico-ideologico, dove le discriminazioni e la volontà di sopraffazione poggiano su principi qualitativi, la cui applicazione non consente sfumature e mediazioni. Ecco perché le discriminazioni economiche, pur sempre presenti, non hanno mai l'aspetto di ineluttabilità e irrisolvibilità di quelle di natura politica, ideologica, sessuale, religiosa, a cui lo stato offre le armi legali per farle applicare
#195
supponiamo che un giorno un movimento di ultradestra xenofobo, ancora più estremista della Lega salviniana, salisse al governo, e sulla base della sua ideologia razzista, antisemita od omofoba, arrivasse al punto di emettere un'ordinanza restrittiva sui luoghi pubblici, negozi, locali, ristoranti, a cui imporre divieto d'accesso per immigrati, ebrei, coppie omosessuali ecc. In un contesto economico di tipo totalmente collettivista/statalista, ove la proprietà dei mezzi di produzione appartiene allo stato, tutti i locali sarebbero obbligati ad aderire all'ordinanza,. In un contesto caratterizzato dal libero mercato, cioè da una molteplicità di proprietà private concorrenziali, invece ciascun privato resterebbe libero di introdurre o meno il divieto nel suo locale, e coloro che non condividono le folli idee dei governanti, manterrebbero aperto il locale a tutti. Nel secondo contesto i governanti non potrebbero che limitarsi a proporre appelli, pareri personali, senza alcun potere di obbligare i proprietari a imporre divieti di accesso nei loro locali (mi interessa tentare un raffronto tra due opposti modelli economici, intesi nella loro purezza ideale, non considerando eventuali sistemi misti, come l'Italia, dove locali seppur privati nella loro proprietà possono comunque essere vincolati a certi obblighi sulla base di leggi comunali o nazionali). Appare chiaro come nel modello liberale l'impatto delle ideologie discriminatorio di chi governa sarebbe molto minore rispetto all'impatto in un modello dove lo stato ha il pieno controllo dei mezzi di produzione,  come un monopolista che può' fare il bello e cattivo tempo nella consapevolezza che i cittadini non avrebbero alcuna alternativa, non essendo permessa alcuna fonte alternativa di produzione dei beni. Questa è la funzione, il ruolo fondamentale che in un sistema democratico svolge il libero mercato: preservare i cittadini dal ricatto di dover accettare le condizioni di vendita di un bene da parte di un ente monopolista, lo stato, che sfruttando l'assenza di qualunque concorrente può permettersi di produrre beni di scarsa qualità, a prezzi alti, nonché nell'esempio, fortunatamente surreale, di partenza, di fissare discriminazioni, razziali, sessuali, morali,  nell'accesso dei beni in questione. Il libero mercato ( magarsi  supportato da buone leggi antitrust) preserva da tale situazione tramite la dispersione del potere di proprietà in una molteplicità di enti in concorrenza, ciascuno dei quali, consapevole che l'insoddisfazione dei clienti, porterebbe al loro rivolgersi ad altri produttori, e per  evitare il fallimento sono spronati a fornire le migliori condizioni, in rapporto qualità-prezzo, e accessibilità ai loro clienti. Il libero mercato è dunque un sistema nel quale l'interesse personale del produttore viene di fatto a coincidere con la soddisfazione delle esigenze dei clienti, ai quali, avendo riconosciuta una varietà di scelte, hanno maggiori possibilità di incontrare un ente produttore su misura delle loro esigenze personali, in questo modo il libero mercato appare essere come il meccanismo più efficace di massimizzazione, sia in termini di distribuzione quantitativa, che di qualità assoluta, di benessere materiale all'interno di una collettività costituita dall'insieme dei cittadini consumatori.

La stessa situazione non riguarda solo i cittadini in quanto consumatori, ma anche come lavoratori. Esattamente come il principio concorrenziale impone ai produttori la soddisfazione dei clienti, per evitare si rivolgano ad altri produttori, esso impone anche la tutela di condizioni vantaggiose ai lavoratori, per evitare che possano dimettersi per andare a cercare occupazione in altre aziende o enti, finendo con il danneggiare la loro produzione in assenza di personale. Non vedo perché il principio per cui all'aumentare della varietà di opzioni (corrispondenti alla varietà di enti produttivi) aumentino anche le possibilità di realizzazione delle esigenze, valente per i consumatori, non dovrebbe valere anche per i lavoratori. La stessa funzione dei sindacati avrebbe ragion d'essere solo all'interno di un modello liberale: nel momento in cui si riconosce la distinzione tra la proprietà (privata) di un'azienda, e la platea dei lavoratori, ha un senso che le istanze di questi ultimi siano rappresentati da comitati contrattanti le loro condizioni di lavoro con i datori di lavoro, alla ricerca di una sintesi, sempre potenzialmente aggiornabile o migliorabile nel tempo tra i diversi interessi in gioco, mentre in modello collettivista, in cui proprietà e collettività del pubblico dei lavoratori coincidono, questi ultimi perdono la possibilità di un realmente autonomo organo di rappresentanza, in quanto proprietà e insieme dei lavoratori coincidono nello stato, e i lavoratori in quanto considerati in linea teorica come "proprietari" (perché membri dello stato) non potrebbero spontaneamente organizzarsi in opposizione alle modalità di gestione pubblica delle aziende, teoricamente espressione dell'interesse pubblico, ma praticamente attuata dalla burocrazia e dall'elite dei dirigenti statali, contestandole in nome di istanze autonomamente poste., e dunque di fatto non avrebbero strumenti di critica nei confronti della proprietà.


Di fronte a queste argomentazioni, il collettivismo potrebbe contrapporre l'idea della distinzione fra "stato" e "governo", o "maggioranza parlamentare", rivendicando il carattere universalistico dello stato, che rappresentando la totalità degli interessi popolari non opererebbe mai come ente proprietario dei mezzi di produzione, in opposizione alla tutela del benessere e dei diritti del "popolo", di fatto coincidendo con esso. A mio avviso tale posizione è limitante nella sua astrattezza: per quanto formalmente lo stato, almeno nel modello democratico, si presenti come "cosa pubblica", rappresentante di tutti, nella pratica le decisioni vengono sempre prese dal gruppo ristretto di persone che scelgono la carriera politica e si trovano in ruoli di responsabilità nei quali, anche ammettendo le buone intenzioni, l'idea di "interesse pubblico" sarà sempre ricercato filtrandolo sulla base dei loro soggettivi interessi e giudizi di valori, mentre l'interesse pubblico, nella sua concretezza e completezza, resta sempre coincidente con l'insieme degli interessi dei singoli individui nella loro totalità, insieme impossibile da sintetizzare sulla base dell'ideale di interesse pubblico che hanno in mente i rappresentanti dello stato, che avendo la gestione dei mezzi di produzioni, si riserverebbero un potere che andrebbe inevitabilmente in conflitto con gli effettivi interessi dei cittadini (da qui l'esigenza tipicamente liberale di limitazione del potere di intervento dello stato nei confronti dei cittadini). Il punto è che lo slogan "lo stato siamo noi" resta retorica: in realtà "noi" non siamo lo stato, siamo un popolo che riconosce la necessità di darsi un'organizzazione statuale, per avere garantiti dei benefici che in una condizione di totale caos, in assenza di legge e stato, non sarebbero garantiti, ma questo non esclude affatto la contingenza di una cattiva gestione dello stato che entri in conflitto con le istanze popolari, istanze che meglio sarebbero tutelate preservando la più possibile gamma di scelte a disposizione dei singoli individui componenti il popolo, anche nell'ambito economico. Se lo stato fossimo davvero "noi", dovremmo dedurre per assurdo, ad esempio che l'esistenza del popolo ebraico sia cominciata con l'indipendenza dello stato d'Israele nel 1948, come se anche precedentemente, in assenza di un proprio stato, gli ebrei non avessero continuato a sentirsi parte di una comunità di spirito, cultura e tradizione, anche se geograficamente dispersa e senza formalizzazione sancita da un passaporto. In definitiva, anche considerando, come, da come ho avuto modo di intuire, le posizioni liberali in questo forum tendano a essere minoritarie, sarei curioso di come secondo i fautori di una società postcapitalista tali questioni potrebbero risolversi, in assenza delle soluzioni che il libero mercato appare presentare come massimamente efficaci