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Messaggi - Aumkaara

#196
Non credo tu abbia detto una sola parola su cui io potrei essere in disaccordo, Phil. Sono riuscito a comprendere anche il modo buddista con cui hai parlato, anche se è un linguaggio che conosco leggermente meno di altri, comunque simili.
Io però sto evitando i termini "specialistici", perché essi "dall'esterno" sembrano frutto solo di costruzioni teoriche, che postulerebbero paradisi artificiali differenti da altri solo per una maggiore sottigliezza intellettuale. Il punto era proprio quello di sottolineare con espressioni "normali" (anche se purtoppo, nel mio caso, non sintetiche) che non si tratta di niente di elevato in senso utopistico (se dei momenti del genere li ha avuti uno qualunque come me, e, pur se saltuari, hanno influenzato la vita spontaneamente, senza più molti sforzi, come non potrebbe fare una costruzione mentale troppo artificiosa, allora vuol dire che sono alla portata di tutti, potenzialmente), né in senso soprannaturale.
Anzi, chi vuole, li veda come un qualunque "prodotto" mentale al pari di altri (se proprio volete vedere la connessione mente-neuroni come se la prima fosse l'escrezione dei secondi). Ma che non per questo debbano essere considerati inattuabili o inutili, come se la visione conflittuale fosse la più universalmente vera (se fosse così, non ci sarebbero equilibri fisici ed ecologici, che invece avvengono persino da soli, anzi, per "aiutarli" quando noi li alterniamo, basta non intromettersi ulteriormente in essi), o come se l'unica alternativa fosse l'istintualità, in cui l'unico modo per non trovarvi stordimento o follia è quello di soffocare (invece di integrare) razionalità ed emozioni in favore di una società rituale arcaica.
#197
Ciao, grazie! No, non mi sono mai imbrigliato in nessuna tradizione, quella Vedica semplicemente la conosco meglio di altre. Dove ci si forma non saprei proprio, libri a parte. Partendo nel mio caso da quelli che la presentano agli occidentali (con tutte le distorsioni inevitabili, almeno agli occhi delle fonti indiane più dirette o integraliste), ma solo se si trattava di libri sulla filosofia presentata il più indipendentemente possibile dai sentimenti religiosi; che rimangono comunque sullo sfondo, altrimenti ci si trasforma in stoici o in "realisti" acculturati e nulla più (ovvero si accetta ciò che si sperimenta e basta), mentre io volevo qualcosa che integrasse razionalità ed emozione, e che permettesse di avere un punto di vista che pendesse il meno possibile tra gli opposti (quindi che non scivolasse nemmeno in una "speranza di supreme rivelazioni"). L'ho trovato, ma è stato il frutto non certo solo di libri, o di figure di riferimento (poco importa se erano davvero genuine, l'importante è stato il modo in cui io ho usato il mio modo di vederle, senza cadere nella dipendenza da esso), o di contesti sociali particolari (comunque fondamentali, e sono stato fortunato in tutti e tre questi aspetti). Più che altro è il risultato del non accontentarsi troppo di qualunque evidenza, risposta, teoria, speranza o accettazione.
#198
Nei momenti in cui un'azione non duale (intesa nei termini con cui l'ho meramente definita) si attua, non c'è né rammarico, né freddezza, né rassegnazione, né stoica sopportazione, né razionalizzazione, nei confronti delle "stelle che stanno a guardare", né nei confronti di quella pluralità di coscienze scalcianti per cercare una superiorità epistemica in quelle razionalizzazioni teoriche da cui di per sé non c'è uscita, scadendo così nell'abuso delle compensazioni tecnoscientifiche con tutti i danni che esso comporta, come tutti gli abusi; e non c'è neanche soggezione, e quindi neanche bisogno di dialettica, verso le leggi di natura che non acconsentono "scorciatoie e amnistie".
Anche perché, in quei momenti, non c'è neanche modo o necessità di definire o di distinguere questi enti "brutti e cattivi" (che giustamente ci appaiono così, nell'ordinaria condizione in cui siamo presi costantemente da emozioni non diverse da quelle con cui siamo nati, e che abbiamo tutt'al più intessuto con razionalizzazioni e sopportazioni da persona adulta).


In quei momenti "non duali" (rari per chi non vi si dedica abbastanza ma comunque raramente ininfluenti una volta sperimentati, e quasi impossibili da sperimentare per chi li nega a priori e non li affronta come fa un qualunque scienziato obiettivo e non dogmatico di fronte a qualunque teoria non provata), in quei momenti in cui la coscienza semplicemente arretra senza offuscarsi né distaccarsi, chiedergli di avere paura o accettazione sarebbe come andare da un leone che caccia, pieno di sangue non suo e immerso in interiora altrui, e chiedergli se ha comprensione, rimorso o sadismo, oppure sarebbe come andare da una gazzella morsa al collo, ancora viva e sana ma che non esita comunque ad accasciarsi e a non fare più resistenza, e chiedergli se ha stoicismo, rimpianto o masochismo. No, non hanno sentimenti o razionalizzazioni del genere, o comunque non si fanno sopraffare da quel poco che potrebbero avere di essi. A meno che non gli si voglia attribuire quell'antropomorfismo che hanno al massimo, un poco, gli animali domestici.


La non dualità non è niente di trascendentale quindi, ci riescono anche gli animali "selvaggi", la differenza è che loro hanno questo "stato" senza mai aver sufficientemente avuto, e quindi senza mai aver superato, gli strumenti razionali ed emotivi; strumenti attraverso cui noi sperimentiamo quelle condizioni e quelle valutazioni che hai descritto, in modo stilisticamente perfetto tra l'altro. L'altra differenza con la modalità "non duale" animale è che per un essere umano il non dipendere da sentimenti o razionalità non è sinonimo o scusa per cedere agli istinti e alle pulsioni; anzi, queste sono incredibilmente integrate in quei momenti, in un modo che non so spiegare se non come "utili servi del momento" (che solo a posteriori torna ad essere diviso in "te e me", questo e quello", ecc.), invece che "utili servi" della sola sopravvivenza fisica e delle dinamiche intra e iterspecie, come nel caso degli animali, o "utili servi" delle frustrazioni, come nel caso di quegli umani che abbandonano emozioni e ragioni solo per scendere nelle pulsioni (ed è inevitabile prima o poi, se non si cerca altro, perché restare tra emozioni e razionalità ne crea molte, di frustrazioni anche solo inconscie).
È talmente una condizione non "trascendentale", che persino alcune delle religioni meno sentimentalistiche (e per questo forse a volte poco ascoltate o capite dai fedeli, su questo aspetto) hanno compreso la relatività e l'inesattezza della citata modellizzazione duale tra samsara e nirvana; il Mahayana fa quasi un vanto di questa comprensione, nei confronti del (per lo meno apparentemente) più religioso e duale Theravada.
#199

La non dualità sarebbe una scommessa se fosse soltanto un'etichetta, applicata al fondamento del mondo o ad un Dio, su cui fondare la speranza di una migliore comprensione e quindi un migliore rapporto con esso.
Invece è, anche se secondariamente, una teoria ben delineata da certe filosofie, per noi problematiche da studiare in tutti i loro dettagli logici perché inestricabilmente legate alle forme dei linguaggi delle religiosità d'oriente; non è comunque confinata ad esse, a differenza delle teologie, a cui appartiene buona parte del monismo; che non è la stessa cosa della non dualità, anche perché, come la teologia in generale o come le filosofie che prendono le mosse dalla teologia (anche solo per distaccarsene), rimane maggiormente nel teorico e scende tutt'al più nel sentimento. La non dualità ha invece una controparte pratica più evidente (a differenza di molta filosofia moderna, che spesso si accontenta di fornire teoremi da usare per dare un significato umanistico ai risultati della scienza), e questo aspetto pratico è molto semplice da capire, anche se non da attuare: è quando l'azione è spontanea ma rimane consapevole e quindi indipendente dagli strumenti dicotomici della razionalità e dell'emotività, che potevano essere usati (e di solito vengono usati, adeguati o meno che siano) per espletare l'azione, ma che, proprio perché sono duali e difficili da usare con equilibrio, si finisce per compiere azioni non equilibrate, che lasciano solchi, e quindi cicatrici, anche nell'interiorità, che ce se ne renda conto o meno.
L'azione non duale è "gerarchicamente superiore" (ma in modo più diretto perché più simile rispetto a quanto lo sia nei confronti della dualità ragione-emozione) anche nei confronti dell'azione istintiva (che è il citato "aldiquà" degli opposti), che è altrettanto spontanea, ma mentre viene compiuta non rende consapevoli degli strumenti emotivi e razionali che potrebbero essere usati per compiere l'azione.

Filosoficamente (con tutte le dimostrazioni logiche del caso), questa azione non duale è stata posta come sintomo di una naturale non dualità dell'esistenza, perché è stata paragonata alla condizione duale che di solito sperimentiamo, vedendo come quest'ultima a confronto sia non spontanea, non completa, formata da elementi tra loro dipendenti che, se non hanno ragione sufficiente singolarmente, non possono trovarla neanche reciprocamente (non si può dare ciò che non si ha); risulta in definitiva relativa, manchevole e quindi apparente.
Di conseguenza, la condizione non duale è stata considerata come l'unica reale, quindi come Assoluto (la maiuscola accontenta i religiosi, ma si comprende come, essendo assimilabile ad una condizione, non sia un ente). Questa resa filosofica non è solo per fare teoria, ma viene usata come esercizio per saturare la fame di concetti razionali, così come gli aspetti emotivi vengono saturati dalla religiosità di cui questa filosofia usa i simboli, a sua volta usati nelle ritualità con cui si cerca di saturare gli istinti; tutte saturazioni atte a spezzare i circoli in cui questi aspetti duali (nel caso di razionalità ed emotività) o comunque subordinati ad essi (nel caso dell'istintualità) ci imprigionano nei loro limiti, così da far compiere il "salto" verso l'azione non duale. Accompagnata spontaneamente da una cognizione altrettanto non duale, perché, mancando il nostro usuale fondarci sui due aspetti dicotomici, si attenua anche la dualità azione-percezione.

L'aspetto etico è altrettanto conseguente: non essendoci azione e valutazione duale, non può esserci azione sbagliata, per quanto alcune, nel loro apparire, possano sembrare non adeguate alle idee di certe moralità.
L'insegnamento etico invece non è direttamente necessario per l'azione non duale più di un qualunque altro ausilio razionale, emotivo-sentimentale e rituale. Ha invece particolare importanza per il vivere sociale, per il fatto che non solo noi concepiamo a mala pena l'azione non duale, e non ci fondiamo più sulla "sorella minore" di quest'ultima, l'istinto, incanalato nelle società tradizionali antiche, specialmente orientali, nel rito (non a caso il latino ritus è affine al greco ritmos e al sanscrito rta, ordine - ho fatto anche il dotto, così...), ma non riusciamo neanche ad attuare un serio tentativo di equilibrio, di per sé comunque precario, tra ragione ed emozione, su cui siamo fondati, schizofreneticamente e conflittualmente, oggi.

Il dialogo stesso ha poco senso, di per sé, per far attenuare il conflitto, al massimo è uno degli ausili suddetti, quindi uno strumento che parte dall'ignoranza, non un sintomo di conoscenza (era appunto il citato Socrate che saggiamente sapeva soltanto di non sapere, se non sbaglio): parte da un senso di dualità, come ci ricorda appunto l'etimologia della parola stessa, quindi parte dalla manchevolezza, dalla dipendenza, dalla smania di compensazione. Ha più senso l'esprimersi di un proprio monologo e l'ascolto di quello altrui, da cui far emerge un altrettanto monologo proprio e così via. Parlando, così, non per contrapporsi ma per affinarsi in base a quello che si è sentito. Ma questo è più che altro il risultato di "spiragli" di non dualità, più che il presupposto.
#200
Antonyi: la ragione per cui ci è "stata data" questa sorta di invidia, è la stessa ragione per cui abbiamo anche le altre pulsioni: per esercitare e quindi comprendere l'ordine. Ed in parte è un bene che ci siano degli esseri (noi) che abbiano individualmente questa mescolanza tra animalità e "divinità": se fossimo stati totalmente "disincarnati" e distaccati, non ci sarebbero state strutture individuali (che è quello che più tendiamo ad esprimere, al di là di momenti personali e sociali che spingono a renderci "massa") su cui esercitare l'ordine dato dalla ragione e dai sentimenti più elevati, ordine che ci spinge a superare persino lo stato individuale e ad aprirci a quello universale (da non confondere con lo stato generale, collettivo, di massa o di specie che dir si voglia, che è proprio del regno animale). Ovviamente questo passaggio dall'animalità all'individualità ed infine all'universalità crea conflitti e cadute, come ogni percorso.
Comunque anche nella condizione animale si esercita l'ordine razionale e una sorta di "sentimento superiore" che tende ad armonizzare gli eventi, solo che lo fa da un punto di vista collettivo invece che individuale (e quindi il percorso è più statico e di conseguenza con meno devianze); tale ordine lo vediamo meno e ci fa orrore, nel mondo animale (e nei prodotti delle società umane che hanno adottato, in modo più o meno raffinato, la legge della giungla), perché cerchiamo di scorgerlo nella vita interiore del singolo animale, dove non c'è quasi mai: si trova invece nella generalità dei rapporti tra specie e ambiente (e neanche lì, nelle società umane non rette dalla ragione e dai sentimenti superiori).
#201
Scienza e Tecnologia / Re:Etere
30 Settembre 2020, 16:49:44 PM
Ipazia: sì, l'autorevolezza non la metto in dubbio, ma spesso la vedo molto "settoriale": il che è un bene, perché la scienza non funzionerebbe se fosse troppo generalista e poco precisa. Ma ovviamente c'è il lato opposto, quello di una certa rigidità. Che magari in questo caso è anche un bene, perché può essere veramente troppo superficiale questa idea dell'etere, o non necessaria, come dice:


Viator: penso anche io che non sia molto necessaria per i vari settori della fisica così come sono oggi, visto quanto sono andati avanti senza di essa, e, se proprio vogliono riunificarsi come ogni tanto tentano, hanno ipotesi più raffinate che non necessitano di fare passi indietro (ma che sono talmente complicati e indimostrabili da rallentare molto qualsiasi passo avanti di questo tipo). Però, visto che io, da non specialista, da non stipendiato dal settore scientifico, e con meno rigidità (che, come dicevo a Ipazia, è invece utile per fare scienza, se favorisce il rigore), posso permettermi di fare qualche passo indietro, e dire: non è per lo meno un'idea elegante, anche se per la sua semplicità e non certo per la raffinatezza? Visto che, a volte, l'eleganza è un buon sintomo anche nella scienza, ci dicono... Magari tornando indietro per quella strada scopriamo che l'idea di un comportamento fluidico giustifica per lo meno quei "fatti bruti" a cui accennavo nel primo post e che gli scienziati tutt'oggi spiegano con un "è roba strana, ma è così...".
#202
Non so se conosci Shankara: molti si lamentavano del fatto che parlasse poco o nulla di etica. Lui (o i suoi epigoni) rispondeva che quella deve essere già assodata, per poter affrontare argomenti sulla non dualità. Infatti anche alcuni insegnanti che pongono la non dualità come il massimo dell'insegnamento filosofico, danno l'etica per scontata in coloro che li ascoltano (se si tratta di un gruppo ristretto) oppure, se insegnano a platee nutrite o al mondo in generale, insegnano soprattutto etica, persino moralità (nei limiti del contesto sociale in cui hanno rispettivamente senso le varie forme di quest'ultima). Quindi concordo che l'etica sia essenziale, anche perché la non dualità si esprime meglio in un atto (che è il modo in cui si può concentrare l'attenzione di cui parlavo nel messaggio precedente), e proprio in un atto disinteressato, ovvero etico, compiuto da qualcuno che magari non sa neanche che cosa siano le filosofie sulla non dualità. È molto più efficace, rispetto a quanto si possa esprimere in una spiegazione logica e razionale. Questa rimane comunque uno strumento molto usato; persino i maestri zen che hanno per principio la non dualità e la repulsione verso gli argomenti dialettici, alla fine sono costretti a parlare in termini eruditi, in certi contesti.
Mentre il voler fissare appartenenze ed etichette è utile, come chiedevo nel messaggio precedente, solo per sapere quale linguaggio usare, mentre è ovviamente fuorviante per classificare persone o insegnamenti.
#203
Cerco di non ridurre ogni spiegazione solo a ciò che conosco tramite i sensi o tramite le più o meno momentaneamente sperimentate teorie scientifiche (più o meno generalmente accreditate), infatti per me potrebbero anche esistere cause sottili sconosciute che, nella nostra interpretazione, potrebbero comprensibilmente essere definite maligne; ma, se anche ce ne fosse una più potente di tutte o che in qualche modo le riassume o coordina tutte, non mi sentirei di definirla "il" maligno, assolutizzandola troppo e dandole troppo una personalità; ammetto che è possibile che la nostra suddivisione del mondo in vivo e non vivo, oppure in personale e impersonale, siano classificazioni riduttive, ma parlare de "il maligno" ridurrebbe il discorso ad una caratterizzazione troppo da "uomo nero" dei bambini, o comunque troppo fantasy e fumettistica (anche se adoro fantasy e fumetti).

Detto questo, visto anche che tu stesso parli di voler razionalizzare l'evento nonostante ti sembri troppo estremo per poterlo fare efficacemente, provo a proporre una spiegazione per me evidente, evidente forse perché, pur essendo io lontano da strutturate conoscenze psicologiche, conosco abbastanza me stesso. E, come disse non ricordo più chi (credo qualcuno di cui ho letto solo qualche aforisma): niente di umano mi è sconosciuto. Per il semplice fatto che dentro ognuno di noi è possibile trovare ciò che si trova dentro di tutti (e di tutto, animali compresi, con cui condividiamo metà patrimonio psichico, anche se è una perfetta metà solo da un punto di vista quantitativo, mentre qualitativamente l'altra metà è molto maggiore, al di là di quanto la usiamo). Non ci sono alieni inconoscibili, quando si tratta di interiorità (neanche quando si tratta di esteriorità, a dire il vero, scienza docet, senza essere comunque fanatico di quest'ultima).
E, guardandomi appunto dentro, magari rannicchiato in un angolo, attualmente zitto zitto cercando di non farsi vedere, anche se in passato magari ha cercato di alzare la testa per un attimo, subito frenato dai suoi compagni più nobili (pare che alla fine abbia personalizzato fantasiosamente anche io le forze che ci animano...), posso trovare una spinta che non vuole la felicità altrui. Nonostante tutta la mia empatia, che di continuo gli altri mi elogiano anche se cerco di non mostrarla troppo (sia per non dare l'impressione di essere invadente, sia per non farla diventare una qualità che esalta l'ego, e sia per difesa: l'empatico può essere visto come debole), si trova in me anche il fastidio che altri possano essere felici. Credo che non ci sia niente di soprannaturale, non più di quanto lo sia ogni altra nostra caratteristica interiore (ammesso ma per niente concesso che la parola soprannaturale abbia un qualche significato legittimo in un mondo in cui tutto è regolato o comunque in rapporto con il resto dell'esistenza, anche se sono il primo a pensare che questo non legittima il pensiero che la nostra interiorità sia il "prodotto" della materia; ma questo è un altro discorso).
Questa tendenza negativa a non volere il bene altrui, la vedo come il naturale contraltare dell'empatia. A noi è utile proprio per affinare quest'ultima, attraverso il confronto. Un giorno (già attuale, almeno di tanto in tanto, per pochi fortunati) potremmo fare a meno di questa presenza di forze polari, e non agiremo più spinti dalla lotta di forze opposte, ma più semplicemente dall'assenza di ogni opposizione, anche da quella tra esterno ed interno, io e gli altri, mio e non mio.
Per gli animali, con cui condividiamo queste forze opposte, è altrettanto utile avere questa spinta che distrugge il benessere altrui, anche se per loro è una utilità diversa: loro devono usarla quando le circostanze lo richiedono (a volte anche noi la usiamo quasi inevitabilmente, nella misura in cui costruiamo una società basata sulla legge della giungla, illegittima in ambito umano), anzi, sono "obbligati" ad usarla, gli viene spontaneo, e quando non lo fanno spesso significa semplicemente che in quel momento non è un'azione utile, anche se questo non significa che un animale non possa talvolta superare la propria istintualità, anche solo brevemente.
Per un leone sarebbe di solito un male non assecondare la spinta a distruggere la felicità altrui: i cuccioli del suo nemico deve massacrarli perché ha perso, quindi potenzialmente sono altrettanto deboli e quindi indebolitori della specie.

In definitiva:
1) un essere umano è bene quando "pensa" universalmente (cioè non agisce spinto da forze inevitabilmente opposte);
2) è comprensibile quando pensa individualmente (cioè si lascia trasportare da una delle due forze), anche se nel fare così può includere nei suoi pensieri il rapporto che ha con una collettività, anche quella della propria specie;
3) e non gli è praticamente possibile "pensare" come specie (cioè di volta in volta spinto da una o dall'altra delle forze opposte, a seconda del contesto invece che a seconda dei suoi conflitti interiori), se non saltuariamente e comunque non in modo utile per la specie.
L'evento del fatto di cronaca che hai citato sembra appartenere al punto 2, ovviamente al caso peggiore delle due possibilità di questo punto, ovvero la scelta tra positivo e negativo. Al massimo è un caso di punto 3, che però negli umani è più facile trovare nei comportamenti di gruppo.
In ogni caso, non è niente di inspiegabile o di soprannaturalmente alieno rispetto a ciò che c'è in noi. È spiegabile, anche se non giustificabile viste le altre azioni che possiamo compiere, una positiva, e una libera dagli opposti.
#204
Forse sono sempre stato talmente poco affine alle religioni (anche se sempre senza denigrarle se viste come simboli, e anzi cercando di conoscerle il più possibile in questo senso), che il modo in cui hai espresso i concetti sull'io mi stonano leggermente: un io visto come indegno di Dio è una visione che trovo adatta solo per un certo tipo di fedeli. Anche se non ho difficoltà a leggerlo in un modo simbolico attinente alle mie esperienze: l'io non è degno nel senso che è solo un'impressione, un oggetto mentale "facilmente" attenuabile con la sola osservazione, con la sola attenzione: cercalo, e non lo troverai. Da questo punto di vista, il Dio di cui non è degno è proprio l'attenzione. In fondo, cos'altro "crea" un mondo (sempre accompagnato da un io, più o meno elaborato e affinato) se non una certa dose di attenzione? Abbassala, e il mondo, insieme all'io, muta (si restringe, o si colora di sogni, o sfuma nel sonno più profondo), alzala, e il mondo-io diventa più trasparente, fino a sembrare sempre meno autonomo, e alla fine quasi inesistente.


Per curiosità, posso sapere che formazione, chiamiamola così, hai avuto negli argomenti filosofici o spirituali? Solo per non rischiare di confondere linguaggi con significati per te diversi rispetto ai miei.
#205
Scienza e Tecnologia / Re:Etere
29 Settembre 2020, 23:11:55 PM
Credo di avere il problema di non lasciarmi impressionare dagli esperti. Quei pochi che ho conosciuto, in vari campi, erano di sicuro come computer (almeno quelli che conosciamo, lasciamo perdere i computer quantistici, ecc.): efficienti, veloci, precisi, e più stupidi di un lombrico. Ci saranno di sicuro eccezioni, ma non so quanta voce in capitolo potrebbero avere, se promuovono idee troppo eretiche per i colleghi.
Tornando alla teoria, il fatto che il vuoto sia spazio privo (o meglio, con pochissime) particelle, non esclude che sia pieno di qualcosa di molto più sottile: per esempio è pieno della cosiddetta "schiuma quantistica", quel "ribollimento" di particelle che sorgono e affondano continuamente nel campo quantistico. Il vuoto non è mai totalmente vuoto, anche se può essere sufficientemente vuoto per certi contesti e per certe finalità (vedere certi esperimenti che è utile fare proprio nel vuoto relativo, per esempio proprio quello dello spazio esterno, quasi privo di oggetti, gas, ecc.).
Forse si potrebbe sostituire l'idea più astratta di campo con quello di fluido, ovvero le particelle non emergerebbero da un nulla quantistico, come dicono poco fisicamente e molto metafisicamente i fisici, ma sarebbero semplici conformazioni momentanee di qualcosa che si comporta come un fluido. Probabilmente un fisico mi ucciderebbe e poi si suiciderebbe ritualmente sentendo questo, ma visti i punti che ho riportato nel primo messaggio, la trovo un'idea elegante anche se un po' grossolana. E poi, ripeto, la particolare unilateralità che vedo negli esperti, rende utili le loro attività ma li rende gli ultimi a poter mettere una parola definitiva. Soprattutto nel loro campo.
#206
Non credo di aver capito quando dici che la Verità è una questione etica, né quando concludi che la sua ricerca porta all'inferno. Puoi spiegare cosa intendi?
#207
Scienza e Tecnologia / Re:Etere
29 Settembre 2020, 20:49:23 PM
Certo, ma ho il dubbio che anche al CERN seguano linee di pensiero che, una volta prese, per quanto più tortuose di altre, ti portano a non concepire altro, e quindi a non poterlo proprio vedere, e tanto meno cercare.
#208
Io e te ci siamo capiti, perché probabilmente il percorso che abbiamo fatto era simile.
Però non so se siamo d'accordo se dico che oggi credo che il nostro percorso, che ha (o ha avuto) come meta la Verità (che non chiamo quasi mai così e ancora meno la chiamo Nulla, anche se sono comunque d'accordo su cosa vuoi intendere), in realtà sia altrettanto religioso, anche se in un modo che non è compreso dalla maggior parte dei religiosi. Credo così oggi perché non ho più come obiettivo tale Verità-Nulla, non nel senso che ho smesso di credere che essa sia il fondamento, ma perché credo che non si possa trovare, né realizzare, né svelare, più di quanto non lo sia già ora, che è esattamente come già lo era prima. Ora tutto quello che posso fare è cercare di relativizzare tutto ciò che a volte spontaneamente rischio di assolutizzare troppo, e cerco di farlo meglio di quanto riescono a farlo di solito gli "atei-matetialisti".
#209
Scienza e Tecnologia / Re:Dopamina, la droga numero uno
29 Settembre 2020, 17:41:36 PM
Non vedo problemi in quello che è stato scritto inizialmente. Chiamare droghe, anche se con l'aggettivo "naturali", potrà essere un termine "eccessivo" o in qualche modo improprio, ma pare sia vero che, nell'esprimersi con il corpo che abbiamo, l'equilibrio psicoemotivo appaia e aumenti con tali sostanze autoprodotte. Al massimo è bene sottolineare che anche ritmi più adatti a disintossicarsi da un eccesso di produzione di tali sostanze dovuto ad attività più sregolate, servono per far comunque produrre le stesse sostanze, solo in modo meno ossessivo e meno dipendente da attività esteriori.
Credo sia improprio pensare che l'astinenza corrisponda di per sé al risultato, perché invece serve solo ad attivare una ulteriore produzione delle suddette sostanze, anche se stavolta con minor dipendenza da altre attività più "usuranti".

In ogni caso, il fatto che l'equilibrio psicoemotivo, che accompagna queste sostanze, si esprima anche grazie alla varietà, anche attraverso la coadiuvazione di altrettante sostanze autoprodotte che si attivano con le azioni più svariate, non significa che si debba spingere la varietà sempre più a fondo; anzi, proprio quando è elevata, come "ai giorni nostri", è bene sostituirla almeno per un po' con un ritmo più "contemplativo" e a volte anche più passivo, che non sono per niente sinonimi tra loro: la passività la esprimiamo ancora, anche se pare sempre peggio (con momenti d'ozio che per alcuni sfiorano o abbracciano la depressione o la disperazione, e con sonni sempre più difficoltosi o agitati e sempre meno profondi) mentre la contemplazione (che non corrisponde allo stare su di un inginocchiatoio da oratorio, anche se per qualcuno può essere così) si è perduta quasi del tutto.
#210
Concordo, ma, a rischio di sembrare amante della controbattuta, e in questo caso anche dell'autocontraddizione, ci possono essere condizioni, diciamo intellettive, anche se i più spiritualisti direbbero coscienziali e forse direbbero meglio, in cui le circolarità possono essere "contemplate" quasi tutte di un colpo. "Quasi", perché anche in questo caso non voglio cadere in assolutismi di qualche tipo (magari perché in tali momenti di "visione dall'alto del circolo della vita" non ti sei astratto davvero dalla circolarità, ma sei solo in un tornante superiore di quella che si rivela essere una spirale, di cui mai avrai una visione completa), ma comunque non nego che possano esserci comprensioni "meno divenienti", meno relative quindi. E forse l'unica vera morte (lasciamo stare se in senso lato e non specificamente biologico, lasciamo l'argomento alla sezione scientifica, anche se un certo punto di vista filosofico può aiutare anche su quel fronte) potrebbe essere sinonimo di questi presunti momenti di visione più ampia e meno dipendente dalla temporalità, una morte sperimentata in modo ben diverso rispetto a quelle "interruzioni di percorso" che ci angosciano e che ci attendono di tanto in tanto quando percorriamo i percorsi circolari, e che forse mai incontriamo, sperimentandone solo l'angoscia, proprio perché sono solo curve di cui non vediamo il proseguio mentre percorriamo il circolo.