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Messaggi - davintro

#196
Citazione di: Jacopus il 04 Luglio 2019, 08:20:05 AMCartesio é stato superato dagli studi neuroscientifici in modo definitivo. Resta un grande testimone della sua epoca. Pensare che le teorie di Cartesio siano ancora valide é una illusione astorica.


Le neuroscienze poggiano sull'osservazione sensibile, dunque il loro ambito di validità è delimitato alla tipologia di realtà adeguato a tale osservazione sensibile, vale a dire la materialità delle cose che divengono oggetto dei sensi nel momento in cui entrano in contatto con i campi sensoriali del corpo appartenente al soggetto che ne fa esperienza. Se una realtà spirituale, come per Cartesio sarebbe il cogito, per definizione non è osservabile sensibilmente (altrimenti non sarebbe spirituale), allora la questione della sua esistenza e l'analisi della sua natura non può essere vincolata ai risultati di quei saperi che invece si rivolgono alla realtà sensibile e materiale, perché il loro ambito di validità non riguarderebbe per definizione quello a cui la questione si riferisce. Il che ovviamente non vuol dire che Cartesio non possa essere contestato, ma che, nella misura in cui ragiona da filosofo, cioè deduttivamente e speculativamente, non può che essere contestato che filosoficamente, e non empiricamente, cioè lo si può contestare considerando eventuali incoerenze nella sua metodologia, ma senza utilizzarne un'altra, adeguata a un piano di questioni diverso da quello su cui lui ha pensato. Se il metodo cartesiano poggia sulla potenziale illusorietà dei sensi, e l'emersione del cogito è il residuo di certezza messo in evidenza dopo il setaccio operato dalla radicalizzazione del dubbio, allora qualunque tipo di scienza naturale, comprese le neuroscienze, poggiante, anche parzialmente, sui sensi, non possono cogliere il cogito nell'accezione in cui la intende Cartesio, come ciò che resta una volta messo in discussione tutta la componente empirica dell'uomo.


Per quanto riguarda l'idea del cogito come essenza dell'uomo, la mia perplessità consiste nell'impressione di una certa sovrapposizione dell'aspetto metodologico-euristico rispetto a quello propriamente ontologico in Cartesio. Cioè un passaggio troppo diretto dall'assunzione dell'Io-penso come dato indubitabile del sapere alla sua considerazione come tratto sufficiente a definire l'essere dell'uomo, la sua essenza, appunto. In realtà, riconoscere il cogito come residuo indubitabile delle nostre esperienze consente di porlo come necessario punto di partenza di un metodo di conoscenza che voglia essere massimamente razionale, da applicare però a una gamma di fenomeni di cui fanno parte anche le esperienze sensibili. Ma porlo come fondamento metodologico non implica necessariamente porlo anche come fondamento ontologico, nel momento in cui il metodo di ricerca che fonda comprende tra i suoi oggetti di applicazione anche la realtà materiale. Fintanto che si considera il cogito come fondamento dell'umano, ancora non si riconoscerebbe la distinzione dell'umano da realtà puramente spirituali come Dio, che condividerebbero con esso l'essere pensanti, ma se ne differenzierebbero dal loro essere privi di materia. Se l'essenza è ciò che fonda necessariamente l'essere dell'uomo, distinto sia dal resto della natura che da Dio, allora limitare la sua essenza al cogito ne garantirebbe la peculiarità nei confronti della prima, ma non del secondo, in pratica l'uomo sarebbe una sorta di Dio, che solo per una volontà del tutto accidentale decide di incarnarsi, assumendo la sua materialità come componente inessenziale, non davvero parte integrante di esso, dato che l'essenza starebbe nel suo cogito. Perché l'essenza contraddistingua l'uomo nell'unità del suo essere, sia in ciò che lo assimila al puro spirito, sia in ciò che lo assimila alla materia, deve consistere in un principio che connetta entrambe le dimensioni. Ecco perché trovo più convincente la soluzione aristotelica di identificare l'essenza dell'uomo con l'anima razionale, anima che a differenza del cogito cartesiano deve la sua attualità alla necessità di legarsi, in quanto forma, con la materia corporea, di modo che l'essenza esprima dell'uomo la sua condizione di finitezza ontologica, cioè il non essere Atto puro, spirito puro, ma sintesi attualità e passività, comprendendo anche la componente materiale nella sua struttura necessaria, distinguendolo da una sorta di cogito divino solo accidentalmente incastrato nel corpo, cogito, che nell'accezione cartesiana,  cioè non essendo "forma" necessitante di una materia su cui applicarsi, resterebbe insufficiente a fondare l'essere dell'uomo nella sua completezza. Dunque è possibile accettare da Cartesio la sua metodologia, anche prendendo le distanze dalle conclusioni ontologiche
#197
Tematiche Filosofiche / Re:ANTIGONE
03 Luglio 2019, 22:39:51 PM
Citazione di: viator il 03 Luglio 2019, 17:34:58 PMSalve Eutidemo : Citandoti: "A livello individuale, invece, almeno personalmente, io ritengo di dover sempre e comunque obbedire a quello che mi detta la mia coscienza (giusto o sbagliato che esso sia), a prescindere da quello che impone la legge scritta; però, ovviamente, in determinati casi devo essere anche disposto a subire le conseguenze legali che derivano dalla mia violazione della legge scritta". Bravo. Quindi saresti un asociale (non tieni conto dell'interesse della società) presuntuoso (consideri la tua capacità di giudizio ETICO migliore di quella della società) ma coerente (decidendo comunque di affrontare - se del caso - le tue responsabilità MORALI e di DIRITTO). Vedi bene che da qui salta ancora una volta fuori la distinzione tra ETICA PERSONALE e MORALE COLLETTIVA (espressa dal DIRITTO). Perchè infatti il giusnaturalismo non è altro che l'espressione dell'ETICA, mentre il DIRITTO non è altro che l'espressione della MORALE. Saluti.


anteporre un proprio personale ideale di giustizia all'obbedienza alle leggi dello stato può considerarsi un atto asociale solo ritenendo che ogni legge dello stato sia sempre benefica all'interesse collettivo, e che dunque ciò che motiverebbe l'infrazione sia sempre l'interesse meramente individuale di chi infrange. Cosa non sempre necessariamente vera.  A meno di restringere il significato di "società" al complesso delle istituzioni, distinguendolo da quello di "popolo", del complesso degli interessi dei cittadini in carne e ossa, istituzioni che sarebbero "ferite" dall'infrazione, in questo caso l'antisocialità di quest'ultima sarebbe una verità tautologica, ma ciò consisterebbe in un conflitto tra individuo e istituzioni, non riguardante l'interesse collettivo, che non potrebbe che essere avvantaggiato dal fatto che un'eventuale legge sbagliata o dannosa venga disattesa. Se poi l'individuo in questione accetta serenamente le conseguenze legali del suo atto, a maggior ragione la sua azione rientra in una logica di rispetto dell'ordine sociale/istituzionale, che nel prefigurare un sistema di pene già mostra di ammettere la possibilità dell'infrazione ed escogitare le contromisure, di modo che le infrazioni non mettano realmente a rischio la stabilità del sistema, riuscendo a sopportarle. Per quanto riguarda la presunzione, direi che ogni azione liberamente scelta esprime una personale scala di valori che il soggetto deve per forza di cose ritenere "migliore" rispetto a quella degli altri, altrimenti, se la ritenesse di egual valenza, cesserebbe di essere un modello di riferimento, e nessuna azione possibile avrebbe una motivazione da cui scaturire. Si cadrebbe in un totale indifferentismo, impossibilitato a legittimare qualunque tipo di azione, sia essa di rispetto che di infrazione della legge. Si potrebbe parlare di presunzione illegittima solo nel caso in cui si pretendesse di fondare in modo del tutto oggettivo e razionale i propri valori fondamentali, operando un'arbitraria deduzione dal riconoscimento fattuale di un "essere"all'assunzione etica, conseguente, di un "dover essere", ma fintanto che si riconosce che la propria scala di valori può essere vista come "migliore" solo da un punto di vista soggettivo-sentimentale, allora tale giudizio di "migliore" è del tutto corretto e lecito. Peraltro, anche il positivista giuridico che antepone la fedeltà alle leggi dello stato a eventuali scrupoli interiori che spingerebbero in senso contrario e che vengono dunque repressi, agisce sulla base di una soggettiva scala di valori, nella quale l'obbedienza alla legge viene posto sul gradino più alto, scala che, lecitamente dal suo punto di vista, deve per forza riconoscere come migliore o più valida rispetto a quella del giusnaturalista, che invece si riserva la possibilità della disobbedienza civili a certe condizioni, ma non per questo è meno o più presuntuoso di quest'ultimo
#198
per considerare l'aspetto spirituale della preghiera trovo fondamentale stabilire quali sono le intenzioni che la motivano. Se la preghiera intesa come un rendere lode alla bellezza del mondo esprime un sincero legame affettivo con la presenza di un Principio spirituale, responsabile di tale bellezza che ci circonda, in quanto Causa prima della sua esistenza, molto diverso è il caso della preghiera intesa come richiesta. Questo tipo di preghiera implica da parte del richiedente, la convinzione, o quantomeno la speranza, che il Dio a cui ci si rivolge muti le proprie intenzioni e suoi piani indotto dai nostri appelli, e tutto ciò implica necessariamente una concezione del divino contraddittoria con l'idea di un Principio eterno, immutabile nel suo Essere, e quindi anche dei suoi progetti e volontà. La preghiera come richiesta presuppone il mancato riconoscimento della piena natura spirituale del Dio a cui si rivolge, in quanto lo immagina come gravato da una componente di materialità-passività, per la quale i suoi propositi non sono eternamente fissati nella sua Mente, ma condizionati da fattori esterni, le preghiere umane, che lo influenzerebbero , spingendolo a modificare tali propositi. Appellarsi a Dio sulla base di questo tipo di intenzioni, vuol dire mondanizzare, materializzare la sua idea, dimenticando la sua trascendenza, consistente appunto nella irriducibilità di un puro Spirito con ogni realtà nel quale lo spirito è mescolata alla materia. Fermo restando il massimo rispetto e umana comprensione e solidarietà con i problemi e le sofferenze che spingono tanti a rivolgersi alla preghiera,  a  volgersi verso  questa strada, passando sopra a ragionamenti che possono apparire formalismi e sottigliezze teologiche di poco conto, penso sarebbe comunque corretto (anche perché, piaccia o meno, questo tipo di preghiera è molto più popolare che quella di lode o ringraziamento) riconoscere che la preghiera intesa in questo modo comporta una visione del mondo nel quale allo spirituale viene comunque negata la possibilità di manifestarsi nella sua pienezza. Spirito è libertà, autonomia dalle influenze esterne, mentre appellandoci direttamente a Dio lo consideriamo come un qualunque essere umano, che possiamo, sulla base della sua componente di passività, di potenzialità non attuate nella sua immanenza, ma sviluppabili dall'esterno, condizionare tramite suppliche, muovendolo a compassione perché ci benefici al modo che desideriamo. Ripeto, umanamente comprensibile, bello, tenero e poetico, ma lo Spirito penso sia un'altra cosa
#199
per Paul 11

la memoria è costituita dai ricordi, che sono a tutti gli effetti atti di esperienza vissuta della coscienza, cioè atti intenzionali, tramite cui l'Io si attiva, non fermandosi a recepire passivamente lo stimolo sensibile presente, ma interpretandolo sulla base delle esperienze passate, facenti parte della sua soggettività. Pensare la memoria come deposito inerte, passivo, separata dall'attività della coscienza, la relegherebbe nell'inconscio, ciò che è oltre la coscienza, ed in questo caso i ricordi cesserebbero di essere tali, cioè contenuto di esperienza COSCIENTE del passato. Se tramite i ricordi sono cosciente del passato, e la memoria è l'insieme dei ricordi, allora la memoria fa parte a pieno titolo della coscienza, e dunque partecipa di ciò che definisce quest'ultima, cioè l'intenzionalità, attività egologica. Più che come un mero "raccogliere" vedrei la memoria come una "spinta" rivolta verso l'interiorità, proveniente dall'Io tesa a trattenere le esperienza del passato, rivolgendosi a una polarità opposta a quello verso cui si dirige la spinta a seguire l'esteriorità spaziale, cioè la spinta a focalizzare l'attenzione verso gli stimoli fisicamente presenti che via via si succedono senza soluzione di continuità. Proprio su questo equilibrio, spesso fragile, fra polarità opposte, tendenza a trascendere la dispersione spaziale in vista dell'unità del flusso di coscienza individuale tramite la memoria da un lato, e rivolgimento all' "hic et nunc" immediato  della molteplicità degli oggetti fisici dall'altro, che si muove la vita umana. Mi pare che  intesa come "tendenza", "spinta", anche se non rivolta verso l'esterno, ma alla continuità del proprio mondo psichico interno da parte dell'Io, la memoria possa rientrare nel novero delle forme di attività della coscienza, al pari dell'immaginazione, della percezione, del giudizio ecc.
#200
Citazione di: paul11 il 26 Giugno 2019, 01:25:16 AMargomenti sul post di Davintro. L'io è attivo e non passivo, pur non avendo storia,anche senza una memoria esperienziale. Semmai è vero che senza storia l'Io non sviluppa la sua individualizzazione. Noi elaboriamo comunque informazioni anche con una memoria resettata giornalmente, Semmai non tesaurizzeremmo l'esperienza, ma l'esperienza è anche un condizionamento ,come dimostrato dal cognitivismo e dai giochi di prestigio. Perchè costruisce delle abitudini mentali, dove l'attenzione, la concentrazione tendono a temporalizzare i movimenti che la memoria prefigura già come storia anche per l'avvenire. Mi viene in mente che persona etimologicamente deriva da maschera. Lo strumento razionale, logico, è una parte dell'IO, e non necessariamente porta finalisticamente agli universali, questo è possibile con un atto di volizione. I tre "sistemi": sentimenti- psicologici, logica-intellettiva, assiologia-etica, si formano nella pratica. Ma sono i sentimenti il motore primo intenzionale, che spingono verso un piacere, un desiderio, una finalità all'utilizzo degli strumenti logici, etici nella prassi e di conseguenza la prassi che costruisce esperienza ritorna ,come memoria, all'elaborazione teorica. La memoria di per sé ,non è un'attività, è la coscienza che decide di prelevare informazioni dalla memoria.La memoria è il magazzino delle informazioni del sistema esperienziale.

La razionalità non è "parte" dell'Io, ma dimensione che investe ogni ambito della sua vita e del suo rapporto col mondo, compreso l'ambito sentimentale. Non deve ingannare il fatto che la ragione sia incapace di legittimare in modo oggettivo i valori che il sentimento pone come suoi termini di riferimento: anche se i sentimenti (da non confondere con le emozioni) non si giovano della ragione nel fondare la legittimità dei propri valori, se ne avvale però come strumento di relazione, discernimento, paragone, subordinazione fra la molteplicità delle varie tendenze psichiche, e dei vari fini, perché l'azione che essi ispirano sia il più possibile in continuità e coerenza all'interno della propria soggettiva scala di valori, è sempre la razionalità ciò tramite cui riconosciamo quali, soggettivamente, per noi, sono i valori inferiori da subordinare rispetto a quelli più elevati, nonché a valutare i rapporti di implicanza , strumentalità, oppure contrapposizione tra un fine e un altro. La razionalità, mirante all'unità e sistematicità del vivere è presente, non solo nell'ambito teoretico, ma ad ogni livello nel quale l'Io trascende la mera immediatezza dell'esperienza, e la organizza pensandola come unità costituita da nessi logici. Per quanto riguarda il rapporto memoria-coscienza direi che vedere la memoria come deposito è l'effetto del considerare prima di tutto i suoi oggetti come termini di atti di esperienza vissuta a tutti gli effetti "coscienti", come i ricordi. Come la razionalità, la memoria partecipa di questa tendenza all'unità e alla coerenza applicata al vivere, ed è "attività", in quanto la dispersione nel molteplice esprime la tendenza opposta, quella della passività, che porterebbe il soggetto a essere sballottato dalla molteplicità degli stimoli provenienti dagli oggetti del mondo dell' esperienza senza alcun mergine di astrazione o riflessione autonoma su di essi, mentre la tendenza all'unità, compresa la memoria, unità presente-passato, è sempre indicativa del carattere attivo dell'Io, che si erge al di sopra del flusso spontaneo del vivere e lo "compatta" sulla base di schemi soggettivi, immanenti ad esso
#201
la memoria è un fattore di individualizzazione, di unificazione del soggetto, in quanto è la facoltà tramite cui l'Io collega l'esperienza vissuta del proprio presente con quella del passato, e ciò permette di preservare il suo carattere di soggettività attiva. Solo schiacciato sul presente, l'Io resterebbe pura passività in balia delle stimolazioni esterne, mentre il passato offre schemi, che già dal livello percettivo del nostro rapporto col mondo, sono utilizzati per elaborare attivamente le informazioni. Tramite la memoria immaginiamo i lati non attualmente presenti alla sensazione fisica dell'oggetto percepito, che in questo modo diviene oggetto di una libera interpretazione e attribuzione di significato. Già nel passaggio dalla sensazione alla percezione, reso possibile dalla memoria, inizia il livello di libertà e intenzionalità. Ciò mostra anche come i concetti di "individuo" e "persona" siano strettamente connessi, più precisamente come la persona sia la realtà nella quale la categoria dell'individualità si esprime al massimo livello. Se la persona è caratterizzata dalla razionalità, cioè dalla facoltà di unificare fenomeni particolari in delle unità logiche con diversi gradi di universalità, connettendoli entro relazioni logiche, prima fra tutte la causalità. Se la persona è per definizione sostanza razionale, e razionalità indica questa tendenza all'unità, alla riconduzione di informazioni all'interno di visioni più o meno sistematiche e comprensive di conoscenza, allora la persona è realizzazione piena dell'individualità, carattere per cui un soggetto agisce come unità, cioè ordina le proprie tendenze psichiche, i propri pensieri, le proprie azioni all'interno di un sistema coerente, vincolando questa molteplicità all'interno di criteri di giudizio posti come riferimenti stabili e universali della propria vita. Questo discorso non è minato dal fatto che la memoria appartenga a quelle forme di vita,, come gli animali, non comunemente etichettati come "esseri razionali". Potremmo dire, in fondo, che razionalità e memoria sono facoltà che hanno in comune questa tendenza verso l'unità, cioè verso l'individualità: la memoria unifica l'esperienza di fenomeni che facciamo coincidere con dei fatti della nostra vita, la ragione riferisce questa unità al complesso, non dei meri fatti, ma delle possibilità logiche, delle idee. Non vedo la memoria come facoltà attinente più attinente all'individualità rispetto alla personalità o viceversa, proprio perché vedo personalità e individualità come categorie aventi significati distinti concettualmente, la prima "razionalità", la seconda "unità", ma convergenti nel caratterizzare il soggetto come libero interprete della molteplicità di cose che trova nell'esperienza del mondo, e la memoria contribuisce a tale caratterizzazione, unificazione coscienziale presente-passato
#202
Tematiche Filosofiche / Re:Materia e sostanza
24 Giugno 2019, 02:34:24 AM
considerare l'energia qualcosa di materiale è un errore dovuto a far precedere nell'osservazione delle cose un approccio sintetico rispetto a quello analitico. Il fatto che nella nostra esperienza ogni dinamismo è sempre riferito a entità materiali non implica che ogni forma di energia sia sempre ascrivibile unicamente alle leggi della fisica, in questo modo noi stiamo erroneamente assolutizzando i limiti della nostra esperienza del mondo, relativo alle possibilità dei nostri sensi, ritenendo che se ci è, nella nostra condizione mondana, necessaria l'esperienza sensibile, adeguata alla materialità delle cose, per conoscere qualunque tipo di realtà, allora non sarebbe in assoluto pensabile alcuna forma di esistenza, di attualità, di energia non materiale. La forzatura logica è evidente. L'unità sostanziale tra materia ed energia (che ci può presentare le scienze naturali, che a differenza della filosofia, poggiano primariamente sull'esperienza fattuale, non preceduta dalla scomposizione analitica dei fenomeni in essenze semplici e primitive, compito che resta appannaggio della filosofia, che isola le singole tendenze, astraendole dalla sintesi finale fattuale in cui sono mescolate, per intuirne il significato e le relazioni logiche aprioriste che le connettono) è un dato sintetico che però solo un'analisi antecedente potrebbe valutare come necessaria o accidentale. Quindi per rispondere alla questione se l'energia sia o meno qualcosa di materiale occorre chiederci se la domanda circa il tipo di materia di un ente sia sufficiente o meno a determinarne il tipo di dinamismo che l'energia determina, le cause da cui muove, gli effetti prodotti, la direzione finale. Questa sufficienza non c'è. Non basta stabilire il tipo di materia con cui un ente si estende in uno spazio (legno, ferro, marmo ecc.) per poterne dedurre necessariamente la sua forma, l'organizzazione interna, la direzione del suo divenire, nel caso della materia vivente, il funzionamento delle sue facoltà organiche. Già il solo fatto che un cadavere mantenga la stessa tipologia di materiale di un corpo vivente, ma si differenzi da quest'ultimo in quanto mancante di vita, di energia, mostra come, essendo evidentemente assurdo ricondurre la differenza tra due enti a ciò che essi hanno in comune, a livello concettuale, la differenza tra i due corpi, la presenza di energia, sia dovuta all'azione di un principio immateriale, seppur immanente, che possiamo definire "anima", forma corporis, che verrebbe meno al momento della morte, al contrario della mera estensione materiale-spaziale. Se fosse tale materialità di per sé a costituire l'energia vitale, al momento della morte, verremmo annullarsi in piena coincidenza con la vita, anche il corpo, che invece resta, anche se soggetto al processo graduale di disfacimento, inerte, ma ancora reale. Dunque trovo corretto considerare principio energetico e principio materico analiticamente distinti, anche se sinteticamente uniti nelle sostanze del mondo di cui facciamo esperienza. L'energia è dinamismo, attualità, etimologicamente "lavoro" che attraversa lo spazio, la materia, ma non è in questa la sua ragion d'essere
#203
Ho sempre avuto difficoltà e dubbi nell'individuare la differenza tra una semplice ammirazione e l'innamorarsi in senso stretto, all'interno delle nostre esperienze vissute. Negli ultimi tempi penso di essere arrivato, anche riferendomi a esperienze personali, a un'ipotesi riguardo il tratto peculiare ed essenziale dell'innamorarsi, che lo contraddistinguerebbe da ogni altro vissuto, apparentemente simile. Penso possa notarsi come nell'essere innamorato ci si accorga come caratteristiche, di per sé solitamente non gradite, cominciano ad apparire quasi gradevoli proprio perché appartengono alla persona di cui ci si innamora. L'ammirazione valuta la persona sulla base delle sue caratteristiche comunicabili, potenzialmente appartenenti a chiunque altra: la ammiro per la sua bellezza, per la sua intelligenza, per il suo umorismo, la sua dolcezza, le sue idee. Se le caratteristiche positive prevalgono su quelle negative scatta l'ammirazione. La persona che si ammira resta ancora, nella rappresentazione associata a quest'ottica, somma delle sue parti, resta pur sempre un calcolo (per quanto possa essere immediato e intuitivo) di luci e ombre, pro e contro a determinare il giudizio. L'innamoramento capovolge questa logica: non sono più le sue caratteristiche particolari a determinarne l'affetto, ma al contrario, le caratteristiche a diventare godibili perché caratteristiche di QUELLA persona. Perché quando amiamo non siamo rivolti alle "parti" di chi amiamo, ma al suo cuore, al nucleo profondo della sua in-dividualità (non divisibilità), il centro della sua unità. La persona che amiamo non si presenta più come somma di parti, ma un'unità di senso, di relazioni, nei quali i singoli tratti risplendono, non più di luce propria, ma come ruotanti attorno a un Sole che la contraddistingue come individuo unico e irripetibile, la sua qualità incomunicabile, indefinibile sua e basta. Nell'innamoramento la persona destinataria di questo sentimento svela il proprio essere olistico, l'unità della personalità è colta immediatamente, con un atto di sentimento specifico, perché primariamente rivolto al suo principio individualizzante, la qualità che colora di uno stile inconfondibile le singole "parti". In realtà non sono ancora sicuro le cose stiano davvero così, che non sia invece sempre le singole caratteristiche a determinare ogni tipo possibile di affetto, e a darci l'illusione che anche quelle solitamente non gradite appaiano piacevoli. Ma se, come penso, esista un principio individualizzate, qualitativo che contraddistingue ogni persona, allora (a prescindere dalle effettive confusioni a cui possiamo incorrere nell'empirico) dovremmo anche, almeno a livello ideale, ammettere la possibilità di un vissuto ad hoc, rivolto a tale principio, altro rispetto a quello rivolto a valutare le caratteristiche comunicabili, e allora l'amore non può essere solo un grado quantitativamente superiore rispetto all'ammirazione, ma un vero e proprio salto qualitativo.
#204
Tematiche Filosofiche / Re:sull' etica
17 Giugno 2019, 20:30:37 PM
Citazione di: odradek il 14 Giugno 2019, 02:09:52 AMd: un soggetto etico inteso come soggetto capace di agire anche in contrasto con i propri interessi individuali, può esserlo solo se in possesso di quelle doti di astrazione, che gli consentono di astrarsi dalla propria individualità, considerando degli ideali come aventi un valore superiore alla preservazione di questa. Fermo restando che tali interessi eticamente trascesi non possono che riguardare beni materiali. Dal punto di vista spirituale la soddisfazione psicologica che si avverte quando sentiamo di comportarci in modo coerente con i nostri ideali, sarebbe una forma di egoismo, non in contrasto con la fedeltà all'ideale, ma come sua necessaria conseguenza. Ciò che in noi siamo disposti a sacrificare in vista dell'adempimento all'ideale, è sempre il possesso di un ente particolare, cioè materiale, delimitato nella contingenza spaziotemporale, sacrificata nei confronti di una superiore universalità. o: l'unica cosa che non riesco a inquadrare nell'insieme del tuo ragionamento -su cui nulla ho da obiettare- è la questione delle cose\enti sacrificabili che mi sembra aver capito tu dica siano essere materiali. Libertà, amicizie ed amori spesso vengono sacrificate in ordine a principi etici o morali (li metto assieme qua sapendo che son cose diverse) e non capisco perchè li hai esclusi. Avrei potuto scrivere io le tue frasi, includendo però anche beni non materiali, e quindi non riesco a capire il percorso che te li ha fatti escludere. Se rimarchi due volte l'aspetto materiale non lo fai a caso, e quindi non ho sicuramente capito qualcosa. d: Tutto ciò presuppone che la coscienza etica non coincida completamente con gli istinti. Una coscienza di tale genere non potrebbe, per astrazione, immaginarsi dei valori superiori rispetto alla particolarità degli oggetti verso cui l'istinto sarebbe spontaneamente diretto. L'idea comune che degli animali si ha, cioè essere del tutto dominati dagli istinti, in assenza di una razionalità capace di attribuire di riflettere su un determinato istinto, valutarlo e inserirlo all'interno di una scala di valori, e dunque potenzialmente sacrificarlo in nome di tendenze superiori, non rispecchia tale profilo di soggettività etica. o: ulteriore dimostrazione che un ragionamento "pulito", chiaro e preciso possa fare a meno di zoologia, biologia ed altro per arrivare a conclusioni che zoologia e biologia sottocriverebbero. d: Se poi, considerando determinati comportamenti come altruisti, si cominciasse a mettere in dubbio tale idea, smettendo di vedere l'animale come pura istintualità senza ragione, questa sarebbe un'operazione quantomeno legittima, solo che di fronte ad essa la filosofia si ferma, lascia alla zoologia il compito di ricavare un'idea di psiche animale sulla base dell'osservazione sperimentale dei comportamenti. o: :)) significa anche: avete veramente sfinito con la biologia, l'etologia, Darwin, Lamarck, Owen ed Huxley, qua siamo in un forum di filosofia. Ovviamente hai ragione, non una ma cento volte. Forse è più facile parlare di queste cose in questi termini che parlare di filosofia con i suoi termini, di preciso non so quali siano le ragioni, o forse viene fuori da una domanda posta all'interno della discussione sull'etica. In ogni caso si, sarebbe "decente" ritornare a parlare di etica con i termini (o almeno le intenzioni) che son proprie del campo cui l'etica si applica. d: Ciò a cui il filosofo (ovviamente in quanto tale, non come generico uomo di cultura) si limita è individuare le implicazioni a priori in base a cui a partire dalla presenza, ipotetica, di una determinata caratteristica (come l'eticità), ne seguirebbero altre (razionalità), e non altre (mera instintualità), cioè un lavoro prettamente analitico, e comunque sempre fondamentale o: ti dico come ho capito io la frase perchè non riesco ad uscirne con una interpretazione "sicura" e quindi chiedo a te se ho capito giusto. -Ciò a cui il filosofo si limita è individuare le implicazioni conseguenti all'assumere la presenza dell'eticità come derivante da facoltà istintuali o da facoltà razionali, analogamente a come si procede per qualsiasi altra facoltà umana.- Giusto o sbagliato che abbia inteso, il lavoro prettamente analitico è sempre la base da cui partire. Scimmia e umano ringraziano per il tempo e la pazienza, nonostante la scimmia -poco incline alle buone maniere, alla riservatezza e sopratutto alle motivazioni altrui- abbia assai da ridire sulla frequenza degli interventi.


che il sacrificio derivante da scelte etiche riguardino sempre beni materiali è un'affermazione forte, che avrei dovuto chiarire meglio. Ci provo ora. Dal punto di vista dei contenuti determinati con cui riempiamo le personali scale di valori, nulla impedisce che a essere sacrificate nelle scelte etiche siano valori spirituali, come appunto libertà, amicizia, e non impedisce anche di elaborare etiche materialiste per cui il successo economico appare come il criterio primario per giudicare il valore e le doti di una persona. Da un punto di vista più "formale", le cose cambiano, nel senso che se ciò che contraddistingue il discernimento di un valore a discapito di un altro è l'attribuire ad un valore un grado di universalità dei contesti in cui applicarlo coerentemente, maggiore rispetto a un altro, allora il valore che viene sacrificato lo è in quanto più relativo a contesti particolari, oggetto di un'esperienza sensibile, adeguata alla realtà materiale. Anche quando eticamente, rinunciamo (in parte) a valori immateriali come libertà o amicizia, non li stiamo sacrificando in quanto "spirituali", ma al contrario nella misura in cui la loro importanza affettiva ci appare circoscritta a dei casi particolari, casi nei quali la loro realizzazione producono una soddisfazione in qualche modo legata a un benessere fisico, perché sperimentale sulla base della nostra situazione fisica, empirica, è sempre una libertà o un'amicizia funzionale al possesso di bene ottenibili in un certo contesto empirico, cioè materiali, mai una "libertà in sé", un' "amicizia in sé" disinteressata, perché sufficiente a se stessa. Porre un valore etico come primario implica sempre, nel senso del modo di intenderli, cioè della forma, considerarlo al massimo grado di astrazione, correlarlo a un sentimento il più possibile indipendente dalle circostanze empiriche, fisiche, in cui quel valore si realizza in modo contingente. Comunque capisco che, perché il discorso fosse più chiaro, sarebbe forse stato meglio parlare di "particolare" o "contingente", rispetto a materiale, fermo restano l'associazione mentale con coi anche quest'ultimo termine può collegarsi.




"Ciò a cui il filosofo si limita è individuare le implicazioni conseguenti all'assumere la presenza dell'eticità come derivante da facoltà istintuali o da facoltà razionali, analogamente a come si procede per qualsiasi altra facoltà umana"

sì, era questo il senso che volevo dare, considero la filosofia come un sapere non fondato sull'induzione empirica, e dunque inevitabilmente il suo ambito di ricerca è delimitato da ciò da cui si può dedurre necessariamente a partire da dei significati aprioristicamente attribuiti a dei concetti e alle relazioni che li collegano logicamente
#205
Tematiche Filosofiche / Re:sull' etica
13 Giugno 2019, 17:39:46 PM
un soggetto etico inteso come soggetto capace di agire anche in contrasto con i propri interessi individuali, può esserlo solo se in possesso di quelle doti di astrazione, che gli consentono di astrarsi dalla propria individualità, considerando degli ideali come aventi un valore superiore alla preservazione di questa. Fermo restando che tali interessi eticamente trascesi non possono che riguardare beni materiali. Dal punto di vista spirituale la soddisfazione psicologica che si avverte quando sentiamo di comportarci in modo coerente con i nostri ideali, sarebbe una forma di egoismo, non in contrasto con la fedeltà all'ideale, ma come sua necessaria conseguenza. Ciò che in noi siamo disposti a sacrificare in vista dell'adempimento all'ideale, è sempre il possesso di un ente particolare, cioè materiale, delimitato nella contingenza spaziotemporale, sacrificata nei confronti di una superiore universalità. Tutto ciò presuppone che la coscienza etica non coincida completamente con gli istinti. Una coscienza di tale genere non  potrebbe, per astrazione, immaginarsi dei valori superiori rispetto alla particolarità degli oggetti verso cui l'istinto sarebbe spontaneamente diretto. L'idea comune che degli animali si ha, cioè essere del tutto dominati dagli istinti, in assenza di una razionalità capace di attribuire di riflettere su un determinato istinto, valutarlo e inserirlo all'interno di una scala di valori, e dunque potenzialmente sacrificarlo in nome di tendenze superiori, non rispecchia tale profilo di soggettività etica. Se poi, considerando determinati comportamenti come altruisti, si cominciasse a mettere in dubbio tale idea, smettendo di vedere l'animale come pura istintualità senza ragione, questa sarebbe un'operazione quantomeno legittima, solo che di fronte ad essa la filosofia si ferma, lascia alla zoologia il compito di ricavare un'idea di psiche animale sulla base dell'osservazione sperimentale dei comportamenti. Ciò a cui il filosofo (ovviamente in quanto tale, non come generico uomo di cultura) si limita è individuare le implicazioni a priori in base a cui a partire dalla presenza, ipotetica, di una determinata caratteristica (come l'eticità), ne seguirebbero altre (razionalità), e non altre (mera instintualità), cioè un lavoro prettamente analitico, e comunque sempre fondamentale
#206
l'assunzione di un fine è un tratto essenziale, che contraddistingue l'agire di un essere per definizione razionale, come l'essere umano. Questo è un dato che non può perdersi e ogni ricerca dell'utile la conferma: per definizione, l'utile è sempre tale in relazione a un fine a cui è subordinato, il linguaggio lo dimostra, "utile a...". Dal punto di vista sociologico-culturale anch'io ho spesso la netta impressione di assistere a un ipertrofia dell' "utile", un'esasperazione dell'importanza del pragmatismo e della vita pratica, a scapito di una svalutazione di tutto ciò che è valore in se stesso, da cui trarre piacere disinteressato. D'altra parte però questo fenomeno non inficia l'inevitabilità dell'assunzione del fine come condizione per ogni azione umana possibile. Riflettendo meglio si nota come anche chi appare come focalizzarsi sugli interessi presenti e immediati non stia affatto rigettando in generale un finalismo, bensì persegua un diverso fine, che non consisterà in un valore immateriale, spirituale, come può essere l'amore per la conoscenza, o la salvezza oltremondana, ma nel possesso di beni materiali, di cui abbiamo un'esperienza fisica contingente. Possesso che però non è dal loro punto di vista "utile", ma fine ultimo in base a cui pensare a una strategia d'azione. La retorica dell' "utile" non si può pensare come oblio in senso assoluto del fine, ma più come un lasciare quest'ultimo implicito, non apertamente tematizzato, ma in fondo basta un po' di maieutica perché anche il più utilitarista degli uomini sia portato a riconoscere che tutti i suoi calcoli non avrebbero alcun senso in assenza di un fine ultimo a cui subordinare la rilevanza degli "utili" passaggi intermedi dell'azione. Il fine, proprio perché condizione essenziale dell'agire razionale, è prima di tutto una forma, il cui quid, il cui contenuto determinato può riempire in modo diverso sulla base delle differenti sensibilità soggettive degli individui, ed è un errore di prospettiva pensare che ci siano persone che hanno perso la coscienza del fine, solo perché perseguono fini diversi da quelli che perseguiremmo noi, proprio perché non esiste un determinato fine necessariamente implicato nell'idea di finalità intesa come categoria formale indeterminata. I vari Boldrin, o Forchielli o altri opinionisti che in tv  e non solo, raccomandano ai giovani di non iscriversi a facoltà per il puro piacere di studiare, come le umanistiche, ma a quelle più utili per trovare in fretta lavoro, non solo "utilitaristi" che hanno perso il senso del fine, semplicemente muovono da fini o valori di tipo materialistico (il successo economico come primario parametro di valutazione della realizzazione personale) a differenza di chi considera la formazione dello spirito come fine in relazione a cui trovare utile, per l'appunto, un certo corso di laurea "umanistico". Chi si iscrive a filosofia per un desiderio di formazione spirituale, non è affatto meno utilitarista di chi si iscrive a ingegneria sperando di trovare al più presto un lavoro ben remunerato, entrambi perseguono un fine a cui attribuiscono diverse determinazioni. Non trovo dunque un vero e proprio conflitto tra "utilitarismo" e "teleologismo", che invece si richiamano fra loro necessariamente, ma fra diverse scale di valori (come ad esempio materialismo vs spiritualismo) con cui ciascuno di noi riempie la categoria, di per sé, indeterminata, generica e formale di "fine", che resta per tutti il comune riferimento ultimo che contraddistingue ogni razionalità. Non a caso, entrando un attimo in un piano più teoretico, tutti i vari immanentismi, pur fermando la visione del reale al complesso degli contingenti di cui abbiamo un'esperienza mondana, devono giocoforza attribuire a tale complesso un carattere di "fine" o "senso ultimo", non meno di come il trascendentista attribuisce questi caratteri all'idea di una realtà extramondana: cambia il substrato a cui applicare la categoria di "fine", ma non il riconoscimento della necessità di tale categoria, ragion per cui, senza generalizzazioni forzate, ha senso considerare ogni immanentismo come secolarizzazione di categorie che non vengono mai cancellate, ma solo trasferite dal riferimento a una realtà trascendente, come il Dio del teismo, a realtà immanenti, poste come "assoluti", "motori della storia", "valori sommi" ecc, siano essi la "materia", la "razza", "lo stato etico", "la classe", "la logica dialettica immanente al processo storico nel suo complesso", l' "atto puro dello spirito" ecc.
#207
Tematiche Filosofiche / Re:Etica e neuroscienze.
02 Giugno 2019, 01:47:19 AM
per Odradek

certamente la matematica rientra a pieno titolo nell'ambito del modello di razionalità puramente deduttivo, dubito che tale modello di esaurisca nella fondazione della matematica. Le proposizioni matematiche indicano relazioni logiche fra quantità, ma la quantificazione è sempre un processo mentale reso possibile dalla componente della materialità degli oggetti: nella misura in cui un oggetto ha una certa estensione spaziale, cioè materica, è pensabile come divisibile in una molteplicità di singole unità logiche la cui quantità possiamo misurare tramite numeri. Ma questo processo presuppone implicitamente un punto di vista qualitativo, per operare misurazioni su un oggetto occorre delimitarlo spazialmente, dunque riconoscere una forma immateriale, aspaziale che lo limiti. In assenza di tale limite formale ogni quantificazione sarebbe impossibile, non si può fissare nessuna misura quantitativa di fronte a uno spazio infinito e indeterminato, come sarebbe la pura materia. Se la deduzione è un procedimento che discende da premesse aventi valenza universale, allora una premessa di tal genere può essere rintracciata nell'evidenza dell'esistenza degli atti coscienti tramite cui attribuiamo significato agli oggetti, compresa l'attribuzione di quantità, se ogni giudizio quantitativo, su cui si fondano le scienze naturali, presuppone l'unità formale e qualitativa dei loro oggetti, allora tale evidenza va trasferita anche al rinvenimento di tale forma, della qualità, in termini generici, anche se poi l'esperienza a posteriori tornerebbe in gioco nel momento in cui si tratta di determinarla contenutisticamente, collegando l'individuo a una determinata specie


Per Sgiombo, a cui faccio gli auguri e congratulazioni per la nascita del nipotino...

non è vero che per riconoscere la necessità di introdurre la forma come fattore distinto rispetto a quello materiale occorra l'empiria. Anche senza bisogno di osservare fattualmente la lavorazione del marmo che introduce in esso una forma nuova rispetto a quella del blocco grezzo, riconosco che la risposta alla questione sull'individuazione del tipo di materia di un oggetto, è insufficiente rispetto alla questione della qualità specifica circa l'idea dell'oggetto in questione. Quindi, anche fermandomi alla semplice osservazione del blocco di marmo, senza avere esperienza del mutamento di forma, ma solo con l'immaginazione, posso riconoscere che il materiale di cui è costituito può in linea teorica essere formalizzato in modo diverso da quello attuale, e questo basta per ammettere la distinzione della "causa", o, usando una terminologia che il linguaggio attuale troverebbe più adeguato forse al contesto, "principio", materiale rispetto a quella formale, come distinzione aprioristica,, quindi l'esistenza di un livello dell'ontologia apriorista, e al contempo non tautologico


Per Ipazia

ovvio che una statua di marmo non potrebbe pensarsi senza il marmo, o, allargando un attimo l'esempio, un qualunque tipo di statua non potrebbe pensarsi senza un certo tipo di materiale, Ma il "mio" ""spiritualismo" non ha mai avuto la pretesa di negare, alla Berkeley, l'esistenza della componente materiale negli oggetti dell'esperienza mondana, ma solo di riconoscerne l'insufficienza riguardo la conoscenza delle cose nella complessità dei suoi aspetti, delle loro stratificazioni ontologiche, potremmo dire. Quindi se da un lato non si possono pensare statue di marmo senza marmo, dall'altro non si possono pensare nemmeno statue di marmo che non siano "statue". E l'idea di "statua", lungi dall'essere un'astrazione, è concretissimo fattore ontologico che impone al marmo un determinato modo d'essere, che non avrebbe fintanto che resta blocco appena estratto dalla cava, già solo per la differenza, fenomenologicamente registrabile, tra un vissuto che l'osservazione di una statua produce in me rispetto all'esperienza di un semplice blocco. Se le differenze formali fossero solo astrazioni, in contrapposizione con la concretezza materiale del marmo, come potrebbero incidere, performativamente, sullo stato d'animo, sulle esperienze soggettive di una coscienza che ne fa esperienza?
#208
Tematiche Filosofiche / Re:Etica e neuroscienze.
31 Maggio 2019, 19:02:54 PM
Citazione di: sgiombo il 29 Maggio 2019, 21:38:34 PMX Davintro  Dissento dalla tua risposta a Jacopus circa l' analisi razionale, che non ha senso se intesa come qualcosa di avulso dai dati empirici (che non sono solo quelli materiali ma anche quelli mentali) e che pretenderebbe di svilupparsi autoreferenzialmente su se stesso. La razionalità é inferenza, deduzione, induzione, abduzione, ecc., la quale ha senso non in sé e per sé ma in quanto applicata a determinati "dati di partenza" che possono essere arbitrari (definizioni, assiomi, postulati) nel caso della logica - matematica, oppure empirici (materiali nel caso delle scienze naturali e sia materiali che mentali nel caso dell' ontologia filosofica).    Venendo alle obiezioni che rivolgi a me, per come l' intendo io l' ontologia é l' analisi razionale di tutto ciò che é reale in generale, della realtà in toto. Una "tuttologia" in senso letterale (e non certo in quello "giornalistico" di superficiale pretesa di parlare di tutto non dicendo nulla): perché no? Cioè non solo ciò che é materiale, nell' ambito della realtà, ma anche ciò che é mentale ed eventualmente ciò che fosse in sé (noumeno e non fenomeno), e i rapporti reciproci tra tutto ciò (ed eventualmente anche altro). E dunque comprende sia i fenomeni materiali sia quelli mentali (ed eventualmente anche altro).  La nozione di "essere in quanto tale" mi sembra una semplice definizione, uno strumento utile da impiegare nei ragionamenti "applicati" a ciò che é reale, ma di per sé gnoseologicamente sterile. Fra l' altro estremamente vaga e oscura.  Metafisica é ciò che sa oltre la fisica: per esempio la cosa in sé o noumeno. Altro senso non riesco ad attribuire alla nozione di "essere in quanto tale" che vedi, non tocchi, non ascolti, non gusti, e non annusi, fuoriesce dall'ambito materiale dell'esperienza sensibile, e dunque rientra nella metafisica. E tutto questo, se realmente c'é, non esaurisce di certo la realtà in toto, la quale comprende sicuramente e per lo meno i fenomeni materiali e mentali che dunque dell' ontologia devono essere anch' essi (oltre che e soprattutto i rapporti fra loro e l' eventuale resto della realtà) oggetto.  Se si pretende, come Aristotele per come é da te accennato, di sviluppare un punto di vista formale metafisico, razionale-deduttivo, atto a cogliere gli aspetti necessari, essenziali dell'ente, quindi nulla a che vedere con la "fisica" per come oggi la intendiamo non si fa nemmeno della metafisica (oltre a non fare della fisica e della psicologia), ma semplicemente della logica - matematica: giudizi analitici a priori che nulla ci dicono di ciò che é reale o meno. E questo vale per qualsiasi pretesa ontologia o metafisica che non si basi su giudizi sintetici a posteriori (proprio come la fisica), applicando il ragionamento ai dati empirica (materiali e mentali).

non sono d'accordo con l'idea che il modello di razionalità perfettamente logico deduttivo, come quello utilizzato dai sistemi metafisici classici, abbia una valenza solo logica-formale, senza alcuna utilità conoscitiva nei confronti della realtà concreta, la cui conoscenza dovrebbe ridursi a giudizi sintetici a posteriori. Riconoscere che la causa materiale di un ente è distinta da quella formale-immateriale è un risultato che si riferisce al modo d'essere delle cose reali, ed è al tempo stesso prodotto di una deduzione che ha un valore a priori, senza bisogno di fondarsi sull'esperienza. Non è infatti l'esperienza sensibile, ma l'analisi dei vari giudizi possibili formulabili sulle cose che mi porta distinguere le varie cause dell'essere. Non "vedo" la causa formale, ma la riconosco deducendo dal fatto, indubitabile, che il giudizio riguardo la materia di un oggetto non è di per se sufficiente a rendere ragione della sua essenza che lo contraddistingue, differenziandolo dalle altre specie di oggetti, questione a cui invece si risponde introducendo la causa formale. Se di fronte a un blocco di marmo appena estratto da una cava si pensasse di poterne esaurire la conoscenza limitandosi a giudicarne la tipologia di materia, il marmo, si dovrebbe concludere assurdamente che non esiste alcuna differenza tra quel blocco e una statua dello stesso materiale, dato che il materiale è lo stesso. Ciò dimostra che per rendere ragione del complesso degli enti "blocco di marmo", "statua di marmo", comprendente anche le differenze tra essi, occorre andare al di là della materia e riconoscere un altro tipo di causa, quella formale, intelligibile, corrispondente all'idea dell'ente, che nel caso della statua esprime l'idea (spirito) nella mente dell'artista, che si è realizzato nella statua ma non ancora nel blocco. Dunque, siamo giunti a un risultato a tutti gli effetti ontologico e "concreto", l'insufficienza della materia nel rendere ragione del complesso degli aspetti di una cosa senza passare per l'empiria, ma deducendo dall'immaginazione (astrazione mentale) dei vari giudizi che sulle cose si possono formulare, rendendosi conto che ciò che è sufficiente per rispondere a un certo tipo di giudizio non lo è per un altro, cosicché bisogna, per ogni questione che resterebbe irrisolta fermandoci agli aspetti sufficienti per rispondere alle altre, aggiungere nuovi elementi o "cause" nelle cose. Se questo aggiungere nuovi elementi rientra nel problema ontologico, e viene operato sulla base di un procedimento deduttivo, cioè non fondato sui sensi, allora è corretto concepire l'ontologia come ramo, accanto a etica o epistemologia, della metafisica. Si può parlare di "allargamento" della conoscenza in questo caso? Dipende, se si intende "allargamento" nel senso di un ampliamento spaziale, materiale, della visione della realtà, no, in quanto la distinzione della causa formale da quella materiale non consiste nel riconoscimento di nuove realtà materiali che nuove esperienze ci porterebbero, ma si può considerare come "approfondimento", cioè esplicitazione di implicazioni logiche a partire dall'analisi delle varie possibilità di giudizi riguardo la realtà, che prima dell'analisi erano presenti, ma impliciti e nascosti, comunque non penso si possa ridurre il discorso a tautologia. Il metodo della filosofia è proprio questa analisi dialettica mirante a mettere in evidenza delle deduzioni logiche da sempre necessitate dai concetti, a priori, ma che senza tale analisi non potrebbero essere tematizzate, quindi in un certo senso "allarga" la conoscenza, ma non nel senso dell'ampiezza nozionistica di dati su dati, ma in quello dell'approfondimento sistematico consequenziale, dell'elaborazione di une rete di connessioni necessarie, non cerca l'estensione ma la profondità
#209
Tematiche Filosofiche / Re:Etica e neuroscienze.
29 Maggio 2019, 19:42:52 PM
per Ipazia

le virgolette su "spirito", erano virgole di timidezza, considerato, senza voler generalizzare, un certo clima di materialismo attualmente dominante nel forum e quindi mi sento un po' condizionato a evitare quando possibile termini troppo "scandalosi" e che rischiano di portare chi legge a squalificare già solo per la terminologia i miei pensieri. Cerco di stabilire un minimo di base terminologica comune con l'interlocutore, ma al di là di ciò non penso si dovrebbe avere alcun problema a parlare di "spirito" come sinonimo di "immateriale", distinguendolo dal materiale, oggetto dell'esperienza dei sensi da  il momento autocritico e riflessivo della scienza deve necessariamente astrarre, senza alcuna necessità di saturare lo spirito con le varie rappresentazioni dogmatiche/mitologiche delle religione storiche, il cui limite può avvertirsi non tanto dal punto di vista materialistico che le squalificherebbe come "troppo spirituali", ma dal verso opposto, da un punto di vista spiritualistico che critica i modi con cui il divino viene  racchiuso nelle rappresentazioni confessionali umane, da elementi sensibili, costantemente condizionate da uno sguardo umano, sintesi di spirito e materia, e non solo spirito


Jacopus dice

"La filosofia, se non vuole essere metafisica, deve/può occuparsi di qualsiasi oggetto e a maggior ragione della scienza empirica,"


"se non vuole essere metafisica", ecco appunto... ma perché la filosofia non dovrebbe voler essere metafisica? In realtà solo identificandosi con la metafisica (che non si riduce affatto a teologia, e tanto meno a fideismo dottrinario), la filosofia preserva la sua ragion d'essere, cioè riconosce l'esistenza di un livello della realtà oltre quello di cui si occupa la fisica e le scienze naturali, che in questo modo non restano le uniche autorizzate a conoscere la realtà. Se la filosofia/metafisica si focalizza su tale livello "altro" rispetto a quello materiale" allora non può temere di subire contestazioni da parte di risultati di scienze che sono adeguate a una tipologia di realtà diversa da quella che ad essa interessa. Ed è proprio in virtù di tale trascendenza, non necessariamente trascendenza di sostanze, ma trascendenza nel senso dell'irriducibilità del proprio punto di vista rispetto agli altri, che la filosofia può esercitare il proprio ruolo critico nei confronti delle scienze, ammonendo le loro pretese di autoreferenzialità e assolutezza. Ogni sapere critico nei confronti di un altro deve necessariamente fondarsi su una prospettiva distinta rispetto quella oggetto della critica, altrimenti come potrebbe rendersi conto dei suoi limiti (e conseguentemente delle sue possibilità)? Quello che delle scienze deve interessare il filosofo delle scienze è la loro forma mentis, il loro metodo, considerare quali modalità di esperienza coscienza-mondo (sensazione, percezione, giudizio) sono interessate dai metodi, per poi, sulla base del senso di tali modalità dedurre la tipologia di oggetti adeguati a essere conosciuti da quel determinato metodo, cioè da quella determinata scienza, delimitandone così il raggio d'azione. Per svolgere questo lavoro al filosofo "basta" (si fa per dire...) un'analisi fenomenologica delle essenze degli atti coscienti che le scienze utilizzano nel loro ambito, e questa evidenziazione delle essenza attiene al piano non empirico, ma universalistico, dunque intelligibile e metafisico. Empiricamente riscontro i risultati delle scienze naturali, ma l'essenza degli atti coscienti tramite cui le scienze lavorano, il giudizio in sé, il ricordo in sé, la percezione in sé sono colti in un'intuizione intellettuale originaria, che solo l'analisi razionale e non l'accumulo di dati empirici mette in evidenza, anzi quest'ultimo ricopre ancora più quel nucleo essenziale con una serie di dati accidentali, rendendola ancora più confusa e nascosta. I risultati empirici delle scienze possono essere un utile o utilissimo stimolo di riflessione per il filosofo nell'orientare le sue speculazioni verso un determinato aspetto del suo ambito, che magari non sarebbe stato considerato, dato che pur sempre il filosofo e l'empirico condividono lo stesso mondo in cui vivere anche se osservato da visuali differenti, ma si tratterà pur sempre di un'utilità accidentale, mai di una fondazione necessitante. Dal punto di vista essenziale l'epistemologia resta un corollario o ramificazione della filosofia/metafisica


Per Sgiombo

l'ontologia, intesa come studio dell'essere "in quanto essere" non comprende i fenomeni materiali, ma la nozione di "essere in quanto tale". Cioè, non l'essere come totalità, sommatorio di tutto ciò che è, compresa la realtà materiale (se così fosse più che di ontologia bisognerebbe parlare di "tuttologia") La nozione di "essere in quanto tale" non la vedo, non la tocco, non la ascolto, non la gusto, e non la annuso, fuoriesce dall'ambito materiale dell'esperienza sensibile, e dunque rientra nella metafisica. Non deve ingannare il fatto che lo studio dei fondamenti dell'Essere si riferisca anche agli enti materiali: ad esempio è vero che quando Aristotele parlava di causa materiale doveva per forza considerare anche l'esperienza sensibile della componente fisica della natura, ma non erano i sensi il fondamento, la garanzia di validità della sua riflessione ontologica. La materia, l'esperienza sensibile erano oggetto di tale riflessione, ma non i presupposti epistemici, il punto di vista formale restava metafisico, razionale-deduttivo, atto a cogliere gli aspetti necessari, essenziali dell'ente, quindi nulla a che vedere con la "fisica" per come oggi la intendiamo. Mentre per le scienze naturali con il loro metodo sperimentale l'esperienza sensibile è il presupposto del loro sapere, per la metafisica e per l'ontologia essa  rientra tra gli oggetti tematizzabili, ma non costituiscono la loro base metodologica, e ciò garantisce la loro indipendenza rispetto ai risultati ricavabili in base a quell'esperienza stessa. Quindi se l'ontologia aristotelica, come ogni possibile ontologia è contestabile, non lo sarà mai dal punto di vista delle scoperte della fisica, ma dal punto di altri modelli ontologici che, utilizzando la stessa impostazione, sono legittimati a entrare nel merito del suo stesso livello di realtà, corrispondente a tale impostazione
#210
Tematiche Filosofiche / Re:Etica e neuroscienze.
29 Maggio 2019, 02:59:56 AM
la validità del metodo empirico è relativo alla conoscenza del livello della realtà corrispondente, cioè il complesso degli oggetti fisici, di cui i nostri sensi hanno esperienza nella contingenza spaziotemporale, livello che però non è quello di cui si occupa la filosofia, che invece si occupa del sapere dei principi primi dell'essere, la cui valenza universale la rende irriducibile rispetto alle possibilità di ricezione dei sensi. Appunto per questo non vedo razionalità ed empiria come in contraddizione, ma complementari, ma la complementarietà è data dalla differenza di ambiti della realtà a cui si occupano. La razionalità pura indaga un livello di realtà consistente nel complesso delle relazioni logiche, aprioriste, degli enti, non si fonda sull'esperienza dei sensi e non ne ha bisogno, mentre necessita dei sensi nel momento in applica le sue pretese conoscitive alla realtà materiale. In quest'ultimo senso non c'è contraddizione ma complementarietà dei ruoli: i sensi trasmettono la materia del conoscere, la ragione lo organizza logicamente, ma sull'altro livello, quello propriamente filosofico, i sensi non sono rilevanti, in quanto lo "spirito" non è per esso solo forma vuota, ma anche l'oggetto specifico del sapere. Al filosofo, in quanto tale, non interessano i risultati delle neuroscienze, lo interessano in quanto studioso desideroso per motivi di cultura personale, di completare la sua visione riguardo il tema della mente, unendo al lato filosofico e trascendentale, evidenziato dalla fenomenologia, la componente fisica, e quindi ricavando un'immagine più completa del soggetto umano, unità di spirito e materia. Quindi la filosofia è sempre un punto di vista parziale, ma comunque autosufficiente, non può conoscere tutta la realtà, avendo la realtà una componente materiale che richiede di essere indagata empiricamente, ma restando all'interno della sua parzialità, è pur sempre padrona a casa sua, e non è vincolata a rendere conto di conoscenze extrafilosofiche per legittimare le sue verità, pena negare l'autonomia del suo oggetto di indagine. Il filosofo non ha bisogno per fare filosofia di utilizzare i sensi, che ovviamente, come ricorda Sgiombo, gli sono necessari per vivere (e quindi, ma solo indirettamente, anche per fare filosofia, dato che filosofare occorre vivere), Quindi nessuna contraddizione a dare retta alle percezioni sensibili se si tratta di scegliere il momento giusto per attraversare la strada, o più scientificamente, per dar credito a studi di medicina rispetto ad altri che possono contare su un numero minore di verifiche empiriche, fermo restando il riconoscimento del valore probabilistico e non certo delle visioni che su queste percezioni di reggono, distintamente dall'esigenza di certezza assoluta che invece la filosofia richiede, certezza assoluta come connessa al carattere di necessità dei principi universali, non contingenti, che costituiscono il suo ambito di indagine, irraggiungibile per l'empiria