Citazione di: Ipazia il 13 Marzo 2023, 07:10:58 AMLa coscienza del divenire necessita dell'essere.
Non di un "essere" nel senso in cui lo intende Parmenide.
Il divenire, per essere tale, non necessita affatto di un essere metafisico, percepibile solo con gli "occhi" della ragione in quanto impercettibile con i sensi. Non necessita affatto di un essere che nel suo essere "essere", e nel suo essere "fermo", e nel suo essere "uno", renda illusione il (caleidoscopicico e roteante) mondo sensibile.
La solidita' logicamente necessaria del divenire, il concetto di "cio' che diviene dentro il divenire" per me e' il ritornare, non l'essere.
(Per continuare la metafora, il "ritornare", sarebbe la limitatezza delle configurazioni risultanti tra cristalli del caleidoscopio, anche stante una sua rotazione eterna.)
Qui ci stiamo avviando in un campo minato, per essere sintetico direi solo che il mondo greco, soprattutto con Socrate, inventa il concetto di "anima" a fini gnoseologici: la principale caratteristica dell'anima per i Greci e' quella di conoscere, e in particolare di conoscere quello che i sensi non conoscono (le idee platoniche, l'essere metafisico appunto di Parmenide, perfino gli atomi in Democrito, sono oggetti di conoscenza animica, perche' certo non sono oggetti di coscienza sensoriale, in quanto non si vedono).
Poi nel mondo cristiano il concetto di anima diventa fortemente connotato con caratteri antropologico-identitari e soteriologici, come non lo era mai stato nel mondo greco; la principale caratteristica dell'anima nel mondo cristiano e' quella di "salvarsi", di essere essenza dell'uomo, di essere tra gli enti eterni-e-creati, quindi di essere assolutamente asimmetrica nella sua stessa presenza e occupazione temporale, in quanto dotata di futuro eterno, e passato limitato.
Tutta questa digressione sull'anima mi e' stata necessaria se parliamo di Parmenide, perche' per Parmenide l'essere e' sostanza individuabile con la ragione e non certo con i sensi, e' sostanza individuabile con un "logos" che e' concetto archetipico di anima, che ne e' presagio.
I sensi attestano il divenire, e Parmenide questo non lo nega, ma squalifica il mondo diveniente mostrato dai sensi a illusione, poiche' la ragione invece, secondo lui, attesterebbe un unico essere indivisibile e immobile, eterno non tanto nel "tempo" (per dire che e' eterno nel tempo ci vorra' Melisso), ma eterno nella continuità sempre riproponentesi dell'attimo presente.
Siamo sempre al concetto dell' "occhio" dell'anima, che vede quello che l'occhio dei sensi non vede, e poi l'anima stessa sceglie di risolversi per la verita' della sua stessa visione, "accecando", piu' o meno figurativamente, i sensi.
In questo caso, da Parmenide viene visto con l'occhio dell'anima uno sfondo eterno imperturbato e immobile su cui, come proiettate, tutte le cose che cambiano e si muovono, appunto, cambiano e si muovono (l'essere).
E questo sfondo, viene proclamato piu' reale del reale, piu' reale delle cose che su di esso cambiano e si muovono (l'essere, e non il divenire, e' la verita'), in base al principio generale che, quanto visto con gli occhi dell'anima, ovvero quanto argomentato in modo corretto e filosoficamente persuasivo (perche', fuor di metafora "vedere con gli occhi dell'anima" e' fare filosofia) e' sempre, e non solo in questo caso, piu' reale di quanto visto con gli occhi reali, dei sensi.
Si potrebbe rispondere a Parmenide che la ragione, l'anima, non puo' sconfessare quanti visto con i sensi e ridurlo a illusione; per fare buona filosofia, ci vuole piuttosto un accordo tra ragione e sensi.
I sensi sono importanti, perché contigue ai sensi sono le emozioni e l'esperienza, e l'uomo non vive di sola ragione.
Argomentare contro l'evidenza dei sensi, che mostra il divenire, e' argomentare contro noi stessi, dato che il nostro vissuto stesso e' continuo divenire (e non inconcusso essere).
Da cui la mia preferenza per Eraclito.


