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Messaggi - Koba

#211
La differenza si basa sul sentimento di una gerarchia degli esseri viventi.
Per questo se schiaccio una lumaca mi rattristo un po', se investo un gatto vivo un dramma, se uccido un uomo rimango traumatizzato.
Sentimento, in quanto non c'è modo di dimostrare che un delfino valga più di una biscia, o che io valga più di un vitello destinato ad essere macellato.
Non ci sono giustificazioni razionali.
Quando lo stesso criterio viene applicato ai popoli abbiamo il razzismo.
I nazisti consideravano gli inglesi al loro stesso livello, i francesi un po' più in giù, poi i latini, e via dicendo fino agli ultimi gradini della scala evolutiva delle razze, con gli slavi e gli ebrei la cui estinzione era auspicabile.
Mutamenti della presunzione antica degli uomini. Dal senso aristocratico di alcune famiglie di essere migliori, di avere più valore, rispetto agli altri, dalla Roma antica all'Ancien Régime fino ai sistemi moderni di apartheid degli anglosassoni (degli Angli, gli inglesi, e dei Sassoni, i tedeschi), cui questa mentalità ha raggiunto con il colonialismo britannico e con il Terzo Reich le sue forme più sofisticate.
Nella modernità c'era la convinzione che fosse la ragione a distinguerci dagli animali.
Prima della modernità, il concetto di anima.
Ma scomparsa la fede nell'anima, e visto la ragione come un'attività "spuria", artigianale, e visto che in fondo proprio lo sviluppo di essa ci ha condotto allo squilibrio ecologico attuale, quando persino gli alberi sembra sappiano collaborare per alimentare un ecosistema equilibrato, ecco che la risposta alla domanda "se sia uguale uccidere un uomo e un animale" non sembra così facile...
#212
Se definiamo il libero arbitrio come la scelta tra due opzioni irrilevanti (testa o croce) dobbiamo poi cercare di capire cosa succede quando le alternative non sono affatto irrilevanti.
In questo caso saremmo liberi solo se fossimo in grado di rinnegare la scelta che faremmo normalmente se ascoltassimo le nostre predilezioni? E siamo sicuri di poterlo fare?
Per esempio devo scegliere che tipo di pizza ordinare: dal menu vedo che ce ne sono 4 che prediligo, e la scelta dell'una o dell'altra mi è indifferente; poi ce ne sono 6 che non suscitano il mio entusiasmo; infine ce ne è una, quella con l'ananas, che mi disgusta.
Sarei quindi munito realmente di libero arbitrio se potendo scegliere una delle mie pizze preferite alla fine scegliessi proprio quella con l'ananas?
Il dubbio è che la scelta di quest'ultima sarebbe alla fine causata solo dal desiderio di dimostrare a me stesso di essere libero... Quindi "causata", necessaria, dal momento esatto in cui la mia mente è stata suggestionata da queste idee sul libero arbitrio.
Se la mia mente non fosse stata popolata da questi dubbi sul libero arbitrio non avrei mai scelto la pizza all'ananas. Potenzialmente avrei sì potuto farlo, ma non l'avrei mai fatto, e solo il formarsi di una motivazione più forte mi ha spinto (deterministicamente) a optare per essa.

Mi sembra cioè che il libero arbitrio concepito come potere effettivo di un'alternativa sulla sua opposta sia dimostrabile solo con ciò che è totalmente irrilevante.
Quando invece le cose contano, la scelta sembra necessaria.
Il che sposta il problema dalla virtualità delle alternative alla concretezza dei condizionamenti che impediscono a ciascuno di esprimere se stessi.

Ma se esprimere se stessi significa fare del male?
Il serial killer, uccidendo le sue vittime, non esprime forse se stesso, non realizza forse la sua più autentica libertà?
#213
Citazione di: Eutidemo il 11 Ottobre 2024, 20:07:00 PMI vostri interventi sono tutti interessantissimi (come quelli dei miei interlocutori onirici); ma nessuno mi ha ancora dimostrato, in modo incontrovertibile, il fatto che esiste. ;D
Che esiste cosa?
Il pensiero?
L'essere?
Cartesio non dimostra l'essere a partire dal pensiero, perché l'essere – il fatto che ci sia qualcosa – non ha bisogna di alcuna dimostrazione.
Cartesio dimostra invece che proprio il dubitare di tutto ci conduce a non poter dubitare di essere una sostanza che dubita, quindi che pensa. Cioè il dubitare radicale ci conduce alla certezza di essere una sostanza che ha dei pensieri, una sostanza che produce pensieri e immagini.
Ciò che però Cartesio non può dimostrare in modo incontrovertibile, secondo i suoi paradigmi di evidenza, è che quelle immagini che si formano nella sostanza pensante e che apparentemente vengono dall'esterno abbiano un'esistenza reale.
Cioè, il destino della mente cartesiana è il solipsismo, o meglio, sul piano di ciò che si può ritenere assolutamente certo, è il solipsismo, mentre di fatto si continuerà ad avere proficui rapporti con il mondo, senza però la certezza che tale mondo sia reale e non un sogno.
Lo scetticismo radicale anche se non può indurci a pensare di essere, che so, una pietra anziché una mente, ci inchioda a questa condizione solipsistica.
So di non essere un cactus, un sasso, ma non posso avere la certezza assoluta che queste cose esistano realmente nel mondo, anche se le percepisco con chiarezza. Volendo contare solo sulla forza del pensiero, mi devo arrendere al dubbio.
Per uscirne Cartesio si affida a Dio.
Mossa evidentemente disperata.
O si accetta l'approssimazione, l'incertezza, l'instabilità, oppure si deve avere fede in un Dio che garantisca la bontà delle correlazioni tra le rappresentazioni mentali e le cose del mondo.
#214
Citazione di: Jacopus il 08 Ottobre 2024, 22:45:31 PMComplimenti anche a Koba II per i suoi interventi. Ora vorrei stimolarvi non più nel versante "critico" ma in quello "apologetico". Il nesso che forse qualcuno avrà già notato è quello fra Cartesio e Nietzsche. Il cogito infatti separando ogni sè, evidenzia la forza eroica di ognuno di noi, in grado di emanciparsi attraverso il pensiero da ogni tradizione. È evidente come Cartesio non sia altro, qui, che il portavoce (pregiato) dell' ascendente borghesia seicentesca. Tradizione che forgia i comportamenti, che si oppone ai cambiamenti e che comprime il bisogno creativo e innovativo dell'uomo. In questo, credo, vi sia un quid in più rispetto alla ricerca di un metodo, che è il tipico approccio a Cartesio.Ed è questo quid in più che si ricollega a Nietzsche, al concetto di "eterno ritorno", così come interpretato da Severino. In questo senso Nietzsche e Cartesio presentano una assonanza, pur nella notevole diversità, ovvero la capacità di cancellare temporaneamente la storia/tradizione per poter muovere la storia senza che la storia/tradizione ne blocchi l'evoluzione. In questa visione nessun "corso e ricorso" è più inevitabile. L'uomo diventa adulto, dopo l'infanzia medioevale. Cartesio apre la porta alla modernità, al tempo-freccia che sostituisce il tempo-cerchio. Nietzsche userà ferocemente il suo martello contro la tradizione, ma già Cartesio, con un metodo travisato, gesuitico, l'aveva fatto due secoli prima.

Non credo che si ottenga alcun guadagno conoscitivo asserendo che nell'opera di Cartesio vi sia (inconsciamente?) l'espressione dello spirito della borghesia del Seicento.
Piuttosto se si vuole intercettare in Cartesio qualcosa di ideologico è alla sua implicita difesa della scienza moderna che bisogna guardare (difesa che assume la forma di un duplice attacco: alla tradizione aristotelico-scolastica, da una parte, allo scetticismo dall'altra).
Da questo punto di vista accogliere le provocazioni degli scettici sviluppandone le estreme conseguenze nel dubbio metodico per arrivare a qualcosa di indissolubile (la certezza della sostanza pensante) e nello stesso tempo mostrando così come la nuova episteme sia fondata su ben altre basi che le sentenze verbose delle autorità accolte dalla Tradizione, si può dire sia stata una mossa geniale. Scacco matto a tutti e due gli avversari, con una sola mossa.
Nell'opera di Cartesio non c'è nulla di gesuitico (la sua cautela è la stessa di Spinoza). La sua teologia non è una finzione, il suo sistema metafisico, lo abbiamo visto, ha bisogno di un Dio. Nella sua opera c'è un'esplicita religiosità. La cosa può anche non piacere, me ne rendo conto, ma è così, basta leggere i testi (a meno di ipotizzare che l'autore abbia voluto dissimulare convinzioni atee o libertine costruendo ad hoc una metafisica basata sulla teologia cattolica – ma questo non va solo ipotizzato, va dimostrato documenti alla mano).

L'effetto di porre un nuovo inizio comunque è vero, è ravvisabile.
Come in Nietzsche. Il quale però non prende a martellate in generale la tradizione, ma una precisa e specifica tradizione, quella platonica e cristiana, metafisiche della trascendenza, riconoscendo in altre tradizioni, in altri filoni di pensiero, i propri alleati (Epicuro e Lucrezio, il Rinascimento, Spinoza, Goethe, Schopenhauer, Leopardi).
#215
Sulla questione delle idee chiare e distinte in Cartesio riporto qui un brano interessante di Emanuela Scribano, in cui viene sottolineata la diversa soluzione del rapporto tra certezza e verità data da Cartesio e da Spinoza.

"Secondo Cartesio la certezza soggettiva che accompagna tutte le idee chiare e distinte non implica di per sé la verità, ed è sempre legittimo chiedere se ciò che pare vero lo sia veramente. Da qui un atteggiamento così caratteristico di Cartesio: il dubbio e la richiesta che ciò che appare certo alla mente finita sia garantito da Dio per poter essere detto vero.
Questa problematica è eliminata alla radice in Spinoza. Chi ha un'idea vera sa di averla, non può dubitarne, e non necessita di alcuna ulteriore garanzia". (p. 67, "Guida alla lettura dell'Etica di Spinoza", Laterza)
#216
L'unica verità che supera l'esame del dubbio radicale è quella che afferma che il soggetto è una sostanza pensante.
Cartesio, al riguardo, è esplicito.
Tuttavia, uscendo fuori dal contesto metafisico in cui è articolato il suo discorso, questa verità, di per sé, non serve a nulla.
Credo sia corretto dire che la finalità dell'opera di Cartesio sia soprattutto epistemologica. Il problema di dare un fondamento al sapere che non fosse basato sulla tradizione della Scolastica tardo-medievale.
Per ottenere questo risultato bisogna poter collegare quella prima verità, il soggetto come sostanza pensante, al mondo.
La garanzia che questo sia possibile ci viene da Dio, che non ci può ingannare.
Il corto circuito consiste nella dimostrazione dell'esistenza e della natura di Dio, che fa uso di un argomento tradizionale, quindi culturale, non auto-evidente, diciamo così, per quanto quell'argomento in quel periodo storico sia potuto apparire solido.
Se ci si volesse attenere al criterio di fare a meno di qualsiasi elemento che viene dalla Tradizione, la fondazione del nuovo sapere si arresterebbe alla verità della sostanza pensante.

Nella Quarta Meditazione viene affrontato il tema dell'errore.
Perché si sbaglia? Per uno squilibrio tra intelletto e volontà. Si giudica (o in campo etico, si compie un'azione) lasciandosi trascinare dalla volontà anche se l'intelletto, in quella situazione, non è nelle condizione adeguate per poter deliberare.
Maggiore è la chiarezza che l'intelletto ha della situazione, più sicura è la scelta. Anzi, necessaria, dirà poi Spinoza.
"L'indifferenza che io sento, quando non sono portato verso un lato più che verso un altro, è il più basso grado di libertà" (p. 54, ed. Laterza).
Quindi il libero arbitrio non è affatto la condizione di poter sempre scegliere di fare o non fare qualcosa, anzi l'indifferenza di fronte alle alternative è quasi l'espressione di una mancanza di libertà.
Spinoza dirà, sviluppando fino in fondo questo discorso, che libertà e necessità coincidono: la libertà è l'espressione della propria natura. Solo Dio, che non è ostacolato da niente, è totalmente libero. Gli uomini invece essendo condizionati da fattori interni ed esterni esprimono se stessi solo parzialmente. Ma ciò che esprimono è il risultato necessario dell'incontro tra la propria natura concreta e i condizionamenti, il concatenamento di cause ed effetti interni ed esterni, per cui non potrebbe mai darsi scelta differente.
Questo ci dovrebbe liberare dal rimpianto per ciò che è stato, ma come amarlo essendo il passato espressione solo parziale di se stessi? Accettarlo sì, ma perché arrivare all'amor fati?

Il determinismo è, probabilmente, confutabile dalla scienza moderna.
L'esperimento del gatto di Schrödinger dimostra che l'evento che uccide o salva la povera bestiola è indeterminato (non nel senso che non sia prevedibile per un deficit di sapere, ma proprio nel senso che non c'è una causa al decadimento atomico della sostanza usata per avviare il meccanismo mortale: può avvenire così come non avvenire, senza un perché).
Dunque se si danno eventi non causati, non c'è nessuna catena di cause ed effetti, ma tale catena è semplicemente l'interpretazione che ne diamo noi di ciò che accade nel mondo o dentro di noi.
Eppure che la situazione sia determinata da sempre o semplicemente prodotta dal puro caso, ad essa noi reagiamo sempre esprimendo quello che siamo (quello che siamo in quel determinato periodo, dal momento che io non sono il bambino che ero, e nemmeno l'uomo di dieci anni fa).

Dunque questa idea di libertà, iniziata da Cartesio e sviluppata poi da Spinoza, è ancora valida?
#217
Tornando a Cartesio: la formula "cogito ergo sum" può risultare ambigua solo perché per amore di sintesi è stata ridotta all'essenziale, ma in realtà dovrebbe essere ampliata in questo modo:
"penso, dunque, al di là di quello che penso, sono una cosa pensante, e in questo nessuno può ingannarmi".
Sono una cosa che pensa. Che pensa in senso ampio: quindi che ha idee delle cose del mondo, ma anche immagini prodotte dalla fantasia etc.
Ora, perché arrivare a ipotizzare di poter essere ingannati da qualche potenza al punto da interrogarsi se non sia pura illusione che esista il mondo o che 2+3 sia uguale a 5?
Perché il Nostro era un po' paranoico e temeva di essere circondato da automi?
No, Cartesio non è Philip Dick...
Il pensiero di Descartes va visto come reazione al ritorno del movimento scettico.
Per questo uno studioso di altissimo livello come Augusto Del Noce poteva sostenere (esagerando, probabilmente, anzi sicuramente) che il nemico di Cartesio e quindi il suo obiettivo polemico fosse la filosofia dei libertini e che la sua metafisica andasse letta come un tentativo autentico interno alla riforma cattolica.

L'articolazione del ragionamento di Cartesio è il seguente:
- dubito di tutto (non perché sono paranoico, ma perché è necessario rispondere agli argomenti dello scetticismo);
- scopro che indipendentemente dal contenuto della mia attività mentale ciò che non può essere messo in discussione è il fatto di essere qualcosa che pensa;
- ma per poter tornare al mondo ho bisogno che ci sia qualcosa che mi garantisca che le nostre conoscenze, anche quelle che appaiono più evidenti, non siano pure illusioni;
- questa garanzia è Dio.

Ora, si potrebbe sostituire a "Dio" il concetto di natura e il discorso sarebbe lo stesso: per quale motivo la natura avrebbe dovuto produrre l'uomo con facoltà conoscitive e istinti che ci legano indissolubilmente ad un sogno, ad un'illusione? Perché ciò che della realtà ci sembra chiara ed evidente dovrebbe essere solo un inganno?

[Si può notare come l'intera storia della filosofia occidentale sia caratterizzata da queste ondate di scetticismo, relativismo, nichilismo e da reazioni ad esse che possono assumere poi differenti e anche opposte forme, come rielaborazioni della metafisica classica o filosofie progressiste (che credono di rispondere alle prime e invece, inconsciamente, cercano di salvarci dal pensiero negativo).]

Cartesio dimostra l'esistenza di Dio tramite il principio secondo cui ogni idea ha una causa, e ogni causa deve avere tanta realtà quanto il suo effetto.
Così l'idea che ho di Dio non può essere stata originata da qualcosa di ontologicamente più debole. Quindi non da un uomo.
Dunque l'analisi della stessa sua essenza comporta di necessità l'esistenza: l'essenza è cioè tale da non poter essere solo una fantasia prodotta dall'immaginazione dell'uomo, magari come puerile ribaltamento della propria impotenza.

La cosa a molti fa ridere, ma attenzione che pure Spinoza (l'eroe di tanti atei e filosofi postmoderni) utilizza un ragionamento simile.

Comunque bisognerebbe analizzare il testo delle Meditazioni metafisiche, che è di appena 70 pagine. Un grande testo.
Se Cacciari (giustamente) consigliava ad ogni aspirante filosofo di tenersi sul comodino il "Trattato sull'emendazione dell'intelletto" di Spinoza, io per le Meditazioni di Cartesio non mi spingo al comodino, ma almeno la scrivania... la scrivania sì.
#218
Citazione di: green demetr il 24 Settembre 2024, 13:03:43 PMIl soggetto pone il suo universale a legge, del padre, patriarcale, statale in fin dei conti semplicemente anti-liberale.
La paura del servo, dei servi del potere, è quella che prende Hegel, alla fine del secondo capitolo, la sua casa viene invasa dai soldati napoleonici!
Lui stesso parla di trauma nelle lettere agli amici.
In un gesto disperato salva questa prima parte della FDS.
La terza che scriverà, come la seguente Logica ed Encicopedia sarà un U-TURN, la dimensione psicanalitica del soggetto che castra l'io, diventerà storicismo alla buona, i fatti storici completamente al servizio dello stato e della psicopolizia.
Ma dal punto di vista psicologico della conoscenza sempre altra del sè, l'io si scopre di volta in volta più addentro alla complessità.
Purtroppo come già detto Hegel sostituisce totalità a complessità, e questo lo rende un filosofo fascista.
Direi che dunque la nostra lettura si può dire conclusa.
Hegel è un ottimo apripista, il suo metodo NEGATIVO, ossia la distinzione sempre più precisa tra le funzioni castranti del soggetto e quelle liberali dell'io, porterà ad Adorno.
Lo stato di diritto liberale (naturale) dovrà SEMPRE eticamente tenere molto più in considerazione le sue minoranze, perchè sono loro che portano avanti il processo di liberazione erotica dell'io. (ma quando mai succederà ah ah ah).
La liberazione erotica dell'io, la sua pulsione al conoscere le cose alte e giuste, ossia alle cose belle.
Il contrario della direzione in cui si muoveva la sinistra che conosceva Adorno, che già a livello filosofico sapeva dell'attuale legge castrante dell'individuale.
L'autorità su cui questa società si basa, un vomito senza fine.
Freud è da leggere, e pensare che quest'estate ho visto la madonna!
O meglio ho smadonnato, ho sbagliato l'autoanalsi!
La filosofia va portata dall'analista, in breve caro amico: l'io, non è l'io-mondo, ma è l'io pulsionale.
E la realtà è la sua complessità.
Scopo nuovo attuale: introiettare gli oggetti medi, la nevrosi NON può essere superata (non in questo cesso di società), ma può essere combattuta.
Ecco che la letteratura torna alla ribalta.
Mi interessa una delle (infinite) intuizioni di Freud che in una delle riunioni della scuola psicanalitica, caldeggiò un ritorno alla letteratura erotica greca e romana.
D'altronde Hegel, per chiudere ci lascia proprio sulla soglia: LA PAURA DEL SERVO.
E l'introiezione del lavoro come strumento per il potere, per l'autorità, e non, come vagheggiava marx e compagnia(marcia), per la solidarietà: MA QUANDO MAI!
E pensare che Platone e Omero che mi guardano minacciosi dal comodino della stanza partono invece proprio dalla NECESSITA' di superare la paura.
Foss'anco di creder agli DEI, come anche Leopardi e Nietzche infine ammettevano.
Be free!

Ciao green, ben tornato.
La filosofia, o meglio lo studio della filosofia, per quanto mi riguarda, è già di per se' una terapia...
Il pulsionale mi è sempre apparso come cieca e ottusa brama, mentre il desiderio è desiderio di un altro mondo, di un'altra vita. Cioè desiderio dell'impossibile... Da qui, hai ragione, l'importanza delle immagini della grande letteratura: ma io penso alle scene in cui ci si sottrae dalla battaglia prendendo ristoro nella bellezza della natura, lontani dalla violenza, lontani quindi dal mondo, che si tratti di un guerriero dell'Orlando Furioso o di un eremita è lo stesso (la storia dei santi è da questo punto di vista grande letteratura).
Un erotismo quindi che più che possesso e piacere sembra una fuga dall'utile, dal produttivo, dal controllo. Cioè, dal lavoro così come viene normalmente concepito e condotto, cioè a immagine di ciò che farebbe una macchina.
Ho sulla scrivania il primo volume del "Principio speranza" di Bloch: proprio nella prima parte tratta di cose attinenti il desiderio, il "già e non-ancora" che c'è nei movimenti che anticipano la speranza etc.
Magari ne riprenderò la lettura.
Anch'io per ora ho accantonato Hegel.
Da settimana prossima avrò molto più tempo libero, potrò tornare agli amati studi. Non so ancora quale direzione prenderanno. Vedremo...
#219
Tematiche Filosofiche / Re: La "probabile improbabilità"
25 Settembre 2024, 09:00:18 AM
Quindi siamo tutti d'accordo che:
- l'evento singolo non ha memoria ed è leggermente a favore del banco;
- la legge dei grandi numeri stabilisce che la tendenza sarà quella, dopo tantissime giocate, di assestarsi intorno al 48% a favore del giocatore.

Immaginando di essere costretti a giocare 1.000 euro, quale sarebbe la strategia migliore?

A questa domanda molti matematici rispondono: tutto in un colpo solo.
Tuttavia la legge dei grandi numeri ci da due informazioni:
1. che sulla lunga distanza il piccolo vantaggio del banco si trasforma in una gigantesca perdita per il giocatore (da qui la scelta dei matematici della puntata singola);
2. che la tendenza, quindi dopo migliaia di giocate, è quella di attestarsi intorno al 48% a favore.

Cioè proprio basandosi sulla distribuzione che teoricamente dovrebbe verificarsi, si potrebbe costruire una strategia di questo tipo: iniziando a giocare con la posta minima, quando la distribuzione delle giocate a favore scende al di sotto del 40%, si raddoppia; se poi la distribuzione continua a scendere, per esempio arriva al 35%, si raddoppia ancora, e si mantiene quella posta per il resto della serata, affidandosi appunto alla tendenza teorica della distribuzione casuale delle giocate che da estremi (a favore o contrari) dovrebbe, dopo un lungo cammino, assestarsi su valori più vicini alla mezzeria.
Viceversa se fin dall'inizio si vince si fa la stessa considerazione sull'improbabilità di una distribuzione troppo favorevole e se si dovesse giungere intorno al 65% a proprio vantaggio si dovrebbe smettere di giocare, attendendosi un assestamento della distribuzione su valori più "normali".
#220
Non c'è nessun concatenamento. Ad ogni lancio si riparte da zero. E il giocatore scommette sul singolo evento. Che ha sempre la stessa probabilità di dare rosso o nero.
Questa cosa è fisicamente evidente, certa.
Se il giocatore si avvicina al tavolo per scommettere e vede che gli ultimi 17 numeri sono stati tutti rossi, che scelga nero o ancora rosso non cambia nulla perché sta scommettendo sul singolo evento e non sul campione composto da 18 lanci.
Lo ripeto: la scommessa non è che su 18 lanci almeno uno sia nero. Ma che ora, a questo lancio, al di là di ciò che è accaduto fino all'istante precedente, esca il rosso o il nero. E per entrambe le opzioni la probabilità è del 48%. Da qui non si scappa, purtroppo.
#221
L'errore alla base del ragionamento di Eutidemo sulla roulette sta nel confondere l'evento singolo con la distribuzione di eventi singoli all'interno di un campione.
L'evento singolo ha sempre la stessa probabilità. Anche se preceduto da 17 casi opposti. Come già detto giustamente da Niko, l'evento non ha memoria.
Se però ragioniamo su campioni di 20 lanci, se potessimo prendere nota dei risultati di 1000 campioni consecutivi vedremmo che la maggior parte di essi avrà una distribuzione di 10 rossi e 10 neri. I campioni con 17 rossi e 3 neri saranno pochi.
Se poi volessimo rappresentare graficamente tutti i campioni otterremo la famosa distrbuzione a campana.
Ma il casinò non consente di scommettere su campioni, ma solo su singoli eventi.
La martingala, come detto da Niko, è la tecnica più nota (meglio: famigerata...) per legare gli eventi singoli ottenendo una scommessa di questo tipo: scommetto la puntata minima ammissibile, diciamo 10 euro, che su, mettiamo, otto lanci consecutivi uscirà almeno una volta il rosso. Se vinco, vinco 10 euro, se perdo invece la mia perdita sarà dell'importo di: 10+20+40+80+160+320+640+1280=2.550 euro.
Cioè la scommessa è che non si verifichi un campione di otto lanci con 8 neri e 0 rossi.
Ma nell'arco di una serata la probabilità che si venga a costituire un campione di questo tipo non è affatto piccola.
Da qui la rovina del giocatore.
#222
Si è detto giustamente che le cose non esistono ma sono aggregati che siamo spinti, per ragioni fisiologiche e culturali, a estrapolare dal tutto.
Rimane però la domanda sul perché si è scelto di leggere il mondo a partire da alcuni aggregati piuttosto che altri. La domanda non può trovare risposta dal solo lato del soggetto, dall'ontologia implicita della propria lingua, della propria cultura etc.
Escluso che l'approccio realista sia corretto, rimane l'interrogativo.
Ciò che di vivo c'è "là fuori" si presta straordinariamente bene all'immagina della cellula. Questo è un fatto. Così come è un fatto che la fisica moderna, a fronte di una serie di osservazioni enigmatiche, al contrario della biologia ha dovuto abbandonare ogni immagine ingenuamente imitativa e costruire un modello il quale funziona straordinariamente bene... Ma perché funziona così bene?
Se non vogliamo usare espressioni come "il cuore della cosa", dobbiamo dire che quel sistema formale evidentemente ha intercettato qualche aspetto fondamentale della materia.

[Sì lo so, ho usato il termine "fondamentale" che fa pensare a "fondamento", forse ancora peggio di "essenza" etc., e immagino già la reazione di alcuni di voi...
A furia di rivolgere la nostra attenzione ai termini che utilizziamo si finisce per non rivolgerne abbastanza ai problemi...]

Per quanto riguarda invece la domanda sull'apporto conoscitivo della filosofia alla quale si risponde di no perché è la storia che mette in evidenza come la conoscenza oggettiva di un fenomeno venga ormai da alcuni secoli dalle discipline scientifiche specifiche... ebbene faccio le seguenti osservazioni.
"Conoscenza oggettiva" significa conoscenza che viene dall'oggetto, che si oppone a quella soggettiva, la quale appunto dipende dalla soggettività dell'osservatore.
Il fatto che il significato dell'espressione "conoscenza oggettiva" sia diventato sinonimo di conoscenza misurabile, decidibile quindi tramite un confronto quantitativo, deve essere preso come il sintomo di una sovrapposizione tra conoscenza e conoscenza scientifica.
Ma come opportunamente fa notare Alberto Knox non dobbiamo dimenticarci che quello della scienza è solo uno dei possibili modi di conoscere la cosa.
Una prospettiva sul fenomeno. Una delle tante, non fosse che storicamente si è poi guadagnata la priorità per via del potere che tale prospettiva fornisce (per essere sinceri in parte anche alla complessità e profondità dei suoi modelli, al fascino che indubbiamente esercitano).

Per concludere, è da questi abbozzi di osservazioni che possiamo dire che di fatto l'ontologia tradizionale (immaginatevi quella neo-tomistica, così per esagerare...) è in grado di apportare conoscenza. Veri incrementi di conoscenza oggettiva!
#223
Citazione di: Phil il 29 Agosto 2024, 16:21:31 PMLa risposta è già stata data (e viene per ora confermata) dalla storia, al punto che diventa difficile riaprirla con un «secondo me...». La filosofia ha contribuito alla conoscenza, in senso contenutistico, sempre meno; con il consolidarsi di discipline specializzate, alla filosofia (se intesa in modo "continentale", erede della metafisica) è rimasto, oggi, solo la strutturazione di e la riflessione su orizzonti di senso, non il consolidamento di paradigmi di conoscenza (per non sopravvalutare l'epistemologia, basta provare a fare esempi concreti sul suo apporto gnoseologico, sul piano contenutistico).
«Conosci te stesso» è sempre stato un «interpreta te stesso», infatti non è mai stata questione di medicina o ricerca genetica, ma di umanesimo e di poesia, ossia di dare un senso a ciò che si cerca e cercare un senso in ciò che ci è dato (la conoscenza "oggettiva" resta su un altro piano, sempre fino a prova contraria).

Come si sa, la storia la scrivono i vincitori. In questo caso: la scienza moderna.
Che si è accaparrata tutto l'ambito della verità, diciamo così. Seppure scienza e filosofia non possano essere in concorrenza.
Dunque ci vorrà ancora un po' di tempo per liberarsi da questa visione ideologica, difesa ancora strenuamente da una parte e dall'altra, sul versante scientifico da inconsapevoli neo-positivisti, sul versante filosofico da... quasi tutti.
#224
Citazione di: Phil il 29 Agosto 2024, 16:21:31 PMNel momento stesso in cui parli di «fenomeno», ti sei già imposto sull'oggetto, imponendogli la tua soggettiva umanità, le tue strutture categoriali (causalità, spazio, tempo, etc.), la tua sensorialità, la tua precomprensione, i tuoi strumenti tecnologici, la tua matematica, etc. Non può esistere uno sguardo neutro (né un manifestarsi neutro, v. il mitologico noumeno), non perché non sia "purificabile", ma proprio perché è sguardo (quindi attività condizionata in quanto umana, v. Husserl).
Fermo restando che, come anticipato, non tutti i modelli e i discorsi sono validi, ma solo quelli che ci rendono comprensibile il fenomeno individuato, anche nel suo ripresentarsi e nel suo declinarsi nelle sue varie manifestazioni (come nel tuo esempio delle cellule).

Ho scritto decine di post contro il realismo. Quindi su questo siamo perfettamente d'accordo.
Il problema però sta nella parola che usi per dar conto della validità di un modello che si afferma rispetto ad altri: la sua capacità di rendere comprensibile il fenomeno. Allora perché non usare addirittura il termine "interpretazione"? Il modello si afferma perché riesce a dare una lettura chiara del fenomeno?
Suvvia, è evidente che, sempre con i nostri strumenti umani e culturali, sempre in un orizzonte imprescindibilmente soggettivo, riusciamo a migliorare i nostri modelli esplicativi perché, grazie a osservazioni più precise e invasive, le configurazione dei nostri segni, di cui i modelli sono costituiti, riescono a rimandare con maggiore efficacia a ciò che c'è la fuori, e che possiamo indicare solo con un linguaggio ambiguamente realista come la struttura reale del fenomeno.
L'intera biochimica si basa su questo: sull'accuratezza della ricostruzione della forma tridimensionale delle macromolecole.
Ma intendiamoci: "forma tridimensionale di una proteina" presuppone già:
- una struttura percettiva specifica della razza umana (relativismo attinente la razza umana, la sua fisiologia):
- un linguaggio, un uso specifico di certi segni, un approccio scientifico alla cellula di tipo meccanicista (relativismo culturale in generale).
Quindi è chiaro che la maggiore precisione si fa strada nei limiti della relatività dello sguardo della razza umana e delle sue civiltà (relatività che non può mai essere trascesa). Questo farsi strada potrà in alcuni casi essere immaginato come migliore imitazione della cosa, in altri come un ingegnoso dar conto di essa tramite un sistema formale di segni che non imita alcunché, che non permette alcuna ingenua interpretazione realista, che tuttavia produce maggiore precisione nelle previsioni, quindi, forse addirittura casualmente, si è insinuato in qualche modo al cuore della cosa.
#225
Citazione di: bobmax il 29 Agosto 2024, 14:05:34 PMNon è l'ambiguità o la complessità a caratterizzare il logos umano, ma la sua estrema semplicità.

Beh, il tuo di logos sicuramente sì, visto che stai ripetendo le stesse cose da 2.874 post.

Citazione di: bobmax il 29 Agosto 2024, 14:05:34 PMEppure, vi è una verità certa.
Ed è l'etica.
Che è dentro di te. E emerge solo da te stesso.
Ma per rendertene conto mi sa che devi andare all'inferno.
Solo lì infatti Dio è certo.

A proposito di etica, mi chiedo se sia una cosa etica augurare ad un altro le sofferenze dell'Inferno nell'ipotesi che siano utili a incontrare Dio...