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Messaggi - davintro

#211
Tematiche Filosofiche / Re:Etica e neuroscienze.
28 Maggio 2019, 00:27:13 AM
per Jacopus


resta il fatto che le verifiche sperimentali tese a legittimare scientificamente la verità delle intuizioni o ragionamenti pre-empirici poggiano sui sensi (per quanto supportati dalla tecnologia degli strumenti di osservazione), e sono dunque vincolate alla convinzione della corrispondenza fra percezione sensibile e realtà oggettiva transfenomenica. So che il metodo scientifico non si limita all'osservazione sensibile, ma non è necessario che tale osservazione sia l'unica fase del metodo perché sia determinante per la sua validità. Quindi, se i nostri sensi fossero inadeguati a rispecchiare le cose stesse, sarebbe tutto il metodo a dover essere squalificato, nell'invalidarsi di una sua componente parziale, ma pur sempre indispensabile, in quanto funzionale al raccoglimento dei dati materiali su cui esso viene ad applicarsi, Per quanto riguarda l' "essere in grado di ricusare i suoi stessi principi, se ne trova di più validi", (ma forse in questo contesto, sarebbe meglio parlare di "risultati" che di "princìpi", dato che trovo illogico che un sapere sia capace di mettere in discussione i propri stessi principi, in quanto l'atto di messa in discussione dovrebbe pur sempre essere operato a partire dai presupposti stessi del tipo di sapere in questione, che a questo punto però dovrebbe accettarli come aprioristicamente validi, e quindi trovarsi impossibilitato a smentirli. La critica circa i principi di una certa scienza non potrebbe che essere effettuata a partire da una diversa tipologia di sapere utilizzante principi diversi. Si esce dalla contraddizione solo se a essere criticati fossero non i principi, ma i risultati, in questo caso una migliore applicazione dello stesso metodo, a partire dagli stessi fondamenti, che lo definiscono, può risultare un sensato automiglioramento, chiedo scusa per la pedanteria terminologica), direi che è soprattutto appannaggio della razionalità, quindi la questione a questo punto è: "scienza" coincide pienamente con "razionalità"? Penso dipenda dai paradigmi considerati, intesa la scienza in un'accezione classica, pregalileiana, allora la coincidenza tra scienza e razionalità sarebbe perfetta, perché in assenza della credenza nell'efficacia dei sensi, la scienza consisterebbe in una pura deduzione e speculazione logica, quindi capace di render conto dei passaggi logici delle dimostrazioni e di correggere gli eventuali errori argomentativi. Ma questo tipo di scienza comprende a tutti gli effetti la metafisica (e quindi il riferimento alla spiritualità...), mentre escluderebbe le scienze naturali, per come oggi le intendiamo alla luce del metodo sperimentale. In quest'ultimo ambito la coincidenza tra scienza e ragionamento invece salta, in quanto la logica si unisce all'empiria, e dunque la razionalità autocorrettiva, pur continuando a essere presente, diviene elemento parziale, "mescolato" all'esperienza sensibile, di per sé incapace di alcun tipo di messa in discussione, dato che per definizione, i sensi non riflettono su se stessi. Ricordiamo sempre che l'autocritica rientra nell'astrazione, nella facoltà del soggetto di staccarsi, astrarsi dal flusso dell'esperienza immediata del mondo per valutarlo da un punto di vista distinto, in cui considerare il proprio vissuto, e la propria sensibilità "dall'alto", oggettivandola, distinguendosi da essa. E se la distinzione dai sensi vuol dire assumere il punto di vista dello spirituale, dell' "astratto" se si vuole, e proprio questo elemento spirituale quello che consente alla scienza di essere razionale, riflessiva e autocritica
#212
Tematiche Filosofiche / Re:Etica e neuroscienze.
27 Maggio 2019, 21:43:36 PM
Citazione di: Carlo Pierini il 27 Maggio 2019, 17:41:26 PMDAVINTRO La fenomenologia ha il suo fondamento nell'epoche, cioè la messa tra parentesi di ogni presunzione di verità derivante dall'esperienza dei sensi CARLO La sospensione di giudizio può riguardare la verità sull'oggetto dell'esperienza, ma non sull'esistenza dell'oggetto percepito, qualunque cosa esso sia. E questo vale anche per l'esperienza spirituale: non posso fare affermazioni assolute sull'oggetto percepito, ma posso nondubitare di aver percepito un oggetto.


perfettamente d'accordo, l'attestazione di evidenza dei nostri atti soggettivi di coscienza, una volta "purificati" dalla pretesa di associarli a delle verità presuntemente oggettive riguardo il mondo oggettivo, rappresenta la base più solida possibile a partire da cui poi recuperare un livello di verità oggettive, nella misura in cui discendono necessariamente da quel livello di evidenza. Ed è a mio avviso anche ciò che rende la filosofia la scienza più rigorosa possibile, proprio alla luce di questa capacità di autocoscienza per cui l'Io riflettendo su se stesso parte perviene a una base al di fuori di ogni dubitabilità, la coscienza, proprio perché evidenziata al culmine della radicalizzazione del dubbio, al contrario delle scienze sperimentali, per le quali la corrispondenza delle percezioni sensibili soggettive con la realtà oggettiva non può che essere data per scontata, pena l'invalidazione del metodo sperimentale, e resta così un pregiudizio fideistico, che la concordanza intersoggettiva delle percezioni può al massimo confermare, ma non legittimare razionalmente
#213
Tematiche Filosofiche / Re:Etica e neuroscienze.
27 Maggio 2019, 01:46:40 AM
Citazione di: Carlo Pierini il 27 Maggio 2019, 01:10:29 AM
Citazione di: davintro il 27 Maggio 2019, 00:31:51 AM
Citazione di: Jacopus il 26 Maggio 2019, 23:00:11 PMAppoggio l'obiezione di Ipazia. Se ti interessa la dualità anima-corpo o scrivi nella sezione spiritualità, oppure sei in ritardo rispetto all'evoluzione della filosofia di almeno un secolo. I tuoi toni ed espressioni misticheggianti sono realmente fuori da ogni modello di discussione filosofica. Ti dirò come la penso. La mente è nel cervello. Non può esistere la mente senza il nostro raffinatissimo SNC ed altre amenità connesse, come lo sguardo stereoscopico, la postura eretta, la laringe. Ma non basta. La nostra mente è il prodotto del nostro essere sociale. E' nella nostra capacità di progettare il nostro futuro, di interrogarci sul mondo e sul rapporto fra noi e gli altri. La nostra mente si sviluppa anche in questo forum, molto banalmente. Il nostro cervello in questo non può essere confuso con un computer. Ci sono programmi che ci aiutano nella vita quotidiana, come la memoria procedurale, che meravigliosamente continua ad operare anche nei malati di demenza senile. La mente non è cervello ma non è pensabile senza cervello. Questo è il modello necessario per superare vetuste considerazioni sia nel senso di mente scissa dal cervello, sia di mente esclusivamente compresa nei neuroni. La mente nasce dalla cultura, dalla storia, dal processo di civilizzazione e dalla sua interazione con il nostro SNC. Se pensate che già quello che state leggendo sta modificando, vostro malgrado, la struttura del vostro cervello, immaginate quello che accade ed è accaduto nel corso dei millenni fra l'interazione SNC e nostro processo di civilizzazione. La mente non è altro che questo e non è poco, perchè non è altro che un cervello riflessivo, che supera sè stesso nella sua materialità ma superandosi crea un nuovo tipo di cervello, che è a sua volta un organo materiale fatto di neuroni e sinapsi. Il primo uomo che ha scritto un graffito in una roccia di Lascaux ha creato la mente ed ora dobbiamo farci i conti.
all'idea per cui qualunque posizione tenda a riconoscere l'autonomia della mente (o coscienza, i due concetti sono necessariamente sinonimi? Personalmente ho dubbi) dal cervello, o più in generale dalla realtà materiale, dovrebbe essere discussa in uno spazio dedicato alla spiritualità, e non alla filosofia, si potrebbe più validamente opporre l'idea per cui tesi basate sui risultati delle neuroscienze andrebbero discussi in uno spazio circoscritto alle scienze naturali, distinto dalla filosofia L'idea per cui in sede filosofica ogni discorso teso al riconoscimento dell'autonomia del piano metafisico e spirituale rispetto a quello materiale considerato dalle scienze sperimentali, dovrebbe essere assente, è frutto di una visione positivista per la quale in realtà la filosofia stessa non avrebbe alcuna ragion d'essere, in assenza di un proprio oggetto d'indagine distinto da quelle di cui si occupano le scienze naturali. In questa visione la negazione dell'autonomia della filosofia riguardo le altre scienze conduce anche alla sua morte: o si pensa che la filosofia sappia dirci sul reale qualcosa di diverso dagli altri saperi, e allora si dovrà necessariamente riconoscere l'esistenza di un livello di realtà ulteriore rispetto a quello materiale, e anche l'autonomia di una apposita metodologia adeguata a tale ulteriorità, che svincolerebbe il filosofo dal dover far coincidere i limiti della sua ricerca con quelli delle scienze naturali, dal dover evitare di parlare di "anima" o "spirito", oppure vincoliamo la filosofia alla prospettiva delle neuroscienze, e allora le neghiamo la possibilità di tematizzare oggetti che fuoriescono dal raggio d'azione di queste ultime, e in questo caso torniamo alla visione per cui la filosofia non ha un proprio peculiare oggetto di ricerca, e diviene ricerca insensata, perché non avrebbe nulla di particolare da dirci. Insomma condizione indispensabile per cui avrebbe senso fare filosofia è riconoscere la possibilità di una tematizzazione razionale della spiritualità, di ciò che è al di là dell'esperienza sensibile, implicante un modello di razionalità alternativo rispetto a quello poggiante sull'esperienza sensibile, correlata al livello materiale della realtà, un modello che non ha nulla di fideistico, mistico, o sentimentale, che si rifà alle speculazioni, del tutto razionali, della metafisica tradizionale, del metodo cartesiano, della fenomenologia husserliana, tutte impostazioni, dove non erano i sensi la base epistemica, ma la deduzione logica discendente dai principi di verità autoevidenti, e non per questo dovrebbero essere relegati all'ambito di un misticismo irrazionale. La fenomenologia ha il suo fondamento nell'epoche, cioè la messa tra parentesi di ogni presunzione di verità derivante dall'esperienza dei sensi, l'ambito in cui anche le neuroscienze rientrano, per evidenziare un punto di vista trascendentale, squisitamente filosofico, cioè la certezza della presenza dei vissuti coscienti nella loro essenza, rivendica l'idea di una filosofia del tutto libera di indagare il suo ambito con la propria specifica metodologia, dovremmo forse etichettare un rigoroso matematico come Husserl come un mistico spirituale, non filosofo? Personalmente l'idea che lo spazio della filosofia debba riservarsi a un approccio positivista per cui la filosofia trae i suoi presupposti di ricerca da altre scienze mi inquieta, perché la negazione della sua autonomia coincide con la negazione della sua ragion d'essere
CARLO Non esistono territori preclusi alla filosofia. Essa è chiamata a riflettere sull'intero scibile. Tutti i filosofi concordano su questo. Le ragioni per le quali mi si vuole sbolognare dal forum sono ben altre. Io, che sono stato un ateo-agnostico, le conosco molto bene. Se vuoi te le dico. Ma preferirei che me le dicessi tu, con sincerità, senza ricorrere a pretesti che non stanno né in cielo né in terra. Qualcun altro è interessato a sapere, o a dire, quali sono le ragioni del fastidio che procura la mia presenza?

per quanto mi riguarda, i miei non intendevano in alcun modo essere pretesti riguardo eventuali volontà di contestare la presenza di alcuno nel forum, personalmente considero prezioso ogni punto di vista, al di là di dissensi. Erano solo in funzione di rimarcare il mio pensiero riguardo la non riducibilità di un sapere non fondato sull'esperienza sensibile all'ambito di una "spiritualità" non indagabile razionalmente e filosoficamente, nulla di personale contro nessuno
#214
Tematiche Filosofiche / Re:Etica e neuroscienze.
27 Maggio 2019, 00:31:51 AM
Citazione di: Jacopus il 26 Maggio 2019, 23:00:11 PMAppoggio l'obiezione di Ipazia. Se ti interessa la dualità anima-corpo o scrivi nella sezione spiritualità, oppure sei in ritardo rispetto all'evoluzione della filosofia di almeno un secolo. I tuoi toni ed espressioni misticheggianti sono realmente fuori da ogni modello di discussione filosofica. Ti dirò come la penso. La mente è nel cervello. Non può esistere la mente senza il nostro raffinatissimo SNC ed altre amenità connesse, come lo sguardo stereoscopico, la postura eretta, la laringe. Ma non basta. La nostra mente è il prodotto del nostro essere sociale. E' nella nostra capacità di progettare il nostro futuro, di interrogarci sul mondo e sul rapporto fra noi e gli altri. La nostra mente si sviluppa anche in questo forum, molto banalmente. Il nostro cervello in questo non può essere confuso con un computer. Ci sono programmi che ci aiutano nella vita quotidiana, come la memoria procedurale, che meravigliosamente continua ad operare anche nei malati di demenza senile. La mente non è cervello ma non è pensabile senza cervello. Questo è il modello necessario per superare vetuste considerazioni sia nel senso di mente scissa dal cervello, sia di mente esclusivamente compresa nei neuroni. La mente nasce dalla cultura, dalla storia, dal processo di civilizzazione e dalla sua interazione con il nostro SNC. Se pensate che già quello che state leggendo sta modificando, vostro malgrado, la struttura del vostro cervello, immaginate quello che accade ed è accaduto nel corso dei millenni fra l'interazione SNC e nostro processo di civilizzazione. La mente non è altro che questo e non è poco, perchè non è altro che un cervello riflessivo, che supera sè stesso nella sua materialità ma superandosi crea un nuovo tipo di cervello, che è a sua volta un organo materiale fatto di neuroni e sinapsi. Il primo uomo che ha scritto un graffito in una roccia di Lascaux ha creato la mente ed ora dobbiamo farci i conti.

all'idea per cui qualunque posizione tenda a riconoscere l'autonomia della mente (o coscienza, i due concetti sono necessariamente sinonimi? Personalmente ho dubbi) dal cervello, o più in generale dalla realtà materiale, dovrebbe essere discussa in uno spazio dedicato alla spiritualità, e non alla filosofia, si potrebbe più validamente opporre l'idea per cui tesi basate sui risultati delle neuroscienze andrebbero discussi in uno spazio circoscritto alle scienze naturali, distinto dalla filosofia L'idea per cui in sede filosofica ogni discorso teso al riconoscimento dell'autonomia del piano metafisico e spirituale rispetto a quello materiale considerato dalle scienze sperimentali, dovrebbe essere assente, è frutto di una visione positivista per la quale in realtà la filosofia stessa non avrebbe alcuna ragion d'essere, in assenza di un proprio oggetto d'indagine distinto da quelle di cui si occupano le scienze naturali. In questa visione la negazione dell'autonomia della filosofia riguardo le altre scienze conduce anche alla sua morte: o si pensa che la filosofia sappia dirci sul reale qualcosa di diverso dagli altri saperi, e allora si dovrà necessariamente riconoscere l'esistenza di un livello di realtà ulteriore rispetto a quello materiale, e anche l'autonomia di una apposita metodologia adeguata a tale ulteriorità, che svincolerebbe il filosofo dal dover far coincidere i limiti della sua ricerca con quelli delle scienze naturali, dal dover evitare di parlare di "anima" o "spirito", oppure vincoliamo la filosofia alla prospettiva delle neuroscienze, e allora le neghiamo la possibilità di tematizzare oggetti che fuoriescono dal raggio d'azione di queste ultime, e in questo caso torniamo alla visione per cui la filosofia non ha un proprio peculiare oggetto di ricerca, e diviene ricerca insensata, perché non avrebbe nulla di particolare da dirci. Insomma condizione indispensabile per cui avrebbe senso fare filosofia è riconoscere la possibilità di una tematizzazione razionale della spiritualità, di ciò che è al di là dell'esperienza sensibile, implicante un modello di razionalità alternativo rispetto a quello poggiante sull'esperienza sensibile, correlata al livello materiale della realtà, un modello che non ha nulla di fideistico, mistico, o sentimentale, che si rifà alle speculazioni, del tutto razionali, della metafisica tradizionale, del metodo cartesiano, della fenomenologia husserliana, tutte impostazioni, dove non erano i sensi la base epistemica, ma la deduzione logica discendente dai principi di verità autoevidenti, e non per questo dovrebbero essere relegati all'ambito di un misticismo irrazionale. La fenomenologia ha il suo fondamento nell'epoche, cioè la messa tra parentesi di ogni presunzione di verità derivante dall'esperienza dei sensi, l'ambito in cui anche le neuroscienze rientrano, per evidenziare un punto di vista trascendentale, squisitamente filosofico, cioè la certezza della presenza dei vissuti coscienti nella loro essenza, rivendica l'idea di una filosofia del tutto libera di indagare il suo ambito con la propria specifica metodologia, dovremmo forse etichettare un rigoroso matematico come Husserl come un mistico spirituale, non filosofo? Personalmente l'idea che lo spazio della filosofia debba riservarsi a un approccio positivista per cui la filosofia trae i suoi presupposti di ricerca da altre scienze mi inquieta, perché la negazione della sua autonomia coincide con la negazione della sua ragion d'essere
#215
Percorsi ed Esperienze / Re:sulla noia
21 Maggio 2019, 18:33:13 PM
la noia la considero come un'incapacità di saper godere di una condizione psicologica di tranquillità e stabilità, dovuta all'immaginazione, a delle aspettative che non si realizzano nella situazione attuale. La noia è una condizione umana sempre presente sulla base della condizione antropologica universale caratterizzata da un'inconcludenza, un dinamismo per il quale in ogni momento la realtà che ci sta di fronte la percepiamo come superabile in rapporto a nuove prospettive, di fronte a cui la realtà attuale ci appare non più interessante, appunto noiosa. Quindi tutti noi, in misura diversa ci annoiamo. Però penso che alcune persone tendano a cadere in questo stato d'animo meno di altre, alcune persone hanno una sensibilità tale che riescono a trovare spunti di interesse in degli elementi del loro ambiente, su cui la maggior parte non presta attenzione, perché le reputerebbe banali. Ad esempio c'è un locale dove passo ogni tanto dove mentre aspetto  l'ordinazione del cibo, mi viene sempre di soffermarmi sulla perfetta regolarità di una serie di lampade ordinata in orizzontale il cui filo, partendo dalla prima a sinistra della serie per poi proseguire fino all'ultima, si allunga sempre della stessa misura. Forse è una cosa stupida, ma mi attrae perdermi nella regolarità di un ordine geometrico, ci trovo un fascino estetico che mi aiuta ad ingannare meglio l'attesa del cibo. In generale penso che chi ha una personalità introversa sia meno portato degli altri a cadere preda della noia, perché l'introversione conduce a "soggettivizzare" gli stimoli ambientali, rivestendoli più intensamente dei suoi pensieri, connettendoli ad essi, e rendendoli in questo modo interessanti in misura maggiore rispetto l'estroverso, che invece si limita a focalizzarsi sulla realtà oggettiva, in quanto tale, cioè sulle sue caratteristiche oggettive che possiede al di là delle nostre interpretazioni e quindi, forse, necessita di maggiori stimoli ambientali, ricercandoli con maggior frenesia, per trovare spunti di interesse. Al contrario l'introverso credo riesca a vincere la noia più facilmente, anche fermandosi l'attenzione su piccole cose, come la lunghezza dei fili di una serie di lampade, proprio perché il suo approccio alla percezione della realtà è soprattutto soggettivo e immaginativo, il focus  sulla sua vita interiore è protagonista, non necessita di un ambiente particolarmente ricco di stimoli esterni e "oggettivi", per trovare motivi di interesse
#216
 Carlo Pierini scrive:

"Avresti ragione se la Trascendenza parlasse all'uomo quotidianamente e gli dicesse quello che deve e non deve fare, come si fa con i bamboccioni incapaci. Ma ciò non accade MAI. Dio NON PARLA all'uomo, ma gli invia dei segni (simboli, miti, ideali, ecc.) enigmatici, per la comprensione dei quali deve conoscere, ampliare la propria coscienza, e maturare; cioè deve <<trarre da sé stesso le ragioni del suo stesso essere>>.
Nel mio caso, per esempio, per comprendere il significato di una visione della durata di due o tre secondi mi sono serviti trent'anni di riflessione e di studio. ...E ancora non ho finito...!  :-)"


intendevo la passività nel senso che i contenuti delle visioni non sono prodotti arbitrari della volontà dell'Io a cui si manifesta, e che impedisce a tali visioni di dover sottoporsi ad un'analisi fenomenologica che le tratti alla stessa stregua di fantasia liberamente e consapevolmente prodotte dal soggetto, in virtù di una qualitativa differenza di esperienza vissuta. Per il resto, non dubito che al momento della passività debba poi sempre aggiungersi un momento di attività dell'Io che interpreta e cerca di interiorizza in misura anche personale tali esperienze per  trarne materiale per un processo di formazione individuale.


"L'Ombra, per Jung, è il "luogo" interiore, il "cassetto segreto" nel quale l'uomo nasconde a sé stesso e agli altri il proprio "lato inferiore", cioè quei contenuti (non necessariamente "cattivi") che appaiono incompatibili (per ragioni educative, o morali, o altro) con l'ambiente culturale in cui vive. Dei contenuti, cioè, che pur appartenendo al soggetto, sono rimossi dalla consapevolezza, non sono integrati con la sua personalità e vanno quindi a formare un "complesso", cioè una sorta di personalità parassita che indebolisce e disturba la personalità "ufficiale" poiché si manifesta attraverso proiezioni sul prossimo, cioè, attraverso attribuzioni ad altri di sentimenti o qualità che invece appartengono all'Ombra del soggetto stesso (si veda anche il mio thread "La vendetta del Dio rimosso").
Pertanto, il cosiddetto processo di individuazione (cioè il cammino verso l'autorealizzazione) è possibile solo a partire da un serio confronto con l'Ombra attraverso una graduale presa di coscienza dei suoi contenuti scissi e da una loro reintegrazione con la personalità, fino all'estinzione delle proiezioni."



Mi pare che questo passo confermi l'interpretazione che avevo proposto nel mio precedente messaggio, anche se chiaramente il concetto è espresso in modo molto migliore e più preciso da chi Jung lo conosce ben più di me. "che appaiono incompatibili con l'ambiente culturale in cui vive", riferito ai contenuti dell'Ombra, cioè inconsci, sta appunto a significare come l'adattamento finalizzato all'integrazione sociale, meta dell'orientamento estroverso, sia ciò che motiva la rimozione di tali contenuti dalla coscienza, che così è chiamata a sviluppare al massimo le sue tendenze dominanti, al fine di potenziarle in vista di prestazioni esteriori sempre più efficaci di cui la società può beneficiare, mentre la formazione il più possibile equilibrata e completa dell'individualità, mirante al soggettivo benessere della persona al di là della sua funzionalità sociale, implicherebbe l'integrazione dell'inconscio, e delle facoltà inferiori, l'Ombra, verso cui si focalizza il lavoro interiore su se stessi, vale a dire l'orientamento introverso
#217
Tematiche Spirituali / Re:Religione e ragione
20 Maggio 2019, 00:13:01 AM
direi che la ragione si occupa della divinità entro i limiti nei quali la sua realtà appare necessaria nel risolvere questioni teoretiche destinate a restare insolubili fin tanto che si resta all'interno della causalità naturale. Questa delimitazione del campo di indagine coincide con la delimitazione della visione dell'oggetto in questione... quello che eventualmente la ragione fonda del divino costituisce un'immagine molto più ristretta delle rappresentazioni che Dio elaborano le religioni storiche, il Dio che la ragione ammette si attesta a quelle proprietà necessarie a garantirgli l'efficacia esplicativa nelle questioni per le quali si è ritenuto necessario argomentarne l'esistenza (Causa incausata, infinitezza del pensiero, onnipotenza della volontà...) tagliando fuori quelle proprietà non necessarie alla risoluzioni di tali questioni e di cui solo per fede avrebbe senso attribuirgli. Direi che nel punto di vista religioso, inteso come rappresentazione che esprime fede in una rivelazione mondana del divino, la concezione di Dio appare invece più antropomorfa, in quanto espressione e proiezione di aspettative sentimentali umane e storiche (l'esempio più lampante sono i miracoli) che vanno al di là degli attributi che invece alla ragione basterebbero per trattare il divino in relazione ai suoi problemi. Se si vuole, l'accezione religiosa del divino è più "concreta" e vitale di quella razionale, in quanto espressione di una complessità di esigenze umane non riducibili a quelle teoretiche a cui si ferma la razionale, ma al tempo stesso più soggettiva e incapace di legittimare la propria presunzione di verità in termini oggettivi. Ma non solo il Dio delle religioni presenta degli aspetti superflui rispetto all'ambito tematico nel quale la ragione si muove (fino a questo punto saremmo nel piano dell' "arazionale"), bensì accade anche come molti di questi aspetti siano in aperta contraddizione con quelli dell'accezione religiosa, quindi non solo arazionali, ma irrazionali. Ciò in quanto la rivelazione storica è sempre manifestazione allo sguardo umano, uno sguardo che non è puro spirito, perfettamente adeguato alla natura puramente spirituale e trascendente del Dio a cui la ragione metafisica può fermarsi, ma sguardo condizionato dalla sensibilità corporea, e dunque il Dio che si rivela necessariamente dovrà rinunciare al suo carattere di pura spiritualità per rendersi comprensibile a uomini incapaci di esperire lo spirito in forma pura, uomini che poi presumeranno di porsi come depositari e rappresentanti di questa verità rivelata (a meno di non considerare la datità sensibile come mero simbolo rinviante a un significato del tutto trascendente e spirituale, ma questo vorrebbe dire rinunciare alla reale presenza del divino nel contesto storico in cui si rivela, e incrinare l'autorità dottrinaria delle chiese che da questo contesto storico traggono la loro fondazione). E il Dio che si rivela come sensibile cade in contraddizione con quegli attributi (causa prima, infinità ecc.) che la ragione poteva riconoscergli e necessitanti della sua condizione di pura spiritualità impossibile da conciliarsi con l'assunzione di una natura materiale, tramite cui rivelarsi a menti umane, il caso più evidente è l'incarnazione cristiana che Paolo stessa ammetteva come "stoltezza" per i greci, nella consapevolezza di quel livello di contrapposizione tra il Dio dei filosofi e quello dei profeti ebraici, che poi citerà anche Pascal
#218
l'esperienza della trascendenza nell'immanenza si da a mio avviso nella passività di un Io che riceve visioni e sogni privo di volontà di rappresentarli, e ogni passività implica che l'evento che la riguarda abbia la sua causa in un principio attivo distinto, appunto trascendente, rispetto al ricevente passivo, vale a dire l'Io. Ciò rimanda alla finitezza ontologica dell'uomo, incapace di porsi come soggetto autonomo del suo esistere. Se l'uomo traesse in se stesso la ragion del suo essere avrebbe totale dominio sui propri pensieri, determinandone con pienezza i contenuti, e il fatto che tale passività sia riferita a contenuti psichici, il cui contenuto è riconducibile a un carattere spirituale e non sensibile, mostra come accanto alla trascendenza degli oggetti fisici esternamente situati rispetto al nostro corpo, che nel contatto con tali oggetti comunica percezioni che non scegliamo di vivere, esiste una trascendenza spirituale con cui l'Io è in contatto, e da cui trae passivamente l'esperienza di determinati vissuti. Come il fatto che non sia io a scegliere il contenuto delle mie percezioni testimonia la trascendenza di un mondo fisico che impatta con i miei campi percettivi corporei, così sogni o visioni testimoniano una trascendenza psichica su cui l'Io conscio non ha potere, o lo ha limitato, e dunque l'esistenza di una realtà spirituale transumana (chiarisco, per evitare accuse di confessionalismo/fideismo, non, almeno necessariamente, da identificare con i modelli teistici delle varie religioni rivelate e organizzate), la cui negazione sarebbe in contraddizione con l'idea di un Io che non riesce a porre la sua intenzionalità soggettività e attiva come ragion sufficiente di tali fenomeni. Per la psicologia tale trascendenza consiste nell'inconscio, una dimensione ancora immanente all'uomo, che appare sufficiente ai fini di tale punto di vista, prettamente clinici, mirante al ristabilimento di una salute, di un equilibrio antropologico, nel quale l'uomo supera l'unilateralità delle prerogative cosciente e acquisisce una maggior completezza personale integrando nella coscienza gli aspetti "in ombra" del proprio sé, quelle facoltà meno utilizzate che una volta reintegrate nella coscienza possono cessare di esprimere le loro istanze in modo patologico e disfunzionale. In quest'ottica si resta nella dialettica immanente all'uomo, conscio-inconscio come polarità da riequilibrare. Da un punto di vista più strettamente filosofico/metafisico dell'individuazione della fonte originaria di questa passività dell'esperienza interiore, penso che il concetto di inconscio come dimensione intraumana non sia sufficiente, emerge il problema di un essere umano incapace di produrre in modo autonomo tali contenuti e di conseguenze necessitante di riceverli da una realtà altra rispetto ad esso, e al contempo proporzionata ai contenuti dei fenomeni stessi. Una trascendenza, a questo punto direi non più immanente, ma "interiore", nel senso agostiniano del termine: una realtà riconoscibile nella misura in cui l'Io si distoglie dall'esperienza esteriore dei sensi e rivolge lo sguardo verso le proprie profondità. La trascendenza consiste nel fatto che tale riconoscimento non potrà mai mondanamente essere realizzato nella pienezza, dato che le esigenze pratiche conducono giocoforza l'Io a occuparsi del mondo circostante senza poter arrivare mai a coincidere del tutto con il luogo più profondo della propria persona, che così resta, con apparente paradosso, più intimo all'Io di quanto l'Io sia a se stesso, sempre in parte comprensibilmente deviato da stimoli esterni. Non a caso lo stesso Jung, se non sbaglio, in Tipi psicologici considerava l'introversione come orientamento psichico rivolto all'attenzione verso l'inconscio, contrapposto all'unilateralità della coscienza come caratterizzante l'atteggiamento estroverso, rivolto all'adattamento al contesto sociale oggettivo (difatti, sosteneva che la rimozione dell'ombra, delle funzioni inconsce fosse salutare per l'adattamento dell'individuo alle richieste della società, ma dannoso per la formazione e valorizzazione dell'individualità). In definitiva, direi, tra l'inconscio della psicanalisi junghiana e la trascendenza interiore della tradizione metafisica platonica-agostiniana, mi pare di trovare delle analogie e un certo legame di linearità teoretica, fermo restando che, in quando psicologo in Jung tali riferimenti metafisici vanno scovati "tra le righe" e senza troppe forzature, ma che comunque alcuni concetti siano importanti per connettere il discorso psicologico a quello filosofico
#219
Citazione di: odradek il 16 Maggio 2019, 20:38:26 PMCARLO Se vuoi parlare di "fatti" scientifici, cioè di entità fisiche misurabili, lascia perdere "la mistica", che non è oggetto di scienza. Almeno fin quando non sarà dimostrato che le esperienze religiose sono secrezioni di tessuti nervosi mi parli di visioni e poi dici a me di lasciar perdere la mistica che non è oggetto di scienza. Non è oggetto di scienza perchè non hanno mai messo in testa un elettroencefalogramma a Santa Teresa d' Avila quando comunicava con Dio (in termini che ognuno può leggere e darsene conto..); avessero potuto farlo sarebbe stato curioso quando lontano dalla "sanità" sarebbe stata, Lei e tutti i mistici, di cui la psichiatria ha già abbondantemente trattato. Le esperienze religiose non solo son secrezioni di tessuti nervosi, ma son pure malfunzionamenti delle secrezioni nervose. Dire che gli uomini han sempre dato fede al sopranaturale è come dire che le scimmie han paura dei serpenti, non giustifica nient'altro che una fede, un istinto (nel migliore dei casi, ma non è nemmeno un istinto è qualcosa di meno ancora) di cui, ognuno di noi ne fa quel che vuole, dialetticamente ontologicamente e qualunquemente uno possa pensarne. Dio, e le visioni di Dio e le sue rivelazioni sono problemi di chi li deve gestire (visioni e rivelazioni sopratutto) ma che su queste si possa imbastire una filosofia, o semplicemente un discorso ragionevole è grottesco.


quale sarebbe il criterio scientifico in base a cui una determinata condizione neurologica dovrebbe essere "benfunzionante" e quindi funzionale a garantire la veridicità delle sue esperienze in contrasto con un "malfunzionamento" della condizione mistica che porterebbe a errare e a mostrare cose che non ci sono? Le scienze naturali si basano sull'esperienza dei sensi corporei, ma quale criterio determinerebbe una maggiore oggettività di tale esperienza rispetto quelle tramite cui si ritiene di poter entrare a contatto con la spiritualità? Cioè quale criterio epistemologico garantirebbe che la percezione visiva e tattile del Pc fisico da cui sto scrivendo (stessa tipologia percettiva tramite cui le scienze naturali comprese le neuroscienze raccolgono dati) non sia un'allucinazione, mentre sarebbero tali quelle dei mistici? Il criterio di tal genere altro non potrebbe essere che quello di affermare che l'unica realtà possibile è quella fisica, adeguata ad essere appresa sensibilmente, mentre non esisterebbe nessuna realtà spirituale/metafisica. Peccato però che questa sia proprio la stessa tesi che il materialismo intende sostenere, per negare la verità delle esperienze spirituali, non solo mistica, ma anche metafisica razionale, e in questo modo si cada in un evidente circolo vizioso. Si squalifica l'esperienza spirituale sulla base dei risultati delle scienze poggianti su una diversa modalità di apprensione (sensibile anziché intelligibile), modalità che vengono presentate come le uniche adeguate a rispecchiare la realtà, affermando nella premessa metodologica la stessa tesi che si vuol sostenere, cioè un pregiudizio ontologico materialista. Questa la trovo una dogmatizzazione scientista. Se si intende razionalmente contestare la pretese di validità di un'esperienza spirituale bisognerebbe mostrarne dialetticamente le contraddizioni accettando in via metodologica le premesse, cioè ammettere in via almeno provvisoria la possibilità di tale esperienza e valutarne internamente i risultati. Invece, qui sta la dogmaticità dello scientismo, si parte dando già per scontato che ogni contenuto che fuoriesca dall'esperienza dei sensi sia falsa, ed in questo modo la critica resta del tutto estrinseca e pregiudiziale, la negazione della verità spirituale viene portata avanti utilizzando un metodo per definizione inadeguato a condurci a quel tipo di esperienza spirituale (lo spirituale, per definizione non è fisico, quindi è del tutto illogico valutarne la presenza sulla base di ciò che è adeguato solo all'apprensione del fisico), e questo metodo viene arbitrariamente concepito come l'unico possibile. Ma che titolo avrebbe l'esperienza sensibile ad affermare che tutto ciò che fuoriesce dal contenuto a cui essa è adeguata non potrebbe esistere, se tale esperienza è solo esperienza di enti individuali, senza alcuna pretesa di universalità?
#220
concordo con l'assunto per cui, una volta squalificata la possibilità di ammettere la verità di un'esperienza spirituale, come la mistica, si dovrebbe coerentemente squalificare anche la verità dell'esperienza sensibile, tramite cui percepiamo la presenza di oggetti fisici, e dunque la verità delle scienze naturali. Sia che si parli di spirito che di materia, l'apprensione degli oggetti è un'esperienza soggettiva, che solo un atto di fede potrebbe garantirne la corrispondenza con la realtà oggettiva, pensare che i sensi corporei debbano consistere in un canale privilegiato verso l'apprensione della realtà oggettiva riguardo una extracorporea è un pregiudizio materialista, che aprioristicamente pone la realtà materiale, correlata ai sensi come l'unica possibile, tesi che non è la conseguenza di un argomentazione, ma la premessa tramite cui l'esperienza spirituale viene vista come maggiormente inadeguata rispetto a quella fisica. E penso che questi pregiudizi condizionino la gnoseologia kantiana, portandola a ridurre il materiale della scienza a quello delle intuizioni sensibili, relegando quelle intellettuali al coglimento di vuote forme e schemi ordinatrici del materiale sensibile, cadendo così nella contraddizione di dover negare la qualifica di scienza alla sua critica stessa, che si riferisce alle condizioni trascendentali della conoscenza, quindi a quel materiale intelligibile a cui egli stesso nega l'applicabilità della scienza. In realtà l'atto di fede tramite cui considero le percezioni sensibili come manifestazione di una realtà oggettiva non ha nulla di meno dogmatico di quello tramite cui il mistico ritiene la propria visione manifestante tale realtà, in entrambi i casi non viene considerata l'ipotesi dell'allucinazione, che può colpire i sensi corporei nella stessa misura per i quali può colpire l'esperienza di realtà spirituali. Ma la razionalità filosofica, anche accettando l'ipotesi dell'esperienza soggettiva come proiezione arbitraria, può, deve, comunque prenderla in considerazione, sospendendo a livello metodologico (non negando) le sue pretese ingenue di corrispondenza con la realtà oggettiva, per focalizzarla nell'immanenza del suo darsi come vissuto cosciente (che se è dubitabile rispecchi la realtà extramentale, resta indubitabile nel suo fatto di averne un'esperienza in noi stessi che possiamo analizzare e coglierne le strutture essenziali). La visione mistica si presenta spesso alla coscienza come modalità di esperienza vissuta con una propria peculiarità che la differenzia dalle percezioni sensibili, non si tratta solo di un diversa gradazione quantitativa dell'esperienza sensibile, ma di un salto qualitativo, che porta il mistico ad avvertire al presenza di realtà spirituali, sovrasensibili. Il mistico non avverte il suo vissuto come un "vedere più intenso" un "sentire più intenso" riferito però alla stessa tipologia di esperienza del vedere e del sentire fisico, se così non fosse Giovanni della Croce non parlerebbe di un "notte", la notte dei sensi e delle facoltà mentali naturale, che vengono annullati per rendere l'anima vuota e disponibile ad accogliere le visioni divine, non è una sensibilità diversa, ma un salto qualitativo rispetto ad essa, una nuova tipologia di apprensione della realtà, non più, volendo usare un linguaggio kantiano, intuizione sensibile, ma intuizione intellettuale, adeguata al coglimento di fenomeni immateriali. Anche rigettando un realismo ingenuo, per il quale tutte le proprietà caratterizzanti la visione mistica soggettiva dovrebbero corrispondere alla realtà oggettiva, anche dubitando di tale corrispondenza, resta il dato indubitabile di una coscienza capace di atti qualitativamente distinti rispetto  a quelli adeguati all'apprensione di realtà materiale, quindi una coscienza che esperisce un contenuto che, essendo qualitativamente distinto da quello fisico (spirituale per definizione, non è una materia "meno materiale" del resto della materiale, ma negazione della materia), non potrebbe essere un raffinamento secondario e derivato dall'esperienza di realtà fisica, ma qualcosa che si riceve da una dimensione del tutto "altra" da quella fisica, senza tale ricezione sarebbe impossibile ogni esperienza di un'alterità rispetto al fisico, che senso avrebbe che una realtà fisica sia capace di produrre in noi l'esperienza di qualcosa di essenzialmente di diverso dal fisico, vorrebbe dire ammettere assurdamente nell'effetto qualcosa di non contenuto nella causa? La mistica resta pur sempre qualcosa di umano, quindi qualcosa nel quale l'esperienza oggettivo dello spirituale è costantemente mescolato a elementi storici arbitrari legati al particolare contesto culturale in cui il mistico come "uomo" vive, ma ciò non toglie un certo margine di autonomia dell'esperienza mistica, nella sua essenza rispetto alla storicità, ricordo un pensiero di Simone Weil (che ho appreso citato da Marco Vannini, il principale studioso italiano di mistica) per cui se le religioni dividono e differiscono, la mistica unisce, e le varie mistiche, nelle varie tradizioni, si assomigliano tutte, fino a sfiorare l'identità, e questo sarebbe un ulteriore segno della presenza di un "nocciolo transculturale", per il quale una spirituale realtà oggettiva, al di fuori delle varie interpretazioni viene a manifestarsi in certe anime
#221
Tematiche Filosofiche / Re:L'immagine della realta'
14 Maggio 2019, 22:20:22 PM
uno specchio non sarebbe capace di riconoscersi in quanto tale, cioè come capovolgente o deformante l'autentica rappresentazione della realtà. Invece noi abbiamo la possibilità, costantemente attualizzata, di riconoscere questa deformazione, renderci conto della componente di arbitrarietà presente in ogni rappresentazione, e riconoscendo la deformazione già solo per questo mostriamo di sapercene trarre fuori. Questo riconoscimento rientra a tutti gli effetti negli atti della coscienza, che così mostra  di comprendere in se stessa l'aspetto autocritico e autocorrettivo nei confronti delle sue imperfezioni nel rispecchiamento del reale. In questo senso trovo che la metafora dello specchio non sia adeguata alla coscienza, Lo specchio rimane tale, con la sua struttura che lo rende incapace di rispecchiare l'oggetto nella sua perfetta verità, la coscienza è dinamismo che sa mettersi in discussione, e può rendersi conto dei suoi errori in quanto li raffronta a un modello regolativo di verità, sulla base del quale valutare i suoi errori, cosicché, concordando con Carlo Pierini, anche il riconoscimento stesso delle imperfezioni e dei limiti della conoscenza umana implica, per non cadere in un'insensatezza autocontraddittoria, l'affermazione del giudizio di verità del riconoscimento stesso, e dunque pur sempre un certo canale di comunicazione tra coscienza e mondo oggettivo. Più che di "specchio", parlerei della coscienza come "lenti", come una lenti di un occhiale che sono tanto più imperfette nella funzione di farci vedere le cose come sono, tanto più si sporcano di polvere di pregiudizi, condizionamenti sentimentali, dogmatismi dati per scontati. Impurità che sarà sempre presente, anche nell'istante  immediatamente successivo a quando dopo la pulizia le si inforcano, perché fin da subito a contatto con agenti atmosferici inquinanti, che però possiamo minimizzare pulendole, utilizzando la razionalità e il senso critico, che togliendo lo sporco dei pregiudizi, renda possibile alle cose stesse manifestarsi nella loro oggettività a una sguardo il più possibile aperto e con meno filtri deformanti possibili
#222
per Phil

la possibilità di dimenticare il concetto di "penna" dopo averlo formato non toglie in nulla il carattere di universalità. A prescindere dal fatto di dimenticarlo o ricordarlo, resta comunque un concetto che poniamo come valente per tutte le penne possibili in ogni circostanza, dunque come universale. Anche quando provvisoriamente dimenticata, l'idea di penna resta nel fondo della mia coscienza come idea vigente per ogni penna possibile immaginabile, dunque sempre universale, e in questa latenza profonda non c'è nulla di fideistico e infalsificabile: la sua realtà è dimostrata a posteriori nel momento in cui, una volta che quell'idea mi torna in mente, non mi torna come fosse la prima volta, ma come concetto già "riempito" di un significato posto come universalmente valido, se l'idea dell'universalità fosse andata persa, nel momento del "richiamo" dovremmo concepire l'esperienza dell'oggetto come ancora del tutto individuale, senza averne un concetto, senza cioè attribuirle un senso universale, trascendente il modo in cui si presenta all'esperienza del richiamo circoscritta spazio temporalmente. Questo mostra come la coscienza non sia riducibile ai contenuti verso cui rivolgiamo la nostra attenzione in un determinato momento. Anche quando un contenuto non è oggetto della mia attenzione, resta comunque presente a dei livelli profondi, più difficili da "illuminarsi" sulla base degli atti di un Io, che deve per motivi pratico-esistenziali, badare al rapporto con gli stimoli del mondo esterno, senza poter realizzare una piena introspezione. E questo riconoscimento, come mostrato sopra, è razionale a posteriori, in quanto si può per via dialettica mostrare l'assurdo in cui incapperebbe la sua negazione (appunto, pretendere di trattare un'idea ricordata dopo una fase di oblio come fosse esperita la prima volta, senza riconoscere che il carattere di universalità costituente il significato resta intatto, comunque non si era mai davvero perso). La trascendenza dei pensieri adeguati alle possibilità della coscienza rispetto agli atti tramite cui, tramite stimoli sensibili, li sottoponiamo ad attenzione, rende ragione dell'autonomia, tornando al discorso di partenza, della questione metafisica sulle condizioni di adeguazione del pensiero umano nella pensabilità, anche solo potenziale, delle categorie che attribuiamo a Dio, e quello dei modi in base a cui l'uomo ha cominciato a esplicitare tali categorie, oggettivandole e tematizzandole in determinati momenti della storia. L'errore nel confondere il campo dell'attenzione cosciente con quello della coscienza nel complesso dei suoi livelli psichici, non solo quelli superficiali, penso stia dietro anche all'idea di vedere le parole del linguaggio come producenti i corrispondenti significati intelligibili. Le parole "richiamano" delle idee provvisoriamente dimenticate, ma possono farlo solo in quanto di quelle idee il significato è già stato inteso e compreso come corrispondente a un ente, al di là del segno sensibile tramite cui il significato viene comunicato. Le parole, i segni sensibili, privati dell'associazione con un significato intelligibile (nei concetti "astratti" l'intelligibilità è sia nella forma universale che nel contenuto intenzionato, in quelli riferite a oggetti fisici, non nel contenuto, ma pur sempre nella forma) non avrebbero alcun senso, mentre il significato, cioè ciò a cui si intende nel pronunciare una certa parola, resterebbe tale, anche una volta che convenzionalmente decidessimo di non utilizzare più le parole per comunicarlo. Il linguaggio non produce il pensiero, in quanto già nel momento in cui decidiamo di creare una parola per comunicare un'idea quell'idea dovrebbe per forza essere stata pensata, riconosciuta con un certo valore, tale da meritare ai nostri occhi l' "onore" di essere associata a un termine che consenta di comunicarne il significato ad altre persone. Il linguaggio non produce il pensiero, dunque ma tenta di rispecchiarlo in funzione comunicativa, pensare che lo produca sarebbe come pensare che un dipinto produca l'oggetto reale che cerca di rappresentare


Per Sgiombo


L'oggettività del significato non consiste in una presunta realtà trascendente rispetto alla mente pensante, non è necessario che l'albero verso cui si dirigono le rappresentazioni dei due individui nell'esempio esista davvero, anche ipotizzando sia solo immaginato, come fosse un ippogrifo, il suo significato resterebbe oggettivo nel senso che, al netto di varianti legate all'individualità soggettiva dei modi in cui viene immaginato, gli individui possono convenire del fatto di stare  immaginando la STESSA specie di oggetto. Anche solo immaginata, l'idea di albero è costituita da proprietà che accomuna tutti gli alberi, in questo senso è "oggettiva", ha un "nocciolo" essenziale, al di là dei differenti modi di immaginarlo, esattamente come nel momento in cui ciascuno di noi si immagina un ippogrifo, deve comunque attenersi a delle caratteristiche che definiscono l'ippogrifo in quanto tale. Non ci sarebbe la possibilità di definire le cose, se non ci riconoscessero delle caratteristiche comuni a degli enti, che ne costituiscono l'essenza invariante, oggettiva, al di là di alcuni aspetti accidentali legati alla soggettività di chi li pensa. E qui nasce l'equivoco nominalista: confondere le definizioni come prove a posteriori dell'esistenza delle proprietà comuni, con l'idea che il complesso di tali proprietà, l'essenza coincida con la definizione, riducendo l'idea a flatus voci, e dunque a mera convenzione terminologica. La confusione nasce dal non considerare che un conto è il percorso dimostrativo tramite cui le definizioni servono come prova per dimostrare la presenza nella nostra mente di idee universali, un altro pretendere sul piano ontologico di dire che tali idee non sono altro che definizioni, e che una volta deciso di eliminare queste, anche quelle sarebbero private di un loro senso oggettivo. In sintesi, le definizioni dimostrano le essenze nel senso che le presuppongono, ma le essenze non sono definizioni. Anche il giorno in cui decidessimo di eliminare dai vocabolari termini, sia applicabili a realtà esistenti come gli alberi che fantastiche come gli ippogrifi (o anche nel caso tali termini non fossero mai stati storicamente stabiliti) non per questo la sensatezza oggettiva delle motivazioni tramite cui i termini sono effettivamente stati creati, cioè le qualità comuni a tutti gli alberi o a tutti gli ippogrifi, verrebbero cancellate, al contrario esse manterrebbero una pensabilità, cioè un senso, che così mostrerebbe di essere preesistente rispetto all'arbitrarietà delle nostre soggettive scelte linguistiche
#223
Citazione di: odradek il 08 Maggio 2019, 19:23:49 PMa Davintro, citazione: un'unità semplice e primitiva che richiede una realtà ad essa corrispondente responsabile della sua presenza tra le potenzialità del nostro pensiero. Quindi, esiste una unità semplice e primitiva (interna alla mente umana) che richiede una realtà ad essa corrispondente e questa realtà diventa responsabile della presenza di questa potenzialità del nostro pensiero. L'unità semplice e primitiva (idea del trascendente) richiede una realtà (se no non esisterebbe l'idea primitiva) immanente che giustifichi l'idea trascendente. A me sembra che tu specchi la trascendenza nell'immanenza, non riesco a giustificare questo passaggio che mi sembra abbia un qualche carattere circolare. L'unità semplice e primitiva potrebbe anche essere costituita dalla "meraviglia", lo "stupore" nei confronti di ciò che non conosciamo. Il primitivo la sperimenta come "potenza", e la constata attraverso impressioni empiriche; "potenza" che caratterizza le manifestazioni naturali -tuoni, terremoti, apparizioni, fuoco, fulmini, sogno, un unico albero sulla cima di un monte, un monte che assomigli ad un volto, insomma, una potenza che si manifesta nella natura ed anche nell'uomo, nel quale la "potenza" è in grado a volte di manifestarsi. Gli oggetti investiti da questa "potenza" diventano quindi sacri. Il pensiero teorico man mano inquadrando gli avvenimenti in un ordine universale (la natura e le sue leggi) ha eliminato ogni "potenza" dal mondo sensibile e quindi non riesco a vedere come la realtà debba necessariamente render conto di una idea di Dio. citazione: il mio discorso riguarda le condizioni della sua pensabilità da parte dell'uomo come predisposto a pensarla, indipendentemente dal fatto che in un certo momento tale pensabilità sia attuata effettivamente. Non riesco a capire cosa consistano le condizioni della sua pensabilità; io non vedo nessuna condizione per pensare l'esistenza di Dio, tutto funziona "perfettamente" senza presupporre la sua esistenza, ha funzionato prima della comparsa dei vertebrati e continuerà sino all' autocombustione (o qualsiasi cosa gli capiterà) del sole. Le "condizioni della sua pensabilità da parte dell'uomo come predisposto a pensarla", mi sembra un altro ragionamento circolare, come quello riferito alla unità semplice e primitiva. citazione : Confondere i due piani, quello dell'effettivo pensare un'idea, e quello delle condizioni di potenzialità della pensabilità del significato Non riesco a capire cosa siano le "condizioni di potenzialità della pensabilità del significato". Una potenzialità pensabile del significato non riesco a capire cosa intendi. citazione: significato oggettivo di un'idea con i soggettivi atti psicologici tramite cui esso viene storicamente pensato da un pensiero, E da dove viene questo significato oggettivo di una idea? Chi stabilisce che sia oggettivo ? A me sembra si ritorni al platonismo. A "Significato oggettivo di una idea" non riesco a dar senso. citazione: soggettivi atti psicologici tramite cui esso viene storicamente pensato da un pensiero, ma i soggettivi atti psicologici siamo noi, i soggettivi atti psicologici sono la nostra vita la nostra esistenza e la nostra realtà; presuppore altro significa appunto presuppore qualcosa di altro da noi, ovvero Dio. Troppo lungo, a poi.

non vedo un circolo vizioso nelle mie argomentazioni,  in quanto le conclusioni non sono contenute nelle premesse. La premessa del mio discorso è un dato da tutti riconoscibile, l'idea di Dio di cui anche un ateo deve per forza riconoscerne la presenza per poterne negare l'associazione con un'esistenza. Le differenti conclusioni discendono dal modo in cui tale presenza viene presa in considerazione e analizzata, quindi eventualmente si può discutere sul rigore logico di certi passaggi, ma non parlerei di "circolarità"

Ciò verso cui proviamo meraviglia e stupore implica una componente di ignoto che ci atterrisce e ci colpisce emotivamente (l'accezione romantica del "sublime") a cui però è pur sempre mescolata una componente che invece conosciamo e che si manifesta in noi come fenomeno, senza la quale, ci sarebbe una totale assenza dell'esperienza dell'oggetto che ci procura tali stati d'animo, e di conseguenza, come ovvio, l'assenza di questi ultimi anni. Quindi l'oggetto della meraviglia e dello stupore mi pare presupponga sempre la sua pensabilità (seppur parziale), che essendone presupposto, non può essere spiegata da essi. Il fatto poi che Dio possa essere avvertito come espresso da fenomeni sensibili non toglie che in questo caso l'evento sensibile venga sempre visto come manifestazione di qualcosa di immateriale, colto dunque non nell'esperienza sensibile, ma, "agostinianamente", in quella interiore. In questo senso i progressi conoscitivi delle scienze fondate sull'esperienza sensibile possono individuare sempre più anelli della catena che congiungono la Causa prima spirituale alle cause intermedie di ordine materiale oggetto delle scienze naturali, ma senza poter  mai arrivare a negare la necessità della Causa prima, in quanto al di fuori dei limiti epistemici del loro metodo. Il salto qualitativo tra intelligibile e sensibile non può essere colmato sulla base dei quantitativi progressi nell'ambito sensibile

i significati sono oggettivi, nel senso che costituiscono l'essenza delle cose a cui sono riferiti, indipendente dalle componenti particolari e accidentali delle nostre interpretazioni su di esse. In questo senso, il significato di un'idea non si risolve nell'arbitrio degli atti soggettivi in cui la pensiamo. Se due persone di fronte a un albero pensano due distinte rappresentazioni mentali dell'albero, non per questo ciò che intendiamo con "albero" perderebbe la sua unità qualitativa, duplicandosi in base ai due pensieri dei due individui che lo pensano, e questo proprio in virtù dell'oggettività del significato (ma forse sarebbe meglio parlare di "senso") autonoma dalla soggettività degli atti psicologici. La molteplicità di tali atti determinano la molteplicità quantitativa dei pensieri dell'albero, ma dal punto qualitativo tali pensieri sarebbero riferiti alla stessa idea dell'albero. Il fatto che nelle rappresentazioni individuali lo stesso albero sarebbe compreso accanto a elementi legati al vissuto soggettivo delle menti individuali non preclude ad un'analisi fenomenologica di poter isolare concettualmente un nucleo di senso identico consistente nello stesso albero verso cui le rappresentazioni sono rivolte. L'oggettività del significato è data dalla natura rappresentativa e non creativa del pensiero: pensando un oggetto non lo creo, ma lo riconosco come idea avente un senso logico che resta tale indipendentemente dal fatto che il mio modestissimo e accidentale pensiero empirico lo sottoponga alla sua empirica attenzione,  e il fatto che ogni significato in quanto tale resti nella sua essenza lo stesso al di là dell'esistenza effettiva che in determinato spazio-tempo lo pensano, mostra come, tornando al nostro caso, il significato generale dell'idea di Dio, con le relative questioni riguardo la sua pensabilità potenziale nella mente umana, sia altra cosa dalle rappresentazioni storiche in cui in particolari contesti empirici l'uomo effettivamente ne ha formato una rappresentazione. Il primo piano riguarda la metafisica, il secondo l'antropologia empirica, e non possono risolversi l'uno nell'altro, ma restano questioni distinte, da risolversi in metodologie distinte
#224
Citazione di: Phil il 08 Maggio 2019, 01:07:42 AMContinuo con le domande e i contro-esempi perché ancora non riesco a capire esattamente (dal punto di vista logico).
Citazione di: davintro il 07 Maggio 2019, 23:32:10 PMuna nozione, che significando un contenuto immateriale, non può essere pensato come un'insieme di spazi di cui l'immaginazione ne inventa l'unificazione, ma come un'unità semplice e primitiva che richiede una realtà ad essa corrispondente responsabile della sua presenza tra le potenzialità del nostro pensiero. Questa richiesta è un'esigenza della nostra razionalità, non ci trovo nulla di infalsificabile
Qual'è la ragione di tale «esigenza»? Ovvero, se così non fosse, se non ci fosse una «unità semplice e primitiva che richiede una realtà ad essa corrispondente responsabile della sua presenza tra le potenzialità del nostro pensiero»(cit.), ma tale presenza fosse generata in modo endogeno (come intuizioni, colpi di genio, fobie, etc.), dove sarebbe il crollo della razionalità? La razionalità richiede di identificare un'identità logica (a=a); che a ciò corrisponda qualcosa di esistente o meno è irrilevante per la logica. Posso infatti postulare l'idea di un fantasma invisibile (esempio banale, ma l'ora è tarda e la fantasia latita) come idea non commensurabile ai miei sensi né alla mia esperienza, ma ciò non "esige" razionalmente l'esistenza reale del fantasma, solo perché "se non esistesse, non sarei stato in grado di immaginarlo". Giusto?
Citazione di: davintro il 07 Maggio 2019, 23:32:10 PMQuesta richiesta è un'esigenza della nostra razionalità, non ci trovo nulla di infalsificabile
Il suo contenuto non è forse infalsificabile? Ad esempio
Citazione di: davintro il 07 Maggio 2019, 23:32:10 PMun ente per definizione spirituale, immateriale, irriducibile all'essere un insieme di parti spaziali da unire tramite l'immaginazione.
L'esistenza di un tale ente è infalsificabile? Se è razionalmente (o in altro modo) falsificabile, come?
Citazione di: davintro il 07 Maggio 2019, 23:32:10 PMchi intende falsificare tale esigenza è libero di argomentare riguardo la riconduzione della modalità di formazione delle idee di enti immateriali alla stessa di quelli materiali
Come dicevo nel post, credo che il processo di astrazione sia sufficiente: ogni idea di un ente immateriale (dio, anima, fantasmi, etc.) nasce astraendo caratteristiche del reale e poi alterandole o pensandone l'opposto; la stessa idea di im-materiale, nasce così (negando astrattamente il materiale), no?
Citazione di: davintro il 07 Maggio 2019, 23:32:10 PMFar coincidere il piano della pensabilità potenziale con quello delle attualizzazioni del pensiero porterebbe a concepire assurdità come pensare che la potenzialità per il pensiero umano di apprendere la matematica si originerebbe nel momento in cui effettivamente il bambino impara a contare a scuola, e allora, una volta negato ogni innatismo della predisposizione, facendo coincidere quest'ultima con la sua esplicita attualizzazione dell'idea, dovremmo arrivare a sostenere che qualunque essere, anche un cane o una pianta, potrebbero con la stessa facilità imparare a contare, proprio perché le differenze ontologiche, essenziali di predisposizione non avrebbero più alcuna autonomia rispetto al momento in cui si passa dalla predisposizione all'attuazione del pensiero.
La predisposizione alla matematica è il pensiero astratto (anche altri animali hanno pensiero astratto; ce ne sono infatti alcuni che sembra siano stati addestrati a contare, ma non è questo il punto). Al contrario: un cane e una pianta non contano, eppure, stando alla tua prospettiva, potremmo davvero dire che hanno comunque la predisposizione a farlo, pur non avendola ancora attualizzata (poiché, come suggerisci, non dobbiamo «far coincidere il piano della pensabilità potenziale con quello delle attualizzazioni del pensiero»)? Possiamo dimostrare che non abbiano tale predisposizione e che fra qualche eone non inizino a contare? Ancora: se usiamo idee indimostrabili, tutto è possibile; tuttavia il possibile non è il reale (per quanto astratto) che non è l'esistente (fino a prova contraria).
Citazione di: davintro il 07 Maggio 2019, 23:32:10 PMIn realtà, così come la mente umana è predisposta a contare indipendentemente dal fatto di ricevere quegli stimoli che portano a tematizzare esplicitamente tale facoltà, così l'idea di Dio è eternamente presente tra le potenzialità del pensiero umano
L'«eternamente presente» è un'altro fattore infalsificabile (che "giustifica" chi non crede in un dio come chi non ha ancora "attivato" quell'idea; come chi potrebbe imparare la matematica, ma non l'ha ancora dimostrato; sia esso uomo o cane. Non so se l'epigenetica concordi con tale "rigidità cognitiva"... ma è altro argomento e non ne sono affatto esperto). Secondo me, le potenzialità del pensiero umano (quindi anche pensare a fantasmi o uomini invisibili ed immortali) non rispecchiano sempre la potenzialità effettive del reale (uomini immortali e invisibili non sono geneticamente possibili) e nemmeno l'esistenza dei contenuti delle idee pensate (non ci sono i fantasmi... ma sempre fino a prova contraria, semmai si possa averla... altrimenti tocca "scommettere").

intuizioni, colpi di genio ecc. non sono atti capaci di produrre ex novo delle idee, si limitano a consentire a una mente di rivolgere attenzione a dei contenuti il cui significato già precedentemente a tali atti, rientrava nella pensabilità potenziale di tale mente. Le intuizioni, essendo atti sintetici, ricevono nozioni, non le producono, non sono atti creativi, ma constatativi. La questione delle condizioni di tale pensabilità potenziale è altra rispetto a quelle dei modi in cui le idee divengono oggetti della nostra attenzione in un determinato momento, cioè passano da una implicita latenza a un'esplicita tematizzazione. Il passaggio metafisico è richiesto dalla prima, non dalla seconda. La pensabilità potenziale di un'idea presuppone pur sempre un'adeguazione, una corrispondenza tra pensiero soggettivo e significato oggettivo dell'idea in questione. Se categorie, come eternità, perfezione, infinito, universale, quelle con cui comunemente definiamo Dio, fossero pienamente adeguati alla mente umana che le utilizza, senza alcuna necessità di concepire l'esperienza di una realtà trascendente da cui far derivare la loro pensabilità, allora la mente umana dovrebbe essere a sua volta, eterna, infinita ecc., ma la finitezza ontologica dell'uomo, nonché di ogni entità fisica di cui avere un'esperienza mondana, fa sì che tali idee derivino la loro pensabilità dall'unica fonte, la cui realtà sarebbe adeguata ad esse. La mente umana, stante i suoi limiti ontologici, non crea idee dal nulla, ma attende di formarle tramite l'esperienza di realtà adeguate al significato delle idee in questione. L'astrazione non può sostituire tali esperienze, perché il suo ruolo non consiste nell'apprensione di contenuti, ma in una loro elaborazione secondaria in cui un contenuto passa dall'essere visto come proprietà inscritta in un ente individuale che esperiamo "qui e ora", a una categoria dotata di un significato universale, valente per ogni possibile determinazione individuale. Quindi l'astrazione utilizza necessariamente la categoria di universalità, la utilizza ma non la apprende, non la apprende perché l'apprensione dei fenomeni spetta a delle intuizioni, che possono essere sensibili o intellettuali, le astrazioni portano a considerarli in modo diverso, non come individuali ma come universali, ma non sono esse a recepirli, quindi non sono esse responsabili delle condizioni della loro pensabilità. L'idea di universalità, correlata necessariamente a quelle di eternità o infinito è presupposto di ogni astrazione possibile, senza che sia questa a produrla, ed essendo immateriale il significato intenzionato, dunque semplice e indivisibile, dovrebbe essere appresa da un atto semplice e diretto, non attraverso una sintesi posticcia. Quindi far coincidere la formazione dell'idea di immaterialità con la composizione linguistica del concetto di "materialità" e un prefisso privativo vuol dire confondere il piano del pensiero (interiore rappresentazione di stati di cose oggettive), con quello del linguaggio (complesso di segni sensibili esteriori). Il significato di un'idea non coincide necessariamente con il segno sensibile che convenzionalmente utilizziamo per comunicarlo a qualcuno, è qualcosa che resta tale indipendentemente dalla scelta umana, culturale, di farla corrispondere con una parola, quindi la questione della formazione di quella è indipendente da quella della formazione delle parole atte a comunicarle. Posso utilizzare al posto di "immateriale", termini non composti, logicamente semplici, come "spirituale" o "intelligibile", senza che il significato non cambi, e anche volendo contestare tale sinonimia, nulla escluderebbe la sensatezza teorica della possibilità di immaginare un linguaggio nel quale il significato che noi attribuiamo al concetto di "immateriale" o "universale", è espresso con un termine non complesso, la cui formazione non sia riducibile a una sommatoria. Confondere il piano del pensiero con quello del linguaggio è un errore frutto di pregiudizi empiristi/materialisti, che escludono ogni margine di autonomia dell'intelligibile, il significato, i pensieri rispetto ai segni sensibili delle parole.


L'esempio dell'impossibilità presunta di piante e animali di saper contare voleva mostrare come ogni attualizzazione della facoltà è sempre relativa a delle potenzialità innatamente prestabilite, e la confusione tra la questione dell'attualizzazione con quella dei presupposti della potenzialità, avrebbe portato all'assurdo di pensare che ogni attualizzazione di qualsivoglia pensiero sarebbe possibile indipendentemente dalla preesistente natura del pensiero in questione, che dunque sia indifferente cercare di insegnare la matematica a un pensiero umano predisposto ad apprenderlo rispetto all'insegnarlo a un cane o a un albero. Quindi un conto è chiarire la cause che porterebbero un pensiero ad attualizzare in un certo momento una facoltà (tra cui certamente rientrerebbe l'insegnamento, l'ambiente culturale ecc.), un altro chiarire le cause che rendono quel pensiero almeno potenzialmente in grado di farlo, al di là del fatto di realizzarlo effettivamente. Che poi davvero un giorno si venisse a scoprire che anche una pianta può imparare a contare, questo non cambia nulla del senso del discorso, in ogni caso le cause che porterebbero a realizzare tale facoltà agirebbero su un piano diverso rispetto a quelle necessarie a determinarne la predisposizione, queste ultime sono eterne, in quanto inscritte nell'essenza del soggetto in questione. A me interessava chiarire la distinzione dei due piani del discorso.
#225
Non è la prova ontologica (di cui considero un punto debole argomentativo il carattere morale-assiologico della categoria di "grandezza", carattere che rende arbitraria la sua applicazione riguardo l'utilizzabilità come predicato di enti) la via tramite cui considero un passaggio deduttivo tra la presenza tra la pensabilità dell'idea di Dio e la sua esistenza, bensì tale pensabilità non come pensabilità in generale, ma come pensabilità di un ente per definizione spirituale, immateriale, irriducibile all'essere un insieme di parti spaziali da unire tramite l'immaginazione. Quindi paragonare l'idea di Dio a quella di un ippogrifo o a una teiera vuol dire non considerare la differenza qualitativa tra il modo di formarsi l'idea di un oggetto materiale, formarsi concepibile come sommatoria di parti spaziali, tramite la fantasia, e quello di una nozione, che significando un contenuto immateriale, non può essere pensato come un'insieme di spazi di cui l'immaginazione ne inventa l'unificazione, ma come un'unità semplice e primitiva che richiede una realtà ad essa corrispondente responsabile della sua presenza tra le potenzialità del nostro pensiero. Questa richiesta è un'esigenza della nostra razionalità, non ci trovo nulla di infalsificabile o fideistico, chi intende falsificare tale esigenza è libero di argomentare riguardo la riconduzione della modalità di formazione delle idee di enti immateriali alla stessa di quelli materiali, se ci riesce (riconduzione che io troverei assurda, ma resto disponibile a vagliare eventuali argomenti a riguardo e a valutare la loro forza persuasiva senza alcun dogmatismo).

La data di nascita dell'idea di Dio può riferirsi al suo divenire esplicito oggetto di attenzione da parte dell'essere umano in un certo momento della storia, ma il mio discorso, come precisato in precedenza, non riguarda l'origine dell'idea di Dio nel momento in cui diviene effettivamente pensata da un uomo, ma le condizioni della sua pensabilità da parte dell'uomo come predisposto a pensarla, indipendentemente dal fatto che in un certo momento tale pensabilità sia attuata effettivamente. Confondere i due piani, quello dell'effettivo pensare un'idea, e quello delle condizioni di potenzialità della pensabilità del significato è il classico errore dello psicologismo relativistico, che presume di far coincidere il significato oggettivo di un'idea con i soggettivi atti psicologici tramite cui esso viene storicamente pensato da un pensiero, arrivando all'assurdo di negare la verità oggettiva e universale dei princìpi logici sulla base della contingenza storica degli atti soggettivi tramite cui questi atti vengono pensati. La questione delle condizioni di pensabilità potenziale del significato dell'idea di Dio da parte dell'uomo è altra rispetto a quella, non filosofica, ma storica, dei modi in cui l'uomo ha effettivamente cominciato a pensare a Dio, e non si risolve in questa. Possiamo pensare a una data di nascita per quanto riguarda l'attualizzazione del pensiero di Dio, non rispetto alla sua pensabilità in generale, che, essendo inscritta nell'essenza del significato dell'idea in questione e nell'essenza del pensiero umano predisposto verso di esso, attiene a un piano trascendentale, sovratemporale, quello della relazione di adeguazione di un'idea alle possibilità, non necessariamente attuali, per un pensiero di riceverla. Far coincidere il piano della pensabilità potenziale con quello delle attualizzazioni del pensiero porterebbe a concepire assurdità come pensare che la potenzialità per il pensiero umano di apprendere la matematica si originerebbe nel momento in cui effettivamente il bambino impara a contare a scuola, e allora, una volta negato ogni innatismo della predisposizione, facendo coincidere quest'ultima con la sua esplicita attualizzazione dell'idea, dovremmo arrivare a sostenere che qualunque essere, anche un cane o una pianta, potrebbero con la stessa facilità imparare a contare, proprio perché le differenze ontologiche, essenziali di predisposizione non avrebbero più alcuna autonomia rispetto al momento in cui si passa dalla predisposizione all'attuazione del pensiero. In realtà, così come la mente umana è predisposta a contare indipendentemente dal fatto di ricevere quegli stimoli che portano a tematizzare esplicitamente tale facoltà, così l'idea di Dio è eternamente presente tra le potenzialità del pensiero umano, indipendentemente dall'individuazione di una data storica in cui l'uomo ha cominciato a tematizzare esplicitamente tale idea, e dunque il problema di rendere ragione di tale predisposizione non può essere risolto sulla base dell'individuazione storica stessa