Se ho ben capito: brama, odio e illusione sono radici del "male", o meglio, del nocivo, del non-vantaggioso, poichè comportano rinascita e, di conseguenza, sofferenza... e questa impostazione si basa sull'assioma che
Allargando la prospettiva alla dimensione sociale: la compassione è meritevole, propizia, "salutare per la liberazione" solo perchè giova a scongiurare suddetta rinascita? Purtroppo, ciò non è affatto sperimentabile, ed è qui che si pone il distacco radicale (e secondo me incolmabile) fra la saggezza pratica e "personale" del buddhismo (la cui logica di fondo è esperibile) e la moralità funzionale rivolta ai rapporti interpersonali (che resta fideisticamente fondata su un "premio", seppur non paradisiaco ma parimenti dogmatico: l'uscita dal ciclo delle rinascite).
Anche la morale buddhista, in fin dei conti come tutte le altre, sembra destinata a essere fondata su un'adesione acritica che ne accetta a priori i dogmi (della rinascita e della rispettiva estinzione), mentre l'"eudemonologia" buddhista mi sembra nettamente più illuminante... poi, ovviamente, in società "dobbiamo" pur sempre viverci, e la proposta dell'etica buddhista non è affatto inopportuna
Citazione di: Sariputra il 06 Novembre 2016, 23:11:13 PMIl "bene" è ciò che è salutare per la liberazione, il "male" è ciò che è "nocivo" per la stessa.Tuttavia, tale liberazione mi pare assunta come "bene" in modo (inevitabilmente?) dogmatico... ad esempio, se vivo nell'illusione (intesa come visione distorta e "ignorante"), ciò non implica che io non possa essere tendenzialmete felice e soddisfatto della mia vita (magari visuta in tutt'altro modo rispetto ai saggi consigli del buddhismo) e restarne compiaciuto fino alla morte. Eppure ciò viene inteso "buddhicamente" come "male", nocivo e non vantaggioso... per essere d'accordo con ciò che contraddice la tonalità piacevole della mia autovalutazione, dovrei compiere un "salto nella fede" (à la Kierkegaard) e fidarmi che in fondo il mio giudizio positivo su una vita vissuta nell'illusione (e magari con ampie dosi di brama e odio) sia sbagliato, alla luce di una paventata rinascita (che resta un meccanismo congetturato, oggetto, appunto, di fede...).
Allargando la prospettiva alla dimensione sociale: la compassione è meritevole, propizia, "salutare per la liberazione" solo perchè giova a scongiurare suddetta rinascita? Purtroppo, ciò non è affatto sperimentabile, ed è qui che si pone il distacco radicale (e secondo me incolmabile) fra la saggezza pratica e "personale" del buddhismo (la cui logica di fondo è esperibile) e la moralità funzionale rivolta ai rapporti interpersonali (che resta fideisticamente fondata su un "premio", seppur non paradisiaco ma parimenti dogmatico: l'uscita dal ciclo delle rinascite).
Citazione di: Sariputra il 06 Novembre 2016, 23:11:13 PMPrajna, sila ( moralità, virtù) e samadhi non sono atti separati e privi di un fine. Non vengono praticati solo per conformarsi alla tradizione o alla pressione sociale. Essi hanno un unico fine: preparare l'uomo alla conoscenza superiore. Conoscenza che una mente in preda alla brama, all'odio e all'illusione non può raggiungereNon vorrei sembrare irriverente, ma il rapporto fra etica e conoscenza mi sembra un po' ambiguo: come accennato in precedenza, la conoscenza a cui mi pare inviti il buddhismo (quattro nobili verità, anatman, anicca, etc.) non ha nulla di necessariamente etico, al punto che, se non erro, un eremita non sarebbe svantaggiato nel suo cammino verso tale conscenza, anzi...
Anche la morale buddhista, in fin dei conti come tutte le altre, sembra destinata a essere fondata su un'adesione acritica che ne accetta a priori i dogmi (della rinascita e della rispettiva estinzione), mentre l'"eudemonologia" buddhista mi sembra nettamente più illuminante... poi, ovviamente, in società "dobbiamo" pur sempre viverci, e la proposta dell'etica buddhista non è affatto inopportuna
