E' un tema a cui penso spesso, e mi sembra sempre più evidente che alla filosofia non solo manchi il senso della storia, ma che non sa nemmeno utilizzare i risultati che lei stessa ha ottenuto in questi secoli.
Da una parte la tradizione scientifica ha depositato la necessità della tecnica e dall'altra la tradizione metafisica ha depositato la tradizione della narrazione.
In una sola parola, seguendo i rigorosi ragionamenti di Sini, si tratta di narrare stando dentro a delle prassi.
Poichè il senso proviene dalle narrazioni, è stupido non rendimentarlo sotto forma di atto politico, ossia all'interno della gerarchia politica, chiamata da Schmitt teologia politica, e implementata poi da Agamben.
In entrambi i casi però la lotta è finita con la vittoria del potere liberale, ossia della suo classismo ideologico, che solo capito, ossia come prassi in atto, rende i fantasmi della prevaricazione, un altro tassello del suo Impero.
Le soluzioni nazionaliste o monacali dei primi 2 filosofi, o le utopie comuniste di Sgiombo, non possono attecchire se non all'interno del medesimo humus culturale (quello tecnico, quello delle prassi appunto descritto da Sini).
La necessità è da ricercare non nelle metastorire, in una letteratura filosofica danzereccia che riflette il suo passato, ma piuttosto in una ritrasformazion delle narrazioni che si adeguino attivamente e non meramente passivamente all'Impero dei Segni.
In questo senso anche la riflessione sull'impero segnico, ossia sui suoi segni, è solo una generale introduzione alle nostre capacità immaginative.
La produzione recente filosofica che sperimenta, ha il difetto gravissimo di non ricordare la questione della tecnica come Heidegger ci ha insegnato.
Fantasticare di utopie, non ha alcun senso se non ci si pone il problema degli oggetti su cui noi ci curviamo.
O riconosciamo questa necessità di adeguamento all'oggetto, o non potremo mai ripartire.
E' solo su queste premesse, che la domanda "dove è finita l'umanità", si deve interpretare, ossia come blocco, stasi, di fronte ad una fantastica isola felice, dove sarebbe esistita questa fantasmatica umanità pietista e rurale, che tanto sognava Pasolini.
Ma l'umanità così sognata, piuttosto che vissuta (e Pasolini ne racconterà i suoi tornaconti nelle 120 giornate di salò, film inguardabile, ma lucidamente teso al testamento che arriverà con il commento alle foto in scena, dove appunto la morte si fa fotografia) non ha alcuna parentela con l'umanità che si determina dalle "infinite" scelte dei singoli.
Come già detto l'ideologia si basa e anzi impera tramite l'uso delle paure umane.
Potrei finire con una frase grottesca: dove è finita l'umanità? essa è scappata a gambe levate! (ma anche questa sarebbe solo una fantasmatica, rimane solo da lavorare: lavorare, lavorare, lavorare! ossia pensare, pensare e ripensare!)
Da una parte la tradizione scientifica ha depositato la necessità della tecnica e dall'altra la tradizione metafisica ha depositato la tradizione della narrazione.
In una sola parola, seguendo i rigorosi ragionamenti di Sini, si tratta di narrare stando dentro a delle prassi.
Poichè il senso proviene dalle narrazioni, è stupido non rendimentarlo sotto forma di atto politico, ossia all'interno della gerarchia politica, chiamata da Schmitt teologia politica, e implementata poi da Agamben.
In entrambi i casi però la lotta è finita con la vittoria del potere liberale, ossia della suo classismo ideologico, che solo capito, ossia come prassi in atto, rende i fantasmi della prevaricazione, un altro tassello del suo Impero.
Le soluzioni nazionaliste o monacali dei primi 2 filosofi, o le utopie comuniste di Sgiombo, non possono attecchire se non all'interno del medesimo humus culturale (quello tecnico, quello delle prassi appunto descritto da Sini).
La necessità è da ricercare non nelle metastorire, in una letteratura filosofica danzereccia che riflette il suo passato, ma piuttosto in una ritrasformazion delle narrazioni che si adeguino attivamente e non meramente passivamente all'Impero dei Segni.
In questo senso anche la riflessione sull'impero segnico, ossia sui suoi segni, è solo una generale introduzione alle nostre capacità immaginative.
La produzione recente filosofica che sperimenta, ha il difetto gravissimo di non ricordare la questione della tecnica come Heidegger ci ha insegnato.
Fantasticare di utopie, non ha alcun senso se non ci si pone il problema degli oggetti su cui noi ci curviamo.
O riconosciamo questa necessità di adeguamento all'oggetto, o non potremo mai ripartire.
E' solo su queste premesse, che la domanda "dove è finita l'umanità", si deve interpretare, ossia come blocco, stasi, di fronte ad una fantastica isola felice, dove sarebbe esistita questa fantasmatica umanità pietista e rurale, che tanto sognava Pasolini.
Ma l'umanità così sognata, piuttosto che vissuta (e Pasolini ne racconterà i suoi tornaconti nelle 120 giornate di salò, film inguardabile, ma lucidamente teso al testamento che arriverà con il commento alle foto in scena, dove appunto la morte si fa fotografia) non ha alcuna parentela con l'umanità che si determina dalle "infinite" scelte dei singoli.
Come già detto l'ideologia si basa e anzi impera tramite l'uso delle paure umane.
Potrei finire con una frase grottesca: dove è finita l'umanità? essa è scappata a gambe levate! (ma anche questa sarebbe solo una fantasmatica, rimane solo da lavorare: lavorare, lavorare, lavorare! ossia pensare, pensare e ripensare!)

(scherzo)
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