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Messaggi - Phil

#2221
Citazione di: davintro il 23 Settembre 2016, 16:46:21 PMuna mera dinamica potenzialità innata-attualità concreta esterna che fà passare dalla potenza all'atto il processo mentale. Invece, come già provato a dire all'inizio della discussione, limitarsi ad ammettere una potenzialità equivale a non spiegare nulla. La potenzialità fintanto che resta tale è un mero non-essere, dunque impossibilitata ad intervenire concretamente, completando l'azione proveniente dall'esterno. Tutto ciò che è reale è attuale, dunque la predisposizione nei processi mentali, in quanto fatto reale e concreto, presuppone l'esistenza di un'attualità originaria e interiore che converge con la causalità esteriore per produrre l'applicabilità dei processi.
Da profano, credo che questa attualità in cui risiede "realmente" la potenzialità della matematica, del linguaggio e della conoscenza in generale, sia una attualità di tipo fisiologico (neurologico? genetico? ancora da scoprire?). Potrebbe essere un tipo di predisposizione biologica come quella che consente ai pipistrelli di utilizzare gli ultrasuoni senza che nessuno glielo insegni, o che consente ad altri animali di comportarsi in modo che per noi non è possibile... potremmo dire che se ogni specie ha i suoi "superpoteri potenziali", quello dell'uomo è ciò che viene chiamato ragione, quindi linguaggio, matematica e altre abilità cognitive...

Citazione di: davintro il 23 Settembre 2016, 16:46:21 PML'apprendimento dei numeri implica l'associazione tra il segno sensibile e il significato intelligibile, ma questa associzione non potrebbe aver luogo se uno dei due termini, il significato intelligibile, non fosse già presente nel bambino a prescindere dall'apprensione di contenuti sensibili esteriori (a meno di non ipotizzare una sorta di telepatia, di comunicazione mentale intersoggettiva senza mediazioni sensibili!)
Credo che i significati non debbano essere necessariamente innati, ma possano essere appresi; non a caso citavo la musica: la lettura/scrittura dello spartito musicale (con il suo linguaggio di note, pause, etc) può essere imparato senza che ci sia, secondo me, un "significato intelliggibile interiore" da risvegliare o "attualizzare"; semplicemente, si apprende un linguaggio dedicato alla produzione armonica di suoni, così come la matematica è un linguaggio dedicato alla quantificazione di rapporti e descrizioni... ovviamente, se possiamo apprenderli è perché abbiamo una predisposizione (biologica?) a quel tipo di attività (utilizzo di un linguaggio per interfacciarci con il mondo...). Forse il vero "superpotere" dell'uomo è proprio quello di poter apprendere, potenzialmente, tutte le molteplici produzioni dell'intelletto di chi lo ha preceduto...

Citazione di: davintro il 23 Settembre 2016, 16:46:21 PMPer quanto riguarda il nesso che Phil rilevava tra affermazione dell'innatismo e esigenza sociale e politica di identificare il modello intepretativo dell'uomo proveniente da una certa tradizione culturale, con una naturalità originaria ed unica possibile, direi, sempre che abbia compreso il senso dell'osservazione, che è una tesi valida e condivisibile. Al tempo stesso credo però si possa anche dire che le posizioni antiinnatistiche siano in un altro senso funzionali a livello ideologico. Penso a tutte le dottrine politiche totalitarie e rivoluzionarie intenzionate ad edificare modelli di società totalmente nuovi e rivoluzionari, la cui edificazione presupporebbe una netta trasformazione dell'uomo
Ammetto candidamente che mi riferivo alla sfera culturale in generale, non ho pensato al caso specifico della politica (a cui non penso mai!), ma condivido le osservazioni che hai saputo trarre: a seconda dei propri fini, un'ideaologia può parlare di "uomo nuovo" o di "uomo autentico", "uomo del futuro" o "uomo di una volta", etc....

Citazione di: Sariputra il 23 Settembre 2016, 21:31:03 PMMente e sensi sono inscindibili. E' il pensiero duale che li vede separati [...] Non c'è " qualcosa" che viene prima o dopo, è un unico processo
Concordo, prendendo in prestito la terminologia teologica direi che sensi e mente sono "distinti ma non separati" (salvo patologie): mentre si formano i sensi, si forma anche la cosiddetta mente, e viceversa, l'"influenza" è biunivoca... quello che si aggiunge, vissuto dopo vissuto, secondo me, sono tutti i concetti, con cui "dialogano" la mente e l'esperienza: la mente pre-condiziona come l'esperienza viene vissuta e l'esperienza vissuta modifica di riflesso come la mente vivrà la prossima esperienza (e anche l'apprendimento è un'esperienza, non solo quelle puramente percettive...).
#2222
Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PM
Citazione di: Phil il 21 Settembre 2016, 21:28:07 PMQuindi i numeri c'erano anche prima, ma non erano stati ancora usati? Domanda: come è possibile avere il concetto di numero ma non usarlo?
Basta non esserne consci.
Quindi i numeri sarebbero innati e inconsci? Praticamente si parla di un "platonismo 2.0" in cui l'iperuranio è sostituito dall'inconscio... congettura avvincente, ma mi pare piuttosto ardua (e non dico "indimostrabile"...).

Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PMMa non sto parlando del concetto di numero, sto parlando dei numeri che si traducono in concetti solo se ne diventiamo coscienti.
"I numeri si traducono in concetti" (cit.), nel senso che i numeri non sono solo concetti?
Ovvero: se non ne diventiamo coscienti, i numeri non si traducono in concetti, ma esistono lo stesso? Intendi nella mente degli altri, coloro a cui sono stati insegnati, oppure nell'iperuranio-inconscio del soggetto che non li ha ancora "scoperti"?

Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PMNon è che prima c'erano dei grugniti e dopo questi grugniti per progressiva convenzione sono diventati parole; l'uomo, anche se si esprime a segni o con balbettii, quei segni o balbettii sono già parole significanti. Ciò che si apprende non è il linguaggio (che nelle sue strutture grammaticali fondamentali è già dato a priori, come insegna Noam Chomsky) ma un'espressione significante tra le tante possibili che non è semplicemente inventata, ma culturalmente trasmessa (e trasmettendola i contesti culturali la modificano in continuazione nei rapporti con i significati). 
Non confonderei "lingua" e "linguaggio": il linguaggio è l'attuazione di una predisposizione innata (e neurologica) alla comunicazione; la lingua è un insieme convenzionale di segni e suoni finalizzato alla comunicazione; essendo convenzionale come può non essere stata inventata? 

Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PMInfatti nessuna lingua (naturale) è mai stata inventata.
La lingua italiana è sempre esistita? 
Ovviamente non è stata inventata in un giorno, dal nulla (come ogni altra invenzione), ma il processo è stato lungo e si è basato su ciò che c'era a disposizione (il latino, il greco, etc.) ma credo sia innegabile che le lingue parlate oggi siano convenzionali e non eterne (perciò non innate né inconsce...).

Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PMPhil, tu parti dal presupposto che i numeri si inventano e si inventano poiché a monte ci sta il presupposto che non può esserci nulla al di fuori della nostra esperienza, ma questo non esclude il presupposto opposto, ossia che i numeri solo si scoprono. 
Perdonami, ma direi che invece le due prospettive si escludono: o si inventa qualcosa o lo si scopre...
Il fatto che i numeri siano stati inventati non è per me un presupposto, ma una (opinabile) conclusione, basata su quel poco che so, che riesco a ragionare e che ho cercato di esplicitare... l'osservazione che "non può esserci nulla al di fuori della nostra esperienza", non la sento affatto mia (se non altro perché fuori dall'esperienza ci sono tutte le predisposizioni e le "impalcature concettuali" del soggetto...).

Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PMEntrambi non vi rendete conto invece della irriducibile complementarietà che c'è sempre tra segno e significato, che non ci sono significati puri originari e senza segni da cui nascono i segni o viceversa, ma che sono sempre in rapporto, fin dall'inizio dei tempi. 
Concorderai che i segni non esistono dall'"inizio dei tempi"... la scrittura è stata inventa, giusto? Dall'inizio dei tempi esiste semmai la voce (direbbe Derrida...).
Proprio per questo credo che, il progresso del linguaggio sia avvenuto
Citazione di: Phil il 21 Settembre 2016, 21:28:07 PMpassando da espressioni vocali inarticolate (primitive come la quantificazione "poco/tanto"), a forme più strutturate, come le parole (ed i numeri). Almeno credo che la storia della lingua sia questa, salvo sostenere che le lingue siano "innate" e attendono solo di essere scoperte ;)

Sui colori:
Citazione di: maral il 22 Settembre 2016, 22:59:04 PMPerché è quel colore che ci permette di vedere le cose colorate esattamente come è il vederle colorate che ci permette di esperire (e certamente non di inventare) quel colore. 
Non mischierei il piano dell'esperienza sensoriale con quello linguistico (forse è questo l'inghippo che evita l'accordo): io posso esperire un colore che non conosco, ma non essere in grado di nominarlo (perché non ho una parola-concetto corrispondente...); nel momento in cui mi si insegna il suo nome, oppure me l'invento, creo un'identità linguistica-concettuale di quel colore che lo rende nominabile e riconoscibile anche in sua assenza... è lo stesso con i numeri: se vedo un cane con un altro cane, li so quantificare ("più di un cane", "meno di un branco"), ma solo nel momento in cui mi viene insegnato che quella quantità è "due", inizia ad esistere per me il numero "due" (che posso applicare ad altri enti). E questo insegnamento presuppone che un giorno qualcuno (ripeto, uso il singolare per semplicità) abbia deciso che quella quantità era segno "2" e suono "due"... come ha fatto? Nello stesso modo con cui un giorno qualcuno ha inventato (non scoperto) i concetti di radici, tronco, rami, foglie... non è che prima gli alberi non esistessero, o non si distinguesse la foglia caduta dal resto dell'albero, ma non c'era ancora una parola-concetto convenzionalmente corrispondente ad una divisione delle sue parti.
#2223
Citazione di: maral il 21 Settembre 2016, 19:40:17 PMa un certo punto qualcuno a imparato a usare i numeri per contare
Quindi i numeri c'erano anche prima, ma non erano stati ancora usati? Domanda: come è possibile avere il concetto di numero ma non usarlo?

Citazione di: maral il 21 Settembre 2016, 19:40:17 PMnon che contando ha inventato i numeri: con cosa contava?
Se avesse già avuto i numeri, non sarebbe stata un'invenzione, e si torna alla domanda precedente...

Mi pare sia come negare l'invenzione di una lingua affermando che "nessuno può avere inventato una lingua parlando, con cosa parlava?". La risposta sta nel precedente esempio di cui parlavo con davintro (passaggio dal "molto/poco" ai numeri) ovvero: passando da espressioni vocali inarticolate (primitive come la quantificazione "poco/tanto"), a forme più strutturate, come le parole (ed i numeri). 
Almeno credo che la storia della lingua sia questa, salvo sostenere che le lingue siano "innate" e attendono solo di essere scoperte  ;)

Citazione di: maral il 21 Settembre 2016, 19:40:17 PMI numeri (le quantità numericamente espresse), come ho detto, c'è chi riesce a coglierli immediatamente con esattezza anche senza contare: come sarebbe possibile la cosa senza una percezione proprio del numero come tale secondo te?
Per esprimere quel numero percepito senza contare dovranno comunque usare un linguaggio (che rimanda a concetti), e in questo linguaggio, che qualcuno gli ha insegnato, saranno compresi anche i numeri... può essere un virtuosismo cognitivo, ma presuppone sempre che qualcuno gli abbia fornito la definizione di "uno", "due", "tre", etc. altrimenti questi soggetti (eccezione e non regola) cosa dicono per stupirci?

Citazione di: maral il 21 Settembre 2016, 19:40:17 PMAi bambini si insegna a contare, ossia a usare i numeri per contare, come si può insegnare a usare i colori, ma questo non mi pare voglia dire che usando i colori si inventano i colori, ma che usandoli li si scopre. il riflesso di luce rossa non è il rosso, ma una luce che si percepisce rossa perché c'è già il significato di rosso che peraltro non si potrebbe mai scoprire (e non inventare) se non ci fosse qualcosa rosso, esattamente come non si potrebbe mai scoprire (e non inventare) i numeri se non ci fosse qualcosa numerabile.
Questo qualcosa di numerabile è la realtà, o meglio, l'esperienza, ma diventa "numerabile" inevitabilmente solo dopo l'invenzione del numero, prima è solo vagamente quantificabile, come dicevo anche nell'esempio della musica, rispondendo a davintro (ti invito a leggerlo per non ripetermi, non perché sia nulla di eccezionale).
Chiaro che nominando i colori, non si inventano, ma come, perché è possibile nominarli? Secondo me, perché qualcuno ne ha inventato il corrispettivo concetto, e quindi, la parola (che ora tramandiamo di generazione in generazione).
Per me, finché qualcuno non ha inventato il concetto di colore (non certo i colori come riflesso della luce!) e le definizioni delle distinzioni cromatiche, nulla si poteva dire (non esperire) che fosse pertinente al colore... idem per la matematica, finché qualcuno non ha inventato "uno", "due", "tre", etc. (istituendo un linguaggio basato sull'esperienza) non era possibile contare (ma semmai quantificare genericamente).
#2224
Citazione di: Sariputra il 20 Settembre 2016, 16:40:09 PML'apprendimento è visivo. L'intelligenza innata è quella di percepire la diversità visiva tra "corto" e "lungo". La base dell'apprendimento dei numeri sta nella prima differenziazione tra ciò che si tocca ( uno) e poi la differenza sensitiva del toccare se stesso (due). [...] La matematica nasce dal senso del tatto.
Leggendo questa considerazione (in cui ritrovo l'idea che è l'astrazione dell'empirico a fondare alcuni concetti), mi è tornata in mente la classica scena in cui i bambini, che non sanno ancora scrivere, mimano con la mano la quantità (più che il numero) della loro età usando le dita e pronunciano il suono corrispondente. Altrettanto classica la scena in cui due fratellini mostrano orgogliosi la propria mano-pallottoliere e uno dei due chiede ai genitori, "qual'è più grande?". In questo confronto non è ancora presente realmente il contare (numeri), ma solo il confrontare (quantità).

E qui mi ricollego a:
Citazione di: davintro il 20 Settembre 2016, 17:38:37 PMdirei che il fatto che un bambino impari prima ad esprimersi in termini qualitativi "tanto", "poco" e successivamente impari ad utilizzare quantità, significa che ha col tempo acquisito una nuova funzione linguistica che si aggiunge ad altre senza però che si debba dedurre che le categorie qualitative siano uno stadio primitivo e confuso di un'evoluzione, [...] Non deve far ingannare il fatto che sia i numeri che tali categorie qualitative si riferiscano all'idea di quantità. Ciò che è più importante è che quando uso numeri la mia intenzionalità verso le cose sia differente da quando utilizzo le categorie soggettive-estetiche, se dico "voglio 10 biscotti" esprimo l'intenzionalità di volerne mangiare quella precisa quantità e non un'altra inferiore o maggiore, se dico "voglio tanti biscotti" voglio esprimere l'idea che mi farebbe piacere mangiare biscotti a prescindere da una misura precisa. Non è che una richiesta è più confusa e primitiva di un'altra, cambia proprio l'obiettivo della comunicazione, il suo senso ontologico
Non sempre cambia l'obiettivo; se passiamo dall'intenzionale al descrittivo, ad esempio, talvolta l'obiettivo è lo stesso ma sono le conoscenze a non rendere fruibili i numeri, e a quel punto "regredisco" al "tanto/poco", riecheggiando la relazione genealogica fra i due (relazione che è una mia supposizione per spiegare la genesi del concetto di numero, non voglio certo discutere la tua distinzione post-invenzione-matematica fra affermazioni soggettive ed oggettive). 
Se mi chiedi quanto sapone per piatti è rimasto da usare, la mia miglior descrizione (sono un casalingo piuttosto poco scientifico!) conosce tre livelli: "poco", "abbastanza", "tanto". Sono le quantità più precise di cui dispongo per descrivere oggettivamente (nei limiti della mia "scienza") la quantità nella bottiglia, perché in tutta onestà, non so quantificare bene ad occhio i centilitri o le frazioni di litro... mi pare che "l'obiettivo della comunicazione ed il senso ontologico"(cit.) sono gli stessi rispetto alla risposta del casalingo dall'occhio ben calibrato che dirà ad esempio "circa 125 ml".
Questa derivazione dello "specifico" dal "vago", che spesso, come hai ben osservato, relega a posteriori il "vago", ormai desueto, nell'ambito del "soggettivo" (ma nel mio caso, dire "poco detersivo" non è affatto "vago", bensì è l'apice della mia cono-scienza!), la troviamo anche in altri contesti, ad esempio in musica: se ascolto un brano (e la mia cognizione della musica è "primitiva") definirò il suo ritmo "veloce"; qualcuno, un po' più competente, dirà invece "vivacissimo" (termine tecnico, circa 140-150 battiti al minuto, ecco che entrano in gioco i numeri, seppur con un "range"); se lo chiediamo a chi lo ha suonato dirà "esattamente 150". 
Il pezzo ascoltato è il medesimo, ma il mio "veloce" è la mia miglior forma oggettivamente descrittiva (stando alle mie possibilità "ingenue"), proprio come quel "150" lo è per il musicista che si riascolta. 
Tuttavia, se il musicista mi facesse scoprire "la matematica dei battiti al minuto", abbandonerei di certo la definizione "veloce", per convertirmi al "vivacissimo" o al 150 (magari relegando poi la parola a "veloce" ad altri ambiti più indefiniti...).

Su questo, in generale, concordo appieno:
Citazione di: davintro il 20 Settembre 2016, 17:38:37 PMNon si può dedurre dal rilevamento di una mera successione diacronica di stadi evolutivi una derivazione causale di un "precedente" rispetto a un "successivo" all'interno di una linea unica 
Viene chiamata la fallacia "post hoc ergo propter hoc", ovvero quando si confonde la successione cronologica con quella logica.

Citazione di: davintro il 20 Settembre 2016, 17:38:37 PMCiò che a mio avviso è innato è il significato che si attribuisce ai concetti dei singoli numeri, un significato intelligibile in quanto è costituito non da oggetti sensibili ma da delle loro relazioni intelligibili 
Dunque, parafrasando (correggimi pure se fraintendo) è innato "il significato concettuale dei numeri, costituito dalle relazioni intelligibili di oggetti sensibili"? Un'innata idea platonica... l'innatismo spesso non mi convince, tendo a pensare che sia un "rimedio" ad una genealogia troppo problematica (come in questo caso, secondo me) oppure un camuffamento giustificante di una tradizione culturale. Anche se non nego che esistano bisogni innati, potenzialità innate e meccanismi mentali innati (come l'astrazione).
#2225
Citazione di: maral il 20 Settembre 2016, 14:14:37 PMil tuo discorso, esattamente come quello di chi sostiene l'opinione opposta, non ha da solo fondamento e quindi la diatriba si presenterà eternamente irrisolvibile come tra gusti contrapposti. Non ha fondamento (pur essendo giusto nella sua affermazione) perché non è comunque possibile numerare le cose senza che ci sia l'idea di numero [...] per poter numerare deve già esserci il numero e l'esperienza della numerazione è invece la descrizione del numero, per cui nella numerazione il numero può apparire e quindi essere definito. 
Non ti seguo: i numeri non sono forse stati inventati? Questo è un discorso opinabile non fondato, oppure è un dato di fatto (che la matematica sia stata inventata)? Se è stata inventata, com'è accaduto? Non si conoscevano già numeri (non ancora inventati!), per cui è lecito sostenere che ci sia stata un'arbitraria decisione di dare nomi e concetti ad un'astrazione quantitativa (che fino a quel momento era solo generica, non numerica...). Solo da quel momento in poi, sembra impossibile "scollegare" la numerazione come attività ed il numero come concetto... ma la consapevolezza di quella genesi, risolve l'enigma (sempre del tipo uovo/gallina: è nato prima il concetto di numero o l'esperienza del numero? Nessuno dei due, o meglio, sono nati assieme dall'atto creatore di qualcuno che ha dato un nome concettuale ad un esperienza...).
Sostenere che i numeri non sono stati inventati comporta o ritenere che l'uomo li conosca da sempre (ma non so se l'antropologia e l'archeologia siano d'accordo), oppure sostenere che esistono da sempre come idee platoniche e che qualche fortunato è riuscito ad attingerle e comunicarle al mondo...
Riprendendo il tuo esempio sul linguaggio: il concetto di "rosso" è derivato dall'esperienza del rosso che, a prescindere dalla lingua in questione, ha spinto qualcuno ha definire quel colore come "rosso". Sembra ovvio sostenere che non si può parlare di qualcosa di rosso, senza avere già il concetto di rosso, eppure almeno qualcuno lo ha fatto: esattamente colui che volendo dare un nome a quel riflesso della luce che esperiva, ha coniato "rosso" (o "red" o "rouge", etc...). 
Pensa ai bambini: imparano a contare e ad usare i colori perché qualcuno glieli insegna... il fondatore della matematica (o dei colori) ha fatto esattamente lo stesso (comunicare agli altri un linguaggio che egli possedeva, avendolo coniato), soltanto che nessuno glieli aveva insegnati, ma i numeri (o i colori) erano appunto un suo vocabolario inventato ad hoc (parlo di fondatore al singolare per praticità...).
Come accennavo, è l'esperienza originaria fondante che istituisce la biunivocità che, oggi, a posteriori, ci sembra inaggirabile...

Citazione di: maral il 20 Settembre 2016, 14:14:37 PMPenso invece che possa essere "bella" anche una filosofia, e non in relazione allo stile usato per esprimerla, ma ad esempio alla pregnanza dei suoi significati interconnessi. Certo, la bellezza di una teoria scientifica è diversa da quella di un quadro o di un brano musicale, eppure è sempre legata al significato, alla possibilità di arrivare ad esempio a una formula semplice in cui si trovano condensati in modo appropriato, non banale e sorprendente un gran numero di aspetti fisici. Ma forse è soprattutto la matematica che può mostrare, a chi sa coglierlo, un valore estetico che va ben al di là della sua utilità.
In fondo, "non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace"... anche se un'"estetica della matematica" o un'"estetica della filosofia" (da non confondere con la filosofia estetica), faccio fatica a pensarle come ambito di ricerca/studio, ma probabilmente è uno dei miei limiti  :)

@Davintro
"I numeri sono innati"(cit.)? Spiegati meglio...
Sul discorso "tanto" e "poco" come punto di partenza per l'invenzione del numero, ho cercato di intuire lo spunto che può aver avuto chi ha fondato i numeri, quindi cercando di ragionare prima dell'avvento della matematica (su come siano intesi dopo, hai già detto tutto tu...). 
Prova a pensare, ancora una volta, ad un bambino o a chi non ha studiato numeri: parlerà di "tanto" e "poco" (o almeno avrà questi due concetti se non parla) riferendosi ad una distinzione base fra, ad esempio, ciò che non è sufficiente a sfamarlo e ciò che invece non riesce a finire di mangiare... poi qualcuno gli insegna i numeri e lui, finalmente, può quantificare, dicendo "voglio 10 biscotti, né uno, né 100..."  ;D
#2226
Citazione di: maral il 18 Settembre 2016, 23:06:38 PMstabilire se è il numero a rendere le cose di cui si ha esperienza numerabile, o se è l'esperienza della numerazione delle cose a determinare per astrazione il numero  [...] non si può avere alcuna numerazione di cose senza il numero, né alcun numero senza una numerabilità esperita [...] significa che tra il mondo degli universali e quello delle cose esperite c'è sempre una stretta corrispondenza biunivoca
Nel caso specifico dei numeri (e quindi della matematica), il circolo vizioso fra "l'esperienza produce numeri per astrazione" e "i numeri consentono di contare nell'esperienza", circolo dal quale ci sembra non poter uscire, può dissolversi chiedendoci come ci siamo entrati... i numeri non sono innati, sono un'invenzione (non una scoperta), per cui mi pare legittimo che qualcuno, o alcuni, in un epoca pre-matematica, abbiano un giorno convenzionalmente definito i numeri, rendendo possibile il contare. Basandosi su un'esperienza non-numerica, codesti "fondatori della matematica" hanno stabilito la definizione dei numeri, che quindi sono nati da un'astrazione convenzionalizzata di esperienze vaghe (del tipo "tanto"/"poco").
La genealogia del numero dimostra che il rapporto tra calcolo astratto e calcolo empirico non è paradossale: è l'empirico (quantità vaga) che ha fondato l'astratto (numero esatto). Non a caso, talvolta l'astrazione ha dato origine a molteplici sistemi di misurazione (basti pensare alle diverse unità di misurazione per la lunghezza: centimetri vs pollici, entrambe basate sui numeri ma applicati con quantità differenti).

P.s. La considerazione di un atto fondativo, dell'irruzione del nuovo, è ciò che spesso risolve molti circoli viziosi...

Citazione di: paul11 il 19 Settembre 2016, 00:13:39 AMMa dobbiamo allora essere relativisti, perchè questa sarebbe la conclusione?
Direi che il relativismo va inteso proprio come la constatazione che "la logica di ogni descrizione opera adeguatamente solo relativamente al proprio sistema descrivente" (parafrasando quanto citato da Maral)

Citazione di: paul11 il 19 Settembre 2016, 00:13:39 AMSiamo sicuri che la conoscenza signifca dividere ,costruire la conoscenza dividendo nettamente il soggetto dall'oggetto?
La divisione non è mai netta, perché lo sguardo che indaga non è mai neutro (filo rosso da Protagora a Gadamer), ma d'altro canto, se non ci fosse un'altro-da-me, un conoscibile, un interpretabile, un descrivibile, un "tema", non si porrebbe nemmeno il problema del cosa conoscere (o tutto sarebbe auto-conoscenza...). Concordo sulla necessità di non assolutizzare l'oggetto, che non è "alterità", ma secondo me sempre "ulteriorità" (è sempre ulteriore al soggetto che lo indaga, non è mai totalmente altro; mistica a parte, ovviamente...).

Sul rapporto arte e scienza:
Citazione di: paul11 il 19 Settembre 2016, 10:34:23 AMPrima di tutto è un'unica mente che fa scienza e arte e non lavora per compartimenti stagni. Chi ti dice che ad esempio ad Einstein l'intuizione non gli sia scaturita mentre suonava il violino di alcuni passi della teoria della relatività.
Se l'idea gli fosse venuta mentre cucinava parleremmo forse di rapporto fra relatività e arte culinaria? O, se stava giocando a calcio, fra relatività e sport? 
Indubbiamente, un'unica mente gestisce gran parte della vita umana, ma l'apporto e la funzionalità della specializzazione e della settorializzazione dei processi mentali, credo siano in generale più rilevanti della "contaminazione" e della interdisciplinarietà (che pure possono innescare intuizioni molto proficue...).

Citazione di: maral il 19 Settembre 2016, 12:03:19 PMmi pare evidente che la conoscenza scientifica risente comunque di una valenza estetica, l'essere umano (l'osservatore) non è suddivisibile in compartimenti stagni a sé stanti e tali da non influenzarsi reciprocamente, pur facendo riferimento a contesti operativi diversi. La bellezza di una teoria scientifica (la bellezza ad esempio che fu riconosciuta alla teoria della relatività di Einstein), non credo sia un termine secondario rispetto alla sua funzionalità e la ricerca va comunque in entrambe le direzioni
Direi che la "bellezza" della relatività non è affatto estetica, nel vero senso serio del termine... la filosofia di Nietzsche, ad esempio, non è "bella", ma può esser bello lo stile figurato e ardente con cui è stata scritta; così una teoria scientifica può avere "belle" conseguenze o "belle" formule, ma non si parla del "bello" estetico (un po' come quando, nel linguaggio parlato, si dice una "bella sorpresa", non si allude all'estetica...).
#2227
Citazione di: Socrate78 il 18 Settembre 2016, 13:49:30 PMA me sembra che la natura, in quanto tale, non sia affatto orientata al bene dell'individuo, ma anzi lo asservisce ad un sistema in cui il singolo è soltanto una mera pedina
Mi sembra che la natura non abbia un suo orientamento verso "il bene" o "il male" (categorie di giudizio umane, etico-metafisiche, quindi non-naturali), ma solo una sua regolarità di funzionamento, le sue eccezioni e i suoi protagonisti...

Citazione di: Socrate78 il 18 Settembre 2016, 13:49:30 PMil ciclo della nascita, crescita e morte obbedisce sostanzialmente a questa logica
Il ruolo dell'osservatore non è mai marginale: nascita-crescita-morte è una "logica" decifrata nella natura solo guardandola con gli occhi dell'uomo... in quanto tale è un'interpretazione concettuale, un nostro modo di identificare quella serie di avvenimenti in un processo.

Citazione di: Socrate78 il 18 Settembre 2016, 13:49:30 PMper l'uomo dotato di consapevolezza razionale, appare fortemente inumana.
Sempre continuando a leggere il mondo con occhi umani, possiamo anche trovare questo processo inumano, ma in fondo è solo meta-umano, extra-umano, ovvero comprende l'uomo come suo elemento transitorio, ma in sè non è un processo nè buono nè cattivo (come tutti i processi se considerati nel loro funzionamento, senza esprimere un giudizio di valore sui risultati). Può essere frustrante solo se si presuppongono ideali di successo, esistenziale o conoscitivo, che poi si rivelano irraggiungibili.

Citazione di: Socrate78 il 18 Settembre 2016, 13:49:30 PMil carattere profondamente inumano del sistema-mondo, che non tiene conto dell'aspirazione dell'individuo alla felicità e alla libertà, 
Al di là della "personificazione" della natura, che, fuor di metafora, non ha una volontà e non è buona o cattiva (salvo credere sia una dea o qualcosa di simile), forse più che aspettarci che la natura tenga conto della nostra aspirazione, sarebbe saggio se fossero le nostre aspirazioni a tener conto della natura (e delle possibilità praticabili...).

Citazione di: Socrate78 il 18 Settembre 2016, 13:49:30 PMTutto ciò provoca comunque illusione e dolore.
Ad oriente hanno riflettuto molto su questa questione (vedi le cosiddette "quattro nobili verità" del buddismo).

Citazione di: Socrate78 il 18 Settembre 2016, 13:49:30 PMil sistema conoscitivo dell'uomo mi sembra molto fallace, poiché tante cose che vengono percepite attraverso i sensi [...] sono solo il frutto dell'interpretazione del nostro cervello, ma in definitiva quest'interpretazione è una "menzogna"
"Menzogna" mi sembra un termine eccessivamente sconsolato e inibitorio, le chiamerei "ipotesi di lavoro" o "paradigmi provvisori"... in fondo, l'importante è che funzionino e siano aggiornabili ;)
#2228
Citazione di: paul11 il 18 Settembre 2016, 00:23:41 AMPrendiamo allora atto che nulla è esatto tranne la metafisica di un sistema matematico, e perchè mai è più veritiero l'empirico del metafisico? 
Credo che qui tu abbia sottolineato il nodo centrale: la matematica è esatta (formalmente corretta), l'empirico, nella migliore delle ipotesi, è veritiero ("portatore" di una verità). Istintivamente e storicamente l'uomo è forse più affamato di verità che di esattezza...

Citazione di: paul11 il 18 Settembre 2016, 00:23:41 AMperchè si continua invece credere più nella percezione dei sensi che schiavizza la ragione alla cosa invece che al concetto che crea la ragione che permette di conoscere anche, ma non solo quella cosa empirica nel mondo fattuale?
Secondo me, ci si fida più dell'esperienza perché tutto inizia inevitabilmente dalla percezione; senza di essa non verrebbero innescati i meccanismi (innati o acquisiti che siano) della ragione astratta concettuale. La ragione concettuale è linguistica ed il linguaggio notoriamente ha i suoi "punti morti", le sue ambiguità e può essere usato male (ad esempio assegnando valori di verità errati in un calcolo proposizionale).  L'esperienza invece è meno ingannevole (anche se non certo impeccabile!) perché non è fatta di parole ma di percezioni, meno ambigue e sofistiche di molti discorsi razionali. Forse, suppongo, c'è una diffidenza verso i labirinti del logos che è giustificata dalla semplicità immediata (non-mediata) e meno problematizzata con cui si percepiscono i vissuti e gli oggetti. E il riconoscimento di alcuni falsi problemi concettuali spinge ulteriormente a rivolgersi alla necessità di fare i conti (non matematici!) con il reale, senza sovrastrutturarlo di impalcature concettuali; per questo i filosofi hanno la cattiva fama stereotipata di essere pensatori astratti, poco pratici, che "si sollazzano" con la ragione anziché usarla pragmaticamente (stereotipo che personalmente non condivido affatto, ma qui si parla in generale...).

Citazione di: sgiombo il 18 Settembre 2016, 10:13:59 AMSecondo me le "verità1" logiche e matematiche (qui Phil, che mi pare tenda ad enfatizzare la differenza fra matematica e logica in un modo che non mi é facile seguire, potrebbe opporre qualche interessante obiezione)
Non obiezione, ma chiarimento su quella differenza: le verità della matematica (che, come accennavo, si limita ad usare numeri, quindi non "ragiona" ma "conta") credo possano essere intese solo come verità formali, come correttezza nell'uso delle operazioni. 2+2=4 è "corretto", più che "vero". In quella somma non c'è "verità" ma esattezza di calcolo, correttezza, validità, anche se nel linguaggio comune la maestra ci chiedeva "è vero?". Quel 2+2=4 diventa vero o falso se viene applicato ad un caso concreto (dando una "sostanza" a quei numeri): se Pierino ha due mele e ne compra altre due (senza mangiarle!) è vero che ne ha quattro. Per me, la verità matematica è fuori dal "foglio di calcolo", nel foglio ci può essere l'esattezza, la correttezza, la validità.

Le verità formali della logica invece si basano non solo sulla "correttezza" o "validità" (anche se alcuni le differenziano) del ragionamento, ma anche sull'immissione in circolo di una verità che ammicca alla realtà. Essendo rivolta al mondo e agli uomini più della matematica, la logica dovrebbe guidare ragionamenti non fatti di numeri, ma di enti, concetti, proprietà, etc. e quindi si pone il problema di attribuire i giusti valori di verità alla preposizioni. 
Un ragionamento può essere "corretto/valido" ma non "vero". Se affermo che: se "x implica y" e "y implica z" allora "x implica z", si tratta di un ragionamento valido, ma non necessariamente veritiero: "se piove, prendo l'ombrello" e "se prendo l'ombrello, ho l'ombrello" allora "se piove, ho l'ombrello"... ragionamento formalmente valido (vedi sopra) ma che non costituisce un ragionamento "vero" (e, inversamente, il fatto che da premesse false possa derivare correttamente una conclusione vera, non può che far riflettere...). 
Questo per dire che la verità delle proposizioni logiche è ben più problematica di quella matematica (o meglio, della semplice esattezza formale della matematica), perché comporta, per essere applicata, l'attribuzione di valori di verità da parte di un soggetto giudicante (una verità "di ragione" non è una verità "di fatto", per dirla con Leibniz, e sono quelle "di fatto" che ci servono per ragionare di problemi concreti...).


Citazione di: paul11 il 18 Settembre 2016, 11:32:07 AMè possible costruire teorie e quindi conoscenza dove il riscontro oggettivo della realtà risulti relato alla teoria stessa: in fondo è il metodo sperimentale scientifico. 
Infatti se depuriamo l'approccio scientifico dalla pretesa di assolutezza dei risultati (residuo concettuale della nostra storia culturale incentrata sulla metafisica), l'epistemologia può funzionare serenamente avvicendando paradigmi sempre più funzionali e contingenti ai problemi che si pone (e in fondo, mi sembra che sia questa la sua attitudine più recente...).


Citazione di: paul11 il 18 Settembre 2016, 11:32:07 AMsoprattutto mi pare che manchi proprio quello che inizialmente Davintro avesse posto, quali sono i presupposti umani della conoscenza, che cosa abbiamo "in testa" che ci permette di costruire concetti? Quando possiamo dire di avere effettivamente costruito, dedotto, una conoscenza?
Rispondendo sinteticamente (e personalmente), alla prima domanda: la ragione (meccanismo mentale), intesa come capacità di astrarre e di ricombinare le esperienze sensoriali; alla seconda: quando una teoria "funziona" e possiamo usarla praticamente... lo so, sono risposte che creano molte più domande delle due dalle quali sono partite  ;D

P.s. Grazie per la segnalazione sull'"affidabilismo", è uno dei tanti approcci che non conosco, cercherò di documentarmi, partendo dalla lettura di questo articolo (che spero non mi deluda!): http://www.scuolafilosofica.com/1608/affidabilismo-e-il-valore-della-conoscenza
#2229
Citazione di: paul11 il 17 Settembre 2016, 17:16:10 PMPhil, Come mai la matematica se applicata al mondo empirico ci credi che è vera e se invece applicata ai concetti non ci credi? Quì sta la contraddizione.
Non mi sembra una contraddizione, ma solo un discernimento fra due campi d'applicazione molto differenti... e, ad essere precisi, la matematica non si applica ai concetti, ma ai numeri (che non sono concetti qualsiasi...). La logica invece si applica ai concetti, ma già non è più matematica, proprio perchè non ci sono solo numeri (quantità). Non mi sembra una differenza da poco.

Pensa ai valori di verità delle proposizioni: non sono valori matematici quantitativi, ma, appunto, logici (al di là che possano essere indicati per praticità anche con numeri); chi li pone? Un calcolo computerizzabile? No, un uomo. Se la frase "Socrate è un greco" sia vera o falsa, deve deciderlo un altro uomo e, quindi, c'è spazio legittimo per l'errore. Non è più matematica. 2+2=4 non è una decisione, "Socrate è un uomo"="Vero" invece lo è...

La logica è utile e "spendibile" se parla, anzi ragiona, di variabili, non di costanti; altrimenti non ha applicazione concreta ma è solo formalismo autoreferente. Quando ragiono davvero su un problema, non ragiono di "x" e "y", ma di elementi concreti di cui devo decidere/cercare le proprietà e la verità. Dire: F(x,y) non è esattamente problematico come la sua "traduzione" particolare "Tizio e Caio sono amanti": sulla prima scrittura non c'è molto da ragionare, sulla seconda direi che ci sono verifiche e indagini da fare (è un esempio banale, ma spero sia chiaro a cosa alludo...).
A farla breve, la verità è comunque una decisione, un'attribuzione, esterna per la logica ("verità" da non confondere con "correttezza formale"!), mentre in matematica la verità è l'esattezza dei calcoli (quindi prescindendo dal "senso mondano" dell'operazione, che invece è ciò che conta nel ragionamento fuori dal foglio...).


Citazione di: paul11 il 17 Settembre 2016, 17:16:10 PMLo scoglio a mio parere è pregiudiziale sul perchè riteniamo vero il ragionamento fattuale, legato a cose fisiche e all'esperienza fisica e se viene spostato al dominio dei solo concetti, ovvero mantenendo la razionalità formale invece quella stessa ragione e quello stesso ragionamento diventa irrazionale in quanto inaffidabile. Perchè
La logica, nelle tavole di verità, dimostra proprio di poter essere usata anche in modo disinteressato rispetto al reale: "se x è vero, allora...", "se x è falso, allora..." ma, nella realtà, per essere utile, un ragionamento deve proprio decidere se x, o meglio, ciò-di-cui-si-parla, sia vero o falso... la correttezza formale, senza l'attribuzione (decisione) degli adeguati valori di verità, non produce un ragionamento fertile, ma solo ipotesi corrette che non ci aiutano a capire nulla.
La "dimostrazione di Dio" di Godel (senza entrare nel merito) citata giorni fa, può essere applicata formalmente anche al Dragone Imperiale Volante (che ho appena inventato  ;D ), dimostrandone l'esistenza. Ma ciò che interessa davvero ad un ragionamento interrogante, forse è sapere se esistano davvero il Dragone o Dio, non se sia possibile formulare un "esercizio logico" (cosi lo definì lo stesso Godel) che nella sua autoreferenza ne dimostra la possibilità dell'esistenza.
#2230
Citazione di: paul11 il 17 Settembre 2016, 03:09:21 AMPerchè la matematica che è pura ragione non viene riconosciuta come concetto metafisico.Viene invece interpretato come strumento.
La matematica non è metafisica perché la metafisica tende a ragionare (anche solo per ipotesi verosimili), ma non a calcolare-quantificare. La matematica invece non ragiona, conta (quindi non la definirei "pura ragione", anzi...),

Come tu stesso osservavi giustamente, nel momento in cui la matematica si declina in logica formale (aprendosi così al ragionamento), si innescano mille problemi, molti dei quali basati sulla relazione con ciò di cui si ragiona (siano dati empirici, concetti, intuizioni, elementi estetici, etc.). Perché solo diventando linguaggio la matematica ragiona, altrimenti conta e descrive. E le sue descrizioni, se non corrispondono ad esigenze fisiche o umane, non sono metafisiche, ma semplicemente concettuali (al netto della differenza fra essere "astratto-concettuale" ed essere "metafisico": dire metafisica, almeno in occidente, significa chiamare in causa una tradizione con tematiche e approcci piuttosto caratterizzati...). 

La distanza, o meglio, la differenza (differance  ;) ) fra intelligenza artificiale e intelligenza umana è tutta qui; calcolare versus ragionare...
#2231
Citazione di: Riccardo il 15 Settembre 2016, 23:25:48 PM@Phil - Penso ti sia capitato, almeno in passato, di avere dei momenti di felicità Prima di poterti rispondere dovremmo raggiungere un accordo sulla definizione di felicità. 
Comunque tu la definisca, ti lascio questa domanda: l'hai messa in un posto raggiungibile? Se la risposta è no, forse conviene riposizionarla (senza presupporre fatalisticamente che essa sia una chimera che sfugge; a questo serve la suddetta "educazione alla realtà"...).

Citazione di: Riccardo il 15 Settembre 2016, 23:25:48 PMCome faccio a concentrare le mie attenzioni a migliorare ciò che non è migliorabile? 
Intendi che non sei più migliorabile (rispetto alle tue possibilità)? Suvvia ragazzo, un po' più di impegno  ;D

Citazione di: Riccardo il 15 Settembre 2016, 23:25:48 PMio provo invidia per ciò che NON rientra dei limi del mio possibile. 
Abbiamo già parlato di combattere i mulini a vento, vero?

Citazione di: Riccardo il 15 Settembre 2016, 23:25:48 PMnon ho mai sperimentato che si può vivere senza invidiare, ma ho certamente sperimentato che si può vivere annullando il desiderio. 
avevi già scritto spontaneamente
Citazione di: Riccardo il 14 Settembre 2016, 01:27:24 AM
C'è stato un periodo della mia vita in cui non provavo invidia, ma col senno di poi ho capito che non la provavo solo perchè avevo smesso di volere.
Questo è il nodo della questione: se ritieni che l'invidia sia invincibile, non provare nemmeno a combatterla...  perché, anche pensando a quando magari non eri invidioso, ti dirai "sotto sotto stavo solo reprimendo l'invidia...", se in fondo non te ne vuoi liberare, forse, c'è una parte di te a cui non dispiace... e non ci sarebbe nulla di cui vergognarsi!

Citazione di: Riccardo il 15 Settembre 2016, 23:25:48 PMl'isolamento è comunque la peggior punizione possibile (tortura fisica a parte) infliggibile ad un essere umano. 
Ci sono eremiti o semplicemente persone solitarie, per cui il gruppo è solo scomodo e dispersivo. L'isolamento è tremendo nel contesto del carcere (a cui ti riferivi), ma nel contesto della vita fuori dal carcere non è affatto il male peggiore. Non hai mai visto qualcuno correre da solo al parco, o qualcuno leggere da solo in biblioteca? Non possono in quel momento essere felici di quello che fanno?
Per te, la fonte principale di felicità è avere a disposizione un gruppo che ti circonda sorridendo? Se tu poni la tua felicità lì, ti tocca poi affrontarne le conseguenze; scegli bene...

Citazione di: Riccardo il 15 Settembre 2016, 23:25:48 PMInvece ti assicuro che le può assecondare tutte, dipende solo dal tipo di società in cui ti trovi. La mia "indole" non esiste, è solo un riflesso della società e dell'ambiente in cui sono cresciuto. 
Tuttavia, questo riflesso ormai è indelebilmente cristallizzato (e forse non reversibile): non sei più un neonato, quindi hai, di fatto, un'indole (anche se non è innata, siamo d'accordo), un carattere, una volontà, costituite delle tue esperienze e dal modo in cui le hai elaborate (sorvolando sulla genetica...). D'altronde, se potessi essere davvero tutto ciò che è possibile essere, saresti facilmente anche non invidioso e questa conversazione non sarebbe mai avvenuta, no?  ;)


Citazione di: Riccardo il 15 Settembre 2016, 23:25:48 PMnon è inevitabile dare per scontato quello che si hama anche se sei felice per quello che hai, sei comunque ANCHE infelice per quello che non hai. 
Non devi esserlo, non è una necessità; se tuttavia pensi l'invidia e l'infelicità come tali, allora solo tu puoi, dall'interno, modificarle o rimuoverle...

Citazione di: Riccardo il 15 Settembre 2016, 23:25:48 PMQuindi, come vedi, valorizzare quello che hai non elimina l'invidia.
Certo, non è una conseguenza; si può eliminare l'invidia anche senza valorizzare ciò che si ha... non a caso parlavo di "canalizzare" l'invidia verso qualcosa di più fruttuoso... per eliminare l'invidia, credo tu possa partire da tutte le riflessioni che ti sono state proposte sinora (sempre che tu lo voglia).

P.s. Non ho voluto insistere, ma solo cercare di spiegarmi meglio... è una tua questione personale, spero solo di averti dato qualche spunto di riflessione...
#2232
Citazione di: paul11 il 15 Settembre 2016, 00:10:48 AMvoglio vedere se qualcuno ha il coraggio di entrare con coerenza e onestà intellettuale su come lo scettico, l'empirico e il metafisico costruiscono il lor mondo modellandosi dentro la propria conoscenza, ovvero come la propria coscienza utilizza la verità empirica e fin dove quindi l'agente conoscitivo decide che finisce il vero e inizia la fallacia.
Al riguardo avrei un'osservazione:
Citazione di: paul11 il 14 Settembre 2016, 18:41:03 PMLo scettico, l'empirista e il metafisico applicano la propria conoscenza rispetto a dove sostenfono che vi sia la verità, oltre il limite non è possible andare.
Ho trovato un intruso: uno di quei tre non sostiene che vi sia una verità, non la pone come traguardo o come limite della propria conoscenza, ma ne prescinde, sospendendo il giudizio (epochè): quello che oggi possiamo chiamare relativista, pronipote di quello che una volta si chiamava scettico.
Parlare di verità "al plurale", di verità contingenti e relative alla prospettiva-paradigma che si adotta, di verità come scoglio (scambiato per porto) su cui si arena il pensiero interpretante, significa non essere tenuti in scacco dall'ideale della Verità, e quindi non averla come limite invalicabile coercitivo (a prescindere che si sia favorevoli o contrari ad un pensiero così "debole" e disincantato...).

P.s.
Citazione di: paul11 il 14 Settembre 2016, 18:41:03 PMLo scettico è Diogene che coerentemente abita nudo in una botte e defeca sulla piazza come un cane. Quindi limita fortmente dove la ragione possa andare, per lui la verità è ciò che abita in prima persona, in ciò che vede, sente e percepisce come un animale. Impossibile e non praticabile andare oltre.
Il Diogene della botte, era "cinico", non "scettico"... inoltre lo scetticismo non comporta di credere solo "in ciò che vede, sente o percepisce come un animale", questo è un "sensismo" radicalizzato  ;)
#2233
@Riccardo
Ti propongo alcune considerazioni:
- Penso ti sia capitato, almeno in passato, di avere dei momenti di felicità; eppure tale felicità non è stata dovuta al fatto che tu fossi diventato improvvisamente ricco, bello e amato... se puoi quindi essere felice per come sei, che cosa dovresti invidiare agli altri? 

- Se ti sta a cuore la tua felicità, invidiare quella (eventuale e/o apparente) degli altri è un controsenso: è come se tu stessi scrivendo un tema (la tua storia) e ti soffermassi ad invidiare quanto scrivono veloci gli altri, quanto sono belle le loro penne, quale espressione gaia hanno in volto nello scrivere, etc. questo non ti aiuterà di certo a scrivere bene il tuo tema... decentrare troppo le tue attenzioni, secondo me, può essere solo deleterio se ti fa rimpiangere di essere ciò che sei; perché non usare quel tempo e quelle energie (anziché invidiare ed odiare) per tentare invece di migliorarsi, nei limiti del possibile
Una riflessione sulla "canalizzazione" dell'invidia potrebbe cominciare proprio da questa domanda...

- Questo mi sembra un passaggio biografico da non sottovalutare: 
Citazione di: Riccardo il 14 Settembre 2016, 01:27:24 AM
C'è stato un periodo della mia vita in cui non provavo invidia, ma col senno di poi ho capito che non la provavo solo perchè avevo smesso di volere. Mi ero annullato nel grande vortice della vita e accettavo tutto per quello che era
hai dunque sperimentato che si può vivere anche senza invidiare, e questa è già la riposta alla domanda che fa da titolo al topic... potresti chiederti: è più "percorribile" la strada che porta da quella apatia alla serenità, oppure la strada che porta dall'attuale invidia alla felicità? Hai abbandonato quella indifferenza, ma hai guadagnato l'infelicità del non accettare la (tua) realtà: gli effetti collaterali di quella "rianimazione sociale" mi sembrano più drastici dei vantaggi (quali?). Forse conviene escogitare un'altra strada, magari più vicina alla vecchia che alla nuova (il che non significa che tu debba per forza diventare un monaco buddista...). 

- Credo stia a te "mettere" la tua felicità in "posti" dove tu possa raggiungerla... non è una contraddizione, si tratta di "educarsi al desiderio" mantenendo "il senso della (nostra) realtà", e ci viene insegnato sin da bambini: perché (vado per ipotesi) da fanciullo, a Natale, bastavano quattro o cinque regali sotto l'albero per farti felice? Perché avevi compreso che pretenderne cinquanta, avrebbe creato aspettative non realizzabili e quindi infelicità "sistematica"... perché, adesso, per farti felice (esempio banale, spero comunque tu riesca a sbarcare il lunario) non basta avere una Fiat e mille euro in banca , ma vuoi avere una Maserati e un milione di euro? C'è qualcosa su cui riflettere anche qui...

Mi permetto, sperando di non essere inopportuno, anche alcune osservazioni di passaggio su alcuni dei tuoi presupposti che strutturano il disagio dell'invidia/infelicità (lavorarci un po' potrebbe far crollare la spiacevole impalcatura...):
Citazione di: Riccardo il 14 Settembre 2016, 03:49:44 AM
Il conoscere sè stessi non basta ad essere felici, perchè la felicità poggia gran parte della sua forza sull'accettazione del gruppo.
La tua felicità potrebbe anche essere indipendente dall'accettazione del gruppo: i tuoi traguardi di felicità potrebbero anche riguardare solo te (e un paio di persone); l'accettazione del gruppo produce sicurezza, che non è necessariamente felicità...

Citazione di: Riccardo il 14 Settembre 2016, 22:16:07 PM
quando mi sento dire che "Devo accettare me stesso", o che "La relazione è innanzitutto con noi stessi" mi nasce spontanea una domanda: Se io sono in potenza tutti gli uomini in un unico uomo, quale di questi milioni di aspetti di me stesso dovrei accettare? Se li accettassi tutti, e quindi mi mostrassi per la pluralità di tutte le mie possibili sfaccettature, probabilmente la società mi sbatterebbe in un manicomio bollandomi come "personalità schizoide" o "multipolare", e non sarei felice. Se invece ne accettassi solo alcuni e decidessi di mostrare solo quelli, che necessariamente sarebbero quelli considerati accettabili dalla società in cui vivo, sarei infelice perchè sto sopprimendo tutti gli altri me stessi. In qualunque caso, sarei infelice ed impossibilitato ad accettare la totalità di me stesso.
Non credo tu possa avere milioni di volti; non sottovaluterei il fatto che ormai, volente o nolente, tu abbia un solo carattere, una sola visione del mondo e, pur potendo cambiarli, non ci sono infinite possibilità di cambiamento (e se anche ci fossero si avvicenderebbero una alla volta...). Si tratta di distinguere le possibilità potenziali da quelle reali: potenzialmente, potresti essere sia un timido che un giullare del gruppo, sia un avventuroso che un pantofolaio, sia un misogino che un "femminista", etc. ma difficilmente la tua indole può assecondare realmente tutte queste possibilità (al di là dei vincoli sociali...).

Citazione di: Riccardo il 14 Settembre 2016, 22:31:52 PM
Se non posso essere felice per quello che ho, poichè lo dò per scontato, e non posso essere felice per quello che non ho, poichè mi è impossibile averlo, allora l'unica cosa che mi resta è l'infelicità.
Perchè non puoi essere felice per quello che hai? Non è affatto inevitabile darlo per scontato (vedi sopra il discorso sull'"educarsi alla realtà"...).

Citazione di: Riccardo il 14 Settembre 2016, 22:51:15 PM
Il mutamento è però il continuo tendere verso ciò che non si ha,  e ciò che non si ha è ciò che genera l'invidia.
[...]
Chi non prova invidia ha smesso di mutare, quindi di vivere. 
Ciò che non si ha non genera necessariamente invidia, può essere, come ricordato già da altri, uno stimolo ad impegnarsi per ottenerlo, se lo si ritiene possibile, altrimenti, se è impossibile, può generare ammirazione (ammiro l'estro di un artista o le doti atletiche di un atleta) oppure non-curanza (mi lascia indifferente che il mio vicino abbia una villa a Portofino, a me spetta occuparmi attivamente della mia mansarda in affitto...). Di conseguenza, si muta e si vive (meglio, direi  ;) ) anche senza invidia...

Citazione di: Riccardo il 15 Settembre 2016, 01:21:08 AMIo non odio gli altri, io odio il fatto che tutto si basi sulla fortuna.
Un po' come combattere contro i mulini a vento... forse conviene usare le forze e il tempo disponibili per amare ciò che si ha e per provare a raggiungere traguardi considerati possibili, no?

P.s. Mi scuso per la prolissità del messaggio... la predica è finita  ;D
#2234
Citazione di: davintro il 14 Settembre 2016, 17:02:19 PMCome potrebbe Michelangelo aver progettato nuove forme rispetto ad un insensato blocco di marmo se non ci fosse alcuna discontinuità ontologica tra la sua persona e il blocco stesso? Dove avrebbe trovato l'idea di nuove forme, nonchè del valore estetico che a tali forme egli (e noi come ammiratori delle sue opere) attribuiva? Questa discontinuità ontologica, questa trascendenza, è data dallo spirito. 
Personalmente, propenderei per una semplice "astrazione concettuale" piuttosto che per una "trascendenza"... che differenza c'è? La seconda può presupporre uno "spirito" (termine ambiguo e tutto da dimostrare), la prima no (quindi non richiede indagini su postulazioni teoretiche, o sulla fede, o su intuizioni particolari...). L'astrazione funziona meglio, è filosoficamente più "efficiente" della trascendenza.
Secondo me, ad esempio, Michelangelo ha "semplicemente" usato la sua creatività per progettare (e la sua tecnica per realizzare) un'opera d'arte. Esattamente (più o meno ;D ) come facciamo noi quando scriviamo i post: la "discontinuità ontologica" fra noi e i nostri post non è data dallo spirito, comunque venga inteso (opinione mia), ma si tratta di combinare ciò che già conosciamo (le parole e i concetti, proprio come Michelangelo conosceva di certo i materiali e le forme) secondo la nostra capacità ("scrittoria" nel nostro caso, estetica nel caso dello scultore), producendo qualcosa di nuovo (piuttosto modesto nel nostro caso, decisamente sontuoso nel caso di Michelangelo).
A parer mio, mettere in ballo lo spirito (se non lo si intende come mera attività della mente) crea solo complicazioni spurie e falsi problemi di conciliazione fra i piani dell'esistenza...
#2235
@Maral
Secondo me, l'Essere non necessita di maiuscola, ma è semplicemente la forma sostantivata del verbo "essere", ovvero è come "l'amare" o "l'udire" o "l'imparare"... l'essere è principalmente la predicazione dell'esistenza, sia essa empirica, concettuale o soltanto (inevitabilmente) linguistica; lo dimostra il fatto che ogni "essere" deve essere logicamente riferito a un soggetto: "x è", per dire che "x" esiste; oppure "x è y" per dire qualcosa ("y") riguardo "x".
Affermare "l'Essere è" suona logico, ma, in fondo, è un aforisma "incompleto": l'Essere non esiste empiricamente; gli enti sono, esistono... "l'Essere è x" è invece una frase di senso compiuto (dove "x" può essere sostituito da differenti parole...). Sintomatico il fatto che il suo consueto contrario, il non-essere, sovente inteso come "nulla", sia inteso solitamente come non-essere-empirico... altrimenti, è innegabile che il "non-essere è un concetto, è una definizione, è un tema, è un'espressione, etc." e questo "essere del non-essere" non è affatto paradossale, se restiamo lontani dalla possibile ambiguità linguistica (che non distingue i differenti livelli dell'essere-come-esistere...). 
Se poi con "l'Essere è" intendiamo che l'Essere esiste come concetto/proprietà/condizione, allora non ha laicamente senso la maiuscola, perché anche "l'amare è", "l'udire è", "l'imparare è"...

Lo so, starete già pensando alla differenza ontologica... ma non è forse possibile, oggi, riconoscere anche che le "maiuscole" di derivazione platonico-cristiana sono mitologemi di una metafisica che è stata utile al suo stesso superamento? 
Non mi è impossibile pensare all'essere-degli-enti solo come loro proprietà esistenziale, come loro condizione di esistenza (così come penso all'appassire-dei-fiori come fase del loro ciclo vitale, senza che ci sia un'Appassire trascendentale, ma soltanto il semplice concetto di appassire), senza postulare necessariamente un Essere-apeiron a cui tali enti debbano far ritorno "pagando il fio della loro esistenza" (con buona pace del caro vecchio Anassimandro...).

@Sariputra
Prosit:)

@paul11
Resto desideroso di poter meglio comprendere la tua prospettiva, magari grazie alle domande del mio precedente post...